venerdì 28 maggio 2004

LA PIRA: UN MESSAGGIO SEMPRE PIU’ ATTUALE


Centonove 28.5.04

Augusto Cavadi


LA RADICALITÀ DI UN CATTOLICO ANOMALO 

Ci sono personalità ritenute non abbastanza significative da meritare d’entrare nei manuali di storia scolastici e condannate, dunque, a perdere anche questo appena percettibile aggancio alla memoria collettiva. Giorgio La Pira è tra queste. Perciò la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo ha approfittato del centenario della sua nascita (Pozzallo, provincia di Ragusa, 1904) per organizzare sabato 15 maggio - al Palazzo municipale di Bagheria - un seminario nazionale in suo onore con la partecipazione, insieme allo storico del cristianesimo don Francesco Michele Stabile, dei sindaci di Bagheria, Pino Fricano, e di Gela,  Rosario Crocetta.

Chi è stato

Emigrato al Nord, distintosi ben presto come studioso di diritto, viene eletto nel 1946 nella cerchia ristretta dei ‘padri costituenti’. Insieme ad altri ‘professorini’ – come dispregiativamente furono chiamati lui, Dossetti, Lazzati, Fanfani ed altri  -  militò nella Democrazia Cristiana con l’intenzione, rivelatasi in gran parte illusoria, di immettere nelle vene della “Balena bianca” idee evangeliche ed istanze autenticamente popolari. Quel gruppo di ‘innovatori’ non era omogeneo. Alcuni, come Amintore Fanfani, erano – come dire ? – più elastici: si adattarono con duttilità ai mutamenti epocali e passarono dalla cattedra di “mistica fascista” a quella di “economia politica” secondo i princìpi della dottrina sociale cattolica. Riuscirono ad avere amici dappertutto e di tutto rispetto: dalle nostre parti, il ministro Giovanni Gioia e (sino a quando non preferì passare con Andreotti) l’eurodeputato Salvo Lima. Altri, come Dossetti, si smarrirono davanti alla mastodonticità del partito di massa ‘pigliatutto’: a un certo punto, si fecero monaci e si ritirarono in Terrasanta per pregare e commentare la Bibbia. Da quel deserto silente Dossetti uscì solo una volta, quando Berlusconi vinse le sue prime elezioni nel 1994, per diffondere agli amici rimasti in Italia un accorato messaggio: “Sveglia, sentinella: la notte non è mai stata così profonda”.
La Pira non fu un vincente nella scalata al potere, ma neppure un autoesiliato. Trascorse qualche tempo al governo nazionale, da sottosegretario, senza collezionare esperienze che lo potessero  entusiasmare: “Chi fosse il vero padrone in Italia lo capii di colpo un giorno in cui, uscendo da una riunione con De Gasperi e l’ingegner Valletta della Fiat, De Gasperi – capo del governo – prese il cappotto di Valletta e glielo infilò con premura”. Pensò allora di ritagliarsi, anticipando di parecchi decenni la stagione dei sindaci, un suo ambito di presenza e di azione a livello comunale. Accettò la sindacatura di Firenze: senza ripiegamenti provinciali, trasformò lo scranno di Palazzo Vecchio in tribuna per parlare al mondo. la sua opera divise profondamente gli animi. Alcuni, come don Ernesto Balducci, restarono impressionati della semplicità quasi naif di questo ometto dimesso, che viveva nella cella di un convento domenicano, distribuiva personalmente la minestra ai barboni, arringava le folle con oratoria zoppicante e argomentazioni un po’ sconnesse logicamente, ma ardente di passione per la giustizia sociale, per la libertà degli oppressi e per la pace nel mondo. Altri – ovviamente a cominciare da ‘fratelli’ di cordata – non gli perdonarono mai la scarsa diplomazia, l’immediatezza con cui si rivolgeva direttamente ai potenti della Terra per chiedere la cessazione dei conflitti bellici (a cominciare dalla disastrosa guerra in Viet-Nam), la caparbia  - da “comunistello di sacrestia” – con cui chiedeva il finanziamento governativo delle fabbriche in fallimento o la requisizione degli appartamenti vuoti a vantaggio degli sfrattati. “Una città – amava ripetere con una frase che piacque al cardinale francese Jean Danielou – è una città solo se Dio vi ha una casa e gli uomini pure”.

Un radicalismo anomalo

Non senza ragione, nell’immaginario collettivo il cattolico ‘medio’ è un moderato. La sua appartenenza ecclesiale lo destinerebbe a non prendere mai posizioni nette, a mediare, a sopire. Ma era questa – storicamente – l’atteggiamento di Gesù di fronte alle alternative sociopolitiche del suo tempo? Come ha ricordato, fra gli altri, Francesco Michele Stabile in un libretto ormai quasi introvabile (Gesù e la politica in AA.VV., La fede laica e la politica, a cura di R. Giuè, La Zisa, Palermo 2000), “se Gesù relativizza le istituzioni e le realizzazioni storiche significa che siamo noi i responsabili delle scelte storiche e tocca quindi a noi scegliere la strada, le modalità e le soluzioni più consone per realizzare la liberazione dell’uomo. Tuttavia, proprio per il suo radicalismo escatologico, non si può parlare di equidistanza di Gesù da ogni soluzione politica e sociale. Certamente Gesù si rivolgeva all’uomo chiedendo la conversione del cuore all’accoglienza dell’amore di Dio e del prossimo, e l’amore è una forza dirompente non solo nei rapporti interpersonali, ma anche sociali. Per questo Gesù era vicino a coloro che volevano cambiare le regole  ele strutture della società del potere e del dominio più che a coloro che volevano conservare la rigidità della legge che finiva per rendere schiavo l’uomo. Egli propone una comunità alternativa di fratelli. (…). Diventa perciò problematico collocare Gesù in quella che oggi si suole definire come area moderata ” (pp. 50 – 51).
Se ciò è storicamente fondato, non dovrebbe provocare stupore il fatto che quando un cattolico – andando al di là della cortina bimillenaria di ‘prudenze’ diplomatiche e di glosse interpretative – prova a rivivere il vangelo nella sua autenticità, si scopre inquieto e insofferente rispetto ai paletti del conformismo dominante. La sua vocazione cristiana lo rende, per così dire costitutivamente, geloso custode della “laicità della scelta politica” (p. 50): come nel caso del suo Maestro, non si rassegna alla “sacralizzazione” né del “conservatorismo” né del “riformismo” né della stessa “rivoluzione sociale o politica” (p. 50). Egli sa, come ha ricordato anche una figura contemporanea e conterranea di La Pira, don Milani, che ci si può servire dei poveri facendo finta di servire i poveri. Perciò la radicalità evangelica è una radicalità sui generis: “una contestazione globale di ogni realizzazione umana che presume di essere assoluta” (p. 50).

