venerdì 29 settembre 2006

EUTANASIA A PETRALIA


“Repubblica – Palermo”
29.9.06

Malattia e dolore: una sfida culturale.

Pochi lo sanno, ma l’Ospedale Civico di Palermo si è dotato da alcuni anni di un hospice per malati terminali. Quando ho avuto modo di visitarlo, in circostanze non proprio allegre, stentavo a credere ai miei occhi: stanzette singole arredate di tutto punto e con gusto, corridoi lindissimi, salottini per leggere, vedere la tv o semplicemente conversare con gli ospiti. Si era davvero in una struttura pubblica del profondo Sud o in una clinica privata svizzera? Unico neo: la limitatissima recettività. Non più di quattordici degenti a volta (con lunghe, e dolorose, liste d’attesa).
Questo fiore all’occhiello del Civico non si sarebbe realizzato senza la testardaggine fattiva di alcuni operatori sanitari - come il direttore dell’unità operativa “cure palliative” Giorgio Trizzino - che da anni provano a modificare i tratti essenziali dell’atteggiamento culturale più diffuso nei confronti della sofferenza fisica. I medici, gli infermieri, i parenti, i malati stessi recepiscono - in genere – alquanto passivamente la duplice convinzione tradizionale che la vita biologica sia un valore assoluto, da salvaguardare ad ogni costo, e che il dolore ne costituisca una dimensione ineliminabile, anzi salutare.

Alla luce di questi due princìpi, tanto più condivisi quanto meno sottoposti a discernimento, si è sedimentata una prassi discutibile e, oltre un certo limite, francamente aberrante: la meritoria ricerca di nuovi rimedi clinici è diventata - lentamente ma inesorabilmente – accanimento terapeutico (sia a scopo di lucro nel caso dei pazienti danarosi sia a scopo sperimentale nel caso dei pazienti indigenti e indifesi). In più, e in peggio, questa spasmodica ricerca di espedienti per prolungare la sopravvivenza fisica del paziente (che sarebbe, comunque, sintomo di voglia di innovazione) non si accompagna ad un uguale attivismo nella ricerca di analgesici efficaci. Insomma: ci si ingegna ad allungare la vita senza sovvertire la radicata diffidenza verso tutti quei farmaci che possano, ottundendo la sensibilità del malato grave, lenirne la sofferenza organica e psichica. Ancora in queste settimane ho constatato un’inimmaginabile resistenza, da parte dei medici di base, ad assumersi la responsabilità deontologica di prescrivere oppiacei e altri sedativi forti a soggetti in preda ai sintomi tipici degli stadi terminali (anche per evitare la catena di adempimenti che la normativa attuale impone a chi prescriva simili farmaci). In questo clima culturale così arcaico è facile intuire quanto sia arduo anche solo impostare laicamente la questione della legalizzazione dell’eutanasia (come dimostra il vibrante appello dal suo giaciglio d’ospedale, al Capo dello Stato, di Piergiorgio Welby) .
Se la politica non fosse, come l’ha definita ironicamente qualcuno, l’arte di distrarre la gente dai problemi veramente rilevanti, sarebbe questo un ambito prioritario di riflessione e di mobilitazione popolare. Checché ne abbia scritto Francesco Merlo sulle pagine nazionali di “Repubblica”, infatti, è illogico ipotizzare che parlamento e governo si esonerino dal dovere di fissare - per quanto pochi ed essenziali – dei paletti giuridici. La preoccupazione dev’essere piuttosto un’altra: che Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi provino a sintonizzarsi con la reale coscienza etica dei cittadini (in questo caso – pare - illuminata) e non con centri di potere ecclesiastico (a cui, per altro, si attribuisce un seguito popolare più immaginario che effettivo persino fra i cattolici). E proprio per creare un’occasione democratica di informazione e di discussione sul tema, che possa fornire anche ai rappresentanti del potere legislativo indicazioni meditate, la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” organizza, nel week-end fra sabato 30 e domenica 1, un seminario residenziale presso l’ex-convento dei “Padri riformati” (oggi suggestiva sede universitaria) messo a disposizione dall’amministrazione comunale di Petralia Sottana (per iscrizioni tf. 091.514871-328.8135673-338.4907853- pspalla@neomedia.it). L’invito è rivolto a professionisti della sanità (tra cui cultori di medicine ‘alternative’), giuristi, filosofi e teologi: ma, soprattutto, alle persone ‘comuni’ che hanno sperimentato - o sperimentano in atto - la visita devastante della malattia nella loro casa se non, addirittura, nella loro carne. Ed anche a quanti si cullano nell’illusione infantile che certe cose debbano capitare soltanto agli altri. Le soluzioni istituzionali, sia normative che burocratiche ed organizzative, si trovano: ma non prima che l’evoluzione della coscienza collettiva ne avverta l’esigenza, le chieda con forza, pressi da vicino chi ha la titolarità per vararle. E ciò non avverrà sino a quando, già a livello mentale, non sarà maturata la convinzione che la difesa della vita biologica è sensata a patto che ciò non mortifichi altre dimensioni della persona; e che il dolore fa parte dell’esperienza umana di fatto, come uno scacco, non di diritto, come un merito. Insomma sino a quando la maggioranza dei cittadini - anche grazie all’opera degli intellettuali, degli artisti e dei mezzi di comunicazione - non si sarà convinta che, per quanto preziosa, la durata della vita è meno rilevante della sua qualità.

