martedì 28 febbraio 2006

NOTTE A PALERMO


“Repubblica – Palermo”
28.2.06


Il volontario e il rapinatore buono


“Qualche sera fa, poco dopo le 23, mi incamminavo dalla stazione per corso Tukory. Andavo verso il mercato di Ballarò per riprendere l’automobile posteggiatavi la mattina”. L’e-mail è di Luca Dai, un giovane settentrionale che da qualche tempo svolge attività sociale fra Partinico (presso un’associazione ispirata a Danilo Dolci) e Palermo (presso un centro sociale all’Albergheria).


“La strada è desolata, passano poche macchine” – continua il breve racconto. E prosegue: “Con la coda dell’occhio scorgo avanzare  verso me una persona con passo più veloce del mio. Penso: ma da dove è sbucato questo? Chissà dove andrà così di fretta? Proprio sotto alla pensilina, sopraggiunge, mi raggiunge, mi scosto per farlo passare: certo che va proprio di fretta! Mi tocca una spalla… mi volto… nella mano destra tiene una lama, me la mostra e mi dice in dialetto siciliano con un tono non troppo alto: dammi tutto, tira fuori tutto, dammi il telefonino! Lo guardo negli occhi…posso assicurare di aver visto gli occhi della fame! Occhi di fame ha una statura più piccola della mia, il cappuccio della felpa sopra la testa; il coltello lo ha già nascosto! Non ho paura in questo momento, sono sorpreso, gli dico che di soldi non ne ho! Occhi di  fame ha una faccia buona, ma insiste: muoviti! Fai in fretta e non alzare la voce che ci sentono!  Allora gli dico: guarda che te li darei ma non li ho, perché non mi vuoi credere? Non lavoro! Sono un volontario…vivo con 400 euro al mese! Apro il giubbotto, prendo il portafogli dalla tasca interna, lo apro: ho solo questi! Ecco questo è tutto quello che ho: 5 euro! Occhi di fame: dammi il telefonino! Vedi che sto rischiando 3 anni per 5 euro ? Ascolta, gli dico, vengo dal Nord, faccio il volontario. Lui mi guarda fisso negli occhi per la seconda volta…mi dà la mano, mi abbraccia, mi bacia e sussurra: scusa! Occhi di  fame sparisce nella notte palermitana e lascia in me un gran senso di vuoto e dispiacere… Cerco di capire…mi viene da condannare il suo atto…è comunque violento…ma cerco di capire. Forse devo pensarci ancora, ma una cosa è certa: Occhi di  fame non è cattivo! Sono veramente rammaricato per la sua condizione. Fino a quando?”.
Il messaggio telematico finisce qui. Che faccio? Lo spedisco nel cestino dove confluiscono le altre decine di e-mail giornaliere o lo strappo, per qualche ora ancora, all’oblìo? Domani i quotidiani siciliani parleranno degli scippi, delle piccole rapine, dei furti sempre più miserabili effettivamente consumati. (A Palermo un disgraziato è stato arrestato mentre cercava di rompere la vetrina di una libreria del centro storico. Il giorno prima, a Trapani, ad un mio amico libraio hanno scassinato il negozio e sottratto un registratore di cassa inservibile perché matricolato: per poco più di cento euro…).  Ma di quell’unico tentativo abortito  - abortito perché Occhi di fame non è stato abbastanza duro, abbastanza ‘professionale’ – non ne parlerà nessuno. Le statistiche non conosceranno il ravvedimento improvviso, e imprevisto, del ragazzo di quartiere che non è riuscito neppure come ladro. E i benpensanti  - tra cui gli elettori che, grazie alla cortese mediazione del movimento autonomista di Lombardo, agevoleranno il ritorno in parlamento dei Leghisti di Bossi – resteranno della convinzione che si tratti (non anche, ma esclusivamente) di provvedimenti repressivi concernenti l’ordine pubblico. Senza sospettare neppure quante omissioni individuali, e quante latitanze istituzionali, presuppone la disperazione di Occhi di fame.
A Luca e ai suoi compagni d’avventura ho chiesto se episodi come questo li convincessero a mollare tutto, a ritornare dalle loro parti. Mi hanno risposto, un po’ stupiti, che proprio incontri di questo genere danno un senso al loro impegno: “Se ci sono delle piccole luci, come potremmo rischiare di spegnerle?”.

