mercoledì 29 novembre 2006

LA SCUOLA IN SICILIA


“Repubblica – Palermo” 29.11.06

I DOCENTI INADEGUATI NELLE SCUOLE SICILIANE

Maurizio Muraglia (noto negli ambienti scolastici perché presiede la sezione palermitana del CIDI, prestigiosa associazione nazionale di docenti democratici) ha lanciato da queste pagine (vedi l’edizione di mercoledì 22) un interrogativo intrigante: perché la scuola siciliana ha due facce? Perché da una parte si registra un’ “incredibile capacità di impegno dei colleghi siciliani” nel proporre ai ragazzi una miriade di progetti formativi (“teatro, danza, musica, sport, informatica, cinema…”), ma dall’altra si deve constatare il fallimento del nostro sistema scolastico sia dal punto di vista delle “competenze forti” (di carattere “linguistico, scientifico, matematico, storico”) sia dal punto di vista della “cultura della legalità” e dello “spessore della cittadinanza”? Forse la risposta è già nella formulazione della domanda conclusiva: “Come è possibile consentire allo straordinario capitale di esperienze extrascolastiche messo in campo dalle scuole di generare teste pensanti?”.

L’aggettivo “extrascolastiche” è - suppongo per lo stesso autore dell’articolo - la spia rivelatrice della patologia di cui un po’ tutti - insegnanti, genitori, cittadini – cerchiamo la terapia. Esso infatti lascia indovinare il paradosso di una scuola che, incapace di incrementare la qualità del suo servizio specifico, prova a uscire dalla crisi puntando sull’…extrascolastico!
Ad evitare equivoci, lo dichiaro subito: visitare aziende per studiare “i processi di produzione del sale e dell’olio” o lasciare le aule per recarsi a “studiare i fiumi, i boschi, gli ecosistemi del nostro territorio” sono, certamente, iniziative legittime. Anzi: lodevoli. Esse hanno senso, però, come momenti di verifica di un percorso precedente e come stimoli acceleratori di percorsi successivi. Se questo ‘prima’ e questo ‘poi’ - ossia il tessuto ordinario della vita scolastica quotidiana – o mancano del tutto (in rari casi) o sono sfilacciati e lacunosi (in casi frequenti) non c’è più gioco. Sarebbe come stupirsi di un ospedale con altissimo tasso di mortalità dei degenti nonostante questi godano di un ottimo servizio di ristorazione, di un’attenta assistenza psicologica (e, per chi lo desideri, religiosa), di animazione musicale e teatrale ma non…di controlli medici e terapie farmacologiche.
Se ci si convince dell’analisi, bisogna però fare un passo ulteriore e chiedersi perché la scuola ‘normale’ sia tanto noiosa e improduttiva, quando non si registrano episodi scandalosi rispetto ai quali le cronache di questi giorni sono soltanto bambinate. Tra le numerose risposte necessarie a comporre una diagnosi completa, due almeno meritano priorità. La prima è di carattere pedagogico-organizzativo: le ore previste per il lavoro in aula sono eccessive. Con il moltiplicarsi delle sperimentazioni, i nostri ragazzi devono stare a scuola dalle 8 del mattino alle 13, talora alle 14 o alle 15: cinque, sei o sette ore di concentrazione mentale (con quindici minuti di intervallo ‘ufficiale’) sono eccessive per chiunque. Tanto più per adolescenti. Il sistema regge solo sull’ipocrisia generale: si fa finta di lavorare tantissimo, ma in realtà di trovano tutte le scuse per rosicchiare tempo alla fatica. Quando sono in questione l’intelligenza, il gusto estetico, la creatività tecnica non si può soffocare - con la quantità delle nozioni - l’esigenza di ritmi qualitativamente misurati. Per sei ore di seguito puoi, forse, raccogliere limoni o timbrare moduli: non certo ascoltare, intuire, riflettere, rielaborare mentalmente, provare ad esprimere…
Nessuna riduzione dell’orario di lavoro sarebbe, comunque, decisiva se restasse in vigore l’attuale sistema di selezione dei docenti. Le Sissis (scuole di specializzazione per laureati che intendono diventare insegnanti) sono state solo un piccolo, ed ambiguo, passo avanti nella direzione giusta. Eppure continuano ad arrivare in cattedra – insieme a giovani preparati e motivati sui quali graverà la responsabilità di salvare il salvabile - personaggi incredibili: instabili psichicamente, immaturi affettivamente, poco istruiti o poco capaci di comunicare ciò che sanno, frustrati esistenzialmente, apatici politicamente, discutibili eticamente. Nessuno, o quasi, si sogna di fermarli ad uno degli esami previsti. E ci aspettiamo che gli alunni si appassionino all’idea di convivere per metà della loro giornata con esemplari del genere? Certo, se invece la selezione fosse un po’ più rigorosa (almeno quanto lo è nel caso dei magistrati, dei notai e dei piloti di aereo), non ci si potrebbe permettere di pagare un maestro elementare o una professoressa di liceo la metà di uno steward o di un’hostess. Ma a quel punto - e solo a quel punto – si dovrebbe aprire la questione economica e rimettere in discussione un sistema sociale in cui i fornitori di beni immateriali sono considerati come dei parassiti appena sopportabili. Sino a quando vigerà invece il circolo vizioso di una prestazione professionale sottopagata perché inadeguata, e inadeguata perché sottopagata, resterà vero anche dalle nostre parti ciò che un personaggio di Woody Allen diceva del proprio quartiere: “Chi sapeva fare qualcosa la faceva. Chi non sapeva fare nulla, faceva l’insegnante”.

