mercoledì 29 giugno 2005

L’ANNIVERSARIO DELL’OMICIDIO DI ANTONIO BURRAFATO


“Repubblica – Palermo”  29.6.05

L’eroe dell’antimafia quotidiana
di Augusto Cavadi


Se avesse alzato le spalle come fa la maggior parte di noi – le regole vanno bene in generale: ma ogni caso è un caso a sé e se si pecca di pignoleria, vuol dire che uno i guai se li cerca proprio…- oggi sarebbe un attempato pensionato ottanduenne. Ma era uno dei pochi siciliani anomali per i quali le leggi valgono per tutti, delinquenti e prepotenti inclusi: persino per i mafiosi come Leoluca Bagarella. Perciò ritenne ovvio farle valere: persino nel carcere “Cavallacci” di Termine Imerese dove era addetto all’ufficio matricola. Altrettanto ovviamente il sistema giudiziario ‘parallelo’, in pochi giorni, emanò la sentenza e la eseguì con tempestività impensabile per gli apparati statali. E il sottufficiale degli agenti di custodia Antonino Burrafato, di anni 49, fu assassinato nella piazza di S. Antonio alle 15.30 del 29 giugno 1982. 

Assediati dalle emergenze, che si accavallano come ondate successive in un incubo onirico, è facile dimenticare questi volti, queste storie. E’ comprensibile che , a trentatré anni di distanza,  si lasci lentamente affondare, nel mare dell’oblìo, la memoria di questa ennesima vittima ‘minore’ della guerra contro il sistema mafioso: comprensibile, non giustificabile. E’ ingiusto nei suoi confronti, ma  - forse ciò è meno evidente – è anche autolesionistico. Si perdono molti spunti di riflessione. E di azione operosa.

Innanzitutto si perde l’occasione per dire a noi stessi, prima ancora che agli estranei, che gli ultimi centocinquant’anni sono stati punteggiati non solo da grossi e piccoli mafiosi, ma anche da celebri e meno celebri antimafiosi. Come la mafia non sopravviverebbe se non fosse alimentata ogni giorno da relazioni d’interesse, compromessi, clientelismi, vigliaccherie, carrierismi…così le ragioni dell’antimafia sarebbero state del tutto spacciate senza la resistenza quotidiana e invisibile di scelte coraggiose, di accettazione dell’isolamento, di rifiuto del conformismo, di rinunzia ad arricchimenti illeciti. Solo qualche ora fa un giovane disoccupato – che è riuscito da poche settimane ad avere in affidamento un piccolo appezzamento di terreno alle porte di Palermo dove provare a piantare qualche verdura e qualche pomodoro – mi confidava che, al secondo o terzo giorno, si è visto accostare da un vicino che gli ha spiegato che, in zona, “i picciotti  vogliono mangiare pure loro”. Forse per dignità, forse per disperazione, la risposta è stata pronta e decisa: “Può dire ai picciotti che sto dando sangue per i miei tre figli e non ne ho per loro. Mi ammazzino pure”. Non ho idea se questa dichiarazione sia del tutto eccezionale o si sommi a decine, centinaia di casi analoghi che restano sommersi e sconosciuti; ma sono sicuro, come lo sono i ragazzi di “Addiopizzo”, che è proprio a questo livello di eroismo ‘normale’, feriale, che si gioca la partita. E’ su questo zoccolo duro che politica, magistratura, forze dell’ordine devono chinarsi e accendere qualche faro: perché nessun leader carismatico (di cui, peraltro, il panorama attuale non sembra particolarmente affollato) ha mai potuto sostituire la mobilitazione convinta e capillare di una popolazione.

Sfogliando il libro che, due anni fa, il figlio Salvatore, Nicola Sfragano e Vincenzo Bonadonna hanno dedicato alla vicenda di Burrafato (Un delitto dimenticato, La Zisa editrice) si può ricevere almeno un secondo stimolo: a focalizzare l’universo, ancora troppo poco trasparente, degli istituti di pena. Anche senza essere specialisti in materia, s’intuisce la difficoltà di coniugare l’esigenza sacrosanta di isolare i condannati più pericolosi e influenti (vedi 41 bis) con l’esigenza, non meno impellente, di attivare percorsi rieducativi (a meno di non rassegnarsi alla concezione barbarica della galera come gabbia per belve irredimibili). Anche su questi temi si è cercato di riflettere, alcune settimane fa, durante un convegno nazionale a Baida su “Mafia e nonviolenza”. E arrivando alla conclusione che una scommessa così difficile non può essere delegata esclusivamente agli operatori del settore pur di  consentire, al resto della società, di scrollarsi ogni responsabilità, di rimuovere dubbi e scartare senza perderci troppo tempo ipotesi alternative. In particolare ci si potrebbe chiedere se sia moralmente e strategicamente accettabile scaricare sulle spalle degli agenti di custodia l’intero peso del rapporto diuturno con la moltitudine variegata dei rei di delitti più efferati. Con un solo, identico gesto - volgendo lo sguardo altrove – abbandoniamo in uno stesso spazio concentrazionario carcerieri e carcerati, custodi e custoditi, eludendo le domande più scottanti: quali garanzie di sicurezza, quale formazione professionale, quale soccorso psicologico ed etico vengono approntati, in via ordinaria,  per i lavoratori in divisa che devono gestire il faccia-a-faccia con i mafiosi, i loro familiari, i loro complici, i loro amici? O abbiamo già deciso di condannarli alla tragica alternativa di diventare duri come carnefici o inermi come carne da macello?