martedì 21 febbraio 2006

GIOIELLI PALERMITANI


“Repubblica – Palermo”
21.2.06

ALLA   SCOPERTA  DELLA  ‘CATENA’
Augusto Cavadi

Risale al Quattro-cinquecento e costituisce un originale esempio di rinascimento “siciliano”: è l’elegante chiesa di Santa Maria della Catena  -  tra la Cala, il Cassaro e piazza Marina – così denominata perché legata ad un’immagine miracolosa della Madonna o, più probabilmente, perché costruita su uno dei due terminali a cui veniva appesa la catena che chiudeva il porticciolo antistante (proteggendo la Palermo islamica dalle incursioni delle navi cristiane!). Il lettore curioso della sua origine, della sua struttura, del suo inserimento urbanistico, delle modifiche successive e dell’arredo artistico ha a disposizione un prezioso strumento a… diciotto mani pubblicato meritoriamente dalla casa editrice dei monaci benedettini di S. Martino delle Scale (ed è un peccato, per restare all’interno del vocabolario ecclesiale,  che si tratti di un’iniziativa editoriale priva di distribuzione sul territorio nazionale e in internet: dunque  con ridotte  possibilità di traduzione in lingue estere). Il volume (AA.  VV.,  Santa Maria della Catena, Abadir, pp. 166, euro 13,00), ricco ma agile, è suddivisibile idealmente in due parti.

Nella prima Valeria Viola (col prezioso corredo di mappe, incisioni d’arte e altri documenti iconografici) lumeggia il “contesto urbano”  dell’edificio, rimarcando con comprensibile amarezza il suo isolamento progressivo dai suoi riferimenti originari: il mare da una parte, il Piano della Marina (oggi occupato dalla lussureggiante vegetazione della villa) dall’altra. Il Piano Programma del 1983 ed il successivo PPE del 1989 si erano prefissi di ripristinare lo scenario originario: ad oggi, però, nulla è cambiato.

Ma chi è stato il progettista della chiesa attuale? E in quali anni è stata effettivamente costruita? Su questi interrogativi (ai quali la critica non è riuscita a dare risposte definitive) si sofferma Daniela Leonte: a suo parere – comunque – i tre filoni estetici (normanno-svevo, tardo-gotico spagnolo e rinascimentale italiano) confluiscono in una sintesi equilibrata e felice come poche altre. In più di una parte, soprattutto nei coronamenti del fronte laterale e nelle absidi, si indovinano le mani di “maestranze con intenti decorativi diversi e forse in epoche diverse”: ma, nonostante le “apparenti incongruenze”, “l’unità che caratterizza all’interno e all’esterno la chiesa sembra creata con un sentimento solo di contenuta, altissima tensione”.

Sulle opere d’arte contenute all’interno (fra cui bassorilievi dei Gagini, quadri di ignoti e di noti pittori, affreschi di Olivio Sozzi…) si concentra l’intervento puntuale di Maria Genova. Apprendiamo, così, che il pregevole “fonte battesimale” e non pochi monumenti funebri sono stati trasferiti e sistemati (“senza alcun criterio se non quello della disponibilità dello spazio”) nell’attuale chiesa, dalla vicina parrocchia di S. Nicolò alla Kalsa, nel 1823. A conclusione del suo contributo, particolarmente utile risulta un “itinerario artistico” che può accompagnare il visitatore, dai tre portali d’ingresso e sino al coro, cappella per cappella.

Marcello Messina e Giovanni Travagliato, poi, si preoccupano di trascrivere le iscrizioni funebri e di riprodurre gli stemmi rinvenibili all’interno dell’edificio. Sono documenti interessanti per vari motivi: “innanzitutto perché costituiscono testimonianza della presenza di famiglie siciliane, di origine o di adozione (lucchesi, milanesi…); in secondo luogo, gli stemmi che sovente accompagnano l’iscrizione forniscono elementi utili allo studio della committenza artistica”.

La seconda parte del volume è a firma di due presbiteri. Il primo, Cosimo Scordato, approfondisce il significato teologico della struttura architettonica e dei suoi elementi più caratterizzanti (la facciata, il portico, il portale, le absidi…) e condivide la suggestione di Giuseppe Bellafiore che parla di una chiesa “laica”, luogo d’incontro fra il culto a Dio e i rapporti umani anche commerciali. Essa, infatti, acquista la fisionomia vicina all’attuale in un momento storico in cui “viene ripensato il sesno dell’uomo e della città, facendo emergere nuovi rapporti tra i gruppi sociali, e l’esigenza di un ripensamento della stessa dimensione religiosa che, senza compromettere l’orizzonte cristiano, deve convivere con le nuove domande, le nuove forme di pensiero e la mutata sensibilità”.

