venerdì 31 dicembre 2004

GLI AUGURI DI FINE ANNO


“Repubblica – Palermo” 31.12.04

Augusto Cavadi


Non sprechiamo tempo, la partita è aperta 

In questi giorni – e in queste ore in particolare –  è tutto un intreccio di auguri. Le formule variano, i mezzi tecnici pure, ma la sostanza resta: che il 2005 sia migliore dell’anno che si chiude. Dopo l’imbarazzo del natale (non si sa mai come possa reagire l’interlocutore islamico o induista o ateo), si allentano le precauzioni: sembra il momento dell’augurio più laico, più universale, più condiviso.

Se consideriamo questi scambi come segni di buona educazione – o, nel migliore dei casi, di attenzione alla condizione altrui – non c’è problema. E’ un po’ come quando chiediamo all’altro come vada la vita: un gesto di cortesia che verrebbe rovinato da una risposta sincera e dettagliata, con l’elenco completo delle disgrazie personali e collettive, che andasse al di là di un “tutto bene, grazie”.

Ma se per caso ci soffermassimo a pesare le parole, intendendo rintracciare in ciascuna il significato proprio e profondo, si aprirebbero interrogativi spaesanti. Già: a ben rifletterci, che senso ha l’augurio di un anno migliore?

Se avessero ragione quanti vedono nella storia dell’umanità una ineluttabile degradazione entropica, un processo necessario e inarrestabile verso il freddo e il silenzio del nulla, l’augurio di capodanno suonerebbe beffardo o patetico. Per la cultura nichilista – che non è la  del nostro tempo, ma che certo ne rappresenta una fetta rilevante – “niente di nuovo sotto il sole”. Come è scritto in una pagina della Bibbia che sgomenta (non è un caso se nelle chiese si tende a non citarla), “il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana: gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. (…) C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ‘Guarda, questo è una novità?’. Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto” (Qoèlet,1, 10). Nietzsche ne ha ripreso il messaggio al tramonto del XIX secolo: “Tutto va, tutto ritorna; la ruota dell’esistenza gira eternamente. Tutto muore, tutto rifiorisce…”. In questa prospettiva, tanto radicata nella mentalità anche di molti siciliani che non hanno mai aperto né Antico Testamento né Nietzsche, la partita è stata decisa già in anticipo, a tavolino: possiamo recitare soltanto un copione scritto prima – e senza – di noi. L’unica libertà possibile, direbbero gli Stoici greci o il moderno Spinoza, è acconsentire alla necessità del fato, aderire alla legge ineluttabile del destino, accettare con animo rassegnato ciò che non ci è dato di evitare.

Né l’augurio di capodanno ha molto più senso in una prospettiva – in un certo senso opposta, ma non meno diffusa della precedente – lineare, ‘progressista’, ottimistica, secondo la quale il nuovo è, per definizione, migliore dell’ antico e il domani non può che essere, per principio, più gratificante dell’oggi. Se veramente fosse così, se veramente la storia si sviluppasse come evoluzione necessaria, continua, inarrestabile, non sarebbe ogni espressione augurale superflua? Non è molto logico ‘auspicare’ che, per un nostro interlocutore, l’estate subentri alla primavera o l’alba alla notte stellata. Le rivoluzioni, come le eclissi di sole, non si sperano: si prevedono. Le tre grandi culture a cui si sono formati i nostri maestri (idealistica, positivistica e marxista) hanno alimentato questa immensa illusione, preparando – di delusione in delusione – la strada alla disperazione attuale.

Forse, allora, scambiarsi l’auspicio di un anno migliore implica una diversa interpretazione della storia: rappresentata non più come il serpente che si morde la coda né come una locomotiva che sfrecci di trionfo in trionfo, ma – se mai – come una linea spezzata, con alti e bassi, slanci e cadute, anticipi e regressioni. Una storia in cui niente è impossibile a priori, né di positivo né di negativo, perché momento per momento tutto dipende dall’intersezione di miliardi di libertà finite. Una storia che può sorprendere, in meglio o in peggio, perché nessuna legge intrinseca e aprioristica la determina unidirezionalmente. La stessa Trascendenza, se c’è, non può – o non vuole -  forzare la volontà delle creature. Davvero, per dirla con De Gregori, “la storia siamo noi”. Non perché assolutamente liberi, ma perché influenzati da molteplici fattori  senza essere del tutto annichiliti, ridotti  a rotelle di un meccanismo anonimo e implacabile. 