domenica 24 settembre 2006

IL MALESSERE DEL CRISTIANESIMO


Repubblica - Palermo
24.9.2006

Il segnale che arriva dal velodromo dello ZEN

Mentre le chiese (cattoliche e protestanti) di più antica tradizione si svuotano lentamente ma inesorabilmente, i movimenti evangelici e pentecostali di matrice nord-americana attirano ai loro raduni folle da stadio. I due incontri col predicatore Benn Hinn di cui abbiamo dato notizia ieri – dodicimila fedeli per ciascuna serata – sono solo la punta di un iceberg: a Palermo ci sono diverse chiese cristiane autonome (la più numerosa si riunisce in un salone di via dei Cantieri noto un tempo per il nome un po’ inquietante “Cupola”) che non eccezionalmente, ma settimanalmente, raccolgono migliaia di adepti convinti, anzi entusiasti.

L’atteggiamento più spontaneo nei riguardi di questi fenomeni religiosi è stato, sino ad ora, lo snobismo. Sia da parte dell’opinione pubblica ‘laica’ che da parte dei pastori delle chiese storiche. Un sorriso di sufficienza davanti a manifestazioni di esaltazione mistica vicina al fanatismo – e via. Ma anche grazie a questa disattenzione teologica e sociologica della parte colta e raffinata della società, questi movimenti si sono andati diffondendo numericamente e radicando in profondità. Sino al punto da presentare addirittura, alle ultime elezioni politiche, una lista propria (“Patto Cristiano Esteso”, abbreviato in PA.C.E.), composta da candidati decisi a far valere i “valori cristiani” nel variegato arcipelago del centro-destra. Cuffaro, immemore del divieto emanato dalla buonanima del cardinal Ruffini di avere contatti con tutti i cristiani che non si riconoscano nella santa madre chiesa cattolica romana, non perde occasione per manifestare simpatia e promettere sinergia.
Hanno forse ragione, dunque, quei pochi ma acuti esponenti siciliani del mondo cattolico e riformato (valdesi, metodisti, battisti e luterani) che, in alcune occasioni, mi hanno segnalato l’opportunità di accendere i riflettori su questi settori della società e di aprire una riflessione pubblica sulle dinamiche che li animano. E’ facile infatti inanellare tutta una serie di obiezioni al loro modo di intendere e di vivere il vangelo (dal letteralismo fondamentalistico con cui si accostano ai Testi canonici alla svalutazione del ruolo della ragione nelle questioni teologiche; dalla condanna sommaria della Modernità all’assunzione acritica delle tecnologie massmediatiche più avanzate; dal moralismo intransigente nella sfera privata al rapporto strumentale e quasi cinico nei confronti delle istituzioni pubbliche…): ma denunziare limiti e contraddizioni, per quanto necessario, è troppo poco. Un’intelligenza critica è tale se riesce a discernere, in ciò di cui si occupa, ogni frammento di positività.