Il secondo presbitero, Carmelo Torcivia, è l’attuale rettore della chiesa ed è dunque titolato ad evidenziare le potenzialità – come le difficoltà oggettive – di una sua piena fruizione: sia come luogo di incontro, di meditazione religiosa, di celebrazione liturgica, sia come opera d’arte da ammirare ed in cui ambientare eventi musicali o iniziative culturali. Poiché essa offre, nel contempo, “il senso della centralità (per la sua collocazione in pieno centro storico) e della ‘marginalità’ (per il suo essere distante dal centro residenziale)”, può costituire “un piccolo laboratorio, in termini culturali ed ecclesiali, da cui far uscire fuori una proposta di vita per la città”. Non a caso la chiesa della Catena è diventata sede della comunità “Kairòs”, sorta  nel 1994 con l’intento di radunare presbiteri e laici desiderosi di “riscoprire la bellezza e l’attualità del messaggio cristiano attraverso un serio lavoro di lectio divina” (per altre informazioni e contatti: www.digilander.iol.it/comunitakairos) . Alcuni frutti di questa ricerca comunitaria (arricchita da contributi di esperti provenienti anche da regioni lontane)  vengono pubblicati nella collana omonima dell’editore “Il pozzo di Giacobbe”. Il modello di spiritualità perseguito intende “coniugare i dati offerti dalla modernità e dalla post-modernità con quelli della tradizione cristiana”.

            Augusto Cavadi

mercoledì 15 febbraio 2006

ATENEO PALERMITANO


“Repubblica – Palermo”
15.2.06
ANATOMIA DELL’UNIVERSITA’ NEL RICORDO DI UNO STORICO

Augusto Cavadi

Con comprensibile fierezza, l’ateneo palermitano celebra il bicentenario della sua fondazione. Si sa che, in queste circostanze, la commozione vela la memoria. O, per lo meno, seleziona i ricordi: cacciando, quanto più lontano possibile dalla coscienza, i meno gradevoli. Ma gli storici non possono permettersi – almeno intenzionalmente – il lusso della retorica: devono provare a restituire il passato per intero,  con le sue luci e le sue ombre. Tanto più se si tratta di storici rigorosi, austeri per opzione professionale e forse anche – almeno ai primi approcci – per carattere, come il compianto Paolo Viola. Che – a parziale lenimento del sincero dispiacere provocato, in quanti l’avevamo conosciuto ed apprezzato, dalla dipartita prematura -  ha affidato all’editore Donzelli, e alla compagna Titti Morello, il suo ultimo volume (Oligarchie. Una storia orale dell’Università di Palermo) da poche settimane in libreria.
Come si evince dall’Introduzione, il periodo cronologico considerato è il lungo segmento dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni: le fonti scritte dunque s’intrecciano con le testimonianze di protagonisti, più o meno illustri, ancora viventi. Anzi, è lo stesso ricercatore ad essere coinvolto nell’oggetto della ricerca, sì da guardare eventi e personaggi con uno sguardo “insieme esterno ed interno” (p. 9). Con quali risultati? Il sugo di questa storia non è certo particolarmente lusinghiero: “il carattere oligarchico si è mescolato a tratti di un individualismo sleale nei confronti dell’istituzione, e ha finito col danneggiare doppiamente l’ateneo stesso” (p. 6). Per essere più chiari: da una parte “il professore universitario palermitano , ma probabilmente italiano, quando indossa i panni accademici, ha riflessi conservatori di chiusura corporativa oligarchica e danneggia culturalmente l’ateneo”; dall’altra, se apre all’esterno “le porte della cittadella universitaria” (soprattutto alle forze politiche ed economiche), lo fa solo per rafforzare il proprio potere individuale e dunque senza remore nel subordinare e mortificare gli interessi di quella stessa istituzione da cui pure “trae il proprio prestigio”. In questi due secoli, o per lo meno nell’ ultimo sessantennio, si è andata dunque snodando la dialettica fra chiusura oligarchica della casta e apertura strumentale degli individui.  Ne vogliamo qualche esempio? Tra i tanti riportati da Viola il lettore avvertirà soltanto l’imbarazzo della scelta.
Chiusura oligarchica ha significato, tra l’altro, meccanismi perversi di reclutamento del personale docente. I baroni hanno favorito, nelle fasi di cooptazione dei nuovi colleghi, figli, nipoti (e amanti): se non propri, almeno degli amici e degli amici degli amici. Anche dalle nostre parti è valso il principio di ripartizione delle cattedre vigente nel resto del Paese: una al mio candidato, una al tuo, la terza a chi la merita. Purtroppo più di una volta è capitato che le cattedre sono state solo due… Si è trattato solo di malcostume clientelare o non anche di paura nel dare spazio a personalità che avrebbero potuto fare ombra? Ricordo la descrizione che, molti anni fa, un docente palermitano forniva -  con amara scanzonatura  - ad un sociologo inglese: un cattedratico, per evitare concorrenti, sceglie come assistente un allievo un po’ meno  intelligente; il quale, arrivato a sua volta in cattedra, ne sceglie un altro ancora un po’ meno acuto; e così via. Alla legittima curiosità dell’interlocutore (“Ma, allora, lungo il corso dei decenni, non si dovrebbe arrivare allo zero assoluto?”), il professore rispondeva in maniera logicamente impeccabile: “Così sarebbe se, dopo alcune generazioni, non si arrivasse ad un barone così poco perspicace da non accorgersi che il suo assistente è una persona più intelligente di lui, sì che il ciclo possa ricominciare daccapo”.
Apertura all’esterno in un’ottica d’interesse privato ha comportato, tra l’altro, una grande cautela nell’occuparsi di cosa è andato accadendo nel territorio. In un contesto notoriamente inquinato, ci si sarebbe aspettato dal più importante centro di cultura l’attento, coraggioso, spietato monitoraggio del sistema di potere mafioso nei suoi risvolti criminali, economico-finanziari, politico-amministrativi. Ma  - sino alle stragi del ’92 -  la produzione scientifica su questi fenomeni è stata (almeno quantitativamente) limitatissima. In Cose di cosa nostra Giovanni Falcone informava Marcelle Padovani del fatto, difficile a credersi, che un giovane palermitano potesse arrivare a laurearsi in giurisprudenza e a vincere un concorso in magistratura senza aver mai udito una sola ora di lezione sulla mafia.
Ma oggi come vanno le cose? Non credo si possano dare risposte generalizzanti. In alcuni istituti è possibile che i meritevoli trovino accoglienza e incoraggiamento, a prescindere dai cognomi familiari e dalle tessere di partito. In altri ambienti è notorio che la dittatura degli ordinari non ammette smagliature, al punto che – in nome di contrasti ideologici o solo temperamentali - ricercatori stimati a livello nazionale per le loro pubblicazioni non riescono ad ottenere la cattedra. Non mancano poi le situazioni in cui lo studente è fortemente sollecitato a spendere soldi per testi il cui pregio maggiore, se non esclusivo, è d’essere stato scritto dallo stesso insegnante che lo ha adottato. Storture, deformazioni, censure: mai gradevoli, ma particolarmente dolorose quando ascrivibili a direttori di dipartimento o presidi di facoltà che si dicono, e in altri contesti si dimostrano effettivamente, democratici e progressisti. Farne autocritica, pubblica o tacita purché operosa, sarebbe un modo conveniente di celebrare il plurisecolare anniversario.

