sabato 15 maggio 2004

GIORGIO LA PIRA


“Repubblica- Palermo” 15.5.04

Augusto Cavadi 


Un siciliano a Firenze 

Giorgio La Pira è nato esattamente cento anni fa. Se fosse ancora vivo, avrebbe certamente meritato il paginone che il nostro quotidiano riserva ai “volti della Sicilia”. Infatti, benché celebre come sindaco di Firenze negli anni Cinquanta e Sessanta, era in realtà nato a Pozzallo, in provincia di Ragusa. Emigrato al Nord, distintosi ben presto come studioso di diritto, viene eletto nel 1946 nella cerchia ristretta dei ‘padri costituenti’. Insieme ad altri ‘professorini’ – come dispregiativamente furono chiamati lui, Dossetti, Lazzati, Fanfani ed altri  -  militò nella Democrazia Cristiana con l’intenzione, rivelatasi in gran parte illusoria, di immettere nelle vene della Balena idee evangeliche ed istanze autenticamente popolari. Quel gruppo di ‘innovatori’ non era omogeneo. Alcuni, come Amintore Fanfani, erano – come dire ? – più elastici: si adattarono con duttilità ai mutamenti epocali e passarono dalla cattedra di “mistica fascista” a quella di “economia politica” secondo i princìpi della dottrina sociale cattolica. Riuscirono ad avere amici dappertutto e di tutto rispetto: dalle nostre parti, il ministro Giovanni Gioia e (sino a quando non preferì passare con Andreotti) l’eurodeputato Salvo Lima. Altri, come Dossetti, si smarrirono davanti alla mastodonticità del partito di massa ‘pigliatutto’: a un certo punto, si fecero monaci e si ritirarono in Terrasanta per pregare e commentare la Bibbia. Da quel deserto silente Dossetti uscì solo una volta, quando Berlusconi vinse le sue prime elezioni nel 1994, per diffondere agli amici rimasti in Italia un accorato messaggio: “Sveglia, sentinella: la notte non è mai stata così profonda”.

La Pira non fu un vincente nella scalata al potere, ma neppure un autoesiliato. Trascorse qualche tempo al governo nazionale, da sottosegretario, senza collezionare esperienze che lo potessero  entusiasmare: “Chi fosse il vero padrone in Italia lo capii di colpo un giorno in cui, uscendo da una riunione con De Gasperi e l’ingegner Valletta della Fiat, De Gasperi – capo del governo – prese il cappotto di Valletta e glielo infilò con premura”. Pensò allora di ritagliarsi, anticipando di parecchi decenni la stagione dei sindaci, un suo ambito di presenza e di azione a livello comunale. Accettò la sindacatura di Firenze: senza ripiegamenti provinciali, trasformò lo scranno di Palazzo Vecchio in tribuna per parlare al mondo. Come ricordato dai relatori invitati sabato 15 maggio al Palazzo municipale di Bagheria per un seminario nazionale organizzato dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo, la sua opera divise profondamente gli animi. Alcuni, come don Ernesto Balducci, restarono impressionati della semplicità quasi naif di questo ometto dimesso, che viveva nella cella di un convento domenicano, distribuiva personalmente la minestra ai barboni, arringava le folle con oratoria zoppicante e argomentazioni un po’ sconnesse logicamente, ma ardente di passione per la giustizia sociale, per la libertà degli oppressi e per la pace nel mondo. Altri – ovviamente a cominciare da ‘fratelli’ di cordata – non gli perdonarono mai la scarsa diplomazia, l’immediatezza con cui si rivolgeva direttamente ai potenti della Terra per chiedere la cessazione dei conflitti bellici (a cominciare dalla disastrosa guerra in Viet-Nam), la caparbia  - da “comunistello di sacrestia” – con cui chiedeva il finanziamento governativo delle fabbriche in fallimento o la requisizione degli appartamenti vuoti a vantaggio degli sfrattati. “Una città – amava ripetere con una frase che piacque al cardinale francese Jean Danielou – è una città solo se Dio vi ha una casa e gli uomini pure”. Significativo, fra tanti, un episodio che – corredato da ogni documentazione – è riportato anche nel recente, prezioso libretto La purificazione della memoria (Dehoniane, Bologna 2003) di Sergio Tanzarella. Il francese Autant- Lara gira il film Tu non uccidere sull’obiezione di coscienza; nonostante l’accoglienza positiva al festival di Venezia del 1961, viene censurato per la tesi antimilitarista; La Pira organizza una proiezione privata per discuterne con politici ed intellettuali. La reazione è durissima. La Pira viene denunziato e processato, il ministro degli interni Mario Scelba lo attacca in una seduta straordinaria del governo e, gelido, il ministro della difesa Giulio Andreotti rifiuta con un telegramma l’invito alla visione del film: “Tuo invito mi produce amarezza e stupore. Personalmente non conosco il film in questione e neppure desidero vederlo essendo stato vietato da competenti organismi cattolici. Non so dove andremo a finire mettendoci al di sopra della legge e della morale comune” (cfr. p. 106).
A differenza del mittente del telegramma (che avrà tutto il tempo di osservare da molto vicino dove saremmo andati a finire, una volta scavalcata la legge e la morale comune), l’era di questo personaggio bizzarro, genialoide e un po’ patetico, non poteva durare a lungo. Con gli occhi del ’68, la sua scommessa di una ‘terza via’ fra capitalismo liberista  e socialismo comunista appariva disperata. Scrivere, come lui scriveva, che il marxismo era un ottimo strumento di diagnosi dei mali sociali ed una pessima terapia significava esporsi al tiro incrociato da ‘sinistra’ e da ‘destra’: concedeva troppo, e troppo poco, a seconda dei punti di vista.
Né molto più fortunata sarebbe stata la sua strategia (avviata nel 1967  recandosi in Egitto da Nasser e in Israele da Abba Eban) di richiamare ebrei, cristiani e musulmani alla comune radice abramitica: dunque a deporre le armi per fonderle e farne aratri. Sino al 1977  - anno della sua morte – , e soprattutto dopo, la scena mondiale sarebbe stata occupata da statisti di ben altra levatura che, proiettandosi al di sopra dei sogni infantili del piccolo profeta siciliano, avrebbero proclamato (con l’autorevole avallo di altrettanto illuminati colleghi) “guerre infinite” e “scontri di civiltà”. Con i risultati confortanti e promettenti che sono sotto gli occhi di tutti.

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