venerdì 30 settembre 2005

LA FEDE PROBLEMATICA


IL TRAVAGLIO DI UN MONSIGNORE

Centonove 30.9.2005

Per almeno un ventennio - gli anni Sessanta e Settanta del secolo appena conclusosi – difficilmente si sarebbe trovato a Palermo uno studente liceale o universitario che non avesse partecipato ad almeno un incontro nella “Sede di don Elio Parrino”, nell’aristocratica Villa Pottino di viale della Libertà. Era un po’ il pendant del Manifesto (poi Gruppo Praxis) di Mario Mineo: l’una nell’area cattolica, l’altro nella marxista, si interpretavano come la coscienza critica di masse ritenute inconsapevoli. Non senza motivi, in caso di conversione dall’una o dall’altra parte, i frequentatori di un circolo preferivano transitare nel circolo speculare. Quei ragazzi si sono poi sparpagliati nel mondo e non pochi hanno raggiunto posizioni di prestigio, dal Parlamento di Strasburgo al Consiglio di Stato, dalla RAI ai piani alti dei Ministeri. Anche quella piccola organizzazione giovanile ha fatto la sua strada: diventando prima la sezione palermitana della FUCI (Federazione Universitari Cattolici Italiani), poi il “Centro di formazione cristiana”. All’inizio degli anni Ottanta, quando ormai gravitavano intorno ad essa centinaia di uomini e donne (ed alcuni soci avevano già realizzato un’esperienza di vita comunitaria, nel nome di San Tommaso d’Aquino), una scissione interna ne ha provocato l’eclissi dal panorama sociale e culturale cittadino.  

Che ne è stato di quel nucleo originario di fedelissimi discepoli del “padre fondatore”? L’evoluzione, per certi versi strabiliante, viene raccontata dallo stesso Monsignore in un libro pubblicato in questi giorni da una casa editrice di cui inaugura l’attività editoriale (E. PARRINO, Logos e koinonia. Per una vita consapevole e condivisa, Edizioni Logos e Koinonia, Palermo 2005, pp. 286, euro 15,00). Nell’immaginario collettivo della mia generazione quell’insegnante di religione al Liceo Garibaldi era un po’ l’emblema dell’ortodossia intransigente, geloso custode dei dogmi e dell’interpretazione tomistica che ne davano teologi e filosofi soprattutto francesi (Jacques Maritain ed Etienne Gilson in primo luogo);  e la sua comunità ha ospitato, per conferenze e seminari,  alcuni dei massimi esponenti del pensiero cattolico ufficiale (Divo Barsotti, Ignace de la Potterie, Salvatore Garofalo, Georges Cottier…). Ma tanta fedeltà alla Tradizione avveniva in nome di un principio metodologico basilare: la consapevolezza critica. Credere sì, ma solo se – e per quel tanto che – un sano esercizio della ragione ne avesse consentito lo slancio al di là dei dati empirici e dei fatti storici. Ebbene, apprendiamo da questo libro che l’autore e le persone che gli sono rimaste accanto hanno portato alle estreme conseguenze logiche quel criterio di ricerca: arrivando alla conclusione che le verità essenziali del messaggio biblico (c’è un Dio che ama l’uomo e che si è manifestato in maniera singolare nell’uomo di Nazareth) sono state, in questi due millenni, sovraccaricate da una massa schiacciante di superfetazioni, credenze, riti e precetti. Per chi dedica la vita allo studio della Bibbia e della storia della teologia, “scoprire di trovarsi di fronte a gratuite manipolazioni e arrangiamenti, quando si tratta della realtà di Dio, diventa veramente un’esperienza deludente, se non addirittura traumatizzante e scioccante. Imbattersi nelle innumerevoli debolezze umane dei rappresentanti qualificati della religione, siano essi membri del clero o laici rappresentativi delle istituzioni, diventa una cosa di ben poco conto, sapendo in fondo che siamo tutti poveri uomini impastati in un certo modo (…). Ma trovarsi ad essere presi in giro da costruzioni artificiose di un’ideologia religiosa che può essere frutto di fanatismo, come soltanto anche frutto di una suprema leggerezza, o forse anche, e questo è un fenomeno estremamente frequente, trovarsi di fronte a gente che crede di rendere le cose o più semplici o più gradevoli, banalizzando le cose fino all’estremo della sopportabilità, e tutto questo spesso appoggiato e avallato dal crisma dell’autorità che non è altro che autoritarismo che scaturisce dall’arroganza e dall’ignoranza, va al di là di ogni possibile pazienza e sopportazione umana” (p. 192).

