venerdì 12 dicembre 2003

IL RECUPERO DI UN GIOIELLO


“Centonove”, 12.12.03

Augusto Cavadi


S. FRANCESCO SENZA SEGRETI 

Nel quartiere Albergheria, dagli anni a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo, si staglia la chiesa tardo-barocca di S. Francesco Saverio. Ideatore e realizzatore l’architetto gesuita Angelo Italia che vi lavorò dal 1684 al 1710, anno di consacrazione. Dopo gli splendori originari della gestione gesuitica, anche questo monumento era caduto in abbandono sino a quando – e siamo al 1985 – un prete, don Cosimo Scordato, non viene nominato ‘rettore’. Da allora essa è stata in più tappe restaurata ed è diventata un ‘luogo comune’ per l’intera città: vi si celebra infatti una liturgia domenicale particolarmente partecipata, ma è anche sede di assemblee popolari, concerti musicali, conferenze e presentazione di libri. Di tutto questo, nel 1999, ha reso conto l’elegante volume a quattro voci (V. Viola, M. Vitella, C. Scordato, M.F. Stabile)  La chiesa di S. Francesco Saverio. Arte Storia Teologia edito dalla casa editrice Abadir dell’Abbazia Benedettina di S. Martino delle Scale. Nella Prefazione, vergata dall’abate dom Salvatore Leonarda, si sintetizza efficamente il contenuto del libro: “Sullo sfondo della scelta metodologica evidenziata nella Prefazione della prof.ssa Maria Concetta Di Natale, si sono sviluppati i diversi qualificati interventi rispettivamente: sulla risoluzione architettonica della chiesa all’interno della storia dello sviluppo urbanistico e in dialogo col tessuto urbano (Valeria Viola), sul profilo storico-artistico delle diverse opere ospitate nella chiesa a partire da un preciso progetto iconografico (Maurizio Vitella), sulla leggibilità estetico-teologica del monumento secondo un approccio volto all’interpretazione del complesso linguaggio semiologico e simbolico della chiesa (Cosimo Scordato), su frammenti di storia di uno spazio ecclesiale che ha coniugato la sua ‘ecclesialità’ con diverse espressioni di impegno sociale (Francesco Michele Stabile). Il tutto è arricchito e illustrato dalle splendide foto del maestroEnzo Brai (…) oltre che dagli acquarelli del maestro Francesco Montemaggiore il quale, affiancando il libro con una splendida litografia della chiesa, riesce a dare leggerezza all’insieme. Non poteva mancare il corredo di immagini sulla prestigiosa Via gloriae crucis, in dotazione della chiesa” (pp. 7 – 8).

In questi giorni, nella stessa Collana, è stato pubblicato un secondo – altrettanto raffinato - volume di approfondimento (firmato da Nino Alfano, Patrizia Palermo, Giuseppe Montana e Cosimo Scordato) nel quale l’edificio religioso viene contestualizzato urbanisticamente (Case e Chiesa, pp. 11-33) e ne vengono illustrati i recenti restauri (La fabbrica e il cantiere di restauro, pp. 37- 53), i marmi (I decori a ‘marmi mischi’, pp. 57 – 84) e gli altari (Gli altari di S. Saverio, pp. 87 – 121). In quest’ultimo contributo, dell’attuale rettore della chiesa, si propone una chiave di lettura della sua struttura e dei suoi ornamenti (non certo in linea con l’asciutta, lineare sensibilità contemporanea): “L’intenzione dell’architetto (o di chi per lui) è quella di mostrare l’avvicinarsi della città di Dio nello spazio della chiesa, che ne diventa come una sineddoche, la parte per il tutto; lo splendore e la ricchezza dei materiali hanno allora il compito, come nella visione dell’Apocalisse, di fare intravedere la bellezza della città di Dio, la gioia della presenza divina trasfigurante, di anticipare la meta del cammino della Chiesa; se è così, allora va evidenziato il significato profetico della costruzione; ed essa costituisce segno di speranza, che mentre richiama e trattiene presso di sé lo sguardo stupito del fruitore, concentrato nella bellezza che fa da sfondo alle diverse celebrazioni eucaristiche, sembra volere annunziare l’ulteriorità di tutto questo” (pp. 101 – 102).