Questa prospettiva è affascinante, ma anche scomoda. L’anno, che si apre senza il nostro ‘permesso’, non si chiuderà senza il nostro concorso. La nostra vita personale, come la situazione in Sicilia o nel mondo, dipenderà anche da quel poco che ciascuno di noi avrà saputo costruire. Per quanto condizionata, la nostra libertà permane: e siamo responsabili di ciò che facciamo come di ciò che tralasciamo o rinviamo a data da destinarsi. Solo perché la partita è aperta, ha senso scambiarci gli auguri: non dunque invito al fatalismo, ma appello alle risorse – inesplorate – che giacciono, inutilizzate,  nella storia del nostro popolo e, in ultima analisi, nel cuore di ciascuno di noi. Non riesco a immaginare, per me e per la città, augurio più vero: che nessuno sprechi il tempo, prezioso ma non inesauribile, che gli è concesso. Sulla facciata del Palazzo delle Aquile, proprio sotto l’orologio che segna il lento scorrere delle ore, è incisa la più trascurata delle avvertenze: Pereunt et imputantur. Sì, passano: e di ciascuna dovremo rendere conto. Che ci si aiuti a raccogliere gli appelli della storia affinché, insieme, si possa “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato”. Il futuro ci è dato come dono, ma anche come compito: che nessuno abbia a pagare l’ingratitudine nei confronti della Vita col fallimento della propria esistenza.

martedì 28 dicembre 2004

NUMERI, STATISTICHE E FELICITA’


“Repubblica – Palermo” 28.12.04

Augusto Cavadi

LA QUALITA’ DELLA VITA E LE CITTA’ DELL’ISOLA

Puntuali come l’epidemia influenzale, ancora una volta le graduatorie del “Sole-24 ore” sulla qualità della vita nelle province italiane. Dunque, ancora una volta, perplessità e polemiche sulle posizioni molto basse occupate dalle città siciliane. Ma ogni botta e risposta in proposito si rivela, ad una considerazione un po’ più attenta, inconsistente. Non ha senso per chi governa una determinata città (per esempio Palermo) strumentalizzare i dati per glorificare il proprio operato: se si passa dal 100mo al 96mo posto, infatti, può significare non che la città sia stata meglio amministrata nell’ultimo anno, ma che altre quattro siano state amministrate (magari da giunte dello stesso colore politico) ancor peggio. Non ha senso neppure per l’opposizione utilizzare i dati per attaccare chi governa: si tratta infatti del punto di arrivo di storie decennali, forse centenarie, in cui non mancano responsabilità di amministrazioni del proprio stesso schieramento. E non hanno ragione neppure i qualunquisti a ridersela beatamente osservando che, destra o sinistra, le gestioni non mutano le situazioni effettive: perché non è scritto da nessuna parte che un sindaco e i suoi assessori abbiano, nel bene e nel male, tale incidenza da azzerare le responsabilità sociali quotidiane dei burocrati, dei vigili urbani, degli automobilisti, degli spazzini, dei medici e dei bancari, insomma dei cittadini. Se Messina o Agrigento ristagnano nelle parti basse delle classifiche, ciò dipende prima di tutto ed essenzialmente da messinesi ed agrigentini.

Proviamo dunque - andando oltre le dichiarazioni più o meno brillanti e opportuniste – a chiarire  qualche aspetto teorico non del tutto irrilevante.

L’idea fondamentale (suggerita in varie occasioni da esperti del settore) è che la nozione di ‘qualità della vita’ sia più diffusa che intelligibile. Non corrisponde, evidentemente, a nessun oggetto fisico o fatto storico: è dunque una nozione comoda, forse necessaria, ma costruita abbastanza arbitrariamente dagli studiosi. E’ dunque soggetta a modifiche continue secondo i punti di vista, le zone geografiche, le epoche storiche. Poiché viene formulata con abbondanza di tabelle numeriche, percentuali e medie aritmetiche, dà l’impressione di vantare una ‘scientificità’ molto più solida – e incontestabile – di quanto in effetti non le sarebbe lecito.

Se proviamo a capire meglio  le ragioni di questa opinabilità – si potrebbe dire di questa problematicità intrinseca - troviamo almeno tre ragioni. La prima è legata proprio alla sua veste matematica: poiché la qualità della vita si stabilisce analizzando 36 settori (sanità, trasporti, servizi sociali…) mediante  50 indicatori per ogni settore, nessuna indagine statistica può compiere  il miracolo di trasformare migliaia di dati quantitativi in un’idea qualitativa. Se faccio la somma di ciò che mi viene offerto in una crociera o in un villaggio turistico (aria condizionata, cucina raffinata, giochi di animazione…) in nessun modo posso ricavare – come risultato conclusivo – il grado di piacevolezza della vacanza in questione.