Da qui la decisione di lasciarsi alle spalle le vecchie strutture cattoliche e di fondare un’associazione laica  che sin dal nome (“Logos e koinonia”) faccia intuire le finalità: studiare tutta la cultura, non solo teologica, dell’Occidente e salvare, in un’esperienza di condivisione esistenziale, le perle tuttora valide che possono rintracciarsi in un fiume per molti versi melmoso e inquinato.

Ci si augurar che il tentativo del prete ormai ultrasettantenne e dei suoi amici vada in porto: in tempo di povertà intellettuale, ogni mattone può servire a costruire un futuro più civile. Ma non ci si può nascondere le ragioni di perplessità sulla riuscita dell’iniziativa, sintetizzabili in una considerazione di fondo: nel volume è quasi del tutto assente la prospettiva del ‘noi’. La proposta viene presentata come frutto dell’illuminazione privata, individuale, carismatica di un solo uomo: agli altri, e alle altre, non spetta che il compito di aderire o meno, in posizione molto chiaramente subordinata. Si leggono affermazioni che lasciano stupefatti: “Ci può essere il singolo che si incanta, e che per la verità io non ho mai trovato, dei grandi valori umanistici e che gli dedica la vita. Ma io, purtroppo, non ho mai trovato qualcuno che si dedicasse a tali valori. (…) Ai nostri giorni non c’è alcuna speranza o prospettiva. Sembrerebbe soltanto un sogno la possibilità che ci sia qualcuno che si impegni a studiare e ad approfondire la cultura umanistica. Non ci sarà nessuno che si metterà a studiare per una migliore conoscenza della cultura umanistica e a studiarla con tutto il cuore. (…) Non ci sarà nessuno che si metterà a studiare materie umanistiche, che si dedicherà, per una vocazione che ha del sublime, a un tale impegno di ricerca e di studio, che non dà nessuna speranza e prospettiva di grandi guadagni e che, tuttavia, invece, aiuterebbe molto a migliorare la conoscenza dell’uomo, della persona umana, e a scoprire, per poterne vivere, quei valori che rendono l’uomo veramente la più alta creatura della realtà da noi conosciuta “ (pp. 12 – 21). Dai centri di ricerca culturale e religiosa fondati da don Elio Parrino, sono passate centinaia di uomini e donne che, ormai da decenni, dedicano la vita a riflettere, a insegnare, a scrivere, a operare: sono tutti dei falliti, che “hanno disperso grandi possibilità, ricche risorse” (p. 13), solo perché a un certo momento del cammino si sono staccati dalla pesante protezione del ‘padre spirituale’? E’ proprio certo che “la lucida critica di un uomo anziano, che si sente amaramente solo” (p. 10), non dovesse farsi altrettanto lucida “autocritica” sulle ragioni di questo abbandono? Nella Prefazione (anonima) si sostiene che il “sogno” di questo strano prete “avrebbe avuto bisogno di validi collaboratori” (p. 9): ma, ammesso che chi gli è rimasto vicino non sia tra questi, non sarebbe stato il caso di approfondire i motivi per cui i “validi collaboratori” abbiano scelto strade divergenti?

Se questa autocritica avesse avuto più ampio spazio, forse si sarebbe evitato un errore del passato che sembrerebbe riprodotto, tale e quale, nel presente: formulare la proposta come impresa di una èlite spirituale che non prevede nessun collegamento organico con altre associazioni similari né, tanto meno, con organizzazioni impegnate nella trasformazione delle strutture economico-sociali.