La pubblicazione, impreziosita da disegni in bianco e nero e fotografie a colori, testimonia che anche nella nostra sfortunata isola (diciamo ‘sfortunata’ per non offendere nessuno e per non avvilirci in penose autocritiche) si può lavorare concretamente per restituire anche nei quartieri degradati il gusto delle cose belle recuperate.


* AA.VV., La Chiesa di San Francesco Saverio. Dalla fabbrica alla suppellettile, Abadir, S. Martino delle Scale 2003, pp. 130, euro 13,00.

mercoledì 10 dicembre 2003

NONVIOLENZA E MAFIA


“Repubblica - Palermo” 10.12.03

Augusto Cavadi


LA NONVIOLENZA AIUTA A BATTERE LA MAFIA

Che cosa lega le iniziative nonviolente realizzate in India più di mezzo secolo fa da Gandhi e la Sicilia attuale? Apparentemente nulla. Grazie al cielo, la nostra isola non è sottoposta a una dominazione straniera rispetto a cui dover scegliere fra resistenza armata e forme di lotta alternative. Eppure – a ben rifletterci – gli abitanti di cui brulica la nostra regione proprio liberi non sono. Non siamo. Veniamo quotidianamente sottoposti alle forche caudine di un sistema di potere complesso, al cui centro pulsa l’inquieta coalizione di una decina di cosche mafiose che organizzano militarmente (circa) cinquemila “uomini d’onore” e che  - proprio grazie al dosaggio astuto di violenza effettiva e di violenza minacciata -  riescono a controllare la vita politica, economica e, in qualche misura, sociale. Come possono cinquemila individui, per quanto solidamente organizzati, imporre la loro dittatura su cinque milioni di cittadini? Un’utile indicazione l’ha data, a suo tempo, Buscetta parlando con Falcone: “Dottore, noi potevamo contare sulla complicità di un quinto dei siciliani”. Significa che un milione, o giù di lì, di nostri concittadini - per paura o per ambizione o per sete di denaro o per conformismo o per un tragico mix di questi fattori – costituiscono quello che Umberto Santino chiama il ‘blocco sociale’ mafioso: un reticolo gerarchico e capillare che succhia le risorse finanziarie dagli imprenditori onesti,  ottiene la cooperazione di funzionari pubblici e di professionisti per finalità illecite, stabilisce patti scellerati con amministratori locali e uomini politici nazionali. Depreda coste e boschi, si accaparra fonti idriche, inchioda al degrado postbellico interi quartieri cittadini, gestisce terapie mediche d’avanguardia.

Se questo quadro ha qualche fondamento oggettivo, non dovrebbe risultare esagerato porsi la questione di come liberare la Sicilia (e, analogamente, il Meridione italiano) dal dominio mafioso. Partiti e sindacati, chiese e movimenti, magistrati e intellettuali hanno le loro ricette: e, data la difficoltà dell’obiettivo, sarebbe poco saggio escluderne frettolosamente alcune. Ed è in questo contesto di ipotesi operative che, che da decenni,  Enzo Sanfilippo - sociologo palermitano, membro del movimento dell’Arca fondato da Lanza del Vasto  ed animatore sociale, con la moglie Maria, in svariati settori -  propone in convegni, corsi di aggiornamento e incontri assembleari, di far tesoro della lezione gandhiana. A suo avviso, infatti, dalla sudditanza alla criminalità organizzata non si uscirà per effetto di generici processi di sviluppo politico o economico (l’esperienza ci attesta quanto la mafia sia abile nell’adattarsi ai regimi politici ed ai sistemi economici che si susseguono): dunque, occorre una lotta mirata, consapevole e insistente. D’altronde è ancora l’esperienza storica ad insegnarci che questa lotta non può essere esclusivamente giudiziaria e repressiva: con i processi, nei casi più felici, si decapitano le cosche ma non si riesce a sradicare il meccanismo riproduttivo di nuovi dirigenti né ad intaccare la vasta base di consenso sociale che assicura adepti e fiancheggiatori. Occorre, allora, boicottare con strategie inedite gli interessi economici e politici di “Cosa nostra” e delle sue sorelle minori; ma  - mentre si tenta di opporre resistenza e di arginare – occorre anche passare attivamente al contrattacco introducendo all’interno delle associazioni mafiose  semi di dubbio, di riflessione e di destrutturazione. Detto un po’ sbrigativamente: bloccare e rendere inoffensivi i mafiosi è il primo passo; educarli  - là dove c’è ancora uno spiraglio di umanità, di senso critico, di comunicazione – il secondo.

