venerdì 28 gennaio 2005

AL POSTO DEL “L’ORA”


Centonove 28.1.05
Augusto Cavadi

NO, IL MCDONALD NO!

Quando ricevetti la prima telefonata dalla responsabile della pagina per gli studenti (“L’Ora-scuola”), non sapevo che Giuliana Saladino fosse una giornalista, una scrittrice e una donna di rilievo nazionale. Né che fosse la moglie di quel Marcello Cimino a cui Michele Perriera avrebbe dedicato una biografia dal sottotitolo efficacissimo: “Vita e morte di un comunista soave”. Avvertii però il tocco di straordinaria attenzione, quasi affettuosa, nei confronti di noi ospiti ‘fissi’ del mercoledì sera: ragazzini di sedici, diciassette anni, che – radunati intorno a un tavolo, con microfoni e registratori al centro – ci accaloravamo a discutere di politica, di etica sessuale, di rapporti con i genitori e, ovviamente, di scuola. L’indomani potevamo passare dalla portineria per ritirare, con fierezza emozionata, le copie del quotidiano che Giuliana preparava in grosse buste gialle per ciascuno di noi. Verificavamo i resoconti delle nostre idee, commentando divertiti le  foto scattate dal reporter nel corso della tavola rotonda. Poi, di solito, l’indomani - a scuola -  si riusciva a strappare a qualche insegnante più elastico una decina di minuti per discuterne.

Al mitico Sessantotto mancavano pochissimi anni e quell’ appuntamento settimanale fu la nostra palestra di cultura ‘vera’e di democrazia: di confronto su questioni avvertite, concrete, assenti dai manuali in adozione. Confronto plurale, senza bavagli. Già perché noi del “Garibaldi” avevamo dovuto pubblicare il giornalino d’istituto con spazi ostentatamente bianchi, traccia polemica dei tagli imposti dalla presidenza (più dal vicario, il terribile Mimì Geraci, che dal dirigente titolare, il remissivo Pasquale Tullio) scandalizzata per qualche parola proibita (“lsd”, “streap-tease”, “masturbazione”…). Sotto la scure della censura preventiva erano finiti articoli, poesie e fotografie di Franco La Cecla, Junia De Mauro, Annamaria Battaglia, Emilio Arcuri…Per l’anno scolastico ’67 – ’68 venne a dare manforte al gruppetto redazionale, diretto con piglio manageriale da Antonio Calabrò, uno studente del “Parini” di Milano, perché il padre – Carlo Alberto Dalla Chiesa – era stato trasferito a dirigere il Comando dei carabinieri della caserma “Carini”. Nando portava  l’esperienza – nota in tutta Italia - della vivace, e censuratissima, “Zanzara”.
Poi arrivò il Sessantotto e travolse, insieme ai retaggi del passato, anche pagine come “L’Ora-scuola”, giudicate tutto sommato troppo ‘riformiste’ e poco ‘rivoluzionarie’. Quando organizzammo la prima assemblea di base, ovviamente in ore pomeridiane, la polizia politica  venne a schedare i tre pericolosi sovversivi che ne avevamo la regia. Occupare o no? Ci si divise e vinse la mozione, favorevole, di Claudio Riolo e di Pompeo Macaluso. Per rispetto della democrazia, anche i contrari accettammo di occupare. Ma irremovibili sulla necessità di creare gruppi di studio, di non sprecare il tempo inutilmente. Alla fine, il gruppetto su “Filosofia e contestazione” elaborò alcune relazioni sui progetti politici di Mazzini, La Pira, Marcuse. E fu il quotidiano “L’Ora” - se non ricordo male, in particolare su proposta dell’avvocato Sorgi – a raccoglierle in un opuscolo stampato gratuitamente. Ancora una volta, il quotidiano cittadino della sera dava una mano alle generazioni scalpitanti. Ma il rapimento di De Mauro, gli attentati mafiosi, soprattutto le lacerazioni interne alla sinistra - e il declino del PCI in particolare - avrebbero lentamente seppellito i fermenti, ingenuamente generosi, di quegli anni. Dopo alcune chiusure provvisorie, sarebbe arrivata la fine definitiva. Per tanto tempo, passando da via Stabile, abbiamo gettato uno sguardo nostalgico sulla palazzina disabitata, un tempo così animata.
E’ di questi giorni la notizia che l’edificio è in vendita e che, forse, diventerà un centro commerciale. La città, e in particolare l’amministrazione comunale, consumerà questo ennesimo atto di masochismo? Cancellerà – o lascerà che altri cancellino – ogni traccia di un quotidiano che generazioni di siciliani (e non solo di siciliani) attendevano per sapere le notizie che gli altri quotidiani regionali ignoravano? Non c’è proprio modo di organizzare una sinergia fra Regione, Provincia, Comune e società civile in modo da fare della sede de “L’Ora” un archivio, uno spazio espositivo, un museo della mafia e dell’antimafia, la casa delle associazioni senza fini di lucro;  qualcosa, insomma, che non sia l’ennesimo McDonald?