Una sorta di riedizione de Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hess immemore dei dubbi salutari che assalgono il protagonista alla fine della corsa. Insomma: un progetto squisitamente a-politico che difficilmente potrà contribuire a ricongiungere la dimensione aristocratica degli intellettuali con la pratica, generosa ma convulsa, degli operai del vangelo. Si poteva scrivere a Palermo un libro sul futuro della civiltà senza citare una sola volta il sistema di potere mafioso? Si poteva analizzare il contesto ecclesiale siciliano senza accennare, neppure di passaggio, né alle complicità della Chiesa cattolica con le cosche mafiose né al martirio di preti, con don Pino Puglisi, che hanno spezzato ogni legame con l’universo mafioso? Era difficile. Ma don Elio Parrino c’è riuscito. Ignoro quanto una visione ‘metafisica’ - che non attraversi lo spessore storico della quotidianità effettiva, reale di uomini e donne, bensì lo eluda e lo sorvoli dall’alto della propria vocazione contemplativa- possa davvero entusiasmare le giovani generazioni.   Chi si è reso seriamente conto della crisi epocale che stiamo attraversando, non può sottovalutarne la complessità: se le ideologie religiose vengono abilmente strumentalizzate dai poteri politici ed economici (che, in casi come quello italiano, disastrosamente coincidono), non può essere la solitaria crociata di un pugno di samurai illuministi a capovolgere la situazione e ad aprire prospettive di liberazione. C’è bisogno di un’ottica sinergica in cui i partiti politici, i sindacati, l’associazionismo laico e religioso, le strutture scolastiche ed universitarie, il mondo dei massmedia… vengano – per quanto possibile – sensibilizzati e coinvolti: proprio in quanto istituzioni. E’ davvero incredibile che un progetto di rinascita tanto affezionato (giustamente) al patrimonio greco, veda “l’impegno sociale e l’attività che esso richiede” come “un momento secondario, con la caratteristica proprio di un’appendice” (p. 18): come se per Socrate, Platone, Aristotele e tanti altri la dimensione ‘politica’ non fosse costitutiva dell’intera esperienza antropologica! Ancora più incredibile risulta questa sottovalutazione dell’impegno socio-politico in un progetto che intende valorizzare, accanto alla tradizione sapienziale greca, il messaggio biblico originario (non ancora edulcorato e addomesticato dalle teologie conservatrici). Nell’ottica della Bibbia, infatti, il gesto del volontario che si accosta al singolo indigente per “restituire dignità di persone a chi è emarginato dai meccanismi del perbenismo e dell’egoismo borghesi” (p. 282; interessante in proposito tutta l’Appendice II, L’attività della san Vincenzo, pp. 277 – 283), è certamente lodevole. Ma del tutto insufficiente. Si tratta di ri-fondare la città in maniera che i diritti di ciascuno siano garantiti in maniera sistemica, costante, strutturale: perché ‘il’ modo di amare Dio è la solidarietà verso i fratelli e tutto, anche i momenti di studio e di preghiera, devono essere finalizzati alla liberazione dalla povertà, dall’ingiustizia, dalla violenza.

Augusto Cavadi

venerdì 16 settembre 2005

ATTENTI A CHI SUONA


16 Settembre 2005
REPUBBLICA – PALERMO  16.9.05


ABBONAMENTO CON SORPRESA

“Buongiorno, sono dell’Enel metano. Le dispiace farmi vedere il contatore e una bolletta pagata?”. Detto fatto, l’azzimato operatore è già sul balcone della cucina che armeggia e che annunzia con aria compiaciuta: “Da oggi Lei ha diritto ad uno sconto di 25 euro sul gas metano. Basta firmare questo modulo”. Per tre volte chiedo come mai debba rifare il contratto già a suo tempo stipulato e finalmente ottengo l’informazione corretta: per avere diritto allo sconto, devo cambiare gestore, abbandonare l’Azienda Municipale del gas e passare all’Enel. Chiedo allora tempo per riflettere e mi rifiuto di firmare.

Ma il giovane interlocutore non si scoraggia. Mi spiega che l’Enel ha acquisito Wind e mi propone un contratto Infostrada tutto incluso a 39,95 euro. Mi invita a riflettere sulla proposta e a consultarmi con qualche amico esperto, in attesa di essere contattato da una segretaria dopo una settimana: e intanto compila con i miei dati anagrafici un secondo modulo che sottopone alla mia firma. Gli faccio notare che nel depliant la cifra di 39.95 euro è subordinata ad una data (il 31 agosto) e che ormai siamo al 12 settembre: ammette la “dimenticanza” e mi precisa che, ormai, si tratterebbe di dover versare 59,95 euro al mese. Aggiungo che, se firmo la richiesta di passaggio dalla Telecom ad Infostrada, la telefonata della signorina Consuelo dopo una settimana sarebbe diventata quasi superflua: dal punto di vista legale sarei diventato, già da subito, un nuovo adepto di Infostrada. Anche su questo punto deve, a malincuore, darmi ragione: e mi lascia l’indirizzo dell’agenzia per cui lavora (Key 21, sede legale ad Aversa in provincia di Caserta, a Palermo  in via Sampolo 48) dove avrei potuto consegnare, se me ne fossi convinto, il modulo firmato.

