venerdì 31 marzo 2006

LA RISPOSTA DI DUE SUORE A BONDI


“Repubblica – Palermo” 31.3.06

Una lezione religiosa sulla laicità in politica

La stampa nazionale ne ha dato notizia: a nome di Berlusconi, il suo fedelissimo Sandro Bondi ha spedito a parrocchie e comunità religiose di tutta Italia un opuscolo teso a dimostrare che gli ultimi “cinque anni di governo” sarebbero stati in piena, e fruttuosa, sintonia con “la dottrina sociale della Chiesa”. Non tutti i destinatari dell’omaggio hanno mostrato di gradire. Ed è significativo che anche Suor Anna Pia De Marchi e suor Tiziana D’Agostino, missionarie comboniane operanti a Palermo, abbiano avvertito il bisogno di una cortese, ma ferma, risposta pubblica.

Nella loro lettera aperta, le due religiose partono da una premessa di fondo: “Siamo persone libere con testa e cervello, sappiamo fare le nostre scelte senza che voi ci propiniate spiegazioni e ‘suggerimenti’ elettorali assurdi e inaccettabili! Perché l’ingente spesa per pubblicare questi opuscoli non poteva invece essere utilizzata per sollevare il tenore di vita di tanti cittadini italiani che vivono una squallida povertà?”.
L’interesse maggiore della missiva sta, probabilmente, nel fatto che essa dà voce ad esperienze quotidiane molto concrete: “Qui a Palermo, da tempo, noi serviamo uno dei quartieri più degradati del centro storico: mamme che bussano ogni giorno alla nostra porta con l’ansia dello sfratto o della mancanza di soldi per sfamare i loro bambini o per pagare bollette della luce, del gas ecc… Persone ammalate che non possono procurarsi le medicine perché non mutuabili…Ci chiediamo perché nel vostro libretto, così ben fatto e organizzato, non avete spiegato perché i più ricchi possono ottenere sempre tutto e gratuitamente mentre invece i più poveri (e sapete, in Italia ce ne sono sempre di più) non si possono permettere quasi nulla!”.
Le due suore hanno alle spalle decine di anni di servizio in Africa e in America Latina. Sulla base di questa biografia non sembrano stupirsi troppo: “Per noi missionarie questi giochi politici non sono nuovi: quanti ne abbiamo visti nei paesi sotto dittatura! Chiediamo che nella nostra Italia, che si dichiara democratica, ci sia più trasparenza e lealtà!”. Eppure non riescono ad accettare la strumentalizzazione che “Forza Italia” consuma, o per lo meno tenta di realizzare: “Abbiamo pure letto sul vostro libretto che avete creato leggi ispirate ai valori del Vangelo…Ma quali leggi? Quelle per gli immigrati? O quelle che tutelano i ricchi davanti alla giustizia? O ancora altre che sono il rovescio del comando divino, che dice di spartire il pane con l’affamato, il vestito con l’ignudo, la casa con il povero senza tetto o l’essere una cosa sola con tutti non escludendo però i poveri e le masse di disoccupati senza speranza! E’ solo Gesù che può farci riconoscere dai frutti l’albero: e i vostri frutti – caro on. Bondi - quali sono stati? Forse la partecipazione alla guerra in Irak? “.
Chi legga queste righe difficilmente può esimersi dal pensare che - come nei gloriosi decenni della Democrazia Cristiana - un partito politico non tenterebbe simili tattiche d’aggancio elettorale se non avesse motivi fondati per supporne il successo. Anche di questo le due missionarie sono convinte e, con coraggioso spirito di autocritica, rivolgono “un accorato appello a tutti i parroci, a tutti i religiosi/e affinché, con coscienza, riflettano sulla loro scelta per le prossime elezioni politiche”. E’ per loro chiaro che non avrebbe senso chiedere all’attuale presidente del consiglio il “favore di non sfruttare in modo indegno il Vangelo e la Sposa di Cristo, la Chiesa” se non si chiedesse, contestualmente, a “questa Sposa-Madre di non scendere più a compromessi con la politica”.
Non sappiamo che effetto avrà questa lettera aperta. Che due donne, sinceramente credenti, anzi addirittura consacrate totalmente alla causa del Regno di Dio, l’abbiano scritta è già però un segno di speranza. E’ una lezione di laicità, insomma, che può forse compensare, parzialmente, la transumanza di alcuni intellettuali anticlericali verso i recinti del confessionalismo più conservatore.