Ma poi – e siamo ad una seconda considerazione – chi stabilisce quali indicatori privilegiare? In una scuola è più importante che i certificati ti siano consegnati a vista o che gli insegnanti ti accolgano in aula con un sorriso? E’ un po’ come per il paniere dell’inflazione: uno potrebbe insistere per  includervi la benzina, un altro che cammina in bicicletta - ma è appassionato di cinema - i dvd.

Come se ciò non bastasse, va considerata ancora una terza ragione per cui le misurazioni in questo ambito risultano non ‘oggettive’ ma, al massimo, ‘intersoggettive’: la qualità della vita dipende tanto dalle strutture e dai servizi, quanto dalla mia percezione soggettiva degli stessi. L’assistenza sanitaria offerta dall’Ospedale civico di Palermo non è percepita, e valutata, esattamente allo stesso modo dal turista svizzero e dall’immigrato ghanese. Vivere a venti metri dal mercato di Ballarò, dai suoi colori e dal suo vociare, è considerato da alcuni un sogno, da altri un incubo. Abitare a Bolzano in un condominio silenzioso, dove non si viene mai disturbati dal volume troppo alto di una radio o dal tono eccessivo della voce dei vicini che si scambiano il saluto, può rappresentare un privilegio come costituire un incentivo al suicidio.

Se queste rapide osservazioni hanno senso, si capisce perché le graduatorie statistiche devono essere lette con molta precauzione: soprattutto per evitare di accettare dogmaticamente che il modello di vita (occidentale, produttivista, efficentista…) adottato da un determinato staff di tecnici venga, surrettiziamente, spacciato per universalmente condiviso. Tuttavia sarebbe scorretto capovolgere la frittata, approfittare di queste riserve epistemologiche per annacquare le differenze fra Nord e Sud. Anche per la qualità della vita si potrebbe ripetere quanto asserito da qualcuno per la qualità in generale: “Non la sappiamo definire, ma quando l’incontriamo la riconosciamo”.  Può darsi che - pur con minori opportunità di lavoro fuori casa, di partecipazione politica e di attività sportive -  le donne dell’entroterra trapanese, direttamente interpellate, ritengano di non vivere peggio di altre concittadine toscane o umbre: ma va soppesato il rilievo di Heidegger su quella povertà che consiste nell’incapacità di  percepire la mancanza come mancanza. I limiti della statistica non possono dunque diventare l’alibi del sottosviluppo. La gioia di vivere personale non è strettamente correlata all’efficienza delle amministrazioni: ma non ne è neppure del tutto indipendente. Nessuno chiede ai politici di assicurare la felicità dei cittadini, ci basterebbe che non la rovinassero con la corruzione o l’inettitudine.

venerdì 24 dicembre 2004

PACIFISMO


“Centonove”, 24.12.04

Augusto Cavadi 

Lanza del Vasto, attualità di un messaggio nonviolento 

Ancora recentemente, una persona di grande levatura intellettuale come Rossana Rossanda confessava – su “Repubblica” – la sua distanza dalla nonviolenza: come si fa a offrire l’altra guancia ai poteri forti che dominano la scena mondiale? Nell’immaginario collettivo, il metodo gandhiano è proprio questa impossibile scommessa di chi oppone alla forza dei forti la debolezza dei deboli. Ma era questa la proposta della “Grande anima”? Per rispondere con fondatezza, può essere interessante conoscere la riattualizzazione che di quella proposta ha fatto un italiano, figlio di un siciliano e di una belga, morto  - ottantenne – nel 1981. A lui, Giovanni Giuseppe Lanza del Vasto, la Sezione S. Luigi della Facoltà teologica di Napoli ha dedicato – in collaborazione con l’Istituto italiano di studi filosofici -  un seminario di studio di cui sono stati in questi mesi pubblicati gli Atti (AA. VV., Tra Cristo e Gandhi. L’insegnamento di Lanza del Vasto alle radici della nonviolenza, a cura di D. Abignente e S. Tanzarella, Edizioni San Paolo), recentemente presentati a Palermo al Parco letterario “Tomasi di Lampedusa”. Studiosi di varia provenienza – geografica e culturale – ne lumeggiano le varie facce: l’esegeta biblico, l’attivista pacifista, il cultore di spiritualità induista, il polemista, lo scrittore, l’organizzatore di istituzioni e di iniziative.