Augusto Cavadi

mercoledì 26 gennaio 2005

LE RADICI COMUNI


“Repubblica – Palermo” 26. 1. 05
Augusto Cavadi 

Quel dialogo aperto fra ebrei e cristiani 

Quando usiamo olocausto (traduzione maldestra  dell’ebraico shoah) per denominare lo sterminio dei campi di concentramento nazista, non capiamo bene cosa diciamo. Ebrei contemporanei lo fanno notare: ‘olocausto’ è un’offerta sacrificale col quale l’uomo crede di onorare la maestà divina, ma un Dio che abbia potuto gradire  simile omaggio o non esiste o non merita di essere adorato. Restituita alla laicità della storia, la tragedia del popolo ebraico non appare meno orribile. Come può essere accaduto? Nessuno ha risposte esaurienti. Ma almeno questo si può dire: eventi di questa portata non sono mai improvvisi come uno tsunami.  Ci son voluti venti secoli di incomprensioni, maldicenze, persecuzioni perché – come per una china sinistra – la palla di neve dell’anti-ebraismo diventasse la valanga del genocidio. Affinché l’orrore non si ripeta – alcuni episodi di cronaca ci avvertono che niente è troppo assurdo per essere rivissuto – possiamo solo sobbarcarci la via lunga di una conversione culturale che rimetta in discussione pregiudizi bimillenari .