Le folle che percorrono centinaia di chilometri per riempire il Velodromo dello Zen stanno trasmettendo, spesso senza saperlo, messaggi che sarebbe miope trascurare. Alle chiese istituzionali stanno rimproverando l’incartapecorimento del messaggio evangelico originario la cui novità dirompente è anestetizzata dal duplice processo di intellettualizzazione (la fede ridotta ad accettazione mentale di rompicapi dogmatici) e di burocratizzazione (la vita comunitaria ridotta ad ossequio formale delle gerarchie ecclesiastiche). Ma Gesù di Nazareth non era né un teologo né uno statista: convinto di dover attuare un disegno divino, a lui interessava coinvolgere quanti entravano nella sua sfera di attività in un’avventura di liberazione dalle angosce interiori e dalle ingiustizie sociali. Era un’esistenza pulsante che comunicava energia ad altre esistenze concrete. Non una mente che parlava ad altre menti, ma una persona (intelligenza, volontà, emotività, corporeità…) che si rapportava al ‘cuore’ di ogni altro vivente.
E questa esigenza di autenticità, di vitalità, di schiettezza ha forse qualcosa da dire anche al mondo ‘laico’ della cultura e della politica. Un mondo dove (specie a sinistra) abbondano i professori, ma scarseggiano i testimoni. Una cosa è diffidare - giustamente – delle adunate oceaniche e degli slogan semplicistici; tutta un’altra cosa, però, tagliare i ponti comunicativi con i cittadini estranei a determinati circoli culturali e/o a determinate organizzazioni partitiche. Quanti sono, anche nella nostra città, gli intellettuali disposti a scrivere un libro in meno pur di provare a ragionare di urbanistica o di economia in una piccola assemblea di rione? E quanti sono i dirigenti sindacali disposti a parlare la lingua dei fatti, delle azioni, delle scelte quotidiane, rinunziando per esempio a piazzare parenti e affini nei posti di lavoro riservati ai privilegiati della nomenklatura? La gente ‘comune’ che accorre alla “Crociata dei miracoli” non è capace di analisi sottili, ma esprime una domanda di coerenza (se vogliamo anche un po’ ingenua) fra ciò che si predica e ciò che si pratica. Molti sintomi lasciano sospettare che sbaglia indirizzo e che resterà, prima o poi, delusa. Tuttavia la questione resta. Per dirla con Pascal, le buone massime ci sono tutte: si tratta adesso di attuarle.

sabato 23 settembre 2006

Una improrogabile revisione di priorità


ADISTA 23.9.2006

Una improrogabile revisione di priorità

In Italia vige ancora un patto non scritto: papa e vescovi possono pronunziarsi quando e come vogliono su come va organizzata la società ‘civile’, ma - per reagire, appunto, civilmente e dare l’esempio - il mondo ‘laico’ si astiene rigorosamente dal mettere il naso nelle faccende intraecclesiali. Ed è un ‘peccato’. Perché come sarebbe più povera una società senza il pungolo ‘profetico’ delle chiese cristiane (il pungolo non è però esattamente equivalente alle briglie né tanto meno al giogo), così rischiano di afflosciarsi in sé stesse - in un lento ma inesorabile sbadiglio – le chiese che s’illudono di volare al di sopra di ogni critica e di ogni suggerimento proveniente dagli uomini (e ancor più dalle donne) di mondo. In quanto abitante al confine fra il regno di Cesare e la sovranità pontificia (al confine? No: forse piuttosto tanto dentro la secolarità da potermi interrogare liberamente sul vangelo, anzi da poter provare persino a lasciarmene impregnare nelle opzioni quotidiane), mi sento autorizzato ad infrangere il tacito patto di non-interferenza fra le autorità del Palazzo e i gestori del Tempio. E a chiedere alla chiesa cattolica italiana autoconvocatasi a Verona di farsi il regalo di riflettere su due o tre ipotesi operative.