Per la libertà e per il pane, ma inseparabilmente

La Pira, con tutte le sue contraddizioni, è stato un cattolico ‘evangelico’. Dunque, nel modo in cui il vangelo lo consente  - e lo impone – un radicale. Che in linea generale ciò significhi basarsi sulla convinzione che “niente è assoluto di ciò che l’uomo costruisce, altrimenti la pretesa di assolutezza si trasforma in dominio” (p. 52), l’abbiamo chiarito a sufficienza. Come per Gesù di Nazareth, si potrebbe ribadire per Giorgio La Pira che “anche la rivoluzione e il cambiamento devono avvenire secondo le regole del regno. Ci si può servire infatti anche dei poveri per realizzare sogni di dominio e di grandezza o anche ci si può lasciare fanatizzare dall’ideologia che diventa più importante dell’uomo stesso che si vuole liberare” (p. 51). Ma che cosa ha comportato, in particolare e in concreto, per il sindaco di Firenze l’attuazione di questi criteri?
Mi piacerebbe dire che egli è stato così radicale da assumere i due valori supremi del XX secolo - la libertà e il lavoro (di cui il pane è frutto e simbolo) – senza accontentarsi dell’uno a scapito dell’altro. Egli non ha avuto paura della Rivoluzione francese del 1789 né di quella d’Ottobre del 1917, ma non si è rassegnato all’aut-aut fra liberalismo e socialismo. O, si potrebbe dire, che ha temuto sia la prima che la seconda grande rivoluzione mondiale in quanto separavano, nei fatti se non nei programmi, ciò che solo indivisamente andava difeso: la dignità di ogni persona umana nella sua singolarità e il dovere della collettività di assicurare il soddisfacimento dei bisogni elementari dei cittadini. Radicale è la lotta per la libertà; radicale la lotta per la giusta retribuzione della ricchezza: ma, ancor più radicale nella sostanza (anche se non sempre nella forma esteriore: spesso si viene equivocati per incerti e poco rivoluzionari), la lotta per la libertà nella giustizia, per la giustizia nella libertà.
Quanto alla battaglia nella direzione della libertà, mi pare significativo, fra tanti, un episodio che – corredato da ogni documentazione – è riportato anche nel recente, prezioso libretto La purificazione della memoria (Dehoniane, Bologna 2003) di Sergio Tanzarella. Il francese Autant- Lara gira il film Tu non uccidere sull’obiezione di coscienza; nonostante l’accoglienza positiva al festival di Venezia del 1961, viene censurato per la tesi antimilitarista; La Pira organizza una proiezione privata per discuterne con politici ed intellettuali. La reazione è durissima. La Pira viene denunziato e processato, il ministro degli interni Mario Scelba lo attacca in una seduta straordinaria del governo e, gelido, il ministro della difesa Giulio Andreotti rifiuta con un telegramma l’invito alla visione del film: “Tuo invito mi produce amarezza e stupore. Personalmente non conosco il film in questione e neppure desidero vederlo essendo stato vietato da competenti organismi cattolici. Non so dove andremo a finire mettendoci al di sopra della legge e della morale comune” (cfr. p. 106).
A differenza del mittente del telegramma (che avrà tutto il tempo di osservare da molto vicino dove saremmo andati a finire, una volta scavalcata la legge e la morale comune),   questo personaggio bizzarro, genialoide e un po’ patetico, non ha dubbi: la coscienza soggettiva è inviolabile. Ma non per questo possiamo considerare La Pira un semplice liberale.  Egli combatte, sul fronte per così dire opposto, una battaglia non meno dura per la difesa di coloro che sono schiacciati dai meccanismi del capitalismo. Più d’una volta, scende in campo per esigere l’intervento dello Stato a favore degli operai a rischio di licenziamento e lui stesso, utilizzando i poteri di sindaco, espropria ville e case sfitte per assegnarle a chi non è in grado di procurarsi un tetto. Don Luigi Sturzo, che non era certo un mostro ma aveva maturato una visione cautamente ‘interclassista’, lo attacca sprezzantemente e, alludendo al libro del 1952 intitolato L’attesa della povera gente, bolla La Pira come “statalista della povera gente”. Ma il professorino non si lascia intimidire dall’autorevolezza del fondatore del suo partito e reagisce sul medesimo registro tragico-ironico: “Cosa deve rispondere il sindaco di una città agli sfrattati, ia licenziati, ai disoccupati, ai miseri che si presentano – e giustamente – da lui per chiedere casa, lavoro, assistenza? Deve forse dire: - sa, non sono statalista, mi dispiace; ho poco da fare; - sa, non posso violare le divine leggi della iniziativa privata: si arrangi; vada in pace (rilegga Giacomo II,15). Cosa risponderà quel poveretto? Questo è un cristiano? Un sindaco? Questo è un mascalzonbe, un fariseo! Non c’è casa? Con tanti quartieri di ‘riguardo’ vuoti! Non c’è lavoro? Con tanti lavori che potrebbero essere fatti; con tante iniziative che potrebbero essere prese; con tante risorse produttive che potrebbero essere impiegate! Non c’è denaro? Con tanti risparmi – e di quali impressionanti dimensioni! – che stagnano inoperosi! Altro che marxismo, caro don Sturzo! Si fa presto – ed è anche comodo! – lanciare accuse di marxismo a coloro che cercano di ‘scendere da cavallo’ per sanare il fratello iniquamente ferito!” (Cattolici e mercato. La grande polemica, a cura di D. Antiseri, Ideazione, Roma 1996, pp. 66 – 67).