Augusto Cavadi

domenica 12 febbraio 2006

L’EVOLUZIONISMO


“Repubblica – Palermo”
12.2.06

GLI STUDENTI ALLA SCOPERTA DI DARWIN

La tradizione ebraico-cristiana ha favorito in noi occidentali un vivo senso di protagonismo: ci riteniamo, come genere umano, il fine e il coronamento della creazione divina. O, forse, sarebbe meglio dire: tali ci ritenevamo sino a Darwin. Il paleontologo inglese, infatti, ha inflitto al “narcisismo umano” (l’espressione, ovviamente, fu usata da Freud) una ferita letale sostenendo che nessuno sviluppo sociale e intellettuale può cancellare “l’impronta indelebile della nostra infima origine”. Ma quando Darwin pubblicava le sue opere scandalose, l’antropocentrismo dominante non era più quello di matrice teologica. Il panorama culturale era infatti egemonizzato da correnti filosofico-politiche di immenso successo (come l’idealismo romantico, il positivismo scientistico, il marxismo) marcatamente laiche, quando non addirittura esplicitamente atee. Risultato: Darwin ha costretto ad una radicale revisione – insieme alle dottrine religiose tradizionali - tutte le altre concezioni eredi dell’ottimismo umanistico rinascimentale.

Di questo terremoto si è occupato in un libro recente già alla seconda edizione (Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma 2005) il filosofo Orlando Franceschelli, docente a Roma e collaboratore di “Micromega”. In considerazione del rilievo della problematica (resa ancor più intrigante dal tentativo, poi abortito, dell’attuale Ministro dell’istruzione di compromettere l’insegnamento del darwinismo nelle scuole italiane), per la mattina di martedì 14, docenti di ben sei licei classici e scientifici cittadini hanno co-organizzato, nell’aula magna del “G. Galilei”, un incontro fra i propri studenti e l’autore dell’accurato (e fortunato) volume. Un’occasione analoga sarà offerta, la mattina successiva, agli studenti del liceo scientifico “Gian Pietro Ballatore” di Mazara del Vallo.
Poiché i due incontri con le scolaresche non sono aperti al pubblico, si è voluta programmare un’iniziativa più ‘aperta’ per le 17,30 di martedì 14 presso il Centro culturale valdese “Bonelli” di via Spezio (proprio alle spalle del teatro Politeama). Si è prescelta la formula del dibattito a due voci: tra Franceschelli, appunto, sostenitore dell’atteggiamento “scettico e razionalista” del naturalista inglese, e don Francesco Conigliaro, teologo cattolico interessato al dialogo con la ricerca scientifica contemporanea. Le cronache raccontano che i primi confronti fra Darwin e i teologi del suo tempo non andavano proprio pacificamente (all’osservazione di un prelato anglicano: “Se Lei accetta di discendere da una scimmia, sono affari suoi!”, lo scienziato avrebbe risposto: “Sempre meglio che discendere da un ecclesiastico…”): come si evince dallo stesso volume in questione, però, adesso il clima è cambiato. A parte certi fondamentalisti neo-creazionisti di stampo conservatore (cattolici e, ancor più, protestanti americani), oggi sempre più numerosi sono i cristiani che prendono sul serio le teorie evoluzioniste, le esaminano con rispetto intellettuale e si preoccupano piuttosto di rivedere gli aspetti statici della propria immagine di Dio. Nella consapevolezza che, comunque, lo spettacolo dell’universo abbaglia non solo per bellezza e armonia, ma anche per lo spreco di vite e di sofferenze che ne costella la storia. Che, dunque, la fede diviene più matura non scavalcando, ma attraversando in tutto il suo spessore la dimensione tragica del cosmo.
Tra i “naturalisti” e i “credenti” si va dunque intensificando un dialogo che, anche a parere di Franceschelli, potrebbe comportare conseguenze positive non solo per “le singole vicende intellettuali ed esistenziali” ma anche “per suscitare risorse etico-politiche aggiuntive, per fronteggiare con rinnovata e solidale sensibilità sia il male fisico che quello morale, il dolore innocente di tutti quelli che soffrono spesso senza voce: animali, bambini, profughi, malati, poveri, vittime di ingiustizie, guerre e opere ‘orribilmente crudeli’ (Darwin) della natura e dell’uomo”.

venerdì 3 febbraio 2006

VATICANO II


“Centonove”, 3.2.2006
Augusto Cavadi

VATICANO  II,  IL  CONCILIO  DIMENTICATO
Proprio nel dicembre del 1965 si chiudeva a Roma il Concilio ecumenico Vaticano II, ma non sembra che l’anniversario abbia suscitato particolari iniziative in Italia. Dalle nostre parti, poi, ho avuto notizia di due soli appuntamenti (per la verità affollati e di ampio gradimento): una conferenza di Giancarlo Zizola presso la Facoltà di Scienze politiche di Palermo (giovedì 14 dicembre) ed un dibattito a più voci presso l’Istituto di Scienze religiose di Trapani (giovedì 22 dicembre). 