La necessità di riprendere il dialogo fra cristiani ed ebrei  - avvertita in tante aree del pianeta – è particolarmente urgente nel Mediterraneo: noi siciliani l’abbiamo interrotto sin dal XV secolo quando i cattolicissimi regnanti spagnoli (da cui dipendevamo) hanno delicatamente offerto alle comunità ebraiche la scelta fra convertirsi o emigrare.Ed è per questo particolarmente significativo che proprio recentemente l’aula magna del Centro educativo ignaziano (ex Istituto Gonzaga) si sia gremita per  ascoltare il vulcanico rabbino di Ferrara, Luciano Caro. Il Centro pastorale diocesano per l’ecumenismo ed il Segretariato per le attività ecumeniche hanno organizzato questo incontro nella consapevolezza che cristianesimo ed ebraismo possono cessare di costituire coperture ideologiche per tensioni politiche solo se  ricominciano a parlarsi. E ciò non è per nulla facile.Vi si oppone - come è ovvio - l’atteggiamento regressivo dei fondamentalisti di ogni confessione religiosa (ebrei, cristiani o islamici che siano) che hanno paura di aprire gli occhi sulla storia e sulle ragioni degli altri. Vi si oppone altresì – e questo è un po’ meno ovvio -  l’atteggiamento, solo apparentemente progressista, dei ‘laicisti’ che ostentano, con soddisfatta sufficienza, totale ignoranza in campo teologico. Invertire l’andazzo attuale – dunque contrastare l’analfabetismo galoppante su tutto ciò che riguarda il fenomeno religioso – si scontra poi, in Italia, con difficoltà specifiche. Sappiamo infatti che – a causa del Concordato -  alla libertà ‘formale’ di studiare ciò che si vuole corrisponde, nei fatti, una drastica ristrettezza mentale: nelle università statali è impossibile studiare teologia e nelle scuole - elementari e medie – si può studiare (eccezion fatta per  pochi docenti illuminati che non rispettano alla lettera i programmi ufficiali) solo teologia cattolica. Anzi, in verità, neppure questa perché  dalla pratica didattica della stragrande maggioranza degli insegnanti di religione (col pieno appoggio dei colleghi e dei dirigenti scolastici)  sono scomparse letture bibliche e chiarimenti dottrinari, allegramente sostituiti da test psicologici sull’affettività e raccolta di carta usata per i barboni.Se la ricerca teologica fosse davvero ‘libera’ (dunque praticabile oltre i recinti delle università pontificie - controllate dal papa - e degli istituti di scienze religiose diocesani - controllati dai vescovi) e se i suoi risultati potessero agevolmente arrivare ai docenti che occupano le cattedre sparse sul territorio nazionale (attualmente insegnanti di  ‘dottrina cattolica’ dipendenti direttamente dall’autorità religiosa locale; in ipotesi insegnanti di ‘storia delle religioni’ dipendenti esclusivamente dal Ministero dell’istruzione), avremmo le condizioni necessarie per rivedere molti ‘luoghi comuni’ ormai radicati nell’immaginario collettivo.Tra i pregiudizi che regnano indisturbati in proposito s’incontra  la convinzione che ebraismo e cristianesimo siano stati – sin dalle origini – due ‘religioni’ ben delineate e nettamente contrapposte. Per circa due millenni si sarebbe sviluppata e consolidata la religione ebraica; poi sarebbe arrivato un certo Gesù che – spiazzando discepoli e avversari – avrebbe dichiarato di essere Dio in terra e di voler fondare una nuova religione. In pochi anni gli astanti avrebbero preso posizione: alcuni tradizionalisti si sarebbero confermati nelle loro posizioni ebraiche, altri più aperti avrebbero abbracciato il cristianesimo e volto definitivamente le spalle alla religione dei  padri. Con tutte le conseguenze dolorose che, in venti lunghi secoli, la storia ha abbondantemente testimoniato.Ma le cose sono andate davvero così?Come ho potuto apprendere, partecipando ad un seminario nazionale organizzato a Napoli su iniziativa della Facoltà teologica dell’Italia Meridionale e dell’Università “Federico II”, gli storici del cristianesimo sono arrivati a conclusioni parecchio diverse. Per riprendere le parole di uno di loro, Sergio Tanzarella, “l’idea tradizionale che individuava in Gesù il fondatore del cristianesimo quale religione già sostanzialmente distinta dal giudaismo oggi è decisamente revocata in dubbio. Quelle che venivano presentate tendenzialmente come due realtà monolitiche, separate e contrapposte sin dall’inizio, hanno rivelato un volto più pluralistico e un patrimonio comune di gran lunga più ampio di quanto non si sospettasse. Oggi difficilmente si può più dubitare che il variegato movimento messianico animato dalla fede in Gesù di Nazareth abbia costituito una corrente interna al giudaismo”.   Se storicamente i fatti si sono svolti così, il cristiani non possono guardare agli ebrei come a “deicidi” di cui diffidare: bensì come a fratelli maggiori, forse meglio come ai genitori da cui hanno tratto origine. Essere cristiani non può comportare il rinnegamento delle radici giudaiche perché è uno dei modi (originale per quanto si voglia) di essere ebrei. Questa consapevolezza non ha nulla a che fare con l’indulgenza nei confronti dello Stato d’Israele attuale: se mai, legittima ulteriormente la protesta contro comportamenti politici in contraddizione con la storia di un popolo tanto  a lungo – e tanto ingiustamente – perseguitato. E la stessa figura del Maestro va rivisitata, anche a costo di ridimensionarne i tratti mitici posteriori. Una sana demitizzazione non può che aprire spazi al dialogo fra le religioni e, conseguentemente, fra le civiltà da esse profondamente contrassegnate. Il futuro politico dell’umanità non può che guadagnarci. E Dio, se c’è, altrettanto.                       

venerdì 21 gennaio 2005

CHIESA E MAFIA


“Centonove” 21.1.04

 Pentito in sagrestia

Il dibattito, ormai pluriennale, sui pentiti di mafia ha attraversato in queste settimane una nuova tappa. In una chiesetta alle spalle del teatro Massimo di Palermo, il rettore don Francesco Conigliaro (che è anche docente di filosofia politica all’Università statale) ha ospitato una tavola rotonda sull’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dei mafiosi che dichiarano di volersi dissociare dalle cosche di appartenenza. Le relazioni iniziali sono state tenute da p. Nino Fasullo, direttore della rivista “Segno”; da don Giacomo Ribaudo, parroco della “Magione” e da don Cosimo Scordato, docente presso la Facoltà teologica di Sicilia. Il compito di moderare il dibattito, ma anche di introdurlo richiamando alcune vicende significative, è stato affidato a don Francesco Michele Stabile, parroco a Bagheria e anche docente di storia della Chiesa.