venerdì 24 novembre 2006

IL DIALOGO INTRACRISTIANO


“Centonove” 24 novembre 2006

RADUNO A CALTANISSETTA
SOTTO LA TENDA DEL MONOTEISMO

Il dialogo fra ebrei, cristiani e islamici - per quanto accomunati sotto la tenda del monoteismo – non è strada di tutto riposo: incidenti, o accidenti, come il discorso del papa a Ratisbona lo confermano quasi quotidianamente. Tutto sarebbe meno arduo se ciascuna di queste tre tradizioni religiose non fosse ciò che in realtà è: un groviglio di correnti disparate. Da qui l’opportunità di trovare, prima ancora di rapportarsi ad altri, un certo accordo al proprio interno. Che questo accordo sia problematico fra gli ebrei, dispersi da duemila anni sull’intera faccia della Terra, è noto (e il prezioso volume Ebraismo di Hans Kung, tradotto in italiano dalla Rizzoli, lo spiega efficacemente). Che sia, allo stato attuale, quasi impossibile fra gli islamici lo attestano le terrificanti notizie di stragi perpetrate quotidianamente fra sunniti e sciiti. E fra cristiani? La situazione, spentisi i fuochi in Irlanda e nella ex-Jugoslavia, si presenta per fortuna meno drammatica. Ma non per questo promettente. L’ecumenismo fra cattolici, ortodossi e protestanti sembra battere il passo ormai da anni. Ad andare avanti, sommessamente, è una sorta di spaccatura silenziosa - che passa all’interno di tutte le comunità cristiane – fra conservatori (tentati dal fondamentalismo integralista) e progressisti (impegnati in una lettura sempre più accurata dei Testi biblici e, su questa base esegeticamente affidabile, in un processo di superamento di barriere sempre meno comprensibili).

In questa situazione di stallo, o per lo meno di lentissimo movimento, non si può sottovalutare il rilievo di un’iniziativa interconfessionale che, domenica 12 novembre, ha visto la confluenza a Caltanissetta, nel Palacannizzaro, di circa 700 credenti in Cristo per una “Giornata cattolico- evangelica siciliana”. Sono stati convocati, per momenti di preghiera e di confronto teologico, fedeli delle comunità più presenti nella nostra regione: dunque cattolici, valdesi-metodisti, luterani, battisti e avventisti. Quale il tema conduttore dell’incontro? A primo acchito suonerebbe del tutto estraneo al vocabolario quotidiano: “Giustificazione e riconciliazione”. Se però si analizza il primo dei due termini, il quadro si chiarisce. La constatazione più insistente ci fa toccare con mano quanto tutti si sia lontani dall’essere ‘giusti’: cioè corretti con gli altri, con sé stessi e, per chi ci crede, con Dio. Il cristianesimo è, essenzialmente, proposta di conversione da un’esistenza egocentrata ad una proattiva. Ma come realizzare questo passaggio - questa ‘pasqua’ - dalla tristezza dell’egoismo all’allegria della solidarietà? La tradizione cattolica ha insistito sullo sforzo etico soggettivo; la tradizione luterana ha insistito sull’azione gratuita di Dio che “rende giusti” i figli prescelti. La prima prospettiva ha indotto spesso al moralismo ascetico, la seconda ha rischiato di gettare nella disperazione quanti non si avvertivano ‘predestinati’. Sotto le sfide del terzo millennio, si tenta adesso di andare oltre gli unilateralismi e di sintetizzare la libertà responsabile del credente con la sua docile apertura alla presenza di uno Spirito che non si lascia imprigionare dalle logiche umane né tanto meno catturare dai riti. Una sintesi che si va elaborando sul piano della dottrina teologica ma che, soprattutto, emerge dalla narrazione di storie effettive di uomini e donne impegnate a favore dei fratelli e del cosmo: non con la presunzione di essere più “giusti” degli altri, ma con la speranza di fare delle proprie vite il segno visibile di un Amore assoluto e imprevedibile che “fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.