Per quanti erano troppo giovani quarant’anni fa, così come per coloro che erano e sono estranei alle problematiche teologiche, non è facile rendersi conto dei nodi problematici ancora da sciogliere: ma, forse, non è tempo sprecato provare analizzarne qualcuno.Fu davvero una rivoluzione?
Una prima questione, solo apparentemente storica, può formularsi sotto forma di dilemma: quell’assise mondiale di vescovi costituì una frattura nella storia della Chiesa cattolica o fu soltanto una tappa, particolarmente luminosa, di un cammino continuo ed omogeneo? Per la prima interpretazione si sono pronunziati storici del calibro del bolognese Giuseppe Alberigo (che su “Repubblica” parla di “una macroscopica inversione di tendenza rispetto all’orientamento cattolico prevalente da almeno quattro secoli”), ma la seconda ha dalla sua voci autorevolissime come quella di Walter Brandmuller, presidente del pontificio comitato di Scienze storiche, che, facendo eco allo  stesso Benedetto XVI, su “Avvenire” l’ha inserita nella “tradizione unica e totale della Chiesa”. Per la verità, i testi prodotti in quell’occasione – essendo frutto di tensioni, di schieramenti contrapposti, di compromessi diplomatici – prestano il fianco ad entrambe le letture: un po’ come accade con le stesse Scritture, ognuno finisce col trovarvi ciò che cerca. Senza contare che la stessa alternativa frattura/continuità è un po’ schematica, semplicistica: alcune delle posizioni più interessanti dei padri conciliari furono, infatti, di rottura con la tradizione recente della Chiesa (diciamo con la tradizione dal Concilio di Trento del XVI secolo in poi ) e di fedeltà alla tradizione più antica (alcune innovazioni, infatti, non furono che la ripresa e la riattualizzazione di pensieri e comportamenti diffusi fra i cristiani dei primi sei o sette secoli).  Comunque, se si passa dall’analisi filologica dei documenti al vissuto ecclesiale, non c’è dubbio che i contemporanei hanno avvertito il Vaticano II come una sorta di terremoto destinato a fondare la Chiesa cattolica su basi nuove o, per lo meno, radicalmente rinnovate. Tale fu percepito, con entusiasmo irrefrenabile e forse un po’ ingenuo, dai ‘progressisti’: e tale fu percepito, con preoccupazione e in qualche caso angoscia, dai ‘conservatori’. Da testimonianze di prima mano, ho appreso ad esempio quali sentimenti di sconforto l’allora arcivescovo di Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini, ebbe a confidare ai più intimi collaboratori in seguito all’approvazione della dichiarazione conciliare Dei Verbum: a suo avviso  -  dichiarando che la rivelazione non avesse due “fonti”, la Bibbia e la Tradizione, ma una “stessa divina sorgente”, Cristo, il cui insegnamento si perpetua nella Bibbia, letta alla luce della Tradizione - i colleghi vescovi, con la complicità dello stesso papa, avevano distrutto la specificità della Chiesa cattolica rispetto alle Chiese cristiane protestanti. Ruffini non era stupido né, ancor meno, ignorante. Come si sarebbero potuti difendere, da quel momento in poi, quei dogmi e quelle norme etiche (dall’immacolata concezione di Maria all’esistenza del purgatorio, dall’obbligo del celibato ecclesiastico all’infallibilità del pontefice quando parla ex cathedra) che la Chiesa cattolica aveva insegnato pur senza poter esibire alcun fondamento biblico? Non significava questo accettare, con quattrocento anni di ritardo, l’istanza di Martin Lutero di liberare la dottrina cristiana di tutte quelle superfetazioni medievali che avevano complicato inutilmente e reso irriconoscibile il messaggio originario del vangelo? Che sotto il linguaggio apparentemente scontato dei documenti conciliari stessero passando  - o, comunque, potessero giustificarsi – delle novità sconvolgenti, non lo denunziarono soltanto cardinali come Ruffini o Siri (allora arcivescovo di Genova): un altro vescovo, Marcel Lefevre, arriverà addirittura a consumare un vero e proprio ‘scisma’ – l’unico del XX secolo ! - fondando una Chiesa alternativa alla cattolica romana (con vescovi, preti, suore, seminari…) per protesta contro le inaccettabili discontinuità in essa penetrate e diventate senso comune.  