Questa multiforme personalità è celebre non solo per essere stato discepolo di Gandhi ma anche per aver importato in Europa il suo messaggio attraverso la fondazione del movimento “Comunità dell’Arca”: anche in Sicilia esso conta seguaci ed un gruppetto di palermitani sta costruendo, in cooperazione con una coppia di Catania,  una struttura nelle campagne di Belpasso che sia, ad un tempo, luogo di spiritualità, di confronto interculturale e di imprenditoria agricolo- artigianale .Le tragedie che stiamo vivendo – e il film Fahrenheit 9/11 , riportando storie di soldati americani morti in Iraq, mostra quanto facilmente chi gioca da carnefice può ritrovarsi nella scomoda posizione della vittima – inducono a soffermarsi, in particolare, su alcuni passaggi degli interventi raccolti nel libro a più mani. Prima di tutto sul saggio di Michelguglielmo Torri dedicato al Mahatma Gandhi, “un santo come uomo politico” (pp. 17 – 53): in esso, infatti, si dimostra – documenti alla mano – che l’originalità del leader indiano è consistita proprio nella capacità di far diventare storicamente operativa una strategia filosofico - spirituale. Egli è stato non solo eticamente ammirevole, ma anche politicamente efficace: non solo ha dato “un apporto molto importante al raggiungimento dell’indipendenza” (p. 35) del suo Paese dal dominio inglese, ma è riuscito a costruire e a gestire “un partito di massa di dimensioni panindiane” (p. 37).  Nella stessa linea di concretezza si è mosso il discepolo Lanza del Vasto, di cui Sergio Tanzarella evoca le tante battaglie  - pacifiche ma non per questo velleitarie – combattute contro l’occupazione francese dell’Algeria e per la conversione della stessa Chiesa cattolica alle ragioni della pace mondiale. Quando ministri socialisti come Mitterand rilasciavano dichiarazioni incredibili sulla bocca di politici di sinistra (“L’Algeria è la Francia. Dalle Fiandre al Congo, una sola legge, una sola nazione, un solo parlamento. Questa è la nostra volontà, la sola negoziazione possibile è la guerra”), il profeta disarmato obiettava: “L’atrocità di questa guerra dipende dalle due grandi bugie che ne hanno, poi, in seguito, generato altre. La prima bugia è che l’Algeria è la Francia, la seconda è che la guerra di Algeria è una pacificazione” (cfr . pp. 173 – 181). Allora, come adesso, una guerra “senza nome”  - perché, ipocritamente, si preferisce definirla altrimenti – provocò attentati terroristici contro le forze d’occupazione. Lanza del Vasto prende posizione con un duplice appello (sostenuto da digiuno pubblico a sola acqua): uno “alla coscienza dei francesi”, l’altro “ai capi religiosi dell’Islam e ai capi del Fronte di liberazione nazionale di Algeria”. In uno dei due appelli, dopo aver stigmatizzato il fatto che l’esercito di uno Stato democratico  facesse subire ad altri le stesse atrocità che si erano subite dalla Gestapo e dalle SS quindici anni prima, egli osserva: “Si dirà: anche i nostri nemici torturano e mutilano. Lo sappiamo. Non approviamo i loro crimini più di quanto approviamo i nostri, però ripetiamo: I torti altrui non ci giustificano. Del resto l’atrocità non castiga l’atrocità e non mette un termine ad essa: la provoca e la fa raddoppiare” (cfr. p. 203). Se questa saggezza circolasse di più nell’opinione pubblica occidentale, qualche schizzo potrebbe arrivare anche in alto: là dove governanti troppo indaffarati in questioni d’interesse non sempre generale decidono sulla vita e sulla morte di migliaia di innocenti.