giovedì 30 marzo 2006

ECUMENISMO AI VALDESI


REPUBBLICA – PALERMO
30.3.06

Giustizia, pace e salvaguardia del creato

Con il vocabolo - non proprio usuale - ‘ecumenismo’ si designa quel movimento teorico e pratico tendente alla riunificazione di tutte le chiese cristiane (cattolica, anglicana, ortodosse, protestanti…). Due tappe importanti sono state l’assemblea europea a Basilea, in Svizzera, nel 1989 e la successiva, a livello mondiale, a Seul, in Corea, nel 1990. Entrambe dedicate alla focalizzazione di ciò che i cristiani delle varie confessioni possono fare insieme nel triplice campo della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato. Ma se, storicamente, l’ecumenismo nasce come una faccenda interna alla cristianità, via via esso ha finito col coinvolgere anche il rapporto fra la cristianità e le altre grandi religioni dell’umanità (a partire dalle altre due religioni monoteistiche: l’ebraica e l’islamica). Oggi, perciò, il vocabolo ecumenismo ha acquistato l’accezione, più ampia dell’originaria, di processo dialogico e sinergico fra il cristianesimo e le diverse tradizioni religiose del mondo. Per importare anche dalle nostre parti queste prospettive rigeneratrici, la sezione palermitana del MIR (Movimento internazionale per la riconciliazione) ha programmato meritoriamente tre incontri pubblici (presso il Centro culturale valdese di via Spezio, alle ore 21): sulla giustizia (questa sera ne discuteranno il pastore Giuseppe Ficara e il teologo cattolico Rosario Giué), sulla pace e la nonviolenza (martedì 4 aprile la professoressa Maria Antonietta Malleo e il pastore valdese Ciccio Sciotto), sulla salvaguardia dell’ambiente (la sera del 16 maggio l’ingegnere Nino Lo Bello e la pastora Elisabetta Ribet).

Il fatto che le grandi religioni dell’umanità stiano imparando a dialogare fra loro è una buona notizia: ma non priva di ambiguità. Elle Kappa lo ha espresso con una delle sue vignette fulminanti su “Repubblica” del 23 febbraio. Il primo personaggio legge su un giornale: “In Nigeria i cristiani rispondono massacrando diciannove musulmani” e il secondo commenta: “Meno male, è ripreso il dialogo fra religioni”. Il filosofo Luigi Lombardi Vallauri lo esprime in maniera più articolata: se a coalizzarsi saranno gli esponenti più ‘ortodossi’ ed intransigenti di ebrei, cristiani e islamici, si formerà un blocco monolitico per tre volte più pericoloso…
Cosa ci sta dietro queste preoccupazioni? Una domanda inquietante: la religione in sé stessa, quale che sia la sua configurazione storica, non è comunque fattore di chiusura e di regresso? . E’ ovvio che i pensatori atei, da Voltaire e Feuerbach in poi, siano per la risposta affermativa. Meno ovvio che – sulla scia di una lunga concatenazione di autori da Soren Kierkegaard a Karl Barth – lo vadano ripetendo ai nostri giorni anche cattolici come il biblista p. Alberto Maggi. A parere di questi teologi, il vangelo è un annunzio di fede, non la fondazione dell’ennesima religione.
Forse, però, la questione non è così semplice. La fede ha molti pregi rispetto alla religione (è interiore, non si fissa su formule dogmatiche precise, non dipende da riti esclusivi…), ma ha almeno un difetto: non ha parole per comunicare, per confrontarsi. Un dialogo fra fedi diverse si strutturerebbe, a rigore, come silenzioso assembramento di mistici. Appena la fede vuole esprimersi, diventa teologia (a livello concettuale e verbale), liturgia (a livello gestuale), morale (a livello comportamentale)…dunque diventa religione (o, per lo meno, qualcosa che le assomiglia molto). Ecco perché, probabilmente, la religione non va assolutizzata ma neppure demonizzata: va relativizzata, vissuta per quello che è, ossia uno ‘strumento per’ legare gli uomini fra loro e, possibilmente, all’Eterno. L’essenziale è la fede come apertura ‘laica’ dell’animo al mistero della vita e del cosmo: il resto – le configurazioni ‘religiose’ in cui la fede si espone, si socializza e si istituzionalizza – è accessorio e strumentale.
Uomini, donne, gruppi - in quanto vivono la dimensione intima della fede – non hanno necessità di parlarsi: e forse neppure la possibilità. Ma in quanto creano, e mantengono in vita nella storia, dei movimenti religiosi possono – e devono – confrontarsi per non farsi male reciprocamente e, se ci riescono, per fare addirittura bene all’umanità e al pianeta che la ospita.

