venerdì 28 aprile 2006

CONTRO IL RACKET


“Repubblica – Palermo”
28.4.06

LA RIVOLUZIONE CHE PARTE DAI COMMERCIANTI ANTIPIZZO

Martedì 2 maggio, alle 10, poche ore prima dell’udienza di uno dei tanti processi che vedono imputato Bernardo Provenzano, il “Comitato Addiopizzo” taglia il primo traguardo. A un anno dal lancio della campagna “Contro il pizzo cambia i consumi”, presenterà, in conferenza stampa nazionale nella Sala Magna dello Steri, sede del rettorato dell’Università degli Studi, una lista di 100 commercianti, di Palermo e provincia, che non pagano il pizzo e lo dichiarano pubblicamente. Una lista che fa da indispensabile pendant all’elenco di più di 7000 clienti che si sono, sino ad ora, impegnati a fare consumo critico, preferendo “pagare chi non paga”.

Comprensibile la soddisfazione dei giovani e degli imprenditori che hanno promosso l’iniziativa (definita, da una ragazza del gruppo, “significativa quanto la cattura di Provenzano”): chi, sin dall’inizio, appariva scettico su questo primo - circoscritto - obiettivo, dovrà ricredersi. Anche in Sicilia è possibile che una sia pur minima percentuale di cittadini alzi la testa piegata sotto il giogo mafioso. Ed è un sintomo di gioia trasformare lo slogan iniziale (”Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità“) in una formulazione al positivo: “Un intero popolo che non paga il pizzo è un popolo Libero” (dove la maiuscola non è errore ortografico, ma felice allusione a Libero Grassi).
Alle autorità competenti ed ai semplici cittadini, che hanno accompagnato questi ragazzi nei loro primi passi, spetta adesso l’onere di non abbandonarli: anche per evitare che la soddisfazione diventi trionfalismo e il trionfalismo delusione.
Prima di tutto, sullo stesso piano in cui si è operato sino ad ora, è necessario moltiplicare i consensi. Ci sono ambiti in cui la quantità fa la qualità: cento commercianti disubbidienti costituiscono un segno profetico, diecimila un fatto storico. E resistere in diecimila è molto più facile che in cento. Perciò davvero i consumatori dobbiamo preoccuparci di incrementare sensibilmente gli introiti dei negozi e delle ditte che hanno avuto il coraggio di esporsi. Dimostrando che l’antimafia può essere conveniente, che (secondo la lezione di Tano Grasso) i valori possono coniugarsi con gli interessi.
Secondariamente, è necessario inserire questa battaglia in una strategia economica più ampia. Il sistema mafioso - intendo dire - va prosciugato contemporaneamente da ogni altro canale di finanziamento. Non pagare il pizzo, o lasciare che siano sempre meno gli operatori che lo pagano, è importante: ma non è tutto. Occorre stroncare l’usura, la produzione e lo smercio delle droghe, il contrabbando delle sigarette, il giro delle scommesse clandestine sulle corse dei cavalli o le lotte fra i cani, lo smaltimento dei rifiuti (soprattutto tossici), l’abusivismo edilizio nei centri urbani e sui luoghi di villeggiatura, i rimborsi gonfiati alle strutture sanitarie private, l’assegnazione spartitoria degli appalti…
Ciascuno di questi esempi tira in ballo istituzioni pubbliche: il sistema creditizio bancario, la normativa nazionale sui tossicodipendenti (con la questione, non irrilevante, della depenalizzazione dell’uso personale delle droghe leggere), la vigilanza della Guardia di Finanza, dei Carabinieri e della Polizia di Stato, la tempestività dell’azione giudiziaria, la trasparenza dei municipi…E’ del tutto evidente, dunque, che ogni strategia economica di contrasto al dominio mafioso, per quanto intesa e realizzata in senso allargato, va a sua volta inserita in un quadro complessivo ancora più generale. Essa, infatti, presuppone - alle spalle e davanti - un ricambio radicale del ceto politico, un aggiornamento meditato ma coraggioso della legislazione, un ripensamento dell’etica personale e pubblica. Ce n’è abbastanza per scoraggiarsi? Forse. Non meno grave, però, sarebbe il rischio opposto della semplificazione. Sterile, infatti, la posizione massimalista di certa sinistra che, con tono di sufficienza, deride i piccoli risultati settoriali; ma deludente la miopia dei ‘moderati’ che procedono, di mossa in mossa, senza un progetto d’insieme. Non resta che una direzione: uno scatto di orgoglio civile che faccia vibrare, trasversalmente, gli onesti di ogni schieramento partitico e culturale. Che convinca gli elettori di sinistra, di centro e di destra della priorità di rimandare a casa qualsiasi amministratore in rapporti , stabili e documentati, con esponenti di “Cosa nostra”. Che sradichi, alla base, la possibilità di leggere altre intercettazioni ambientali in cui un mafioso confidi ad un altro tutta la sua diffidenza verso i politici in attività (”Non ti fidare, è gente poco seria”). Tra poche settimane l’apertura dei seggi elettorali consentirà questa possibilità concentrando i consensi su una donna al di sopra di ogni sospetto: chi, legittimamente, non ne approfitterà, abbia il buon gusto di non lamentarsi per i prossimi vent’anni.
Da progressista non mi entusiasmo per nulla allo spettacolo di un deputato centrista che, se vuole provare ad essere coerentemente antimafioso, deve abbandonare le proprie fila. Se mi venisse in mente il modo, preferirei dargli una mano affinché vincesse la battaglia di legalità e di democrazia all’interno delle sue organizzazioni in nome di un conservatorismo dignitoso. Vicende del genere, da gestire con elasticità in una prospettiva tattica, cessano di essere auspicabili in un’ottica strategica. In un’ottica che coltivi l’alberello senza dimenticare la foresta: che prenda sul serio, dunque, l’iniziativa dei ragazzi antipizzo o il disagio del deputato neodemocristiano, ma lavorando per una società altra in cui i mafiosi non possano più distinguere tanto facilmente - per così dire automaticamente - i fronti avversi dagli schieramenti amici.