La prima è di provare a far cadere il velo, resistente ma trasparente, fra sapere teologico e credenze popolari. So, per confessione di tanti presbiteri impegnati nella pastorale ordinaria, che essi temono di scandalizzare il “gregge dei fedeli” (e in qualche caso di subirne le vivaci reazioni) se provano a comunicare le nuove acquisizioni in campo biblico e, soprattutto, le conseguenti ricadute dottrinarie sia dogmatiche che morali. E’ una paura nobile ma sterile. Anzi controproducente. Le altre chiese (europee ed extra-europee) hanno imboccato, pur fra corse in avanti e brusche marce indietro, la via della trasparenza, della franchezza: hanno spiegato - o hanno consentito che i teologi più informati e meno preoccupati di far carriera spiegassero - che nei venti secoli di cristianesimo il seme originario del vangelo è stato incistato in una costruzione faraonica di ‘pronunciamenti’ e di norme; e che questa costruzione ha apparentemente esaltato ma in effetti soffocato quel seme originario gettato dal Predicatore di Nazareth. Come nelle piramidi egiziane, il faraone intorno a cui sono state pazientemente elevate si è incartapecorito. Meglio, molto meglio sarebbe dichiarare l’errore plurisecolare: la gente, la più valida intellettualmente e moralmente, capirebbe e tirerebbe le conclusioni. Alcuni se ne andrebbero, altri resterebbero: ma senza perpetuare l’inganno ipocrita dello “scisma sommerso” di cui ha scritto, purtroppo invano, Pietro Prini qualche anno fa.
Strettamente legata a questa prima ipotesi operativa, una seconda: rifocalizzare il ‘cuore’ dell’identità cristiana. Assumere con serietà i risultati esegetici e storici significa, tra l’altro, ripensare radicalmente l’evangelizzazione. Vogliamo continuare a far supporre – sin dalla catechesi infantile – che si è cristiani se si accettano formulazioni dogmatiche mirabolanti come l’uni-trinitarietà divina o se si vive l’avventura storica mondana in attesa del paradiso futuro o se ci si adegua alla morale sessuale (un po’ sessuofobica) del magistero ordinario (e tutto sommato recente)? O non vogliamo piuttosto metterci nuovamente in ascolto del Maestro che invita ad aprire le porte individuali e sociali all’avvento del “regno di Dio”, cioè a sostituire i potentati attuali (governi bellicisti, multinazionali sfruttatrici, banche speculative parassitarie, mafie e massonerie deviate, centrali terroristiche…) con la signoria di un Dio liberatore, per il quale la vita di un solo bambino, di un solo anziano, di una sola donna, di un solo peccatore vale più di tutti i prodotti interni lordi del pianeta? Oh, certo, se la chiesa italiana a Verona affermasse con chiarezza questa revisione di priorità, molte parrocchie si svuoterebbero degli attuali fedeli: ma chi può escludere che si riempirebbero, subito dopo, di adulti e giovani assetati di verità e giustizia?
Ma se il ‘cuore’ del vangelo è il primato della cura di Dio per l’uomo, come evitare di porsi una terza ipotesi operativa? La conversione dalla logica della mediazione alla pratica della condivisione. Personalmente sono un fautore della mediazione, del riformismo graduale, della cautela strategica. Ma ciò che è doveroso in politica e nella quotidianità delle relazioni interpersonali può essere disastroso nell’ottica dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica, come in genere le chiese cristiane e forse tutte le aggregazioni sinceramente religiose, non possono cercare sempre e comunque d’interporsi fra ricchi e poveri, fra chi si arroga il privilegio di comandare e chi deve obbedire, fra chi progetta il futuro dell’umanità e chi deve subire i progetti dall’alto. Come il suo Signore e Modello, deve prendere posizione netta: non solo dichiarandosi a favore del più debole, ma schierandosi effettivamente e praticamente dalla sua parte. Non si può essere equidistanti fra i giudici di Tangentopoli e i corruttori da loro imputati; fra i poliziotti delle Questure meridionali e i mafiosi da loro ricercati; fra gli xenofobi della Padania e i clandestini del Canale di Sicilia; fra i genitori (islamici, ma anche cattolici) che impongono alle figlie veli e segregazioni e le figlie che cercano identità e autodeterminazione; fra i politici che votano puntualmente l’incremento delle spese militari e i politici che vorrebbero dirottare quelle risorse finanziarie verso la cooperazione internazionale a favore dei Paesi indigenti…Ad essere sinceri, l’equidistanza fra il potente e il manipolato sarebbe già un risultato: troppo spesso le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici di punta sono già posizionati, ma dalla parte sbagliata! In nome del vangelo - e del buon senso – vorrei pregarli di capovolgere lo schieramento: nel rispetto dei diritti di tutti, anche dei più abili e dei più fortunati, scegliere di farsi compagni di strada di chi arranca, zoppica o addirittura si arrende. Sul momento potrebbe sembrare una follìa autolesionistica: ma la storia potrebbe dimostrare che sperimentare il paradosso del chicco di grano che si lascia seppellire sarebbe l’unico modo per portare frutto e non scivolare nell’irrilevanza del fico sterile.

giovedì 21 settembre 2006

MA LA VERITA’ COS’E’ PER I SICILIANI?