Il minimo che si possa dire, dunque, è che il Concilio ha rappresentato – se non una rivoluzione compiuta – una possibilità rivoluzionaria per la Chiesa: e che il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, il lunghissimo pontificato di Giovanni Paolo II, nonché l’attuale pontificato di Benedetto XVI,  sono concentrati nel tentativo di disinnescare quel deposito di esplosivi. Non certo azzerando la storia (anche perché la Chiesa monocratica e trionfalistica di Pio XII, dunque anteriore a Giovanni XXIII,  non costituisce un modello proponibile neppure per i conservatori di oggi): ma cercando di smussare le punte, di interpretare al ribasso, di normalizzare…Questa operazione di rientro nei ranghi sarà bollata da alcuni come “tradimento del Concilio” (un libro a più mani, curato da H. Küng e N. Greinacher , pubblicato nel 1987  dalla Claudiana di Torino, si intitolava appunto Contro il tradimento del Concilio. Dove va la Chiesa cattolica?); da altri, anche ‘laici’ benpensanti, sarà invece salutata come l’ennesima verifica della saggezza millenaria della Chiesa che accetta – se proprio inevitabile - qualche lifting di facciata, ma che nella sostanza non cede di un millimetro allo spirito dei tempi.E in futuro?
Forse quarant’anni sono ancora troppo pochi per stabilire l’incidenza effettiva del Vaticano II nella storia ecclesiale. Come sosteneva molti anni fa, rispondendo ad una mia domanda, don Carlo Molari, uno dei più acuti teologi italiani contemporanei: “è certo che lo Spirito del Vaticano II non è ancora penetrato compiutamente nelle varie strutture della Chiesa cattolica. D’altra parte processi di questa portata richiedono il contributo di intere generazioni. Il che significa che il valore e il significato del Vaticano II è affidato alle nostre comunità e a quelle dei nostri fratelli di altre denominazioni cristiane. Quello che diventerà vita sarà salvato, il resto passerà negli annali della storia come speranza fallita od occasione perduta” (ho riproposto per intero l’intervista del 1992 in Gente bella , Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, pp. 37 – 46).Ma cosa merita di essere salvato dall’oblio del tempo, di diventare patrimonio genetico della comunità cattolica? Ognuno, ovviamente, avrà in proposito le sue preferenze. Anche in considerazione delle vicende contemporanee, mi sembrerebbe particolarmente significativo evidenziare almeno due passaggi. Un primo accenno merita il rispetto da parte della Chiesa cattolica della laicità di ogni Stato, compreso ovviamente la Repubblica italiana. E’ fuori discussione che la Chiesa abbia il diritto – e il dovere – di dare ai propri fedeli delle indicazioni su come formarsi un giudizio riguardo le sempre più numerose, e stordenti, problematiche etiche. Può, ad esempio, dichiarare di non essere d’accordo sull’aborto o sul divorzio o sui pacs o sull’eutanasia. Ma le medesime indicazioni contenutistiche possono essere offerte con due metodi profondamente differenti. O come contributo alla ricerca comune dell’umanità, in forza di argomenti razionali e potenzialmente condivisibili da quanti riflettono senza pregiudizi su ciò che è meglio e su ciò che andrebbe evitato (e, in questo caso, la Chiesa rispetterebbe l’intelligenza dei suoi fedeli e potrebbe interloquire, da pari a pari, con le comunità religiose, filosofiche e scientifiche); oppure come parola inappellabile, derivata meccanicamente da una lettura fondamentalistica della Bibbia, da accogliere in nome di una fiducia cieca (e, in questo caso, la Chiesa esautorerebbe i propri fedeli dall’esercizio della riflessione e si autoescluderebbe dal dibattito pubblico). Se si limita a sentenziare le proprie opinioni, essa non può che incontrare resistenze e dissenso da parte del pubblico laico (intendendo il termine ‘laico’ sia nell’accezione intraecclesiale di battezzato che non ha pronunziato i voti religiosi né assunto un ministero presbiteriale, sia nell’accezione comune, sociologica, di cittadino estraneo a qualsiasi posizione confessionale). In questa ipotesi verticistico-carismatica  scatta per la gerarchia ecclesiastica la tentazione di scavalcare il lungo e faticoso lavoro del confronto con le coscienze: scatta, insomma, la tentazione di ricorrere ai meccanismi politico-istituzionali per imporre con la coercizione della legge ciò che non riesce a proporre al libero convincimento. Esattamente il contrario, dunque, di quanto raccomandato dal Concilio, per esempio nella splendida dichiarazione Gaudium et spes: “ La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge, che trova il proprio compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale” (XVI,b). O, ancora, nella dichiarazione Dignitatis humanae: “A motivo della loro dignità tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità (…). E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo però gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Non si fonda quindi il diritto alla libertà religiosa su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l’ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito” (2, b).