PER UNA CHIESA DI STRADA


“Centonove” 28.4.06
Fuori dal tempio

Due parole - chiave
In un certo senso, il titolo del libro (Per una chiesa di strada, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005) dice tutto. Ma, in chi non fosse aduso al linguaggio teologico, potrebbe suscitare qualche fraintendimento. La prima delle due parole-chiave è “chiesa”: e la stragrande maggioranza dei lettori, quando la ode o la pronunzia, pensa alla gerarchia ecclesiastica (papa, vescovi e preti; al massimo, anche frati e suore). In effetti, sino al 1965 (anno di chiusura del Concilio ecumenico Vaticano II), anche in ambito cattolico il significato prevalente era questo giuridico-istituzionale. Ma la “Costituzione” sull’origine e la missione della chiesa - emanata appunto nel 1965 - segnò una svolta rivoluzionaria di cui ancora si stentano a percepire gli effetti nella mentalità e - dunque - nel linguaggio comuni. Senza rinnegare l’aspetto gerarchico, il documento insiste nell’incorporare questo aspetto in una visione più completa: la chiesa come “popolo di Dio”, società visibile di uomini e donne che devono essere “segno e strumento” del progetto salvifico di Dio in Gesù Cristo. Dunque anche i “laici” ne fanno parte a pieno titolo (laico non significa, etimologicamente, appartenente al ‘popolo’ - in greco: laos - dei battezzati?) ed hanno il diritto/ dovere - esattamente come i fratelli che hanno ricevuto l’ordinazione presbiteriale - di annunziare il vangelo, santificare il quotidiano e lavorare per la promozione del creato. Se questo è vero, è inesatto dire che la “chiesa” sostiene questa o quella tesi solo perché lo ha detto il papa o un gruppo di vescovi: questo modo di esprimersi dovrebbe essere considerato parziale, riduttivo, come se si dicesse “chiesa” per indicare soltanto un intellettuale cattolico o un’associazione di cattolici. Nel libro (e, prima ancora, negli interventi sulla pagina palermitana di “Repubblica” qui raccolti) colgo dunque, fra altre, questa tensione: la chiesa (nella sua accezione allargata e comprensiva) come Rosario Giué la interpreta e la sogna, da una parte, e la chiesa (come sinonimo di magistero ufficiale) come viene intesa nella sua accezione abituale. Non credo di andare troppo lontano dal vero affermando che uno dei motivi per cui l’autore - ormai da anni e a vario titolo - opera e scrive è proprio il desiderio di contribuire al superamento di questo iato fra modello ideale e pratica effettiva.