Repubblica - Palermo
21.9.2006

La trappola relativista che blocca i siciliani

Il vocabolo ‘relativismo’ è diventato di moda da qualche anno, soprattutto grazie agli attacchi che gli sono stati rivolti da alcuni vertici della gerarchia cattolica (Joseph Ratzinger in testa) e da alcuni esponenti del neo-conservatorismo nostrano (Marcello Pera in testa). Per ragioni comprensibili, molti laici di tradizione illuministica hanno avvertito l’esigenza di difendere i diritti del relativismo o, comunque, di ogni prospettiva sul mondo di stampo soggettivistico: dunque, tra gli altri, il diritto di dubitare, di non accettare come dimostrate alcune tesi metafisiche o morali, di farsi una religione privata a misura dei propri sentimenti. Risultato: essere relativisti è diventato ‘rock’, in, di sinistra; antirelativisti ‘lento’, out, di destra.

Il quadro è stato messo in discussione da un recente, piccolo ma acuminato, libretto dello psicologo Giovanni Jervis che, nel suo Contro il relativismo (Laterza, Roma- Bari 2005), capovolge la prospettiva: attacca il relativismo non in nome della tradizione, del dogma, dell’autorità ma in nome della scienza, della ragion critica e del progressismo. A suo avviso, il relativismo si lascia condensare in due assiomi: uno di ordine conoscitivo (“le conoscenze sono opinioni, e tutte le opinioni si equivalgono”), l’altro di ordine comportamentale (“ognuno faccia ciò che vuole, poiché nessuno ha l’autorità di giudicarlo”).
La querelle, in più di un passaggio, suggerisce qualche istruttiva chiave di lettura delle vicende siciliane, anche recenti. Per esempio là dove l’autore delinea i due tipi antropologici opposti dell’ “antirelativista” (o ‘realista’ o ‘oggettivista’) e del “relativista”. Nella prima categoria rientrerebbe “l’individuo che non si sottrae alle incombenze inerenti al suo ruolo e si impegna cercando dati e fatti, valutando le cose nel modo più equanime possibile, quindi pronunziandosi”, prendendo posizione, sapendo che non tutti possono avere - contemporaneamente – ragione: “aderiscono a questa mentalità coloro – funzionari, agenti dell’ordine, magistrati, giornalisti, e anche professori universitari – che ritengono abbia un senso la locuzione ‘responsabilità civica ’ , e un senso forte. Tutte queste persone ritengono quindi che sia importante sforzarsi di esprimere giudizi coerenti, fattuali, non personalistici e neppure, se possibile, discrezionali. Altrimenti ritengono che ne nascano – sempre – favoritismi e ingiustizie”. Di contro, la mentalità relativista “fa leva sul presupposto che tutti quanti abbiano i loro bravi motivi per fare quello che fanno, per cui il pretendere di valutare le azioni altrui diventerebbe una rischiosa intrusione. Si parte dunque da un ‘cosa ne sappiamo, in fondo?’ e si passa attraverso ‘tutti hanno le loro ragioni’ osservando infine che ‘tutti hanno i loro interessi’. Ed ecco discenderne una regola di comportamento: non giudicare, non prendere posizione. Eventualmente, quindi, scegliere una linea blanda, assecondante, comunque mai rischiare troppo”. Chi aderisce a questo orientamento ha a disposizione anche un armamentario di saggezza in pillole: “Ogni regola ha le sue eccezioni”, “bisogna valutare caso per caso”, “non smuovere le acque”, “ognuno si faccia gli affari suoi”, sino alla “formula suprema, secondo Ennio Flaiano: tengo famiglia” (pp. 42 – 43).