venerdì 17 dicembre 2004

PATRIOTTISMO E CONTRADDIZIONI


“Centonove”, 17.12.04

Augusto Cavadi 

GUERRA, CANTA CHE TI PASSA 

In queste settimane, passando per centinaia di classi siciliane, i bidelli consegnano agli insegnanti l’ultima circolare dell’Assessore regionale. I giornali vi hanno accennato, ma solo leggendola con i propri occhi (è in bella mostra nel sito ufficiale www.regione.sicilia.it/beniculturali/pi) ci si può rendere conto della stagione da incubo che stiamo attraversando: “Il 12 novembre scorso  è stato celebrato l’anniversario dei caduti di Nassirya. (…) In un momento così tormentato in cui il terrorismo è divenuto una sorta di nuova guerra mondiale con effetti indistinti su tutta la popolazione, compresi donne, bambini e anziani, avverto la necessità di sottolineare che la scuola, più che mai, deve essere vissuta dai nostri ragazzi come centro della cultura e della vita.(…)  Recuperare il significato di alcuni simboli quali l’Inno di Mameli e la bandiera italiana, che contraddistinguono la nostra identità nazionale, non ha il significato della vuota retorica. Al contrario ciò si traduce per i ragazzi in una opportunità per recuperare la nostra tradizione, intesa come storia attraverso cui è possibile cogliere l’evoluzione dei valori, su cui si fonda la nostra cultura e la nostra identità. (…) Al fine di non rendere vane queste idealità  e di non disperdere la memoria della  recente visita  del nostro Presidente della Repubblica, mi auguro che i docenti delle scuole elementari e medie inferiori della Regione Siciliana vogliano favorire, attraverso la pratica del canto,  la  conoscenza  e la diffusione dell’Inno di Mameli, che è espressione alta dell’amore verso il nostro Paese”.
Alcuni insegnanti abboccano all’amo perché  gli si scalda il cuore al ricordo di quando erano piccoli e i loro maestri, stentando ad uscire davvero dal clima del regime in cui erano stati formati, li schieravano in palestra (magari con l’ausilio di qualche sano scappellotto) allineati e coperti. Ma altri insegnanti si guardano stupefatti.Devono spiegare ai bambini che il terrorismo è brutto e cattivo (e lo è) senza accennare al terrore esercitato da Stati ricchi che scatenano le guerre contro Stati che nulla hanno a che fare col terrorismo? Di essere fieri di appartenere a uno Stato che legittima e supporta l’uso di  “armi di distruzione di massa” contro  regimi accusati, a torto, di esserne detentori? Di dover cantare un Inno che, nel corso delle ultime due guerre mondiali,  ha accompagnato, alla morte (altrui e propria) milioni di concittadini mandati al macello da governi stupidi e immorali? Di dover cercare la loro identità civica in un pezzo di stoffa tricolore che sventola beffarda ai balconi di amministrazioni colluse e inefficienti; di istituti scolastici ignari delle norme di sicurezza, di igiene e di benessere; di ospedali pubblici degradati e degradanti per i malati che sono costretti al ricovero? Di dover essere orgogliosi di uno Stato che incoraggia gli evasori fiscali, premia i costruttori di ville abusive, alza la voce contro le trasgressioni dei miserabili per distrarre l’attenzione dai condoni per i potenti?  Di dover cantare in modo che gli passi anche solo la voglia incipiente di chiedere l’effettiva attuazione del diritto allo studio per i capaci e meritevoli, pur se economicamente sfavoriti? Tutto questo – per altro – senza un minimo accenno alla realtà effettiva della maggior parte delle scuole elementari e medie di città come Palermo o  Catania o Mazara del Vallo dove il multiculturalismo, il meticciato, il festival dei colori delle pelli e dei suoni delle lingue sono, per fortuna, un dato di fatto consistente e irreversibile. Dunque senza neppure il più vago sospetto che coltivare l’identità nazionale ha senso solo come presupposto e ponte verso la coscienza di essere cittadino europeo e, in ultima e decisiva istanza, cittadino del mondo. Sarà vero, come è stato autorevolmente sostenuto, che le tragedie della storia tendono a ripetersi e che la seconda volta hanno i caratteri della farsa. Ma qualcosa, in questo caso, ci impedisce di riderne.

venerdì 3 dicembre 2004

IL PACIFISTA SCHIRO’ D’AGATI


Centonove 3.12.04


AUGUSTO   CAVADI 

Omaggio a Lucio, il Luther King della Sicilia 

E’ arrivato nelle librerie l’ultimo libro di Augusto Cavadi (Gente bella. Volti e storie da non dimenticare con Una lettera di Maria d’Asaro a Peppino Impastato, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005, pp. 199, euro 15,00). Nel volume l’autore raccoglie sia interviste a personaggi contemporanei (come Pietro Barcellona, Franco Cassano, Luigi Lombardi Vallauri, Simona Mafai, don Vincenzo Sorce) sia brevi profili di siciliani illustri ormai scomparsi (come Giorgio La Pira, Peppino Impastato, Francesco Lo Sardo). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo il capitolo Il Martin Luther King della Sicilia dedicato a Lucio Schirò D’Agati  (pp. 159 – 167). 