Augusto Cavadi

domenica 26 giugno 2005

AMMINISTRAZIONE CITTADINA


“Repubblica – Palermo” 26.6.05

Augusto Cavadi


LA FARSA PALERMITANA DEL DIFENSORE CIVICO

Domanda: è vero che nella lotta contro il sistema di potere mafioso e per la legalità democratica non si deve fare differenza fra forze di centro-destra e forze di centro-sinistra? Risposta: dipende. Dipende dal punto di vista, dal livello della discussione. Sul piano teorico, dei princìpi, ovviamente è affermativa: la mafia è mafia e chi non intende tubare con i criminali che la costituiscono dev’essere riconosciuto, sostenuto, collaborato. Anche se si tratta di un esponente politico conservatore. Questa asserzione di principio va però verificata di caso in caso: non chi dice che la mafia va combattuta può, per questa sola dichiarazione, passare per antimafioso. E ciò vale, evidentemente, per qualsiasi esponente politico: anche riformista, anche rivoluzionario, anche estremista di sinistra.

Se applichiamo questi criteri di giudizio all’amministrazione comunale, scopriamo  - o riscopriamo – delle cosette interessanti.

Come molti ricorderanno, il sindaco Cammarata spiazzò non poco l’opinione pubblica (addirittura nazionale!) istituendo sin dal suo insediamento un Assessorato alla Trasparenza. Per la verità, la decisione si prestava a qualche osservazione ironica: lasciava sospettare, o temere, che gli altri Assessorati  avessero l’intenzione programmatica di non essere…’trasparenti’. In che stato d’animo entrerebbero i pazienti di un Policlinico se sapessero che è stato necessario aprire – accanto ai vari Istituti di medicina esistenti – anche un Reparto per la buona cura e la pronta guarigione dei malati? Ma ogni germe di ironia fu spazzato via dalla sorpresa, ancor più stupefacente, del nome dell’Assessore: ad una poltrona che, se rettamente interpretata, avrebbe dovuto controllare l’operato di tutta la giunta municipale veniva chiamato Michele Costa, avvocato, figlio di un Procuratore della Repubblica assassinato dalla mafia e di una indomita parlamentare del PCI. Una foglia di fico prestigiosa per coprire operazioni molto meno eccellenti? Le interpretazioni possono essere molteplici ma il dato di fatto oggettivo è che Costa, a un certo punto, ha gettato la spugna. E da allora, molti mesi fa, Palermo non ha più un Assessore alla Trasparenza. Inevitabile la curiosità: se era necessario allora, perché non lo è più adesso? E se adesso risulterebbe un ornamento superfluo, perché presentarlo allora come una cosa seria?

Non vanno meglio le cose se si osserva l’URP (Ufficio per le relazioni con il pubblico): ridotto a funzionare al minimo, senza neppure una di quelle iniziative (sondaggi di opinione fra i cittadini, ispezioni per verificare l’efficienza di strutture sociali comunali come gli asili…) che caratterizzano gli uffici omologhi di altre metropoli e che, sulla carta, apparterrebbero ai compiti istituzionali anche dell’ufficio palermitano.

Che dire del sito Web del Comune? Delibere ed atti ufficiali del sindaco e della giunta sono soltanto elencati per titoli. Forse ho cercato male, ma non ho trovato neppure un testo integrale di contratto, di convenzione, di finanziamento. Siamo alla parodia della trasparenza amministrativa.

Un altro picco di spregio dell’intelligenza media dei cittadini è stato toccato dalla vicenda – su cui è tornato altre volte nella sua rubrica in questo foglio Lino Buscemi – del difensore civico. Palermo è rimasta una delle poche città italiane, anzi addirittura siciliane, a non averne nominato ancora uno. Adesso l’Assessorato regionale agli Enti Locali ha lanciato una sorta di ultimatum, imponendo a tutto il Consiglio comunale di rompere gli estenuanti indugi. Una richiesta sacrosanta, bisogna riconoscerlo: un organo di garanzia indipendente costituirebbe un contributo concreto, effettivo, a colmare il deficit di legalità e a ridurre i margini di discrezionalità di politici e burocrati. Ma riusciranno i nostri eroi a non disertare questo ennesimo appuntamento? Persone ben informate ci hanno confidato le loro forti perplessità. In quasi tutti i consiglieri comunali, forse addirittura in tutti, manca una chiara ottica da cui affrontare la questione. Dal Palazzo delle Aquile partono telefonate in cerca di consulenza legale: il difensore civico deve essere vicino alla maggioranza o all’opposizione? Dev’essere necessariamente uno, o possono essere anche due o tre, in modo da rappresentare un po’ tutte le formazioni partitiche? Girano anche i primi nomi. In qualche caso nomi discutibili, in altri al di sopra di ogni sospetto. In nessun caso di persone professionalmente qualificate, tecnicamente competenti, eticamente motivate, ma equidistanti da ogni schieramento politico.  Con questo metodo, però, non si andrà lontano. Palermo ha bisogno di un difensore civico che abbia un solo committente – la cittadinanza in quanto tale  – ed un solo obiettivo: stroncare il clientelismo di ogni colore, polmone d’acciaio che solo può tenere in vita il sistema di  dominio mafioso.