venerdì 28 aprile 2006

PER UNA CHIESA DI STRADA


“Centonove” 28.4.06
Fuori dal tempio

Due parole - chiave
In un certo senso, il titolo del libro (Per una chiesa di strada, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005) dice tutto. Ma, in chi non fosse aduso al linguaggio teologico, potrebbe suscitare qualche fraintendimento. La prima delle due parole-chiave è “chiesa”: e la stragrande maggioranza dei lettori, quando la ode o la pronunzia, pensa alla gerarchia ecclesiastica (papa, vescovi e preti; al massimo, anche frati e suore). In effetti, sino al 1965 (anno di chiusura del Concilio ecumenico Vaticano II), anche in ambito cattolico il significato prevalente era questo giuridico-istituzionale. Ma la “Costituzione” sull’origine e la missione della chiesa - emanata appunto nel 1965 - segnò una svolta rivoluzionaria di cui ancora si stentano a percepire gli effetti nella mentalità e - dunque - nel linguaggio comuni. Senza rinnegare l’aspetto gerarchico, il documento insiste nell’incorporare questo aspetto in una visione più completa: la chiesa come “popolo di Dio”, società visibile di uomini e donne che devono essere “segno e strumento” del progetto salvifico di Dio in Gesù Cristo. Dunque anche i “laici” ne fanno parte a pieno titolo (laico non significa, etimologicamente, appartenente al ‘popolo’ - in greco: laos - dei battezzati?) ed hanno il diritto/ dovere - esattamente come i fratelli che hanno ricevuto l’ordinazione presbiteriale - di annunziare il vangelo, santificare il quotidiano e lavorare per la promozione del creato. Se questo è vero, è inesatto dire che la “chiesa” sostiene questa o quella tesi solo perché lo ha detto il papa o un gruppo di vescovi: questo modo di esprimersi dovrebbe essere considerato parziale, riduttivo, come se si dicesse “chiesa” per indicare soltanto un intellettuale cattolico o un’associazione di cattolici. Nel libro (e, prima ancora, negli interventi sulla pagina palermitana di “Repubblica” qui raccolti) colgo dunque, fra altre, questa tensione: la chiesa (nella sua accezione allargata e comprensiva) come Rosario Giué la interpreta e la sogna, da una parte, e la chiesa (come sinonimo di magistero ufficiale) come viene intesa nella sua accezione abituale. Non credo di andare troppo lontano dal vero affermando che uno dei motivi per cui l’autore - ormai da anni e a vario titolo - opera e scrive è proprio il desiderio di contribuire al superamento di questo iato fra modello ideale e pratica effettiva.

La distanza fra la macro-chiesa e la micro-chiesa (come si esprimerebbe Raimundo Panikkar) potrebbe azzerarsi solo se, riscoprendo la propria missione originaria, la chiesa attuale decidesse di “uscire dal tempio” (come recita il titolo di un libro, ormai non più recente, di p. Bartolomeo Sorge): di andare sulla “strada”. E siamo alla seconda parola-chiave del volume. Dunque ad una seconda possibilità di equivoci. Nell’accezione diffusa, infatti, la “strada” è sinonimo di perdizione, depravazione o - almeno - tentazione. Se di una persona si dice che è una donna di strada, non occorre aggiungere altro. Ma Rosario Giué intende “strada” in senso abbastanza diverso: “come luogo del cammino, dell’incontro, delle diversità, delle povertà, della fatica, della ricerca, della costruzione della storia comune” (p. 13). Insomma come sfida alle proprie certezze e alle proprie paure: come oppurtunità di crescita. E’ il senso in cui a Torino prima (da parte del gruppo “Abele” di don Luigi Ciotti), a Palermo dopo (per iniziativa di alcuni di noi) si sono denominate “università della strada” delle strutture permamenti di formazione per operatori sociali sia professionisti che volontari. Che significa che anche la chiesa debba calpestare i sentieri della storia? Che debba “uscire con umiltà dal proprio tempio per imparare laicamente dai ’segni dei tempi’, dall’inedito che emerge dalla società e farsene trasformare” (p. 14). Si potrebbe dire, con qualche semplificazione, che essa deve rinunziare ad essere - sempre e comunque - “madre e maestra” per farsi, piuttosto, “sorella e discepola”. Sorella dell’umanità e discepola dello Spirito divino che parla, anche, attraverso l’umanità. Le occasioni sono molteplici e i vari interventi di Giué ne mettono a fuoco diverse: il groviglio dei poteri mafiosi, i tentativi di affaristico-politici di speculare sulle bellezze naturali anche a costo di comprometterle per sempre, i venti di guerra nel Mediterraneo, la tragedia dei ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari, il travaglio della condizione omosessuale, l’amarezza di chi non riesce a realizzare sino alla fine il progetto coniugale…
L’intenzionalità profonda che muove l’autore non è certamente distruttiva. Sulla scia di tanti altri protagonsiti del dibattito teologico contemporaneo, è convinto - come si esprime Leonardo Bof anche in una delle interviste raccolte nel suo Un papa difficile da amare, Datanews, Roma 2005 - che la “la chiesa non esiste per se stessa, ma per il mondo, esiste per alimentare la dimensione spirituale ed etica dell’umanità” e se molte “persone lasciano la chiesa” è “perché non la sentono più un focolare religioso a causa della rigidità delle dottrine, della mancanza di creatività nelle celebrazioni e della distanza con le questioni che muovono la società: le questioni della giustizia, della violenza, della pace, della salvaguardia della natura” (p. 11).