Né libertà né lavoro senza pace

Se, da cattolico, La Pira avesse abbracciato con determinazione la causa della libertà o la causa della giustizia sociale sarebbe stato un cattolico anomalo. Ma la sua radicalità è anomala al quadrato perché, come ho cercato di mostrare sia pur rapidamente, egli ha abbracciato le due cause contestualmente, sinotticamente. Se non temessi il gioco di parole, aggiungerei che egli è stato radicale addirittura al cubo perché ha visto con lucidità profetica quello che molti liberali radicali e molti socialisti rivoluzionari del suo tempo non vedevano: che l’attuazione dei loro modelli di civiltà, basati rispettivamente sulla libertà e sulla giustizia sociale, non si sarebbe verificata se non fosse venuta meno la tensione bipolare fra Ovest ed Est. Detto altrimenti: che in un clima da “guerra fredda” il capitalismo euro-americano e il socialismo sovietico avrebbero dato il peggio di sé. Da qui la sua costante attenzione intellettuale – e la sua mobilitazione pratica – per la difesa della pace mondiale.
Superfluo osservare che neppure in questo ambito la sua strategia (avviata nel 1967  recandosi in Egitto da Nasser e in Israele da Abba Eban) sarebbe stata  molto fortunata. Per lui era evidente che ebrei, cristiani e musulmani dovessero riscoprire la comune radice abramitica e, in essa, radicare la convivenza: dunque deporre le armi per fonderle e farne aratri. Sino al 1977  - anno della sua morte – , e soprattutto dopo, la scena mondiale sarebbe stata occupata da statisti di ben altra levatura che, proiettandosi al di sopra dei sogni infantili del piccolo profeta siciliano, avrebbero proclamato (con l’autorevole avallo di altrettanto illuminati colleghi) “guerre infinite” e “scontri di civiltà”. Con i risultati confortanti e promettenti che sono sotto gli occhi di tutti.                                                  

giovedì 27 maggio 2004

PROTESTE CATTOLICHE


“Repubblica – Palermo” 27.5.04

Augusto Cavadi 


Dietro la nuova protesta per un prete trasferito 

La lettera (ospitata sabato) di alcuni parrocchiani di Chiusa Sclafani potrebbe restare l’appello, sinceramente accorato ma tutto sommato di rilevanza circoscritta, dei ‘soliti’ fedeli che chiedono – senza essere accontentati – la revoca del trasferimento in altro Comune di qualche prete che si sia fatto apprezzare per apertura e dinamicità. L’episodio, in sé modesto, suggerisce però considerazioni di più ampio respiro che rientrano in  un dibattito per nulla ‘provinciale’. D’altronde non è il primo caso né, probabilmente, resterà l’ultimo: la cronaca nazionale registra vicende simili, magari con qualche nota di colore dovuta a iniziative - per esempio l’occupazione dei locali parrocchiali – più clamorose  che non l’invio di una lettera ai quotidiani.
La prima cosa che colpisce è il fervore, apparentemente anacronistico, con cui queste battaglie sono ancora combattute. Nell’era della secolarizzazione, ci sono comunità civili che vedono la chiusura di una parrocchia come un evento seriamente preoccupante. Niente di simile accade, a quanto mi risulta, se si sposta una stazione dei carabinieri o se viene trasferito un dirigente scolastico particolarmente efficiente. Può piacere o dispiacere, ma l’aggregazione religiosa resta  - nella crisi dei partiti, dei sindacati, dell’associazionismo laico – una delle ultime riserve di identificazione e di socializzazione. Ci sono quartieri nelle città e interi agglomerati urbani dove, lontano dall’ombra del campanile, si sperimenta il deserto delle proposte culturali e operative. Se la diagnosi è corretta, le gerarchie ecclesiastiche dovrebbero riflettere sulla responsabilità che grava sulle loro spalle e gli esponenti delle istituzioni pubbliche e private sulle ragioni della propria scarsa incidenza nel territorio. La storia insegna che i monopoli non giovano a nessuno: alla distanza, neppure a chi ne è titolare. Una città vive dell’intreccio di vari progetti, della possibilità per ciascuno di giocare contemporaneamente molti ruoli: membro di una comunità religiosa, se vuole, ma anche socio di una cooperativa, militante di un movimento ambientalista e sostenitore di un club artistico. Un eventuale  pluralismo delle offerte formative, sociali e ludiche – a Chiusa Sclafani come altrove - potrebbe solo giovare alla dinamicità della convivenza civile, alleggerendo la gravità di eventuali difficoltà in questo o quell’ambito settoriale.Ma – entrando nello specifico dell’ottica teologica – non può non colpire il linguaggio con cui gli interessati hanno formulato il loro disagio e la loro protesta: “la nostra comunità è stata animata sempre da una fede autentica che ci ha abituato al rispetto e all’accettazione rassegnata di tutto quanto proveniente dall’alto, ma questa volta vorremmo capire il perché del trasferimento di un giovane sacerdote e conseguentemente della chiusura di una parrocchia viva e attiva…”. Viene irrefrenabile chiedersi:  dove sta scritto che “una fede autentica” comporta “accettazione rassegnata di tutto quanto proveniente dall’alto”? Stiamo parlando della disciplina in un esercito o delle relazioni all’interno di una comunità di fratelli? Non è stato lo stesso Gesù di Nazareth ad asserire che nessuno deve osare farsi chiamare maestro o padre dal momento che “uno solo è il vostro Padre, quello celeste” (cfr. Matteo, 23, 9) ? A me pare francamente riduttivo interpretare le tensioni fra una comunità ed il proprio vescovo in chiave di correttezza personale o di compatibilità caratteriale: “speravamo tanto che il padre benevolo e affabile avrebbe ascoltato le nostre motivazioni e avrebbe cercato di accontentarci. Invece siamo rimasti delusi e amareggiati per come si è espresso nei nostri confronti”. Si stenta a credere che Monsignor Cataldo Naro, uno dei vescovi più illuminati e più saggi dell’intero episcopato meridionale, abbia davvero - “rimproverando” “con tono incalzante e inquisitorio” – intimidito “chiunque cercasse di chiarire e di chiedere”. Comunque, il nodo della questione non è qui. Se si accetta come ovvia e indiscutibile l’attuale organizzazione ecclesiale, un vescovo che fosse umanamente più comunicativo e più affabile, o anche solo più diplomatico, resterebbe l’autorità cui, senza possibilità di appello, spetti decidere sull’allocazione dei sacerdoti diocesani. Ecco perché la teologia progressista – non so quanto minoritaria, nonostante le dure censure vaticane che hanno colpito docenti del calibro di Hans Küng e di Leonard Boff – si interroga da decenni proprio sulla corrispondenza dell’attuale struttura gerarchica della Chiesa cattolica con il modello evangelico originario. Anzi, alcuni anni fa, un movimento internazionale – “Noi siamo chiesa” -  che ha raccolto milioni di adesioni in Europa, prima, e nelle Americhe, dopo, ha riproposto – anche qui in Sicilia - la democraticità delle decisioni ecclesiali come uno dei punti qualificanti delle sue riflessioni e delle sue petizioni. Prurito di modernismo? Scimmiottamento degli ordinamenti civili, per giunta neppure tanto esemplari, come le democrazie contemporanee? Anche se non è molto noto, già nell’Ottocento il cattolicissimo Antonio Rosmini indicava, come una delle cinque “piaghe della Chiesa”, il fatto che un papa lontano nominasse, dall’alto, i vescovi locali, a differenza della prassi originaria per cui ogni comunità di fedeli eleggeva, dal basso, il proprio pastore. In questa normativa verticistica, Rosmini vedeva una delle tante sconfessioni  dell’antico principio – maturato proprio in ambito cristiano – secondo cui “ciò che interessa tutti, da tutti dev’essere deliberato”.Almeno una terza, ed ultima, considerazione va fatta. Non c’è dubbio che, come insegna la sociologia, ogni assemblea esige una presidenza che coordini, animi e rappresenti l’unità degli intenti. Per molti secoli questa presidenza è stata affidata non a cristiani ‘speciali’, appositamente educati fuori dal contesto quotidiano ‘normale’ per essere consacrati con un’impronta ‘ontologica’ indelebile, bensì a padri di famiglia che dovevano sbarcare il lunario con la fatica del loro mestiere. Il prete era, di volta in volta, il ‘presbitero’ che in greco significa – molto semplicemente – “il più anziano” dei presenti: a lui spettava garantire che la lettura della Bibbia e lo spezzare del pane avvenissero con compostezza, in armonia reciproca. Poi, in seguito a vicende storiche complesse e a polemiche oggi incomprensibili, la Chiesa cattolica ha fatto del sacerdozio una specie di categoria a sé stante rispetto al resto dei fedeli, imponendo una serie di obblighi di cui l’astinenza sessuale perpetua resta il più eclatante. Col risultato che una comunità, come la parrocchia di Chiusa Sclafani, non riesce neppure a concepirsi in regime di autogestione: non riesce neppure a immaginare come potrebbe fiorire se valorizzasse i ‘carismi’ del suo laicato, anche senza la presenza continua di un ‘prete’ ufficialmente ordinato. Ma anche su questo punto nel mondo cattolico fervono, nonostante gravi reprimende del Vaticano, dibattiti e sperimentazioni che, in sostanza, tendono a relativizzare la differenza fra chi guida e chi è guidato; a rivalutare il ruolo dei ‘battezzati’; a riscattare le donne da una secolare e ingiustificabile emarginazione; soprattutto a riscoprire il fondamento comunitario di ogni ministero individuale. Il giorno in cui (grazie ad una autentica libertà di ricerca teologica e ad una diffusione capillare dei risultati di tale ricerca) sarà chiaro per tutti che non è il prete che dà senso e legittimità all’assemblea dei fedeli, ma l’assemblea dei fedeli che dà senso e legittimità al ministero presbiteriale, molte tensioni contingenti all’interno del mondo cattolico si scioglierebbero come neve al sole.