Convitato di pietra il mafioso – e studioso di teologia cattolica – Pietro Aglieri. Egli, più e meglio di altri ‘colleghi’, ha infatti teorizzato la decisione personale di dissociarsi dall’organizzazione criminale di provenienza senza, per questo, collaborare attivamente con gli organi giudiziari. Che pensare di casi simili? Il pentimento interiore può non comportare un passare sul fronte opposto, dalla parte dello Stato e delle sue leggi?

Per ragioni opposte, né p. Fasullo né don Ribaudo hanno mostrato dubbi, esitazioni. Per il primo, infatti, non c’è alcuna possibile distinzione fra reato (rispetto al codice penale) e colpa (rispetto al codice morale): chi non accetta i meccanismi giudiziari statuali per ciò stesso mostra di non essere realmente pentito. Per il secondo, invece, sarebbe del tutto logica – ed eticamente coerente – la scelta di chi chiedesse sinceramente il perdono di Dio ma non volesse contribuire, con le proprie dichiarazioni, a individuare gli ex-complici e le loro responsabilità penali.

Più problematica, invece, la posizione di don Cosimo Scordato. Come tutte le persone veramente intelligenti, egli ha mostrato di sapere che per ogni questione si danno risposte semplici e risposte complesse: e che le prime risultano, di solito, sbagliate. Egli non ha negato la distinzione, faticosamente guadagnata dalla coscienza moderna almeno da Kant in poi, fra ‘reato’ in senso giuridico e ‘peccato’ in senso morale. In linea teorica, non si può escludere né un pentito sincero che si rifiuti di collaborare con la giustizia umana né un collaboratore di giustizia efficiente che, nell’intimo, non sia per nulla pentito. In concreto, però, si tratta di accompagnare un eventuale pentito (nell’accezione evangelica) in un cammino religioso che, proprio in quanto religioso, non può non coinvolgere la sfera sociale e istituzionale. Nell’ottica cattolica, in particolare, la relazione fra il singolo e Dio passa attraverso la mediazione storica, visibile e tangibile, di una comunità: chi pretenda di amare il Dio che non vede e non dà segni di concreta solidarietà coi fratelli che vede (in questo caso, soprattutto, con le vittime dei delitti di mafia già avvenuti o in cantiere), è – oggettivamente – un bugiardo.

La successiva discussione ha sollevato questioni che meriterebbero di essere riprese una ad una ed esaminate partitamente.  Per ovvie ragioni mi limito qui, come durante il dibattito, ad alcune notazioni telegrafiche.

La prima riguarda l’impostazione stessa di queste iniziative. Esse presuppongono una sorta di polarità duale: o l’azione legale-repressiva dello Stato o l’azione morale-persuasiva della Chiesa. Ma è davvero così? O non è possibile immaginare dei percorsi ‘laici’ di dialogo con gli uomini e le donne più o meno inestricabilmente coinvolti nel sistema mafioso? E’ quanto, da più di un anno, sta tentando un Gruppo di lavoro su “La nonviolenza e il superamento del sistema mafioso” coordinato da Enzo Sanfilippo e Andrea Cozzo (vedi il documento costitutivo e altri testi integrativi sul sito www.centroimpastato.it): gruppo di lavoro in cui si ritrovano, fianco a fianco, persone di diversa formazione culturale e che cercano una piattaforma, teorica e operativa, del tutto ‘aconfessionale’ (secondo quella interpretazione della filosofia e della pratica nonviolenta che lo stesso Andrea Cozzo ha illustrato nel suo recente volume, presentato da me su questa stessa rivista, Conflittualità nonviolenta, Mimesis, Milano 2004). Insomma: non tutto quello che non è segnato confessionalmente è, per ciò stesso, amorale. Né si deve riservare alla Chiesa cattolica – o, più in generale, alle comunità religiose – l’esclusiva delle strategie etiche e pedagogiche di lungo respiro. La dimensione ‘spirituale’ (se liberata da ogni accezione riduttiva che la identifichi con l’incorporeo, l’immateriale, lo  ‘spiritualistico’), prima di qualificarsi come ‘cattolica’ o ‘buddhista’, è costitutivamente antropologica: e, perciò, universale. Ben vengano, dunque, tutte le iniziative - da parte di comunità cattoliche e istituzioni religiose – miranti ad aprire, con i mafiosi e con i loro familiari, spazi di dialogo; ma senza con ciò ritenere chiuso lo spettro delle ipotesi e senza attivare, conseguentemente, altri spazi (filosofici, etici, artistici, musicali, psicologici, sociologici….) di riflessione e di confronto in cui il linguaggio dello Spirito provi ad essere articolato in alfabeti diversi rispetto al teologico - confessionale.