La distanza fra la macro-chiesa e la micro-chiesa (come si esprimerebbe Raimundo Panikkar) potrebbe azzerarsi solo se, riscoprendo la propria missione originaria, la chiesa attuale decidesse di “uscire dal tempio” (come recita il titolo di un libro, ormai non più recente, di p. Bartolomeo Sorge): di andare sulla “strada”. E siamo alla seconda parola-chiave del volume. Dunque ad una seconda possibilità di equivoci. Nell’accezione diffusa, infatti, la “strada” è sinonimo di perdizione, depravazione o - almeno - tentazione. Se di una persona si dice che è una donna di strada, non occorre aggiungere altro. Ma Rosario Giué intende “strada” in senso abbastanza diverso: “come luogo del cammino, dell’incontro, delle diversità, delle povertà, della fatica, della ricerca, della costruzione della storia comune” (p. 13). Insomma come sfida alle proprie certezze e alle proprie paure: come oppurtunità di crescita. E’ il senso in cui a Torino prima (da parte del gruppo “Abele” di don Luigi Ciotti), a Palermo dopo (per iniziativa di alcuni di noi) si sono denominate “università della strada” delle strutture permamenti di formazione per operatori sociali sia professionisti che volontari. Che significa che anche la chiesa debba calpestare i sentieri della storia? Che debba “uscire con umiltà dal proprio tempio per imparare laicamente dai ’segni dei tempi’, dall’inedito che emerge dalla società e farsene trasformare” (p. 14). Si potrebbe dire, con qualche semplificazione, che essa deve rinunziare ad essere - sempre e comunque - “madre e maestra” per farsi, piuttosto, “sorella e discepola”. Sorella dell’umanità e discepola dello Spirito divino che parla, anche, attraverso l’umanità. Le occasioni sono molteplici e i vari interventi di Giué ne mettono a fuoco diverse: il groviglio dei poteri mafiosi, i tentativi di affaristico-politici di speculare sulle bellezze naturali anche a costo di comprometterle per sempre, i venti di guerra nel Mediterraneo, la tragedia dei ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari, il travaglio della condizione omosessuale, l’amarezza di chi non riesce a realizzare sino alla fine il progetto coniugale…
L’intenzionalità profonda che muove l’autore non è certamente distruttiva. Sulla scia di tanti altri protagonsiti del dibattito teologico contemporaneo, è convinto - come si esprime Leonardo Bof anche in una delle interviste raccolte nel suo Un papa difficile da amare, Datanews, Roma 2005 - che la “la chiesa non esiste per se stessa, ma per il mondo, esiste per alimentare la dimensione spirituale ed etica dell’umanità” e se molte “persone lasciano la chiesa” è “perché non la sentono più un focolare religioso a causa della rigidità delle dottrine, della mancanza di creatività nelle celebrazioni e della distanza con le questioni che muovono la società: le questioni della giustizia, della violenza, della pace, della salvaguardia della natura” (p. 11).