mercoledì 19 maggio 2004

UN OSSERVATORIO SULL’IMMIGRAZIONE


Mercoledì 19 maggio 2004

“Repubblica- Palermo”

Augusto Cavadi 


Gli immigrati visti da Agrigento

Nonostante la miopia con cui la politica – e l’opinione pubblica – l’affrontano, il fenomeno delle migrazioni da un continente all’altro non è né nuovo né destinato ad estinguersi in tempi brevi. La storia insegna che imperi secolari sono stati scompaginati dal rimescolamento etnico dovuto talora a invasioni traumatiche, tal altra a infiltrazioni graduali difficilmente percepibili. Illudersi di bloccare sommovimenti epocali di queste dimensioni con provvedimenti di polizia significa difettare di buon senso, prima che di solidarietà umana.

Nessuna decisione strategica può, in ogni caso, fare a meno di una conoscenza oggettiva, aggiornata e completa di che cosa accada effettivamente, al di là del clamore effimero che si crea – occasionalmente – davanti a questo o a quel naufragio di carrette sgangherate e sovraccaricate.

Ma chi assicura questo monitoraggio del fenomeno? In mancanza di iniziative istituzionali, sono stati alcuni cittadini che – a titolo di volontariato del tutto gratuito – hanno attivato nel 2002 un “Osservatorio permanente sull’immigrazione” (osservatorioimmigrazione@yahoo.it) . Lo hanno fatto in Sicilia, più precisamente ad Agrigento, perché convinti – come si legge in un dossier presentato in questi giorni all’attenzione della stampa - che il suo ruolo non è più quello “di una sonnolenta cittadina di provincia, un po’ deprimente ed un po’periferica”, ma anche “di una città che è situata al centro del Mediterraneo”.Non è facile sintetizzare in poche battute i contenuti del dossier né, tanto meno, discuterli criticamente. Ma è impossibile trarre, dalla “Introduzione” di Giovanni Di Benedetto, alcune considerazioni che mi sembrano davvero rilevanti.La prima è che spesso confondiamo, nella nostra valutazione, gli effetti con le cause: “per intenderci, non sono le orde di clandestini a richiedere l’adozione di leggi proibizioniste, sono le leggi repressive come la Bossi-Fini a creare clandestinità, finalizzata per esempio allo sfruttamento dei migranti considerati solo come forza lavoro e manodopera, mai come esseri umani con il diritto alla libertà di movimento e di riscatto”. Una seconda osservazione concerne i contraccolpi ‘interni’ al nostro sistema sociale di disagi che, superficialmente, riteniamo riguardare solo gli ‘stranieri’: “pensiamo all’impiego di lavoro sommerso che permette agli imprenditori di aumentare a livello esponenziale i profitti lucrando sul regolare versamento degli oneri contributivi e di ricattare la manodopera costringendola ad un lavoro servile privo di salari dignitosi, caratterizzato da flessibilità e precarietà e vessato da pesanti condizioni in termini di carichi, orari, sicurezza e nocività. Senza dire che, per giunta, una tale strategia costituisce un efficace strumento di pressione nei confronti degli stessi lavoratori regolari determinando un peggioramento delle loro stesse condizioni quanto a norme, contratti e sindacalizzazione”. Una terza, più concreta, osservazione riguarda la necessità di far luce sulle condizioni effettive di vita degli immigrati nei CPT (“Centri di permanenza temporanea”) presenti nella nostra regione e in altre regioni di confine: “il paradosso di questi luoghi di accoglienza è che, a differenza delle carceri, all’interno dei CPT non vi sono regole certe, è possibile che non vengano date informazioni adeguate agli immigrati sui loro diritti e sui loro doveri e, a causa della continua mobilità dei trattenuti tra le diverse strutture, sembra siano fortemente limitati l’esercizio del diritto di difesa e di visita”.Il compito che l’Osservatorio si è assegnato non è solo quello dell’analisi e della denunzia, ma anche della proposta costruttiva. Una propositività che, a voler schematizzare brutalmente, si articola su due livelli. Innanzitutto come complesso di iniziative finalizzate ad “alleviare i disagi per una condizione dettata dalla precarietà e dall’insicurezza” (“gli sportelli di informazione legale, le scuole di italiano, i tentativi di risolvere i problemi legati al lavoro, alla ricerca di una casa, alla tutela della salute”). Ma queste iniziative, dettate dall’emergenza, sono viste come “presupposti di un agire politico che vada al di là della vertenzialità episodica permettendo il radicamento e il lavoro di prospettiva”: in altre parole, come occasioni per superare “il deficit culturale e progettuale notevole” con cui “ci accostiamo all’immigrato”. Per fare, insomma, della Sicilia – e, in prospettiva, dell’intera Penisola – “un luogo da attraversare, e non una fortezza”. Un passo avanti in questa direzione l’ha certamente realizzato la Facoltà di Scienze  della Formazione dell’Università di Palermo attivando – con una lezione inaugurale prevista proprio per oggi alle 15,30 a Plazzo Steri – il Master di I livello “Immigrazione, asilo e cittadinanza”. 