Tutto ciò può essere scambiato per ‘buonismo’ o per ingenuità ‘cattolica’: ma, alla luce degli insegnamenti gandhiani, è invece segno di lungimiranza. Arrestare un mafioso, tenerlo dentro in regime carcerario duro è senz’altro utile, anzi necessario: lo Stato deve utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per interrompere sequenze di omicidi ed estorsioni. Ma la società, o almeno le punte più consapevoli e sensibili della società, devono attivarsi per cogliere anche il minimo sintomo di resipiscenza. Al di là di ‘perdonismi’ più o meno meditati, trasformare (là dove è possibile) un ‘collaboratore di giustizia’ in ‘pentito’ effettivo significherebbe non solo recuperare al consorzio civile individui che – con i loro comportamenti – ne sono evasi, ma anche evitare che, agli occhi dei parenti e dei ‘picciotti’, questi criminali appaiano dei martiri e degli eroi.

Neppure in questo ambito siamo all’anno zero. Ci sono esperienze che meritano di essere ricordate, discusse e valutate. Per farne memoria, in prospettiva di nuovi percorsi, i “Quaderni di Satyagraha” (rivista scientifica sulla nonviolenza che la condirettrice, Martina Pignatti Morano, ha presentato ieri alle ore 16 presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo), “Libera” e il Centro “Impastato” hanno organizzato, per le ore 17 di mercoledì 10, un seminario, aperto alla cittadinanza, presso il “Gruppo di  studio per la qualità della vita” (via Notarbartolo 41). Punto di partenza, per un contatto fra persone e gruppi interessati a proseguire anche in futuro il confronto e la collaborazione, il denso saggio Il contributo della nonviolenza al superamento del sistema mafioso apparso, a firma di Sanfilippo,  nel numero 3 dei citati “Quaderni di Satyagraha”.

Per quanto preziose, comunque, le esperienze non bastano. Occorrono dei criteri interpretativi validi. Per quanto mi riguarda, una chiave filosofica interessante me l’ha suggerita, nel corso di un’intervista di molti anni fa,  il figlio di un boss di quartiere volatilizzatosi probabilmente perché vittima di “lupara bianca”. Il ragazzo aveva maturato un consapevole rifiuto della tavola di valori della famiglia d’origine, ma riteneva che questo processo sarebbe stato difficilmente condiviso dai fratelli e dalle sorelle perché “ogni volta che entriamo in contatto col mondo della giustizia e con esponenti del movimento antimafia abbiamo la netta impressione di una barriera invalicabile fra persone per bene e gente perduta. Penso che le cose andrebbero diversamente se si fosse convinti che c’è del marcio anche fra i ‘giusti’ e c’è del valido anche fra gli ‘ingiusti’. Nella storia, e nel cuore delle persone, il bene e il male non si lasciano separare mai con un taglio netto”. Non so se avesse mai letto Gandhi, ma il suo modo di vedere l’uomo non ne era troppo distante.

martedì 22 aprile 2003

CANDIDA DI VITA


“Repubblica – Palermo” 22.4.03

Augusto Cavadi


VITA E MORTE DI UNA DONNA NORMALE 

In base alle cronache quotidiane, impastate di violenze e corruzioni, il tessuto sociale dovrebbe ormai essere a tal punto lacerato da rendere impossibile la sopravvivenza dei cittadini. Come mai, invece, pur fra ingiustizie e stenti, il mondo va avanti lo stesso – e in qualche campo addirittura progredisce? Forse perché le nuvole sono reali, effettive, numerose: ma non si noterebbero neppure se sullo sfondo mancasse il cielo. Fuor di metafora: disonesti e profittatori non potrebbero neppure esercitare il loro parassitismo se, bene o male, istituzioni e relazioni umane non fossero alimentate dall’onesta dedizione dei più. Pensare che politici e magistrati, medici e professori, preti e notai siano modelli di virtù civile sarebbe imperdonabile ingenuità. Ma pensare, e sostenere, l’esatto contrario non è realismo: si chiama qualunquismo. 