Valorizzare i “santi laici”
In questo ascolto dello Spirito divino che parla non solo attraverso la Bibbia o i santi ‘canonici’, ma anche attraverso delle persone che non si riconosco nella famiglia cristiana, può capitare di incontrare splendide personalità come Giovanni Impastato o Giovanni Falcone (per limitarmi ai casi su cui ritorna con più insistenza il libro). In proposito l’autore sostiene due cose che, nella sua ottica, sembrano coincidere e che per me andrebbero distinte. Sostiene infatti che siamo di fronte a “profeti laici” (ovviamente qui ‘laico’ è usato non più nel significato intra-ecclesiale di battezzato che non ha scelto di diventare né prete né suora, bensì nell’accezione più diffusa di cittadino né credente né praticante), a persone che “non attendono tempi migliori, ma giocano se stessi nel presente, in un concreto presente, svelando le ingiustie e il malaffare” (p. 157); e sostiene che sia disdicevole il fatto che “per i santi laici (…), sulla base di umane distinzioni, oggi non si trova ancora il modo per fare spazio nella politica ecclesiastica delle beatificazioni” (p. 145). Ora, mentre sulla prima asserzione non dovrebbero esserci dubbi (anche nella vita di uno che si dichiara ateo può trovarsi “un esempio con cui confrontarsi e una reale sapienza per interrogarsi su cosa fare della propria vita”, p. 154), sulla seconda è lecito porsi delle domande: sarebbe davvero opportuno che la chiesa cattolica canonizzasse anche questi personaggi, almeno nel senso generico di additarli alla venerazione e all’imitazione dei fedeli? Certo sarebbe un bel modo di incidere nell’immaginario collettivo, sradicando dalla mente delle persone l’idea che per essere riconosciuti ’santi’ bisogna mangiare poco e non fare l’amore (rimanendo vergini o, tuttalpiù, vedovi…) e non uno - come si legge nel vangelo secondo Giovanni al versetto 13 del capitolo 15 - essere capaci di dare la vita per gli altri; ma sarebbe anche rispettoso di chi, in vita, non si è riconosciuto negli schemi ecclesiali né ancor meno ecclesiastici? Che ne direbbe un Padro Pio da Pietralcina se, da morto, diventasse una star del firmamento induista o un’icona del politeismo sincretistico brasiliano attuale?
Comunque, quale che sia la decisione in proposito (anzi, l’opinione: perché la decisione spetta ai vertici della gerarchia vaticana ed è facile immaginare quale sarà per i prossimi tre secoli), per la teologia cattolica questa problematica dovrebbe portare almeno ad una conclusione (che è poi quella che mi pare di leggere fra le righe e sulle righe di questi scritti): che non basta superare l’idea di chiesa come insieme di preti per allargarla sino alla totalità dei battezzati credenti e praticanti. No, bisogna fare un passo avanti: essa è l’insieme di tutti gli uomini e le donne che cercano con cuore sincero la verità e operano costruttivamente per rendere più abitabile il mondo.
E’ una prospettiva vertiginosa che può disorientare gli animi piccini. Ma, a ben vedere, nei primi secoli della storia cristiana vi era questa visione planetaria, cosmica. Lo stesso aggettivo ‘cattolico’ indicava, in greco, proprio questa dimensione ‘universale’. E lo stesso Agostino, il celebre e discusso ‘padre della chiesa’, ebbe una volta a scrivere che se è così - se essere dentro il popolo dei salvati non è questione di dichiarazioni verbali o di riti liturgici ma di coerenza interiore e di pulizia nelle azioni - allora “molti di quelli che sembrano dentro, in realtà sono fuori; e molti di quelli che sembrano fuori, in realtà sono dentro”.

domenica 23 aprile 2006

CULTURE DIVERSE


“Repubblica - Palermo” 23.4.06

Una lezione in Sicilia dalle donne dell’Islam

Solitamente confondiamo gli arabi (cittadini di una certa etnia) con gli islamici (seguaci di una certa religione): senza pensare che ci sono arabi non islamici (perché cristiani o politeisti) e islamici non arabi (perché europei o americani convertiti all’islamismo). Il mondo islamico - che è dunque molto più vasto del mondo arabo - ormai lo incontriamo quotidianamente: o perché visitiamo Paesi con forte presenza musulmana o perché i musulmani immigrano dalle nostre parti. Come rapportarci da cristiani (o, più ampiamente, da occidentali)?