giovedì 23 marzo 2006

INTELLETTUALI, LETTERATURA E POTERE OGGI


“Repubblica – Palermo”
23.3.06

CONTROCORO SUL DECLINO INTELLETTUALE

Nel corso del 2004 l’ “Unità” soprattutto (ma anche, occasionalmente, qualche altra testata nazionale) ha ospitato una serie di interventi a partire da un articolo di Romano Luperini incentrato su due punti principali: l’Italia è pienamente coinvolta in un processo più globale di “declino di civiltà” e questa depressione è dovuta, anche, al divorzio fra attività intellettuale e impegno sociale. Sino a trent’anni fa, “i registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano un ruolo di primo piano in Europa”; oggi gli esordienti “si dilettano in racconti ginecologici e ombelicali, a base di cazzo e di vomito; gli scrittori di mezza età si attardano in uno stanco postmodernismo manieristico. Per il cinema (…) si è parlato recentemente di ritorno a un confronto con la realtà e con la politica, ma, visti in questa luce, i film che dovrebbero esprimerlo risultano alquanto deludenti” (vedi La meglio gioventù di Giordana, The dreamers di Bertolucci e Buongiorno notte di Bellocchio). Ovviamente le reazioni al sasso nello stagno di Luperini sono state di segno contrastante: polemiche sino all’aggressività alcune (Cotroneo, Busi, Scarpa, Moresco, Sebaste, Benedetti), più misurate e sostanzialmente concordanti altre (Voce, Siciliano, D’Elia, Ganeri, Ferroni, Simone, Palandri, Cortellessa, Piovani, Guglielmi, De Vivo, Virgilio, La Porta, Berardinelli).

Di questo dibattito si sarebbe perduta memoria se Franco Marchese, stimatissimo docente palermitano e animatore della rivista “Chichibìo”, non si fosse preoccupato di raccogliere i testi in un dossier (Intellettuali, letteratura e potere, oggi. Un dibattito suscitato da Romano Luperini, Palumbo, Palermo 2005) impreziosito dalla sua articolata Presentazione (pp. 7 – 11). Impossibile evocare gli innumerevoli spunti disseminati nella raccolta di interventi. Ma due o tre, almeno, vanno sottolineati.
Il primo viene da Giulio Ferroni. La situazione culturale e politica attuale è davvero asfittica. Ma “è davvero tutta colpa della televisione e di Berlusconi? O non forse alcune derive sono state sostenute e favorite dalla stessa sinistra e dai suoi intellettuali? Non c’era già un po’ di berlusconismo in tanto narcisismo politico-intellettuale, in tanto culto dell’apparenza, del successo, dell’effetto pubblicitario, della trasgressione provocatoria, dell’allegro cinismo mediatico, del nichilismo desiderante, di cui si sono nutriti tanti intellettuali più o meno ‘di sinistra’ ? ” . Se Ferroni avesse anche solo un po’ di ragione, sarebbe rafforzato il timore di Luperini: “se liberarsi di Berlusconi come uomo politico sarà questione, voglio sperare, di mesi o di pochi anni, liberarsi dal berlusconismo sarà, tempo, molto più lungo e molto più difficile”.
La seconda considerazione la suggerisce Angelo Guglielmi. Fare diagnosi sui mali è importante, decisiva però l’attività intellettuale costruttiva. Ma che significa - per chi pensa, scrive, dipinge o mette in scena – “farsi sentire”? Può essere opportuno firmare un appello o partecipare a un girotondo, ma non è questo il punto: “gli scrittori infatti parlano e hanno sempre parlato con le loro opere e quanto più alto è stato il loro discorso poetico e di verità tanto più hanno inciso sugli aspetti sociali e politici della realtà alla quale appartenevano”. Benigni - per rischiare un’esemplificazione che Guglielmi non fa – imbocca il registro adatto quando contrasta la volgarità della televisione berlusconizzata recitando, negli spazi televisivi che gli si aprono, Platone, Dante e Voltaire. Moretti fa bene ad esigere che D’Alema dica “qualcosa di sinistra”, ma come artista a lui stesso spetta di dire qualcosa di reale e di bello: se destra o sinistra temono di restarne danneggiati, che si riposizionino. Come ha scritto di recente il drammaturgo spagnolo Alfonso Sastre – in un dialogo con la propria ombra non a caso intitolato La deriva degli intellettuali. A proposito di intellettuali e utopia (Datanews, Roma 2005) – “Goebbels sapeva a chi pensare quando diceva che appena sentiva la parola intellettuali metteva mano alla fondina della pistola”, ma non è meno pericoloso che “ci dicano, come Lenin ci disse, che gli intellettuali debbono stare nel Partito”.
Una terza indicazione la riprendo, nuovamente, dall’intervento di Ferroni. E’ necessario che gli intellettuali reimparino a “prendere di petto lo stato dolente del mondo”, a “farci vedere ciò che non riusciamo a vedere, farci capire ciò che non riusciamo a capire”. Ma è anche sufficiente? Se letteratura e saggistica serie stentano a incidere nel corso degli avvenimenti storici, non è soprattutto perché mancano lettori all’altezza? L’editoria è, fra tanto altro, un mercato. Dunque un ambito in cui la domanda condiziona l’offerta (almeno quanto l’inverso). Se scuola e università sfornano diplomati e laureati che non leggono se non sotto prescrizione a fini utilitaristici (perché gli stessi insegnanti, medi e universitari, hanno sempre meno tempo e voglia di dedicarsi alla lettura ‘gratuita’), se persino i quotidiani sono acquistati da una minoranza trascurabile di cittadini, a chi dovrebbero parlare eventuali intellettuali che superassero l’attuale “incapacità di guardare al senso del presente”? Ecco perché “la riflessione sullo stato depresso del mondo letterario italiano dovrebbe andare di pari passo con quella sullo stato depresso della nostra università, delle nostre scuole, dell’insieme dei processi di formazione e di comunicazione”.