martedì 18 maggio 2004

LUCIO SCHIRO’


“Repubblica – Palermo” 18.5.04

AUGUSTO CAVADI 


Il Luther King della Sicilia

Che una signora quasi novantenne decida di ricostruire la biografia del padre, morto nel 1961, ha qualcosa di naif. Ma questa volta il protagonista è talmente interessante che si perdona facilmente l’ingenuità nella forma e nel tono. Si tratta infatti di quel Lucio Schirò che ha rappresentato nel ragusano, per tutta la prima metà del XX secolo, un punto di riferimento del protestantesimo (è stato pastore metodista a Scicli) ma anche del socialismo (è stato sindaco della stessa cittadina negli anni dei raid fascisti, cui seppe reagire con nonviolenza consapevole). La rievocazione delle sue iniziative (ha fondato scuole elementari, doposcuola, asili infantili, corsi serali per analfabeti, cooperative di consumo, riviste, sezioni di partito) lascia davvero di stucco. Non meno sorprendente la fermezza con cui si schiera contro l’ingresso dell’Italia nella I guerra mondiale. Non sembra perciò eccessiva la definizione che ne ha dato - nel corso del convegno organizzato a vent’anni dalla morte - Andrea Speranza: “il Martin Luther King della Sicilia Sud-Orientale”.
                                                                                                                          

MIRIAM  SCHIRO’

Un lottatore senz’armi: mio padre Lucio Schirò D’Agati

Zephyro
Pagine127
Euro 10,50

sabato 15 maggio 2004

GIORGIO LA PIRA


“Repubblica- Palermo” 15.5.04

Augusto Cavadi 


Un siciliano a Firenze 

Giorgio La Pira è nato esattamente cento anni fa. Se fosse ancora vivo, avrebbe certamente meritato il paginone che il nostro quotidiano riserva ai “volti della Sicilia”. Infatti, benché celebre come sindaco di Firenze negli anni Cinquanta e Sessanta, era in realtà nato a Pozzallo, in provincia di Ragusa. Emigrato al Nord, distintosi ben presto come studioso di diritto, viene eletto nel 1946 nella cerchia ristretta dei ‘padri costituenti’. Insieme ad altri ‘professorini’ – come dispregiativamente furono chiamati lui, Dossetti, Lazzati, Fanfani ed altri  -  militò nella Democrazia Cristiana con l’intenzione, rivelatasi in gran parte illusoria, di immettere nelle vene della Balena idee evangeliche ed istanze autenticamente popolari. Quel gruppo di ‘innovatori’ non era omogeneo. Alcuni, come Amintore Fanfani, erano – come dire ? – più elastici: si adattarono con duttilità ai mutamenti epocali e passarono dalla cattedra di “mistica fascista” a quella di “economia politica” secondo i princìpi della dottrina sociale cattolica. Riuscirono ad avere amici dappertutto e di tutto rispetto: dalle nostre parti, il ministro Giovanni Gioia e (sino a quando non preferì passare con Andreotti) l’eurodeputato Salvo Lima. Altri, come Dossetti, si smarrirono davanti alla mastodonticità del partito di massa ‘pigliatutto’: a un certo punto, si fecero monaci e si ritirarono in Terrasanta per pregare e commentare la Bibbia. Da quel deserto silente Dossetti uscì solo una volta, quando Berlusconi vinse le sue prime elezioni nel 1994, per diffondere agli amici rimasti in Italia un accorato messaggio: “Sveglia, sentinella: la notte non è mai stata così profonda”.