Dopo averlo gentilmente accompagnato alla porta, chiamo il 117 per raccontare quella che – a mio avviso – è una forma di concorrenza sleale verso l’Azienda Municipale del Gas e un tentativo di raggiro dei clienti di Telecom: ma ricevo come risposta l’invito a recarmi di persona presso un Commissariato di polizia. Non so quanti cittadini troveranno il tempo, e la voglia, di farlo: soprattutto se - come nel mio caso - non si tratta di difendere sé stessi, ma le persone meno informate o più distratte.

Lettera firmata

venerdì 2 settembre 2005

RELIGIONE A SCUOLA


“Repubblica – Palermo”
2.9.05

Augusto Cavadi

LA STAGIONE DIFFICILE DEI DOCENTI DI RELIGIONE

Nell’ultimo anno scolastico un terzo degli studenti, anche siciliani, ha preferito non avvalersi dell’insegnamento della religione. Da quando il Ministero ha reso noto i dati statistici non sono mancati i commenti né sui giornali né sotto l’ombrellone. Il cattolico-tipo ha ovviamente stigmatizzato il fenomeno come ennesimo sintomo della secolarizzazione galoppante e, per le stesse ragioni, il laico-tipo se ne è rallegrato. Per fortuna, o per sfortuna, questo genere di considerazioni si basano sul presupposto – del tutto immaginario – che gli altri due terzi degli studenti continuino a studiare religione.  Chi invece nella scuola ci vive sa che le cose vanno diversamente. Forse non lo può dire apertamente per molteplici ragioni di opportunità, o di opportunismo. Ma lo sa.

Sa che tra i docenti di religione, proprio come tra i docenti in genere, alcuni  avrebbero la preparazione per insegnare ma gli manca la voglia (o, presi da altri impegni, il tempo); altri hanno la voglia ma gli manca la preparazione; altri ancora scarseggiano sia per voglia che per preparazione. Resta un minoranza valorosa ma sparuta: quegli insegnanti di religione che non si assentano con frequenza, non entrano in aula con ritardo, non ne escono in anticipo, non impiegano l’ora a preparare la lista dei doni natalizi per i poveri della parrocchia né la recita teatrale di fine d’anno. Sono educatori costretti ad impegnarsi ancor di più perché – dal momento che non possono ricorrere a quei piccoli incentivi (voti quadrimestrali che incidono sulla media, possibilità di assegnare il debito formativo…) su cui possono contare i colleghi di altre discipline- non hanno altre armi per conquistare l’attenzione dei ragazzi se non l’elasticità mentale e la comunicativa umana. L’esperienza ci dice quanto rari siano insegnanti così preziosi.

Se il quadro è realistico, bisogna avere l’onestà di riformulare i dati di partenza: prima ancora di contare quanti chiedono l’esonero dall’ora di religione, va riconosciuto che la quasi totalità degli alunni – di fatto – non ne fruisce. I dirigenti scolastici lo sanno ma non lo dichiarano a voce alta perché non si ritengono responsabili a pieno titolo in questo ambito e perché temono di infastidire gli “uffici catechistici” delle curie vescovili, i quali – da parte loro – ne sono tanto consapevoli da cercare in cento modi di correre ai ripari (corsi di preparazione all’insegnamento, convegni obbligatori di aggiornamento …).

Ma il fallimento storico dell’insegnamento della religione è davvero una faccenda interna alla Chiesa cattolica (anche se  i docenti della disciplina sono stati stipendiati dallo Stato sin dal Concordato del 1929  e, adesso, possono persino entrare nei ruoli pubblici) ?

Se – come prescrivono a tutt’oggi i programmi ufficiali – si tratta dell’insegnamento della religione cattolica, la risposta è affermativa. In questa ipotesi non resta che attendere gli sviluppi inesorabili e registrare, con preoccupazione o con soddisfazione (a seconda delle proprie prospettive ideologiche), l’estinzione di fatto di questa anomala materia scolastica. Quando sarà il 90% della popolazione scolastica a evitare l’ora di religione, la verità effettiva diventerà palese. Se invece – come vuole la prassi degli insegnanti più illuminati (e, guarda caso, anche più entusiasticamente seguiti dagli studenti) – si modificasse la struttura dei programmi, trasformando l’ora attuale in “storia delle religioni”, si andrebbe verso una soluzione radicalmente costruttiva. Dappertutto, in Sicilia in particolare, una conoscenza solida, elementare ma rigorosa, dell’Ebraismo, del Cristianesimo (in tutte le sue molteplici confessioni: cattolica, ortodossa, protestante, anglicana) e dell’Islamismo sarebbe davvero provvidenziale. Tanto più se lo studio delle tre religioni monoteistiche venisse incastonato all’interno di una panoramica mondiale comprendente, almeno, Induismo, Buddismo, Confucianesimo e Shintoismo. La scuola – non in quanto agenzia di una civiltà ‘cattolica’ ma proprio in quanto scuola – ne trarrebbe vantaggi enormi: sia in funzione dell’approfondimento di altre aree disciplinari (la storia, la filosofia, l’arte, le letterature greca, latina, italiana e straniere…) sia in ordine alla formazione civica dei cittadini di un’isola crocevia di immigrazione e, più in generale, di un pianeta globalizzato.