Jervis sostiene, giustamente, che questa “collana di formule relativizzanti” è ben nota a tutti “gli italiani”: ma in Sicilia non è forse un po’ più nota che altrove? Forse perché Gorgia, il più scettico dei sofisti, era siciliano? Forse perché, come osservava Sciascia a proposito della religiosità dei conterranei, il siciliano - intimamente – non crede a nulla? Non saprei. Quel che mi pare indubbio è che, se i non-relativisti corrono il rischio del moralismo intransigente e magari del fanatismo, dalle nostre parti questo rischio non lo si sfiora neppure. Sin dal consiglio di classe della prima elementare il bambino, anche poco ligio alle regole e non molto incline allo studio, trova almeno un protettore tra gli insegnanti che ne perora la promozione alla classe successiva: e così in prima media, poi in prima liceale, poi in sede di laurea. Talora questo buonismo si ammanta di ideologia progressista ( e vede in ogni deficienza intellettuale o comportamentale l’esito inevitabile di condizionamenti economico-sociali), ma più spesso si rivela nella sua nudità: idiosincrasia nei confronti delle regole e paura di pagare le conseguenze delle proprie decisioni. Ovviamente la pestilenza di questo relativismo nostrano allo sfincione non si ferma dentro le aule scolastiche ed universitarie: trasborda nelle aule giudiziarie, nelle redazioni dei mezzi di comunicazione, negli uffici pubblici. Con conseguenze talora ridicole, tal altra tragiche: come quando l’allora assessore regionale all’agricoltura Salvatore Cuffaro ha esitato, per mesi, a firmare il licenziamento del dipendente Sprio richiesto dal funzionario Filippo Basile, sino a quando quest’ultimo non è stato assassinato su mandato della sua ‘vittima’.
Il “tanto sono tutti uguali” è ormai diventato ‘senso comune’. Le recenti competizioni elettorali lo hanno confermato al di là di ogni pessimismo. Vado ancora chiedendo, ai conoscenti che hanno votato alcuni candidati di acclarata vicinanza ai mafiosi, perché - pur essendo persone soggettivamente pulite - abbiano agito così. E la risposta è monotonamente simile: “Chi mi dice che i giornali non mentono riferendo sulle udienze dei processi ?”, “Chi mi dice che, ammesso che i giornali siano corretti, giudici e testimoni non siano in combutta fra loro ?”, “Chi mi dice che anche i giudici onesti non stiano sbagliando in buona fede?”, “E comunque, i candidati sono tutti uguali: se arrivano a vincere, perdono la testa”. La trappola del relativista è sempre pronta a scattare: o l’infallibilità o il sospetto generalizzato. E siccome l’infallibilità - almeno nel 99% dei casi della vita – è impossibile…

