venerdì 31 dicembre 2004

GLI AUGURI DI FINE ANNO


“Repubblica – Palermo” 31.12.04

Augusto Cavadi


Non sprechiamo tempo, la partita è aperta 

In questi giorni – e in queste ore in particolare –  è tutto un intreccio di auguri. Le formule variano, i mezzi tecnici pure, ma la sostanza resta: che il 2005 sia migliore dell’anno che si chiude. Dopo l’imbarazzo del natale (non si sa mai come possa reagire l’interlocutore islamico o induista o ateo), si allentano le precauzioni: sembra il momento dell’augurio più laico, più universale, più condiviso.

Se consideriamo questi scambi come segni di buona educazione – o, nel migliore dei casi, di attenzione alla condizione altrui – non c’è problema. E’ un po’ come quando chiediamo all’altro come vada la vita: un gesto di cortesia che verrebbe rovinato da una risposta sincera e dettagliata, con l’elenco completo delle disgrazie personali e collettive, che andasse al di là di un “tutto bene, grazie”.

Ma se per caso ci soffermassimo a pesare le parole, intendendo rintracciare in ciascuna il significato proprio e profondo, si aprirebbero interrogativi spaesanti. Già: a ben rifletterci, che senso ha l’augurio di un anno migliore?

Se avessero ragione quanti vedono nella storia dell’umanità una ineluttabile degradazione entropica, un processo necessario e inarrestabile verso il freddo e il silenzio del nulla, l’augurio di capodanno suonerebbe beffardo o patetico. Per la cultura nichilista – che non è la  del nostro tempo, ma che certo ne rappresenta una fetta rilevante – “niente di nuovo sotto il sole”. Come è scritto in una pagina della Bibbia che sgomenta (non è un caso se nelle chiese si tende a non citarla), “il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana: gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. (…) C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ‘Guarda, questo è una novità?’. Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto” (Qoèlet,1, 10). Nietzsche ne ha ripreso il messaggio al tramonto del XIX secolo: “Tutto va, tutto ritorna; la ruota dell’esistenza gira eternamente. Tutto muore, tutto rifiorisce…”. In questa prospettiva, tanto radicata nella mentalità anche di molti siciliani che non hanno mai aperto né Antico Testamento né Nietzsche, la partita è stata decisa già in anticipo, a tavolino: possiamo recitare soltanto un copione scritto prima – e senza – di noi. L’unica libertà possibile, direbbero gli Stoici greci o il moderno Spinoza, è acconsentire alla necessità del fato, aderire alla legge ineluttabile del destino, accettare con animo rassegnato ciò che non ci è dato di evitare.

Né l’augurio di capodanno ha molto più senso in una prospettiva – in un certo senso opposta, ma non meno diffusa della precedente – lineare, ‘progressista’, ottimistica, secondo la quale il nuovo è, per definizione, migliore dell’ antico e il domani non può che essere, per principio, più gratificante dell’oggi. Se veramente fosse così, se veramente la storia si sviluppasse come evoluzione necessaria, continua, inarrestabile, non sarebbe ogni espressione augurale superflua? Non è molto logico ‘auspicare’ che, per un nostro interlocutore, l’estate subentri alla primavera o l’alba alla notte stellata. Le rivoluzioni, come le eclissi di sole, non si sperano: si prevedono. Le tre grandi culture a cui si sono formati i nostri maestri (idealistica, positivistica e marxista) hanno alimentato questa immensa illusione, preparando – di delusione in delusione – la strada alla disperazione attuale.

Forse, allora, scambiarsi l’auspicio di un anno migliore implica una diversa interpretazione della storia: rappresentata non più come il serpente che si morde la coda né come una locomotiva che sfrecci di trionfo in trionfo, ma – se mai – come una linea spezzata, con alti e bassi, slanci e cadute, anticipi e regressioni. Una storia in cui niente è impossibile a priori, né di positivo né di negativo, perché momento per momento tutto dipende dall’intersezione di miliardi di libertà finite. Una storia che può sorprendere, in meglio o in peggio, perché nessuna legge intrinseca e aprioristica la determina unidirezionalmente. La stessa Trascendenza, se c’è, non può – o non vuole -  forzare la volontà delle creature. Davvero, per dirla con De Gregori, “la storia siamo noi”. Non perché assolutamente liberi, ma perché influenzati da molteplici fattori  senza essere del tutto annichiliti, ridotti  a rotelle di un meccanismo anonimo e implacabile. 

Questa prospettiva è affascinante, ma anche scomoda. L’anno, che si apre senza il nostro ‘permesso’, non si chiuderà senza il nostro concorso. La nostra vita personale, come la situazione in Sicilia o nel mondo, dipenderà anche da quel poco che ciascuno di noi avrà saputo costruire. Per quanto condizionata, la nostra libertà permane: e siamo responsabili di ciò che facciamo come di ciò che tralasciamo o rinviamo a data da destinarsi. Solo perché la partita è aperta, ha senso scambiarci gli auguri: non dunque invito al fatalismo, ma appello alle risorse – inesplorate – che giacciono, inutilizzate,  nella storia del nostro popolo e, in ultima analisi, nel cuore di ciascuno di noi. Non riesco a immaginare, per me e per la città, augurio più vero: che nessuno sprechi il tempo, prezioso ma non inesauribile, che gli è concesso. Sulla facciata del Palazzo delle Aquile, proprio sotto l’orologio che segna il lento scorrere delle ore, è incisa la più trascurata delle avvertenze: Pereunt et imputantur. Sì, passano: e di ciascuna dovremo rendere conto. Che ci si aiuti a raccogliere gli appelli della storia affinché, insieme, si possa “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo si è trovato”. Il futuro ci è dato come dono, ma anche come compito: che nessuno abbia a pagare l’ingratitudine nei confronti della Vita col fallimento della propria esistenza.

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