venerdì 17 marzo 2006

LA VITA DI BIAGIO CONTE


Centonove
17.3.06

LA CITTA’ DEI POVERI

La prima volta che le cronache si interessarono di lui fu all’inizio degli anni novanta, quando i genitori preoccupati lanciarono un appello a “Chi l’ha visto?” e – implacabilmente – fu riacciuffato dalla Grande Sorella. Biagio Conte era già in Calabria e non si lasciò fermare: incontrò i familiari accorsi a Paola, ma proseguì a piedi verso Assisi. Tornato a Palermo, vagabonda per la città con la verga e l’inseparabile cagnolino. Davanti il bivio decisivo: la lenta dissoluzione, psichica e fisica, del barbone o il farsi carico di chi da barbone vive e agonizza e muore. Sappiamo come è andata, come sta andando: e lui stesso, con l’aiuto determinante di Giacomo Pilati, ha voluto raccontarlo in un libro breve ed intenso (La città dei poveri. La mia vita per gli ultimi, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005).

Pur se filtrato dall’abile mediazione del giornalista che traduce in scrittura la narrazione verbale, in molte pagine traspare un intento apologetico – talora persino agiografico – che può infastidire. Sarebbe stato, però, sleale cancellare quest’aura di carisma, di missione profetica: fa tutt’uno col personaggio reale. E’ la debolezza, ma anche la forza, dell’esperienza di Fratel Biagio. E’ la debolezza perché, in questi lunghi anni di attività in città, non ha voluto fare gioco di squadra con nessuna organizzazione, cattolica o laica: convinto di obbedire a una voce che non è di questo mondo, ha preferito assumere l’iniziativa, scegliersi i compagni di strada e costruire da zero la sua opera. Nel suo stile anarchicamente francescano rivive qualcosa del furore spiazzante dei “folli di Dio” di medievale memoria. Eppure proprio questo piglio leaderistico, questa imprevedibilità che gli fa seguire l’ispirazione del momento senza nessun (almeno riconoscibile) progetto condiviso, è anche la ragione del suo fascino. Più guru che stratega del sociale, costituisce ciò non ostante - o, forse, proprio per questo - un polo d’attrazione straordinario. Qualche frate e qualche suora, un prete salesiano e soprattutto centinaia di volontari laici (di ogni età e condivisione sociale: studenti, medici, pensionati, casalinghe…) gli hanno consentito di aprire a Palermo tre grandi centri di accoglienza per emarginati: la “Missione Speranza e Carità” in un ex disinfettatoio comunale in via Archirafi; l’Accoglienza femminile nell’ex convento di Santa Caterina in via Garibaldi e, soprattutto, la “Cittadella del povero” nella caserma aeronautica abbandonata di via Decollati. Tenere in piedi tutti i giorni una mensa che sforna tre pasti al giorno per 600 persone, un ambulatorio medico con specialisti, una roulotte che la notte gira per offrire assistenza a chi preferisce il marciapiede al ricovero non è esattamente uno scherzo.
E’ ancora presto per farsi un giudizio su questa storia, non poco contraddittoria, che va svolgendosi sotto gli occhi - ora solidali ora indifferenti – dei concittadini. Non è facile (e forse neppure lecito) scavare nel groviglio psicologico delle motivazioni che spingono tante persone ad un’impresa del genere: ma l’atteggiamento di base non può essere che di attenzione. E di rispetto. Turbati dallo spettacolo di tanti connazionali emarginati dai meccanismi capitalistici, le cui fila sono di giorno in