Un lottatore disarmato 

I difficili inizi

Nel nostro Paese  - aduso, secondo la felice formula di Ennio Flaiano, a “correre in aiuto del vincitore” – le minoranze non hanno mai avuto vita facile. Essere socialista ed essere protestante, a cavallo fra il XIX ed il XX secolo, significava trovarsi due volte in minoranza: dunque, condannarsi ad una vita doppiamente difficile. E tale, infatti, è stata l’esistenza di uno di quei tanti concittadini straordinari di cui  - eccezion fatta per qualche congiunto – perdiamo, talora definitivamente, la memoria. Lucio Schirò D’Agati nacque ad Altofonte, a pochi chilometri da Palermo, il 18 marzo 1877, ma il precoce decesso della madre e il carattere riservato della seconda moglie del genitore non contribuirono a rallegrarne i primi anni: “la mia infanzia tramontò senza che io avessi un bacio, neppure dal padre che subiva il pregiudizio che i figli si baciano quando dormono” (così lui stesso in una pagina di diario ripresa dalla figlia Miriam in Un lottatore senz’armi: mio padre Lucio Schirò D’Agati, Zephyro, Milano 2003, p. 16). Si vanno intanto organizzando i “Fasci siciliani”: Lucio ha solo 15 anni ma, “preso dall’eloquenza di Nicola Barbato, dottore” (ivi, p. 16), aderisce al Movimento di Riscossa Popolare e, per evitare la repressione poliziesca, è costretto – come De Felice, Verro e lo stesso Barbato – a fuggire: si imbosca in una salsamenteria dove svolge le funzioni di garzone. I cinque anni di servizio militare presso la Guardia di Finanza segnano una svolta positiva: conosce nuovi amici, può studiare, ritrova – dopo aver perso la fede cattolica familiare - una prospettiva religiosa nel mondo protestante prima a lui sconosciuto e incontra Consiglia, la donna che lo sposerà e lo accompagnerà per oltre un cinquantennio, sino a quando lo lascerà vedovo e addolorato,  “nonostante tanti figli attorno” (p. 54).

Gli esordi, in Puglia,  come predicatore dei Metodisti (confessione cristiana fondata nel Settecento dall’inglese John Wesley) non furono proprio dei più incoraggianti. “Il 14 luglio 1901  - racconta egli stesso – alcuni conoscenti mi invitarono (…) per una conferenza. Lo seppero i preti. Sobillarono la plebaglia, mi assalirono con urli, insulti, minacce e fuore collettivo. Io avevo depositato la mia borsa nell’albergo, ma l’albergatore fi costretto a rimandarmela non certo senza rammarico. Nell’albergo non c’era posto per me! I Carabinieri non intervenivano. La plebaglia mi sospingeva verso la campagna. Un sacerdote che, mi dissero, possedeva la laurea in Medicina e Chirurgia, parroco, arciprete, mi mandò una sfida per l’indomani. Risposi: ‘Domani alle otto sarò a sua disposizione’. Urla bestiali della plebaglia che gridava: ‘Ma domani sarai vivo?’. L’aggressione si fece più tremenda, fui circondato ed esposto a gravi minacce; qualche sasso volò tra la mischia…” (p. 20). L’indomani, comunque, all’appuntamento il prete non si fa trovare: “era andato ai bagni con una comitiva sghignazzante per la prodezza della sera precedente. Fu però chiamato e venne accompagnato dal medico condotto. Il prete disse: ‘Parliamo dentro chè la folla non può capire’. Cominciò la discussione sul Decalogo di Mosé contro le sculture. Il prete aveva studiato Medicina, non Teologia. Io ero ignorante di Medicina ma rispondevo da piccolo teologo. ‘Per la vostra ostinazione vi romperei la testa!’ mi disse il medico. Con una calma che non mi parve mia, gli dissi: ‘Il medico del mio paese cuciva le teste rotte. Lei rompe quelle sane!’. La battuta fu efficace. Rise anche il prete. Ci licenziammo e me ne andai, questa volta non minacciato e non insultato” (p. 21).

Dopo alcune tappe intermedie (Abruzzo, Umbria), nel 1908 Lucio viene trasferito in Sicilia, a Scicli (Ragusa) dove trova una situazione sociale intollerabile: “i ricchi signori, – sintetizza la figlia Miriam – divenuti feudatari con mezzi anche illeciti, trattano come bruti i coloni. Li fanno lavorare dalla mattina alla sera, lontani dalle famiglie, che vedono solo alla domenica, per un piatto di fave e un po’ di frumento alla raccolta” (p. 25). Davanti a tanto disastro, non si scoraggia ma progetta e, gradualemnte, attua una complessa strategia di liberazione su più livelli.

Innanzitutto, si dedica alla istruzione e alla formazione culturale: “fonda scuole elementari, doposcuola, una sezione di asilo infantile, corsi serali per analfabeti” (p. 26). Per rafforzare ed estendere la promozione culturale fonda un giornale, “Il Semplicista”, che resisterà – con sospensioni forzate – per decenni: “un esperimento religioso unico” – commenterà nella Tesi di laurea del 2001 la giovane ricercatrice Laura Malandrino – “perché fu aperto a chiunque, evangelici, cattolici, buddisti, maomettani ed atei; esempio di un esperimento politico come pochi, essendo stato lo specchio dell’opera politica di Schirò, che fece di Scicli una sorta di repubblica indipendente nello Stato”.