La Pira non fu un vincente nella scalata al potere, ma neppure un autoesiliato. Trascorse qualche tempo al governo nazionale, da sottosegretario, senza collezionare esperienze che lo potessero  entusiasmare: “Chi fosse il vero padrone in Italia lo capii di colpo un giorno in cui, uscendo da una riunione con De Gasperi e l’ingegner Valletta della Fiat, De Gasperi – capo del governo – prese il cappotto di Valletta e glielo infilò con premura”. Pensò allora di ritagliarsi, anticipando di parecchi decenni la stagione dei sindaci, un suo ambito di presenza e di azione a livello comunale. Accettò la sindacatura di Firenze: senza ripiegamenti provinciali, trasformò lo scranno di Palazzo Vecchio in tribuna per parlare al mondo. Come ricordato dai relatori invitati sabato 15 maggio al Palazzo municipale di Bagheria per un seminario nazionale organizzato dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo, la sua opera divise profondamente gli animi. Alcuni, come don Ernesto Balducci, restarono impressionati della semplicità quasi naif di questo ometto dimesso, che viveva nella cella di un convento domenicano, distribuiva personalmente la minestra ai barboni, arringava le folle con oratoria zoppicante e argomentazioni un po’ sconnesse logicamente, ma ardente di passione per la giustizia sociale, per la libertà degli oppressi e per la pace nel mondo. Altri – ovviamente a cominciare da ‘fratelli’ di cordata – non gli perdonarono mai la scarsa diplomazia, l’immediatezza con cui si rivolgeva direttamente ai potenti della Terra per chiedere la cessazione dei conflitti bellici (a cominciare dalla disastrosa guerra in Viet-Nam), la caparbia  - da “comunistello di sacrestia” – con cui chiedeva il finanziamento governativo delle fabbriche in fallimento o la requisizione degli appartamenti vuoti a vantaggio degli sfrattati. “Una città – amava ripetere con una frase che piacque al cardinale francese Jean Danielou – è una città solo se Dio vi ha una casa e gli uomini pure”. Significativo, fra tanti, un episodio che – corredato da ogni documentazione – è riportato anche nel recente, prezioso libretto La purificazione della memoria (Dehoniane, Bologna 2003) di Sergio Tanzarella. Il francese Autant- Lara gira il film Tu non uccidere sull’obiezione di coscienza; nonostante l’accoglienza positiva al festival di Venezia del 1961, viene censurato per la tesi antimilitarista; La Pira organizza una proiezione privata per discuterne con politici ed intellettuali. La reazione è durissima. La Pira viene denunziato e processato, il ministro degli interni Mario Scelba lo attacca in una seduta straordinaria del governo e, gelido, il ministro della difesa Giulio Andreotti rifiuta con un telegramma l’invito alla visione del film: “Tuo invito mi produce amarezza e stupore. Personalmente non conosco il film in questione e neppure desidero vederlo essendo stato vietato da competenti organismi cattolici. Non so dove andremo a finire mettendoci al di sopra della legge e della morale comune” (cfr. p. 106).
A differenza del mittente del telegramma (che avrà tutto il tempo di osservare da molto vicino dove saremmo andati a finire, una volta scavalcata la legge e la morale comune), l’era di questo personaggio bizzarro, genialoide e un po’ patetico, non poteva durare a lungo. Con gli occhi del ’68, la sua scommessa di una ‘terza via’ fra capitalismo liberista  e socialismo comunista appariva disperata. Scrivere, come lui scriveva, che il marxismo era un ottimo strumento di diagnosi dei mali sociali ed una pessima terapia significava esporsi al tiro incrociato da ‘sinistra’ e da ‘destra’: concedeva troppo, e troppo poco, a seconda dei punti di vista.
Né molto più fortunata sarebbe stata la sua strategia (avviata nel 1967  recandosi in Egitto da Nasser e in Israele da Abba Eban) di richiamare ebrei, cristiani e musulmani alla comune radice abramitica: dunque a deporre le armi per fonderle e farne aratri. Sino al 1977  - anno della sua morte – , e soprattutto dopo, la scena mondiale sarebbe stata occupata da statisti di ben altra levatura che, proiettandosi al di sopra dei sogni infantili del piccolo profeta siciliano, avrebbero proclamato (con l’autorevole avallo di altrettanto illuminati colleghi) “guerre infinite” e “scontri di civiltà”. Con i risultati confortanti e promettenti che sono sotto gli occhi di tutti.

domenica 9 maggio 2004

PIETRO BARCELLONA


“Repubblica – Palermo”, 9.5.04
Augusto Cavadi


Il professore comunista che indaga sull’attualità. 

Da quarant’anni partecipa al dibattito culturale e politico europeo, insistendo soprattutto sul paradosso dello Stato che si proclama difensore del cittadino ma, in realtà, lo impoverisce dei legami sociali e lo trita nei propri meccanismi. I titoli di alcuni libri – come L’individualismo proprietario del 1987 – sono diventati formule di uso comune. Conosciutolo in qualche convegno, avevo ricavato l’impressione di una persona autorevole (“più che parlare, pensa a voce alta” aveva commentato una studentessa alla fine di una sua conferenza qualche anno fa), ma un po’ scostante. Adesso, per la prima volta, lo incontro senza l’apparato ufficiale di tavoli e pedane che lo innalzano - e un po’ lo isolano: e mi sembra più piccolo, più accessibile. Direi – con quel sorriso da bambino furbo ma mite - un po’ indifeso.