Una seconda osservazione riguarda l’ambito più propriamente ecclesiale – cattolico. Se reato e peccato non vanno identificati, ma neppure separati, la parentela fra la dimensione legale e dimensione etica dell’agire non comporta un alleggerimento della responsabilità del ‘credente’. Se mai, un aggravamento. Chi si muove nella consapevolezza della valenza giuridica e morale del proprio agire, dovrebbe avvertire ragioni in più  - non certo in meno – per stare attento a scelte, atteggiamenti, gesti…Così, ad esempio, se sei un ministro ordinato che, come p. Frittitta, viene chiamato a colloquio da un latitante come Aglieri, devi concentrarti attentamente per non diventare – anzi, per non sembrare neppure – uno strumento di manovre illecite. Come è noto, il padre carmelitano della Kalsa, in appello è stato dichiarato innocente: e ciò non può che far piacere. Ma non va dimenticato che a chiederne l’imputazione – e ad ottenerne, in primo grado, la condanna – non sono stati giudici ‘cattivi’ o ‘atei’. Essi avevano avuto notizia di vari presbiteri cattolici che si erano prestati a soccorrere religiosamente Aglieri ed altri latitanti e per nessuno di questi avevano mai chiesto l’attivazione del processo giudiziario. Se si sono decisi nel caso del solo p. Frittitta, ciò è stato perché  - a ragione o, sino a questo momento, a torto – avevano ritenuto che quel prete si fosse prestato, ben oltre i propri doveri di stato, a svolgere mansioni di collegamento con l’esterno che in nessun modo potevano configurarsi come compiti istituzionali. Similmente, se sei il leader di un partito cattolico,  devi concentrarti attentamente per non diventare – anzi, per non sembrare neppure – uno strumento di manovre illecite. L’attuale presidente della Regione siciliana, infatti, al di là – o al di qua – di possibili esiti giudiziari, risulta in rapporti amichevoli con una serie di personaggi più o meno inquinati: come può conciliarsi questa spregiudicatezza quotidiana con le dichiarazioni di fede religiosa di cui è puntellata la sua azione amministrativa? Un amico del Padreterno, un fedele collaboratore di Gesù Cristo, un devoto ammiratore della Madonna può essere, contemporaneamente e senza travagli interiori, amico di deputati corrotti, di poliziotti ricattatori, di imprenditori in odor di mafia? O non può darsi – come mi ha fatto notare nel corso di un dibattito pubblico una signora musulmana trapiantata in Sicilia – che un oscuro destino pesi su un cognome (Cuffaro) che in arabo significherebbe l’ateo, colui che non crede in nulla? Al di là delle osservazioni semiserie, resta un dato oggettivo per nulla umoristico: il silenzio del mondo ecclesiale siciliano davanti alla certezza che uno dei suoi ‘figli’ costruisca le proprie fortune elettorali in una rete di amicizie compromettenti. Qualche vescovo, qualche prete, meglio ancora qualche comunità ecclesiale o movimento  cattolico non dovrebbe rompere questo silenzio assordante e dichiarare, a chiare lettere, che gli amici dell’amico Cuffaro non sono suoi amici?

Augusto Cavadi

martedì 18 gennaio 2005

L’INSEGNAMENTO DI BOBBIO


“Repubblica- Palermo” 18.1.05

UN CONVEGNO IN RICORDO DI BOBBIO, GUIDA CORAGGIOSA

Dieci anni fa Norberto Bobbio si chiedeva se avesse ancora senso, nel linguaggio politico, la differenza fra ‘destra’ e ‘sinistra’. Alla domanda - talora formulata con accenti qualunquistici (“Per programma e per pratica di governo si equivalgono”), talaltra con più sofferta consapevolezza (“Le decisioni ormai si prendono a Bruxelles: è irrilevante sapere chi esegue in periferia”) – non sono state ancora date risposte definitive.