Nella convinzione che la formazione dell’intelletto è condizione necessaria ma insufficiente, si impegna in prima pesrona anche su un secondo livello: l’organizzazione sociale. Avendo notato che “nel periodo estivo i fanciulli più poveri sono lasciati liberi per le vie del paese rese quasi impercorribili dal caldo afoso e snervante” e che, addirittura, “qualcuno non ha mai visto il mare”, Schirò “riunisce i genitori  e organizza insieme a loro una colonia estiva” (p. 32). Nella stessa ottica, avvia “una cooperativa dove i poveri pososno acquistare i prodotti a prezzi moderati” e fonda “una lega di contadini” 8p.. 26) , una sorta di sindacato.

La formazione culturale, l’organizzazione sociale: ma non basta. Con intelligenza davvero lungimirante, egli intuisce che – se si vuole incidere profondamente e durevolmente - bisogna attivarsi anche sul piano della politica istituzionale. E’ così che, sin dal 1910, con la stretta collaborazione di un avvocato, fonda a Scicli la sezione del Partito Socialista: dopo la Prima guerra mondiale, cui egli si era opposto fermamente, i socialisti vincono le elezioni del 1920 e il pastore della chiesa metodista diventa anche sindaco della città. Avverte la stranezza, o per lo meno la straordinarietà, dell’identificazione in una sola persona dei due ruoli e, sin dal primo discorso alla popolazione, chiarisce il suo desiderio di andare oltre l’emergenza per tornare alle occupazioni abituali: “Io guardo questo posto e mi sento a disagio. Questo posto non è mio, è degli sciclitani. Il mio posto è alla Chiesa. Ben vengano i paesani a gridare viva il Socialismo, io allora al loro grido esultante unirò la mia benedizione” (p. 29).

Socialista, pacifista, nonviolento: dunque antifascista

Per decenni siamo stati abituati a considerare inscindibile il legame fra radicalità rivoluzionaria e lotta armata: al punto che, quando il segretario nazionale di un partito comunista propone – come in questi mesi – un’adozione seria e convinta della metodologia nonviolenta, scattano già nella stessa Sinistra i sospetti di opportunismo e le diffidenze verso possibili ripiegamenti compromissori. Lucio Schirò D’Agati non sarà stato, a giudicare dagli scritti che ci rimangono, un pensatore particolarmente profondo o originale: ma ha certamente visto con lucidità anticipatrice ciò che intere generazioni successive hanno stentato – e tutt’ora stentano – a vedere. Intendo che ha visto con chiarezza stupefacente come l’interesse delle fasce deboli dei popoli di tutto il mondo implica il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i conflitti fra gli Stati e  che il rifiuto della guerra implica il rifiuto della violenza come arma per risolvere i conflitti interni agli Stati. In altri termini: che il socialismo comporta il pacifismo e che il pacifismo comporta la nonviolenza attiva. La riprova che la connessione fra questi tre princìpi ‘funziona’ è data dalla sua incompatibilità con qualsiasi logica reazionaria. E infatti il fascismo storico si scatenò spietatamente contro il piccolo pastore di provincia che  incarnava nella sua opera quotidiana l’intreccio esplosivo (e tanto pericoloso per gli interessi dei poteri forti) fra difesa dei poveri, rifiuto della guerra e lotta tendenzialmente nonviolenta.

Che cosa abbia significato per Schirò essere socialista, cioè dalla parte degli sfruttati, lo si è accennato: pur senza escludere mutamenti di regime epocali, egli ha innescato - nel ‘qui’ ed ‘ora’ della sua sfera d’intervento -  iniziative culturali, sociali e politiche che rendessero in qualche modo visibile e palpabile un processo di emancipazione. Aveva tante ragioni per maledire il buio ma, per riecheggiare un detto orientale, ha preferito accendere la sua candela.

Si è anche accennato alla sua (per me conseguente) opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Su questo punto non si può non citare almeno qualche passaggio cruciale di un articolo del 12 dicembre 1914 in cui egli taccia, “quei socialisti che ieri votarono contro le spese militari ed ora son per la guerra”, di tradimento del “Proletariato, il quale, in ogni guerra, paga sempre ed esige mai!” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per combattere la disoccupazione? “Ma la richiesta di lavoro a spese dell’altrui sangue mi sa di cinismo più che brigantesco” (p. 93). Bisogna entrarci perché “questa guerra sarebbe rivoluzionaria”? “Non è vero. Io osservando che i monarchi si fanno fotografare in divisa militare deduco che Militarismo e Monarchia sono sposi. Perciò ogni vittoria militare costituisce un nuovo forte attorno al Trono” (p. 93). Bisogna entrare in guerra per ragioni patriottiche? “Pretesto borghese. Se oggi l’Italia conquisterà Trento e Trieste, domani vorrà conquistare Nizza, Savoia, Tunisi, Malta ecc…per cui l’ingordigia non sarà saziata e sarà suscitata la diffidenza franco-inglese; l’odio austriaco non sarà spento ed invece sarà acceso quello tedesco contro l’Italia, il che richiederebbe enormi spese militari offensive e difensive. Ad ogni modo se l’Italia conquisterà il Mondo pel Proletariato non conterà proprio nulla, conterà per la Borghesia. Che sia dunque essa sola l’assassina” (pp. 93 – 94). Bisogna entrare in guerra per  ragioni umanitarie, per annientare la “barbarie teutonica”? “Superficialità. Ammesse magari per vere e moltiplicate per 10 le gesta barbare attribuite ai tedeschi affermo che non pesano un terzo degli orrori commessi dal Belgio militaresco nel Congo e dalla Russia Czaresca sul bel corpo di Maria Spiridonova e sulle menti di Massimo Gorki, Tolstoj ecc.” (p. 94).  