Gli chiedo se la sua vocazione originaria siano stati i libri o le battaglie politiche. “Tutto è cominciato con una lite. Mio padre mi aveva iscritto dai Salesiani e, in effetti, ho trovato un bravo religioso che insegnava filosofia. Ma, quando gli ho detto che il peccato originale era solo un’invenzione per mantenere la gente in stato di soggezione, abbiamo rotto. Diventai ateo, ma anche autodidatta. Un conoscente mi concesse di spulciare fra gli scaffali dove i libri dell’Einaudi aspettavano di essere distribuiti per la Sicilia orientale: e fu per me la scoperta del mondo. Procedevo nel disordine più totale: folgorato da Kierkegaard, saltavo da Freud alla teologia protestante del XX secolo, senza conoscere Hegel. Avvertii la vera passione della mia vita: indagare con curiosità il mio tempo, fare – per dirla con Foucault - la diagnosi dell’attualità. Mi confrontavo anche con il padre di un mio amico, il professor Giacobbe, indimenticabile figura di ebreo comunista. Dopo la laurea mio padre impose un ultimatum: o diventi insegnante entro pochi anni o vieni a lavorare nel mio studio di avvocato. Mi gettai allora a capofitto nel diritto, vinsi la cattedra universitaria e mi resi autonomo: potevo spaziare intellettualmente, senza rendere conto a nessuno, inseguendo i miei interrogativi più disparati. Da allora sono rimasto un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio. Con serietà, ma solo per diletto”. Uno dei suoi primi scritti tocca l’economia e il grande Federico Caffè lo chiama per dirgli: “Il saggio d’interesse, che è l’argomento del tuo saggio, non l’hai capito bene: ma per il resto hai intuizioni davvero interessanti”. La filosofia, la psicanalisi (soprattutto mediata da Castoriadis, l’esule greco che fonda a Parigi – con Lefort e Morin – la celebre rivista “Socialismo o barbarie”), la politica: questi tre amori ne fanno un meticcio della ricerca.
Ma nel 1973 la svolta della sua vita: l’intreccio intellettuale si complica, e si arricchisce, diventando anche impasto con la pratica. Barcellona organizza a Catania un convegno europeo sull’uso alternativo del diritto. Secondo il suo stile - guardare i saperi andando oltre i saperi – vuole soppesare il diritto per svelarne presupposti impliciti e conseguenze sociali. La risonanza dell’avvenimento (Laterza pubblica gli interventi più significativi) gli attira le ire dei fascisti: dunque anche minacce, anche aggressioni. Il PCI, vedendolo isolato all’interno di una facoltà “che è stata sempre conformista e tradizionalista”, gli propone la tessera: un modo per proteggerlo, ma anche per fruirne la vivacità propositiva. Accetta ed è subito cooptato nel comitato regionale. “Conobbi Ingrao, ne divenni amico, seguii le sue richieste: segretario cittadino del partito, poi membro laico al Csm, poi parlamentare. L’esperienza della prassi mi ha arricchito come uomo e come pensatore. Venivo da una famiglia borghese, non parlavamo neppure il dialetto, avevo una visione astratta della società. Come militante fui costretto ad immergermi nella concretezza del ‘popolo’ effettivo. Ingrao mi aveva raccomandato che, da segretario cittadino, avrei dovuto almeno incendiare il municipio: mi limitai ad occuparlo con i senza-casa delle periferie. In giro per le sezioni, mi facevano mangiare il ‘sangele’, una sorta di budello pieno di sangue bovino: poi, a casa, stavo davvero male. Però questa contaminazione vitale mi liberava dal radicalismo dei teorici. Gradualmente, ma irreversibilmente, capivo che la politica è mediazione nel senso alto della parola: meglio amministrare decentemente una città che morire da eroi all’opposizione. Tutto ciò ha modificato anche il mio modo di vedere il mondo: non da una sola angolazione, ma da molte e differenti”. 
Gli chiedo come visse la svolta del Partito Comunista alla Bolognina. “E’ stata una scelta devastante” risponde. Che il marxismo dovesse essere ripensato non c’era dubbio. Ma Occhetto ha inanellato un errore dopo l’altro. Intanto, all’interno, ha travisato la posizione di quanti da anni lavoravamo con Ingrao, al Centro per la riforma dello Stato, per una revisione delle dottrine classiche in chiave critica: ha accusato di ‘conservatorismo’ proprio noi che avevano ideato e realizzato le aperture più coraggiose, coinvolgendo ad esempio gli indipendenti di sinistra come Rodotà.  Poi, all’esterno, ha cominciato a chiedere perdono per crimini che il partito comunista italiano non ha mai perpetrato. Si è vergognato di una tradizione gloriosa. Ero e sono convinto, al contrario, che il PCI – come del resto la DC – non sono stati bande di delinquenti, ma i pilastri della democrazia italiana. Il PCI non è stato mai leninista: se mai, ma senza dogmatismi, gramsciani”.
Eppure, “più ingraiano di Ingrao”, Barcellona resta nel partito per altri cinque anni. Non va con Rifondazione (“Credevo nella necessità di non frantumare l’unità. E poi non mi ha mai convinto l’estremismo di Bertinotti: la politica non si fa sperando di non arrivare mai al potere, se no è testimonianza”). Accetta, uscito Ingrao, di presiedere il Centro per la riforma dello Stato: ma – “a riprova del fatto di essere uno sciamano, non un capo” – “combino un po’ di guai e mi sfiduciano”. “Tra l’altro, in quegli anni, sono stato molto critico verso l’inedito matrimonio fra sinistra e giustizialismo. Il PDS ha dimenticato la differenza fra diritto e politica, affidando ai magistrati il compito di abbattere gli avversari. Ha dimenticato che il giudice deve reprimere i reati individuali, non riformare i sistemi. Cancellare il confine fra la giustizia e la politica significa aprire la strada al berlusconismo: farsi le leggi a propria misura, in nome del consenso elettorale, è la perversione opposta, ma simmetrica, di chi ha delegato al protagonismo dei giudici la lotta politica. Urge ristabilire la differenza fra la regola e la forza: altrimenti ci condanniamo definitivamente all’imbarbarimento della vita civile consumato da Bush a livello mondiale e dai suoi mediocri imitatori a livello nazionale”.
Dal 1997 non prende più nessuna tessera: “Capisco rivedere il marxismo, io stesso adesso mi definirei comunista solo in quanto ho una visione umanistica del cosmo. In quanto penso che l’uomo in carne ed ossa debba avere la priorità rispetto alle leggi dell’economia capitalistica. Ma non si può abbandonare anche questa priorità per inseguire le mode americane. Su questo punto aveva ragione Augusto De Noce quando avvertiva, da cattolico molto tradizionalista, che se il comunismo storico avesse perduto ogni fondazione etica si sarebbe ridotto all’alienazione del consumismo. Che hanno fatto i DS ? Stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale…” . Senza più tessere in tasca, da “comunista privato”, si dedica a due progetti che gli stanno molto  a cuore.
Il primo lo riguarda come docente dell’università di Catania dove, con altri colleghi, si attiva per la fondazione del Centro Braudel perché “il Mediterraneo è un meraviglioso laboratorio di coesistenza degli opposti. E’ il luogo dove il conflitto non è negato, ma  - come nella tragedia – rappresentato. E, per ciò stesso, in qualche misura, controllato”. Mi consegna un dossier con la programmazione del Centro: gruppi di ricerca in varie università europee, colloqui internazionali, corsi di dottorato, masters…Vedo che ricorre insistentemente la questione del rapporto fra globalizzazione e processi locali. “In effetti – aggiunge – il mondo si cambia a partire dalla propria relazione col vicino di casa: troppe persone sono generose con gli abitanti del Chiapas e fetenti col venditore ambulante dell’angolo”.
 Del secondo ambito di attività , che lo riguarda nella sfera più privata, parla con un pizzico di pudore ma con la malcelata soddisfazione di chi si appresta a stupire ancora una volta. “Sì, lo confesso con piacere: sono anche un pittore. Ho esposto in varie città, di recente anche a Roma e a Firenze. Sarei contento di far conoscere i miei quadri pure a Palermo. Ma, secondo i luoghi, bisognerebbe operare una selezione. Forse certi nudi risulterebbero troppo audaci…”.
L’accenno alla pittura non è una nota, per così dire, di colore. Forse è l’esplicazione migliore di quello che, nel corso  della conversazione, Barcellona mi aveva sottolineato come il filo rosso della sua caleidoscopica riflessione: “La minaccia epocale è oggi lo scientismo che comprime tutto alle sole dimensioni della scienza e della tecnica. Il mito americano ha successo presso i superficiali perché esalta lo strapotere dell’uomo sulla natura. Ma questo è gravemente riduttivo dell’uomo stesso. Non siamo riducibili solo al razionale e al funzionale: siamo anche magma immaginativo, macchina di simboli, eredità mitica”.