E’ ovvio che, in questa ipotesi pedagogico-didattica, lo Stato laico dovrebbe riappropriarsi del diritto-dovere di scegliere gli insegnanti della “storia delle religioni” con meccanismi pubblici del tutto identici rispetto alla matematica o all’educazione fisica. Ed è altrettanto ovvio che tali insegnanti, assunti esclusivamente sulla base delle competenze certificabili, non avrebbero alcun interesse istituzionale a convertire gli alunni, più di quanto ne possa avere un docente attuale di filosofia per convincere ad abbracciare il kantismo piuttosto che l’hegelismo. Essi sarebbero a servizio della consapevolezza critica di ogni alunno: affinché il cattolico possa, esattamente come il musulmano, sapere che cosa gli propone la sua religione e scegliere di conseguenza. Anche il ragazzo educato ateisticamente avrebbe, in questa impostazione scolastica, la possibilità di aprirsi a prospettive diverse rispetto ai condizionamenti familiari o di restare ateo ma per scelta personale.  Per la Chiesa cattolica sarebbe, nell’immediato, una perdita di potere ma, come la storia insegna, anche un’occasione per fare spazio alla ricerca della verità nella libertà. Dunque, in ultima analisi, un’opportunità in più per ciò che le dovrebbe stare più a cuore del suo stesso potere: l’effettiva crescita – insieme alla coscienza dell’umanità - dei valori evangelici annunziati da Gesù di Nazareth. Ne guadagnerebbero, insomma, la laicità dello Stato e la vitalità delle diverse comunità religiose (non solo cristiane): troppi vantaggi  per sperare, che la politica scolastica si incammini in questa direzione entro i prossimi mille anni.

Augusto Cavadi        

IL CONSULENTE FILOSOFICO


Augusto Cavadi
“Centonove” del 2.9.05

FILOSOFIA & FUTURO

La consulenza filosofica: più filosofia che storia della filosofia

Per la Facoltà di scienze della formazione dell’Università di Catania sta diventando una tradizione: dedicare una giornata di studi a chiarire i contorni della figura professionale del consulente filosofico, il bagaglio culturale che gli è necessario e le possibili prospettive di lavoro. Quest’anno sono stati invitati, insieme a tre precursori della “consulenza filosofica” (Gerhard Achenbach, Andrea Poma e Neri Pollastri),  due prestigiosi esponenti del gotha filosofico nazionale (Enrico Berti e Carmelo Vigna). E uno degli interrogativi cruciali ha riguardato, proprio, il rapporto fra il filosofo (nel senso tradizionale, o meglio convenzionale) e il consulente filosofico: quali affinità e, soprattutto, quali differenze?In un certo senso, è una falsa questione. O, per essere meno provocatori, una questione sociologica. E molto contemporanea. Da Socrate a Voltaire, anzi a Kant (il quale si proponeva di rispondere essenzialmente a tre domande: che cosa possiamo conoscere, come dobbiamo agire e che cosa possiamo sperare), sarebbe stata poco intelligibile: per i primi ventitré secoli della sua storia, infatti, la filosofia è stata non un’attività accademica ma un servizio intellettuale. A imperatori, a principi, a papi, a riformatori religiosi, a rivoluzionari politici, a borghesi. Si pensava per chiarire i problemi a sé stessi, certamente, ma – più o meno esplicitamente – al resto della società.