giorno ingrossate dai disgraziati in fuga dal Terzo e dal Quarto Mondo, Biagio Conte e i suoi collaboratori provano a dare, con ammirevole fedeltà quotidiana, una prima risposta: “La miseria non è una professione. E non è vero che c’è un destino segnato per ciascuno di noi. E’ una bugia che il tondo non può morire quadrato, come si dice a Palermo. Una geometria che assolve dal peccato di non cambiare le cose. Tutti hanno diritto ad un tetto, ad un po’ di affetto, ad un pezzo di pane” (p. 53). Il problema non sta in questa generosità di slancio, ma nella strumentalizzazione che le istituzioni civili ed ecclesiastiche possono operare. Benedicendo Francesco d’Assisi e approvandone con modifiche la “Regola”, la chiesa medievale ha trovato l’espediente per non mettere in discussione i privilegi del clero né le gerarchie sociali. La situazione odierna è diversa? Mostrarsi benevoli con questo volontariato un po’ naif non potrebbe servire a legittimare il moderatismo all’interno e all’esterno delle strutture ecclesiali? Che il cardinale De Giorgi vada a pranzo con i barboni di via Archirafi è un gesto certamente apprezzabile: ma questo non deve mettere in sordina la questione (annosa, sinora irrisolta) della trasparenza nella gestione dei tanti beni immobili di proprietà della curia arcivescovile (e di tante congregazioni religiose presenti in diocesi) . Altrettanto ammirevole è che il Comune rimborsi alle strutture di Biagio Conte le spese essenziali (luce, gas, acqua): ma questo non deve servire a distrarre l’attenzione da un bilancio comunale che ogni anno taglia i fondi per i servizi sociali ed aumenta le disponibilità per le spese di rappresentanza del Sindaco e della sua giunta. Solo pochi mesi fa, in occasione del Natale, l’amministrazione cittadina ha consegnato a ciascun consigliere comunale 100 panettoni da distribuire, a piacimento, ai ‘poveri’ del suo giro. Per quanto mi risulta, solo i due consiglieri di Rifondazione comunista hanno rimandato al mittente il pacco, contestando questa visione distorta e umiliante della solidarietà sociale e chiedendo, con un documento, una diversa destinazione del denaro pubblico.

martedì 14 marzo 2006

VOLONTARIATO A PALERMO


Repubblica – Palermo 14.3.06

CESVOP
Mondo solidale
Periodico
Pagine 36
Distribuzione gratuita

Da alcuni anni, l’arcipelago del volontariato palermitano ha un preziosa punto di riferimento nel Cesvop (un centro di servizi legali, fiscali e formativi). La struttura produce, fra l’altro, il periodico “Mondo solidale” che, con qualche ingenuità redazionale, va comunque crescendo qualitativamente di numero in numero. L’ultimo è dedicato a varie modalità di impegno sociale delle donne. Vincenzo Borruso illustra i dati statico-sociologi attuali, Rosanna Fiorentino rievoca la figura di Rosita Lanza di Scalea (antesignana dei consultori pubblici e della legalizzazione dei mezzi contraccettivi) , Giovanna Mastrogiovanni delinea la filosofia di fondo dell’impegno al femminile. Numerose collaboratrici raccontano tale impegno sia in organizzazioni di volontariato (“Centri aiuto alla vita”, Avulss, Laboratorio “Zen Insieme”, Afipres “Marco Saura” per la prevenzione dei suicidi, la rivista “Mezzocielo”, il centro di accoglienza “Onde” dell’UDI) sia in iniziative – come la cooperativa “Siciliadonne” e “Soleluna” – tese a tradurre la solidarietà in imprese produttive.