Sulla base delle vicende siciliane, poi, si sarebbe tentati di gettare la spugna: consiglieri spiritual-politici di Leoluca Orlando (per i quali il sospetto era l’anticamera della verità) che, vinti dalla sete di verità,  passano dall’anticamera al salotto buono dei nuovi padroni; senatori della “Rete” che, dopo aver per anni criticato da sinistra comunisti e post-comunisti, provano a riciclarsi in ambienti conservatori; giovani figlie d’arte che - fattesi le ossa combattendo la mafia a fianco di Violante, Caselli e don Ciotti – ritengono opportuno tentare di mettere a servizio dell’assemblea regionale l’esperienza acquisita candidandosi nel partito di Berlusconi, Previti e Dell’Utri; assessori all’agricoltura in governi di centro-sinistra che diventano presidenti di regione in successivi governi di centro-destra; battaglieri sindacalisti che  passano magnanimamente la fiaccola di difensori dei lavoratori per approdare al parlamento non senza essersi dichiarati (in pochissimi anni) prima di centro, poi di centro-destra e infine di centro-sinistra; luminari della medicina contemporanea che, abbagliati sulla via di Damasco, non hanno bisogno di nessuna pausa di riflessione per accettare una candidatura a Strasburgo nelle liste dell’Ulivo dopo aver appena lasciato alle spalle la Casa delle libertà….Insomma: a credere che il “pensiero unico” non abbia già stravinto sono rimasti in pochi. Intellettuali astratti, giovani idealisti new global, padroncini del Nord – Est padano. Per tutti gli altri, che sanno come va il mondo e che evitano le posizioni estremiste, vale l’antica saggezza meridionale: “Francia o Spagna purché se magna”.

Il vecchio Bobbio, comunque, non la pensava così e sino alla morte – avvenuta proprio un anno fa – si arrovellava il cervello nella convinzione che lottare per l’uguaglianza dei cittadini (anche a costo di limitare la libertà dei privati) significhi essere di ‘sinistra’ e che lottare per la difesa dei diritti privati (anche a costo di accettare delle ineguaglianze sociali)  significhi essere di ‘destra’. Il fatto che la cronaca sembra dargli torto non esclude, di per sé, che la storia possa dargli ragione.

Su questa sua testarda ossessione – e, più in generale, sulla sua figura nella cultura politica italiana del Novecento – sono stati invitati a Palermo alcuni studiosi che, per varie ragioni, gli sono stati intelligentemente (dunque: criticamente) vicini: il filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri (dell’Università di Firenze), il politologo Angelo D’Orsi (dell’Università di Torino), lo storico Salvatore Lupo (dell’Università di Palermo) e l’editore Carmine Donzelli (che opera a Roma).
L’appuntamento è per le ore 16 di martedì 18 gennaio 2005 presso l’Aula Magna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo
(promotrice, con la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”, dell’iniziativa).

Ovviamente rivisitare Bobbio non può significare soltanto cercare un criterio orientativo per capire se davvero ad ogni scadenza elettorale siamo condannati, secondo la fortunata formula di Marco Revelli, a optare fra “due destre”: il pensatore torinese ha spaziato, con invidiabile lucidità mentale, in lungo (attraverso la storia) e in largo (interessandosi alle vicende del pianeta), confrontandosi con temi davvero universali (dai diritti dell’uomo alla possibilità di una ‘guerra giusta’, dalle virtù etiche civili alle regole della democrazia). Quando ne ha avuto l’occasione, non si è sottratto neppure agli interrogativi esistenziali più indiscreti, da cosa significhi ‘fede’ per un laico a cosa si possa sapere del destino ultra-terreno. Su ogni questione, non ha mai espresso un’opinione senza prima riferire – con rispetto – le altrui, specie se contrastanti. E quando ha ritenuto, infine, di sbilanciarsi per questa o quell’altra soluzione, lo ha fatto sempre sottovoce: convinto che si può dubitare di tutto, tranne che dell’umana fallibilità.

Queste connotazioni del suo stile intellettuale lasciano intuire facilmente l’essenziale del suo carattere. Una mia cara amica, anche essa recentemente scomparsa, avendo letto De senectute  - il libro che Bobbio volle dedicare alle poche luci e alle molte ombre della vecchiaia – e sentendosene intimamente coinvolta, non seppe trattenersi dal desiderio di scrivergli una lettera per ringraziarlo. Paola era convinta che il celebre filosofo, lontano e affaticato, avrebbe appena avuto modo di dare una scorsa alla missiva. Non fu così. Secondo il suo signorile costume, Bobbio trovò il tempo per rispondere alla sconosciuta, anziana lettrice con cui condividere la soddisfazione per una vita spesa intensamente. E la serena attesa di un compimento ormai prossimo.

Augusto Cavadi