L’atteggiamento xenofobo e diffidente dei conservatori ottusi (i conservatori perspicaci esistono - e la pensano diversamente) non pone molti interrogativi: serrare le fila, ripiegarsi nella propria identità, boicottare ogni contaminazione. Se non, addirittura, preoccuparsi di dare - con l’aiuto di missili intelligenti - qualche dimostrazione preventiva della superiorità dell’Impero del Bene.
Più problematica la scelta di chi capisce che questa chiusura a riccio è, prima che autolesionistica, impraticabile. Infatti l’intenzione di dialogare può tradursi - concretamente - in un ampio ventaglio di opzioni. E non tutte apprezzabili.
L’errore più immediato consiste nell’accostarsi al mondo islamico con il retropensiero di possedere il modello di civiltà ‘evoluto’ (democrazia politica, capitalismo economico, universalismo etico…) e di dover, con tattica paternalistica, accompagnare i musulmani ‘moderati’ verso la nostra consolidata maturità. Come se alcuni dei patrimoni di cui più ci vantiamo in Occidente (filosofia, arte, aritmetica, scienze naturali, medicina, tecnologie…e la stessa pratica della tolleranza verso le minoranze) non derivassero - direttamente o mediatamente - proprio da quella tradizione. Meno viscerale, ma non meno fuorviante, l’atteggiamento di chi rinunzia a confrontarsi criticamente con i musulmani per una sorta di agnosticismo totale : in assenza di criteri di giudizio non resterebbe che accettare i diversi sistemi culturali, politici, giuridici ed economici. Così, in omaggio al relativismo, nessuna discussione sull’autonomia della ragione rispetto alla rivelazione o sul diritto dei singoli alla libertà religiosa o sulla condizione della donna. Con la conseguenza, davvero paradossale, di lasciare isolati proprio quegli intellettuali islamici che - faticosamente - cercano di ripristinare all’interno delle loro società la spregiudicata libertà di ricerca in altre epoche sperimentata.
Convinti che (con gli islamici, ma non solo) si possa dialogare da posizioni di pari dignità, senza per questo dover nascondere o annacquare le differenze, un gruppo di cittadini di Cefalù ha fondato, ormai da più di un decennio, il Centro ecumenico aconfessionale “La palma” (via Porta Giudecca, 1) e organizzato delle iniziative di notevole interesse (invitando personalità di rilievo europeo). Il programma per la primavera del 2006 si profila doppiamente intrigante. Se dopo l’11 settembre 2001 ” l’Islam è diventato, per tutti noi, il diverso per eccellenza”, quest’anno l’associazione ha deciso di occuparsi “della diversità dell’Islam da una prospettiva che è già ‘diversa’ al suo interno, cioè da una prospettiva femminile”. Sono state, infatti, scelte tre donne per introdurre (alle ore 17 di tre sabati ) alla conoscenza dell’universo musulmano con particolare attenzione alla condizione di chi vive nel contesto italiano: Souad Sbai (Presidente Associazione Donne Marocchine) e Nacéra Benali (giornalista) che hanno già parlato l’8 ed il 22 aprile, Karima Moual (pubblicista) il 6 maggio. E in effetti - come leggiamo ad esempio nel volumetto di Hans Kung L’intellettuale nell’Islam, a cura di Gerardo Cunico, pubblicato in questi mesi dalle Edizioni Diabasis - proprio il modo di interpretare il ruolo della donna costituisce uno degli aspetti salienti della “questione decisiva” dell’Islàm odierno: “coniugare la propria sostanza con le sfide del XXI secolo”, ossia “prendere risolutamente la via della modernità e anzi della post-modernità, senza rinunciare alla propria specifica identità, ma anzi proprio salvaguardando, valorizzando e autenticando la propria essenza” (p. 62).
Ottone di Bismark, cancelliere prussiano non esattamente ‘progressista’ del XIX secolo, sosteneva che i politicanti agiscono in vista delle elezioni successive e gli statisti in vista delle generazioni successive. Non è difficile stabilire a quale livello si librano iniziative come questa di Cefalù, dettate dalla “speranza di costruire un mondo che, pur nella diversità e nella pluralità, viva nella fraternità e nella pace”.

giovedì 20 aprile 2006

BIBBIA E LUPARA


Repubblica - Palermo
20.4.06

Una bibbia come espediente per la mafia e il suo contesto

La cronaca della cattura di Provengano ha attestato, ancora una volta, l’inquietante compresenza di Bibbia e lupara nelle tane dei mafiosi. Solo una nota di colore o, al più, la conferma di relazioni pericolose fra potere ecclesiastico e poteri illegali? Probabilmente si tratta di un indizio che rimanda a scenari più complessi, solitamente trascurati. Ne abbozziamo alcuni.
La problematica che viene, in prima istanza, coinvolta riguarda l’ambito - circoscritto ma non ristretto – di coloro che (ebrei, cristiani e musulmani) si riconoscono, con differenze interne, nel Libro: in modo particolare nell’Antico Testamento. I credenti nelle tre grandi religioni monoteistiche del Mediterraneo non possono più differire la loro risposta ad un dato di fatto evidente: il Dio della Bibbia - come scrive ad esempio il noto esegeta cattolico Giuseppe Barbaglio – è un Giano bifronte. Un Giano che mostra, secondo le pagine dei tanti libri che costituiscono la “Biblioteca”, un volto di misericordia, di pace e di perdono ma anche di ira, di guerra e di vendetta. Questa concezione è incompatibile con la coscienza moderna e va dunque, coraggiosamente, rivista. Sino a quando si privilegerà una lettura ‘letteralista’ (o ‘fondamentalista’) del Testo principe dell’Occidente, si lasceranno aperte le porte ad ogni genere di applicazione terroristica e criminale. E’ venuto il momento di capire - e di insegnare alle giovani generazioni nelle parrocchie, nelle sinagoghe e nelle moschee – che la sacra Scrittura non è dettata parola per parola dallo Spirito santo e che, piuttosto, testimonia una fase storica (di due millenni fa) della faticosa e mai esauribile ricerca religiosa di alcuni popoli. Un modello a cui guardare per andare avanti, dunque: non un feticcio da imbalsamare ed applicare meccanicamente.