Con l’Ottocento questa funzione sociale della filosofia si riduce e si trasforma. Gradatamente, per filosofo si intende il professore di filosofia che ‘professa’ la filosofia altrui o, in casi di particolare genialità o di particolare presunzione, la propria. Hegel è in questo senso paradigmatico: si convince, e convince mezzo mondo (gli italiani Croce e Gentile compresi), che il filosofo è essenzialmente uno storico della filosofia. Come noteranno con stupore e disappunto Feuerbach, Kierkegaard, Marx, Nietzsche (tutti intellettuali che, non a caso, non sono stati filosofi di professione!), la filosofia perde il contatto con l’uomo in carne ed ossa, affamato di pane di sesso e di amore, condizionato dalla storia collettiva e dalla biografia individuale.

Ma se fare il filosofo significa essenzialmente discutere le idee dei filosofi precedenti e contemporanei per addestrare i filosofi del futuro (che, a loro volta, ricominceranno a discutere le idee altrui e ad addestrare nuove leve), la filosofia si autolimita a storiografia della filosofia: che è un’attività nobile, anzi necessaria, ma certamente strumentale rispetto alla filosofia vera e propria.

Così il ragazzo che vuole capire che cosa ci sia di vero nella morale sessuale dominante o l’anziano che vuole capire che cosa ci sia di credibile nelle promesse teologiche della sua chiesa o l’adulto che vuole capire quali siano le differenze effettive fra le diverse proposte politico-ideologiche dei partiti in lizza…non hanno persone di riferimento con cui confrontarsi. Il filosofo resta nella biblioteca a produrre monografie raffinate sui filosofi precedenti ad uso e consumo dei filosofi successivi; la gente comune vaga nel regno del “si dice” e del pressappoco.

Senza poter tacitare del tutto la propria sete di senso.

Siamo dunque a un bivio. O lasciamo che a questa esigenza di capire provino a rispondere (per motivi non sempre disinteressati) esclusivamente preti, politici e psicoterapeuti o coinvolgiamo anche dei professionisti della filosofia che – riprendendo la tradizione da Socrate agli Illuministi – siano disposti a mettersi in gioco. Saranno certamente professionisti non ignari della dimensione teoretica della filosofia né asciutti in filosofia pratica: ma particolarmente attenti alla phronesis dei Greci, alla prudentia dei Latini, alla capacità – insomma – di applicare i princìpi etici alle situazioni contingenti, mutevoli e ogni volta irripetibili.

La consulenza filosofica: più alleata che concorrente della psicoterapia
Se concordiamo sulla convinzione che consulenza filosofica e filosofia coincidano (e che la differenza seria si dia invece fra il filosofo-consulente e lo storico della filosofia – professore) potrebbe meglio delinearsi la specificità di questa relazione d’aiuto rispetto a tutte le altre (ovviamente non meno legittime né utili). Quando si parla di questa attività, infatti, non c’è solo da smontare i pregiudizi dei professori di filosofia (che, dall’alto – e dal comodo – delle loro cattedre vedono nella consulenza un affare di clandestini tendenzialmente abusivi), ma anche la diffidenza degli psicoterapeuti (che vedono, invece, in essa un espediente per esercitare concorrenza sleale e togliere fette di mercato). La mia esperienza personale attesta che tanta diffidenza si registra più per ignoranza che per preveggenza. Dico solo che è capitato non solo a me di praticare per decenni la filosofia come consulenza (potenziale e indiretta, ma anche attuale e personalizzata) e di averne  preso coscienza solo quando alcuni psicoterapeuti glielo hanno fatto notare. Quando alcuni medici dell’anima (come racconto anche nel mio Quando ha problemi chi è sano di mente, Rubbettino, 2003) mi hanno confidato di essere contattati da persone esenti da qualsiasi patologia, ma desiderosi di essere aiutati a cercare da sé un orientamento esistenziale: ‘clienti’, dunque, e non ‘pazienti’, che formulavano domande a cui nessun corso di laurea in psicologia prepara a rispondere.Si sa che la realtà è sempre un po’ più complicata delle nostre distinzioni concettuali. Nessuno può escludere che un ‘consultante’ sia anche bisognoso di terapia: Freud sbagliava nel ritenere nevrotica ogni richiesta di senso ma ciò non significa, all’opposto,  che basti – eventualmente – trovare un senso alla vita per liberarsi dalle nevrosi. Ecco perché – quando è possibile – penso che l’assetto ideale per una relazione d’aiuto efficace (e ciò è particolarmente agevole in caso di sedute di gruppo) comporti la compresenza di un filosofo e di uno psicoterapeuta: affinché, mentre l’intelligenza cerca di chiarirsi la strada, il cuore non faccia brutti scherzi e metta fra le ruote ragioni e sragioni che la ragione non conosce.                                                                  

Augusto Cavadi