venerdì 7 maggio 2004

LA SICILIA TRA I SANTI E LUTERO


“Repubblica – Palermo” 7 – 5 - 04

Augusto Cavadi 


Lutero, Gibson e i nostri Santi 

Secondo alcune testimonianze storiche, nella Costantinopoli del IV secolo dopo Cristo era normale che al mercato il pescivendolo discutesse di teologia col fruttivendolo e, per una divergenza d’opinioni sulla Bibbia,  la massaia si accalorasse sin quasi al litigio con il panettiere. Epoche ormai passate per sempre, probabilmente. Ma qualcosa del genere, tra The Passion di Gibson e Luther di Till, si sta riproducendo sotto i nostri occhi. La moda, o il ritorno di fiamma, fa uno strano effetto in Italia: ancor più strano dalle nostre parti.
La religiosità del cattolicesimo mediterraneo non è – come si dice in termini tecnici – ‘cristocentrica’. Invece la rivisitazione – discutibile da tanti punti di vista – della passione di Gesù di Nazareth riporta prepotentemente al centro dell’attenzione, e del dibattito, quella Figura che era stata offuscata da una folla sempre più numerosa di madonne lacrimanti, di santi miracolosi e di stigmatizzati onnipresenti. Per la signora di Ballarò (che con disarmante candore afferma: “Capisco non credere in Dio: ma come si può non credere a Padre Pio”?) è abbastanza spiazzante doversi confrontare con quella croce che già per Paolo apostolo era “scandalo per i Giudei e follia per i Greci”.Ancor più spiazzante, poi, a giudicare dai commenti del pubblico cinematografico, l’impatto con Lutero. Per motivi su cui ci sarebbe da riflettere a fondo (il nemico ‘simile’ è molto più temibile del nemico del tutto diverso), la società siciliana ha mostrato maggiore tolleranza nei confronti di Ebrei e Musulmani che verso i Protestanti. Nel recente opuscolo La chiesa valdese a Palermo. Profilo di una comunità evangelica del Sud (1861 – 2001), Renato Salvaggio – nonostante le sue benemerite intenzioni ecumeniche – non può fare a meno di ricordare che, sin dalla fondazione di quella chiesa protestante (subito dopo l’unificazione italiana del 1861), “la reazione del clero cattolico non si fece attendere e si manifestò, dapprima con una serie di attacchi polemici su bollettini parrocchiali e su fogli locali conservatori, poi con azioni intimidatorie e violente che le autorità di pubblica sicurezza non seppero o non vollero impedire” (p. 16). Né minori persecuzioni dovettero subire, in altre zone della Sicilia e in epoche più recenti, attivisti protestanti come il metodista Lucio Schirò D’Agati (fra l’altro, sindaco di Scicli nel periodo immediatamente precedente l’avvento del Fascismo) di cui in questi mesi la figlia Miriam ha curato una sintetica biografia con le Edizioni Zephyro di Milano: un attentato la sera del 18 giugno 1921 provoca nove feriti e un morto (reo soltanto di essere “simpatizzante della chiesa metodista” e di trovarsi accanto al suo pastore, bersaglio principale da colpire). Sino agli anni della mia adolescenza, d’altronde, la diocesi di Palermo era forse l’unica in Italia in cui – per decreto del cardinale Ernesto Ruffini – si era ‘automaticamente’ scomunicati se solo si metteva piede in un tempio non cattolico, fosse pure in momenti diversi dal culto liturgico e dal relativo ‘pericolo’ della predicazione.  Il Concilio Vaticano II  degli anni Sessanta non è passato invano e più di un effetto positivo si è potuto registrare anche da noi. Particolarmente attiva – anche se poco conosciuta, e ancor meno frequentata, in ambienti cattolici – una sezione locale del Segretariato per le Attività Ecumeniche, associazione diffusa nel territorio nazionale che da decenni si adopera – meritoriamente – per costruire occasioni di incontro, di riflessione e di preghiera fra  membri delle diverse confessioni religiose. Eppure, se si esclude qualche teologo più aperto e qualche parroco più illuminato, nell’opinione del cattolico ‘medio’ siciliano il variegato mondo protestante viene considerato come una sorta di nebulosa di cui è sempre preferibile diffidare.Non è certo fra le conseguenze meno interessanti della diffusione nelle nostre sale del film su Lutero la ‘scoperta’ – che trapela dai commenti all’uscita – da parte del pubblico di essere molto più d’accordo con le posizioni della Riforma che con la dottrina cattolica tradizionale. Né si tratta solo di un pubblico ‘laico’ o, addirittura, anticlericale. Nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo della proiezione a cui mi è capitato d’assistere, un simpatico quarantenne si è alzato in piedi e – rivolgendosi ai presenti – ha chiesto, “a titolo di sondaggio estemporaneo, extracanonico”, se ci fossero preti in sala. Contate le mani alzate, ha ringraziato concludendo: “Dunque, me compreso, siamo in cinque”. Devono dunque le gerarchie della Chiesa cattolica temere un esodo in massa di fedeli? Se la storia ci insegna qualcosa, dovrebbero restare tranquilli. Nessun movimento di conversione da una chiesa all’altra mi sembra prevedibile. Forse Sciascia esagerava nel definire noi conterranei sostanzialmente ‘atei’; certamente non siamo credenti al punto da preoccuparci di far corrispondere teoria enunciata e pratica quotidiana. Questi rigorismi moralistici li lasciamo ai popoli, schematici e senza fantasia, dell’Europa centro-settentrionale. Noi mediterranei, soprattutto noi italiani possiamo anche dubitare dell’infallibilità del papa o della verginità perpetua della Madre del Signore, ma non per questo riteniamo di dover fare eccessiva pubblicità. Possiamo certo consumare (in materia di fede e di costumi) degli scismi rispetto alle norme dell’autorità, ma – per riprendere un pamphlet fortunato, di pochi anni fa,  del filosofo Pietro Prini – ‘sommersi’. Taciti. Invisibili. Ribaltabili in qualsiasi momento dovesse tornare utile rivestire la divisa e presentarsi impeccabilmente ortodossi.