Proprio contro la minaccia del qualunquismo (il cui effetto finale è la deresponsabilizzazione: “Se fanno tutti schifo, perché proprio io dovrei nuotare contro corrente?”) i giornalisti dell’edizione europea del settimanale “Time” hanno deciso di dedicare il numero in edicola a 25 “eroi” contemporanei che vivono ed operano nel Vecchio Continente. Significativa la precisazione dei curatori dell’iniziativa: l’eroe non è tale perché compie azioni eccezionali, ma perché dedica l’intera esistenza a ideali costruttivi per il genere umano. Come, ad esempio, il medico Gino Strada, fondatore di Emergency; il pubblico ministero Stefano Dambruoso, attualmente impegnato in indagini rischiose sulle cellule di estremisti islamici presenti nel nostro Paese; lo storico del cristianesimo Andrea Riccardi, tra i fondatori della Comunità S. Egidio di Roma. La lettura della notizia ha agito come un mestolo nell’impasto di ricordi col tempo sedimentati nella mia memoria e, gradualmente, si è andata aggrumando una domanda: “E Palermo, e la Sicilia, che sarebbero oggi senza eroi normali?”. Mi sono tornati in mente i quotidiani che, alla metà degli anni Novanta, sfogliavo la mattina in biblioteca durante un breve periodo di studio a Cambridge: una sorta di rubrica fissa era dedicata al profilo di quei personaggi che giorno dopo giorno andavano decedendo non senza aver lasciato traccia nella storia della comunità locale. Nella nostra cultura non c’è spazio, neppure in extremis, per chi non abbia vissuto una vita spettacolare: non importa se – come amava ripetere Baden Powell - per “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato” o per sbalordire con la propria sete di potere, di denaro e di successo. E proprio mentre scrivo queste righe mi scorrono, come in un filmato, le immagini di uomini e donne che ho incontrato per le strade della mia città e della mia esistenza, che hanno vissuto lontano dai riflettori ma nel cuore delle situazioni e spesso delle gente: cittadini e cittadine quotidianamente fedeli a ciò che avevano scelto come mestiere, o come missione, e senza cui Palermo sarebbe ancor meno vivibile. Perché questa lunga fila di eroi normali non dev’essere risvegliata – almeno per un giorno - dal sepolcro dell’oblìo e dell’ingratitudine? Perché non dare loro – almeno per un giorno – la possibilità di incoraggiare alla fedeltà, al servizio, all’onestà civica le generazioni superstiti? Soprattutto le più giovani cui una sorta di illusione ottica mediatica può dare l’impressione paralizzante di vivere in un mondo di volgare egoismo. Solo un mese fa – è un’esemplificazione, un caso fra mille – si è spenta divorata dal cancro Candida Di Vita. Quando l’ho conosciuta, agli inizi degli anni Ottanta, mi confidava di essere tornata da Roma perché voleva investire su Palermo le energie della sua maturità. E a Palermo ha lavorato per quasi vent’anni: non solo, da assistente sociale, per le prime sei ore della giornata, ma anche da operatrice volontaria per tutte le altre ore disponibili. Talora persino dopo cena. Quante centinaia di individui, di famiglie, di gruppi ha contattato di sua iniziativa o per rispondere a richieste d’aiuto? Mai ha chiesto – o accettato – bustarelle per l’espletamento dei suoi doveri istituzionali: più d’una volta, sommessamente, le ha passate a chi proprio non ce l’avrebbe fatto sino a sera. Senza di lei, poi, non sarebbe sorto il “Laboratorio Zen insieme”: dunque, ad integrazione del lavoro pastorale della Parrocchia cattolica “San Filippo Neri”, non sarebbe sorto uno spazio laico, pluralistico, di aggregazione per i bambini, per i giovani, per le donne. Con intelligente solidarietà non ha voluto creare qualcosa di ‘suo’, ma – alleandosi con altre belle persone di diverso orientamento ideologico - promuovere un’associazione di adulti che potessero, in autonomia, ragionare con la propria testa e camminare sulle proprie gambe. E quando la malattia si è insinuata nel suo corpo non si è atteggiata a vittima illustre: l’ha combattuta con coraggio, con determinazione, ma senza ribellarsi interiormente. Ne parlava, se interpellata, con la piena consapevolezza di stare attraversando un sentiero comune al resto dell’umanità. Si riteneva quasi privilegiata per il fatto che, a differenza di tanti altri ammalati, avesse qualche risparmio per curarsi, il sostegno di due splendide sorelle e di un’amica affezionata. Sorrideva mestamente quando formulava la speranza di non perdere, con l’aggravarsi del male, pazienza e serenità d’animo. E’ stata accontentata. Sino all’ultimo, insomma, una donna eccezionalmente normale.