venerdì 8 settembre 2006

RELIGIONI A CONFRONTO


”Repubblica – Palermo” 8.9.06

UN PEZZETTO DI BUDDISMO SULLA VIA DELLA GENTILEZZA

Non si sono ancora assopite, in città, le discussioni su religiosità popolare, fede adulta e scienze teologiche che piomba - come ennesima, imprevedibile provocazione – un’iniziativa esterna al mondo cristiano: la tappa palermitana del “Tour delle Reliquie” attribuite allo stesso Buddha storico e ad altri grandi maestri di quella antica tradizione spirituale. La notizia sembra confezionata apposta per far sorridere: non abbiamo abbastanza ossa, denti e frammenti di tonache dalle nostre parti da dover ospitare anche reliquie indiane in giro per il pianeta? E le amministrazioni locali (Comune, Provincia, Regione) non hanno modi meno opinabili di distribuire (sia pure, si suppone, in misura contenuta) le risorse pubbliche?

Non c’è dubbio che, se l’iniziativa sarà vissuta soprattutto come versione esotica del bigottismo nostrano, sarà logico concludere che ne avremmo fatto volentieri a meno. Ma i responsabili del Centro palermitano “Muni Gyana”, facendo eco agli organizzatori mondiali del “Progetto Maitreya”, spiegano che lo spirito della proposta è ben diverso. Prima di tutto, le “reliquie” in questione non hanno nulla di cadaverico né di necrofilo: sono “splendidi cristalli di perle” rinvenuti fra le ceneri dei maestri cremati. Esse sono come il simbolo allusivo dello “splendore” morale di quelle persone, soprattutto delle due virtù cardinali secondo il buddismo: la saggezza e la compassione verso tutti gli esseri viventi. In secondo luogo, come spiega Gabriele Piana, docente presso la Facoltà di filosofia del capoluogo siciliano (dove quest’anno ha anche proposto agli studenti un corso di introduzione alla meditazione), la venerazione delle reliquie non ha - nell’ottica buddista – che un valore strumentale e del tutto opzionale: la visita non prevede nessun cerimoniale obbligatorio, è aperta a fedeli di ogni confessione, vale nella misura in cui suggerisce sentimenti di pacificazione col proprio sé e col resto dell’universo. In terzo luogo, infine, l’idea di questo giro del mondo delle reliquie è finalizzato a far conoscere un progetto preciso: la costruzione a Bodhgaya, nello stato indiano di Bihar, di un Centro multifunzionale che possa promuovere lo sviluppo socio-economico di quell’area del continente asiatico attualmente deprivata. Intorno ad una gigantesca statua del Buddha, infatti, dovrebbe sorgere un parco pubblico con padiglioni per la meditazione, saloni per conferenze, ospedali, scuole, musei, strutture alberghiere: il tutto nel più assoluto rispetto delle esigenze naturalistiche dell’ambiente. Insomma: un investimento che distolga capitali dall’industria bellica e li indirizzi a scopi umanitari. Il Lama Zopa Rinpoce, direttore spirituale dell’ambizioso progetto, ripete che la costruzione della statua di 152 metri e del complesso architettonico nel parco di 16 ettari “non rappresenta lo scopo - che sarebbe permettere al maggior numero di persone di fare un’esperienza spirituale intensa - ma solamente il mezzo per raggiungerlo”. Tuttavia se avverte il bisogno di ripeterlo, vuol dire che qualche timore sull’esito finale dell’impresa lo nutre anche lui. D’altronde, non è forse l’Occidente cattolico zeppo di santuari edificati per la maggior gloria di Dio e poi destinati a rimpinguare le tasche di speculatori d’ogni risma, più o meno sedicenti ‘religiosi’? Sarebbe dunque interessante sapere cosa, di questa iniziativa, ne avrebbe pensato lo stesso Budda: ma tutto lascia sospettare che dovremo accontentarci di semplici congetture.
Dall’ottica della nostra città (che qualche anno fa ha conferito al Dalai Lama la cittadinanza onoraria) possiamo solo dire che ogni manifestazione che ci solleciti ad allargare gli orizzonti mentali, a sprovincializzarci, ad incuriosirci verso modi ‘altri’ di concepire e di condurre la vita, non può che essere salutata con favore. Al di là degli aspetti culturali, non va sottovalutata l’occasione di sensibilizzarsi - sul versante politico – nei confronti del popolo tibetano, fortemente perseguitato da un regime come quello di Pechino che, sulla carta, dovrebbe garantire i diritti di tutti i popoli. Senza contare che i promotori del Tour assicurano che, sinora, ad ogni tappa, si è registrato nei visitatori di ogni religione (e di nessuna religione) un incremento di “gentilezza amorevole verso sé stessi e verso altri”: se persino a Palermo dovesse verificarsi un risultato del genere, sarebbe davvero un miracolo. E il gioco - anzi, la liturgia – varrebbe la candela.

martedì 5 settembre 2006

A PROPOSITO DEI RITI PER LA SANTUZZA


”Repubblica – Palermo” 5.9.06

SACRO E PROFANO

Il sacro nella società contemporanea a proposito del pellegrinaggio multietnico alla grotta di santa Rosalia: parliamone - invita sul nostro giornale don Carmelo Torcivia – al di là dei dogmatismi ecclesiastici ma anche dei pregiudizi tardoilluministici. Invito santo, verrebbe da dire: purché si sappia che si entra in territori esplosivi. Cos’è infatti il sacro secondo l’antropologia contemporanea? Se lo usiamo, inoffensivamente, come sinonimo di ‘religioso’, ‘confessionale’, ‘rituale’ possiamo intrecciare pacifiche conversazioni accademiche. Ma se scaviamo un po’ più dentro il significato del termine, ci imbattiamo - già con il fenomenologo Otto - in una definizione inquietante: sacro è tutto ciò che affascina e atterrisce. E che cosa attira e respinge l’essere umano più che il vuoto, il nulla, la morte? Sacro è dunque tutto ciò che ci mette al cospetto della morte, che ci immerge nell’angoscia dell’annullamento e ci fa balenare una qualche forma di restituzione a noi stessi: una qualche forma di ‘salvezza’. Già questa prima, generica concettualizzazione mette in crisi molte affermazioni correnti.