Nella prima metà del XX secolo non era strano che socialismo e pacifismo si intrecciassero: molto meno ovvio, però, che si coniugassero anche con la nonviolenza. Qui la tradizione marxista, presente anche nel Partito Socialista da cui nel 1921 si era distaccato il Partito Comunista, pesava fortemente: essere rivoluzionari implicava il ripudio della guerra, ma anche l’adozione della lotta armata. Schirò, però, ha radici non solo socialiste: il suo cristianesimo evangelico gli vieta di concepire l’uso della forza fisica come metodo ordinario. Con molto anticipo su orientamenti attuali (pensiamo, per limitarci ad un solo riferimento, al dibattito interno al Partito della Rifondazione Comunista circa la scelta programmatica per la nonviolenza), egli vive con costanza e coerenza un inequivoco atteggiamento nonviolento che gli ha meritato, da parte di Andrea Speranza nel corso di un convegno commemorativo del 1982, il titolo di “Martin Luther King della Sicilia Sud-orientale” (p. 76).

Socialista, pacifista, nonviolento: troppo per il fascismo! Ma proprio le persecuzioni dei fascisti lo confermeranno nella validità delle sue opzioni -  esistenziali e politiche -  di fondo. Quando il 26 dicembre del ’20 le squadracce d’azione aggrediscono dei cittadini inermi, Schirò  - informato mentre è riunito con cento persone nell’assemblea della Cooperativa -  si precipita nel luogo dell’assalto, affronta da solo e inerme i quaranta facinorosi e, benché colpito alla testa e sanguinante, non recede dalla richiesta alle Forze dell’Ordine di fare il loro dovere. Quando, poi, la situazione si capovolge e la gente inferocita vuole fare giustizia sommaria dei caporioni, è proprio Schirò ad accoglierli a casa propria per evitare una strage! Ovviamente la cortesia non gli sarà ricambiata. Intimidazioni e attentati si susseguono senza posa, anzi con violenza crescente: sino a quella sera dell’estate del  1921  in cui i fascisti sparano sul pastore ferendo lui, una figlioletta, alcuni amici ed uccidendo un pover’uomo reo soltanto d’essere simpatizzante della Chiesa metodista. Quando poi il regime s’instaura ufficialmente, sono le stesse autorità   ad angariare il ‘suddito’ sospetto: come quando – siamo già nel ’29 -  il Commissario di Pubblica Sicurezza lo interroga, lo schiaffeggia e lo accusa di aver dichiarato di voler devolvere un certo sussidio “per il bene dei comunisti”, reagisce solo con il suggerimento ironico di consultare il vocabolario italiano per cogliere la differenza fra ‘comunisti’ e ‘comunità’.

Il suo servizio sopravvive al crollo del fascismo ed è ‘ministro’ della sua comunità religiosa sino al 1952: si spegnerà, non senza ragioni di sconforto come pure di consolazione, il 30 giugno del 1961. In un articolo del 1924 egli aveva evidenziato, con un linguaggio ‘datato’ che però conserva una propria tempra, come la storia documenti “l’esistenza di profeti in determinati tempi e luoghi, senza dei quali non si sa quali splendori avrebbe la religione se pur non avesse la bruttura di turpe manutengola della falsa Politica. Guai la mondo (…) moderno se in tempi difficili, in mezzo al chiasso di politicanti incoscienti, al lezzo dell’affarismo, al disgusto del turpiloquio e dello scempio di uomini e cose, al gemito straziante della Verità offesa, della Giustizia mutilata e della Libertà inceppata, mancasse la voce ammonistrice di sinceri ministri del Ciel!”. Non mi pare esagerato affermare che proprio Lucio Schirò D’Agati sia stato una di queste figure ‘profetiche’, capaci cioè di interpretare con più acutezza i “segni dei tempi” e di anticipare con più inventività le pratiche adeguate alle sfide della storia.