Valorizzare i “santi laici”
In questo ascolto dello Spirito divino che parla non solo attraverso la Bibbia o i santi ‘canonici’, ma anche attraverso delle persone che non si riconosco nella famiglia cristiana, può capitare di incontrare splendide personalità come Giovanni Impastato o Giovanni Falcone (per limitarmi ai casi su cui ritorna con più insistenza il libro). In proposito l’autore sostiene due cose che, nella sua ottica, sembrano coincidere e che per me andrebbero distinte. Sostiene infatti che siamo di fronte a “profeti laici” (ovviamente qui ‘laico’ è usato non più nel significato intra-ecclesiale di battezzato che non ha scelto di diventare né prete né suora, bensì nell’accezione più diffusa di cittadino né credente né praticante), a persone che “non attendono tempi migliori, ma giocano se stessi nel presente, in un concreto presente, svelando le ingiustie e il malaffare” (p. 157); e sostiene che sia disdicevole il fatto che “per i santi laici (…), sulla base di umane distinzioni, oggi non si trova ancora il modo per fare spazio nella politica ecclesiastica delle beatificazioni” (p. 145). Ora, mentre sulla prima asserzione non dovrebbero esserci dubbi (anche nella vita di uno che si dichiara ateo può trovarsi “un esempio con cui confrontarsi e una reale sapienza per interrogarsi su cosa fare della propria vita”, p. 154), sulla seconda è lecito porsi delle domande: sarebbe davvero opportuno che la chiesa cattolica canonizzasse anche questi personaggi, almeno nel senso generico di additarli alla venerazione e all’imitazione dei fedeli? Certo sarebbe un bel modo di incidere nell’immaginario collettivo, sradicando dalla mente delle persone l’idea che per essere riconosciuti ’santi’ bisogna mangiare poco e non fare l’amore (rimanendo vergini o, tuttalpiù, vedovi…) e non uno - come si legge nel vangelo secondo Giovanni al versetto 13 del capitolo 15 - essere capaci di dare la vita per gli altri; ma sarebbe anche rispettoso di chi, in vita, non si è riconosciuto negli schemi ecclesiali né ancor meno ecclesiastici? Che ne direbbe un Padro Pio da Pietralcina se, da morto, diventasse una star del firmamento induista o un’icona del politeismo sincretistico brasiliano attuale?
Comunque, quale che sia la decisione in proposito (anzi, l’opinione: perché la decisione spetta ai vertici della gerarchia vaticana ed è facile immaginare quale sarà per i prossimi tre secoli), per la teologia cattolica questa problematica dovrebbe portare almeno ad una conclusione (che è poi quella che mi pare di leggere fra le righe e sulle righe di questi scritti): che non basta superare l’idea di chiesa come insieme di preti per allargarla sino alla totalità dei battezzati credenti e praticanti. No, bisogna fare un passo avanti: essa è l’insieme di tutti gli uomini e le donne che cercano con cuore sincero la verità e operano costruttivamente per rendere più abitabile il mondo.
E’ una prospettiva vertiginosa che può disorientare gli animi piccini. Ma, a ben vedere, nei primi secoli della storia cristiana vi era questa visione planetaria, cosmica. Lo stesso aggettivo ‘cattolico’ indicava, in greco, proprio questa dimensione ‘universale’. E lo stesso Agostino, il celebre e discusso ‘padre della chiesa’, ebbe una volta a scrivere che se è così - se essere dentro il popolo dei salvati non è questione di dichiarazioni verbali o di riti liturgici ma di coerenza interiore e di pulizia nelle azioni - allora “molti di quelli che sembrano dentro, in realtà sono fuori; e molti di quelli che sembrano fuori, in realtà sono dentro”.

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