Per esempio che le nostre processioni rumorose e sbadiglianti dietro ad una statua della Santuzza o della Madonna siano manifestazioni ‘sacre’ (sia pur impastate di ‘profano’): forse sono invenzioni collettive ‘profane’ per esorcizzare il ‘sacro’. Un po’ come abbiamo rischiato qualche anno fa a Segesta quando una lungimirante amministrazione locale paventava l’erezione di un parco mistico nella zona archeologica: una sorta di festival idolatrico (in quanto centrato su enormi statue di Redentori e Padri Pii) destinato a vanificare l’aurea di sacralità - di silenzio, di smarrimento, di spiazzamento rispetto alle certezze quotidiane – che il tempio greco emana e custodisce.
Non tutte le manifestazioni cultuali sono dunque ‘sacre’. Ma bisogna aggiungere: per fortuna. Perché l’antropologo cattolico René Girard ha scritto negli ultimi decenni diversi volumi per dimostrare che il sacro, proprio in quanto scaturisce dall’angoscia del nulla, provoca violenza. Non accidentalmente: piuttosto per essenza. Dove c’è sacro c’è ricerca di un capro espiatorio, sacrificio, sangue: ragazze vergini, prigionieri di guerra, primogeniti d’animali, ma anche infedeli da infilzare, eretici da bruciare, omosessuali da ghettizzare.
Se questi cenni sono fondati, non possono essere differite nel tempo le possibili terapie. La prima riguarda i teologi cristiani: a cui spetta il compito - per la verità non lieve – di mostrare che Girard ha ragione di sostenere che l’unica religione non ‘sacra’ (cioè: non violenta) è il vangelo. E, conseguentemente, il compito di vigilare sulle comunità cristiane affinché non riproducano al proprio interno i meccanismi ‘violenti’ (emarginazione, persecuzione, giustizia vendicativa…) tipici di ogni altra religione. La seconda terapia riguarda non solo i teologi, ma ogni intelligenza responsabile: per dirla con Paul Tillich consiste nell’usare il profano per purificare continuamente il sacro. In altri termini: usare le acquisizioni scientifiche (storiche, esegetiche, psicologiche, sociologiche, etnologiche…) per ripensare continuamente la dimensione religiosa, evitandone le derive infantilistiche ed esaltandone le risorse etiche. Solo se chi vive un’esperienza di fede teologica accetta le sfide della laicità più avvertita, provando – come dice un brano neotestamentario - a “rendere ragione della speranza” che è in lui, si può camminare verso la città del futuro: dove si sentano a casa i credenti di ogni orientamento, anche quelli che credono soltanto nella giustizia, nella libertà e nella bellezza in questo mondo.

IL FRANCESCANO P. RIVILLI


Repubblica Palermo 5.9.06

AUTORI VARI

Perché il libro resti aperto
Il pozzo di Giacobbe
Pagine 189
Euro 15,00

“Adesso chiudi il volume e va’: sii tu un libro aperto per gli altri!”. L’adagio medievale torna in mente sfogliando gli atti del convegno organizzato dalla Facoltà teologica della nostra città (con interventi di storici e di teologi) sulla figura e l’opera di p. Placido Rivilli. Questo francescano minore (nato a Castel di Lucio nel 1918, vissuto a Palermo sino alla morte nel 1999) è per molti una figura ignota, ma per tanti altri ha costituito un punto di riferimento fondamentale. Ha infatti fondato un movimento di spiritualità, che dall’isola si è ormai irradiato in tante parti del pianeta, denominato inizialmente “Crociata del vangelo” e successivamente, in maniera meno aggressiva, “Presenza del vangelo”. All’interno del movimento, poi, ha organizzato l’istituto delle “Missionarie del vangelo”, costituito da donne consacrate che tutt’ora operano, con creatività e passione, anche in terre lontane. Indipendentemente dalle convinzioni religiose personali, come non rallegrarsi del fatto che – ogni tanto – nel mondo si parli della Sicilia per ragioni gratificanti?