Se questo atteggiamento dialogico vale per tutti gli uomini, persino per quelli che hanno scelto l’indifferentismo o la superficialità, ancor di più varrà nei confronti di quelle donne e di quegli uomini che fanno della ricerca del senso la ragione fondante della loro vita. E’ molto bello, oltre che assai significativo, il messaggio conclusivo agli intellettuali che inizia con espressioni davvero felici e che segna un livello di autocoscienza della Chiesa cattolica al quale, mi sembra di capire, non ha saputo reggere con la morte di Paolo VI: “Un saluto tutto speciale a voi, cercatori della verità, a voi uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia, a voi tutti, pellegrini in marcia verso la luce, e un saluto anche a coloro che si sono arrestati nel cammino e stanchi e delusi per una vana ricerca. Perché un saluto speciale per voi? Perché noi tutti, qui, Vescovi, Padri conciliari, siamo in ascolto della verità. Il nostro sforzo, in questi quattro anni, cosa è stato se non una ricerca più attenta ed un approfondimento del messaggio di verità affidato alla Chiesa, che cosa è stato se non uno sforzo di docilità più perfetta allo spirito di verità?”.   

Un secondo passaggio dell’insegnamento conciliare riguarda il tipo di solidarietà che dovrebbe legare i cristiani ai propri fratelli in umanità. Si è visto che, nella sua stessa autointerpretazione, la Chiesa non dovrebbe condizionare la ricerca esistenziale ed etica degli uomini. Ma non basterebbe questa sorta di rispetto liberal per caratterizzare il suo atteggiamento abituale. Essa si ritenne, infatti, chiamata ad impastarsi con il mondo: a non lavorare per i poveri, gli emarginati, gli sfruttati, i disperati, ma con loro. Basterebbe rileggere l’attacco della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (1). Qui si prendono le distanze da secoli di paternalismo, di assistenzialismo, di moralismo: si prova a immaginare una Chiesa che, ad immagine del suo Maestro, sieda davvero a tavola con i pubblicani e conversi amichevolmente con le prostitute, nella convinzione che i confini fra la santità e il peccato non sono tracciabili istituzionalmente ma passano per il cuore di ciascuno di noi. A maggior ragione si prendono le distanze da ogni favoritismo tribale (stabilito per Concordato o concesso, strumentalmente, da governi ‘moderati’  in campagna acquisti): “La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove esigenze esigessero altre disposizioni” (Lumen Gentium, 76). Che non è esattamente l’atteggiamento della Conferenza episcopale italiana quando accetta che un governo di centro-destra, a conclusione di una legislatura sbilanciata a favore dei benestanti e a sfavore delle fasce economicamente deboli, stabilisca per i locali ad uso commerciale di proprietà della Chiesa l’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili…