Una seconda problematica sollevata dal sequestro dei volumi meditati da Provengano possiede dimensioni più vaste e interessa chiunque si occupi, al di là degli aspetti teologici, del fenomeno mafioso. I capi di “Cosa nostra” fanno tanto spesso ricorso a fonti letterarie così autorevoli perché, più o meno inconsciamente, cercano una legittimazione ideologica del loro potere effettivo. Ai loro stessi occhi la mafia non si esaurisce nei fattori (per altro costitutivi ed essenziali) dell’organizzazione militare, dell’arricchimento economico e della complicità con le istituzioni civili ma comprende anche – per riprendere l’espressione suggerita da Umberto Santino – un “codice culturale”: un insieme di credenze, principi etici, simboli, norme, tradizioni…
Se questo è vero, la lotta al sistema di dominio mafioso deve partire dal piano repressivo, finanziario e politico ma non può limitarsi ad esso: deve farsi anche battaglia culturale, rivoluzione intellettuale ed etica. Non basta dunque destrutturare dottrine aberranti e morali ambigue: è necessario controproporre una “visione del mondo” più lucida e principi d’orientamento operativo più argomentati. Nel vuoto di criteri di giudizio e, soprattutto, di buone pratiche c’è spazio per ogni organizzazione criminale che abbia solo l’apparenza di una comunità fondata su valori e donatrice di senso. La società siciliana non si libererà da questo cancro sino a quando sarà autoindulgente e tollererà facilmente, al proprio interno, atteggiamenti paternalistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e “alegali”(l’aggettivo più ricorrente nelle recenti analisi di Antonio La Spina): in somma, atteggiamenti mafiosi e paramafiosi. Ecco perché la partita si gioca nella quotidianità delle relazioni umane dentro le scuole, le facoltà universitarie, gli ospedali, gli uffici pubblici, le imprese commerciali, le banche; nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali. Purtroppo, in proposito, arrivano segnali contraddittori: sondaggi (parziali) documenterebbero un crescente consenso per personaggi – come Rita Borsellino – che incarnano senza ombre e senza equivoci la cultura del confronto critico, della solidarietà, della partecipazione attiva; ma ancora alle ultime consultazioni milioni di siciliani si sono espressi a favore di personaggi rappresentativi di quel modo di vedere e di condurre la vita che, in niente o quasi, si differenzia dalla filosofia della mafia. Personaggi antropologicamente troppo simili ai Provenzano che vengono arrestati ed ai colonnelli che subentrano al loro posto: per i quali i valori e le norme sono specchietto per le allodole o, nel migliore dei casi, spunti retorici per discorsi ufficiali. E la stessa religione un inventario di espedienti per lavarsi la coscienza (dentro) e per rendere presentabile la propria immagine pubblica (all’esterno).

mercoledì 5 aprile 2006

VOLONTARIATO E MASSMEDIA


Repubblica – Palermo 5.4.05
Augusto Cavadi 

Il volontariato trova spazio adeguato nei massmedia? Due docenti universitarie sono state incaricate dal CESV di Messina di rispondere alla domanda in maniera scientifica, analizzando soprattutto gli articoli sull’argomento apparsi nei tre quotidiani più diffusi in quella provincia. La risposta non si differenzia sensibilmente dalla media italiana: ed è negativa. Ma quali le ragioni di questa relativa invisibilità dei volontari sulla carta stampata? Da una parte, non c’è dubbio che i giornalisti non sono attratti da un’azione diuturna, nascosta, ‘normale’ che difficilmente si presta a scoop. Dall’altra parte, poi, il volontariato non sa raccontarsi, non cura la propria immagine pubblica: forse, nella maggior parte dei casi, è il primo a mancare di una adeguata interpretazione della propria identità. Morale della favola: chi lavora nelle redazioni dovrebbe imparare a scavare, nella quotidianità, per leggere il significato di fenomeni sociali diffusi, ma chi opera nell’associazionismo dovrebbe imparare a comunicare senza perdersi nei dettagli e senza annoiare.

MARINA FORESTIERI  - CONCETTA MAGRO
IL VOLONTARIATO MESSINESE ATTRAVERSO AL STAMPA

Edizioni Gruppo Abele
Pagine 64
Euro 8