Augusto Cavadi

giovedì 2 febbraio 2006

LA SCELTA DEL DIFENSORE CIVICO


“Repubblica – Palermo”
23.2.06

PRIMO MERITO L’APPARTENENZA

Qualche volta i democristiani della Prima Repubblica spiazzavano elettorato e avversari politici con gesti di apertura al nuovo o di accettazione del diverso. Non così i pasdaram dei sultani della Seconda: fanno razzia e non lasciano neppure le briciole. Poiché Cuffaro è uno splendido frutto della vecchia scuola democristiana, per un momento ci si era potuti illudere. Ma è stato solo per pochi giri d’orologio. Il commissario - nominato dal presidente della Regione per supplire all’incapacità del consiglio comunale di raggiungere la maggioranza prevista per legge - aveva dichiarato di aver bisogno di un po’ di tempo per esaminare le carte e valutare i titoli, dando l’impressione di voler seguire le regole e il buon senso. Il responso di ieri ha però deluso nella sostanza, se non nella forma. Non pochi siamo convinti che abbia operato la scelta più banalmente bottegaia: assicurare, senza farsi troppi scrupoli, la poltroncina vuota ad uno di casa. L’avvocato Tito, per quel che se ne sa, è un professionista qualificato: ma, per quel che se ne sa, qualificato a fare bene, appunto, l’avvocato. Se non avesse avuto concorrenti, sarebbe stata una scelta dignitosa. Ma una consistente quota trasversale di consiglieri si era più volte espressa – alla fine a pari voti – per un candidato, Lino Buscemi, che si è occupato da decenni, a vario titolo e con varie strategie, proprio di quelle tematiche di cui dovrebbe occuparsi un difensore civico. 

Autorevoli componenti dell’associazione nazionale di questa specifica categoria di funzionari hanno avuto modo di esprimere pubblicamente, anche se in taluni casi da posizioni politiche di centro-destra, stima e apprezzamento per Buscemi (per altro eletto presidente del comitato scientifico dei difensori civici italiani): ma i meriti derivati dalla competenza non sono stati sufficienti a compensare il demerito di non vantare appartenenze. L’esito della ormai lunga vicenda sarebbe stato preoccupante se si fosse trattato di qualsiasi nomina riguardante la gestione di un ente pubblico: ma, in questo caso, risulta quasi angosciante. C’era da assegnare la responsabilità di un organo di garanzia indipendente cui il cittadino senza padroni e senza padrini possa rivolgersi quando sospetta di essere vittima di un abuso da parte di politici o di burocrati: ma che garanzie di equidistanza può offrire un personaggio preferito proprio perché schierato, senza ambiguità, da una parte? La storia - in Sicilia come dappertutto – riserva le sue sorprese e può capovolgere i pronostici: ma, allo stato attuale, come aspettarsi che una partita di calcio venga gestita equamente da un arbitro prescelto da una delle due squadre in gara? Sarebbe divertente, ma anche istruttivo, se il candidato escluso – o qualche altro cittadino – sottoponesse al candidato vincitore una prima pratica da sbrigare: accertare se, nei meccanismi che hanno portato alla nomina commissariale del difensore civico, siano stati salvaguardati i diritti di tutti i candidati. E soprattutto della gente.
Poiché, come si sa, la speranza è l’ultima dea ad abbandonare i mortali, nessuno vuole mollare qualche appiglio rimasto. Anche noi staremo ad osservare, come avremmo fatto con qualsiasi altro nominato, il modo di agire dell’avvocato Tito nelle sue nuove - nuove per lui e nuove per Palermo – vesti. Vedremo con quali criteri, a sua volta, sceglierà i collaboratori permanenti che dovranno affiancarlo nell’esercizio delle sue funzioni di ascolto, di proposta, di stimolo, di denunzia. Ne vaglieremo le capacità tecniche nell’affrontare le molte, spinose questioni (soprattutto riguardanti la trasparenza dell’amministrazione) che l’attendono. Non meno la correttezza etica. Dunque anche il coraggio di protestare a voce alta se, come è accaduto a suoi omologhi in altre metropoli italiane, non dovesse ricevere dalla giunta municipale (come, per altro, non li ha ricevuti a suo tempo l’ex-Assessore alla legalità e alla trasparenza) i locali, le attrezzature, le risorse indispensabili per lavorare serenamente e seriamente. Soprattutto misureremo, con l’intera opinione pubblica, la sua capacità di non guardare in faccia nessuno: neppure quei compagni di partito che, nella scelta del proprio controllore, hanno mostrato un invidiabile…autocontrollo. La città ha bisogno di un difensore civico che sappia e voglia accorciare le distanze fra i cartelloni pubblicitari e la quotidianità; dare voce agli immigrati e alle fasce più deboli della popolazione; soprattutto stroncare il clientelismo di ogni colore senza il quale il sistema di dominio mafioso inizierebbe a mostrare le prime crepe.

Augusto Cavadi