martedì 21 novembre 2006

R. LOPES E I PROVERBI SICILIANI


“Repubblica – Palermo” 21.11.2006

La doppia faccia dei proverbi

A casa capi quantu voli u patruni : sarà per questo che il popolo siciliano è, tradizionalmente, disponibile all’accoglienza degli immigrati dal Terzo mondo? Lu cavaddu bonu si viri a tiru longu: sarà per questo che non siamo facili ad entusiasmarci per singole azioni eccezionali che non facciano parte di uno stile di vita? Questi sono solo due dei venticinque proverbi raccolti e commentati da Roberto Lopes nel volume, illustrato dai disegni di Nicola Figlia,Tu ha raggiuni, ma iò tortu unn’haiu (Ispe Archimede, Palermo 2006). E’ spontaneo andare col pensiero alla Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, pubblicata da Giuseppe Pitré tra il 1871 e il 1913. Ma il taglio, e il fine, sono diversi: mentre l’etnologo palermitano era interessato ad un’analisi storico-filologica, Lopes preferisce attingere alla tradizione dei proverbi per proporre considerazioni sapienziali che orientino nel panorama contemporaneo. Lo fa, però, senza ingenue mitizzazioni nostalgiche. Mostra di essere consapevole del fatto che la cosiddetta sapienza popolare non va sopravvalutata. Essa, infatti, veicola intuizioni penetranti sulla vita e sulla morte, sulla solitudine e sulla compagnia, ma anche pregiudizi, stereotipi e banalità.

Per fortuna, la tradizione non passa intatta da una generazione alla successiva: se così avvenisse, la storia non conoscerebbe progressi. E, comunque, il patrimonio trasmesso non è in sé stesso discordante? Raccomanda di attenersi al noto, al già visto (megghiu u malu canusciuto ca’ u bono a canusciri) e, simultaneamente, a evadere dai ristretti confini del villaggio natìo (cu nesci, arrinesci); educa al mutismo ipercauto (a megghiu parola è chidda ca un si rici) e, simultaneamente, a non restarne paralizzato (cu avi lingua passa u mari)…Un po’ come nella Bibbia, a ben cercare si trova tutto e (quasi) il contrario di tutto: per ogni detto, direbbe Karl Kraus, un ‘contraddetto’. Insomma, le monete d’oro sono frammiste alle patacche e solo un acuto discernimento può scovarle e valorizzarle.
Per compiere questa cernita sono necessarie intelligenza, esperienza di vita e tenerezza: qualità di cui dà prova Roberto Lopes mostrando di amare la tradizione senza essere conservatore; la sua terra senza essere sciovinista; il suo dialetto senza essere provinciale; la sua fede cristiana senza essere bigotto. Le considerazioni suggeritegli da vari proverbi siciliani erano state pubblicate su un periodico - “L’eco della Brigna” - che è un po’ la cifra simbolica del paradossale intreccio fra radicamento nella microstoria e apertura planetaria: un giornaletto, infatti, che, senza pretese, è nato per raccontare la quotidianità di Mezzojuso (piccolo centro del palermitano di origine greco-albanese) e ha finito con gli anni, proprio inseguendo i mille rivoli dell’emigrazione, per essere letto abitualmente nei cinque continenti. In sintonia con la testata cui erano originariamente destinate, anche queste pagine sono del tutto scevre da ambizioni e vezzi: scritte, insomma, non per i colleghi dell’autore (docente di filosofia in un liceo cittadino) o i commissari delle giurie letterarie, ma proprio per le donne e gli uomini, le ragazze e i ragazzi, le vecchiette e i vecchietti che aspettano il ‘loro’ foglio come un dono che puntualmente si rinnova. La linearità, l’immediatezza talora naif, del dettato non devono però trarre in inganno: sul tapis roulant del registro discorsivo elementare scivolano contenuti per nulla scontati. Col sorriso bonario del padre di famiglia che intrattiene sulle ginocchia i bambini al termine del pranzo domenicale, Lopes dissemina ipotesi e tesi che scardinano il “senso comune” dominante. Come quando commenta con amara ironia il “Calati iuncu ca passa la china (tipico proverbio della mentalità mafiosa che, in presenza di difficoltà, aspetta tempi più propizi per rialzare la cresta)”: ” E infatti, i risultati sono sotto i nostri occhi: quanto estesa è la palude in cui prosperano i giunchi che si piegano all’arroganza delle piene stagionali del potere, e com’è lunga la litania dei morti ammazzati di mafia per avere rotto il muro di silenzio e di omertà o avere cercato di testimoniare e vivere una ‘Parola’ che si è fatta ‘carne’ ! Padre Puglisi era stato avvisato, come altri, e L’uomo avvisato è mezzo salvato ma non fu così e non per questo si deve rinunciare alla dignità o abdicare all’esercizio della ragione, della libertà, della volontà e della Parola: Testa c’ un parra si chiama cucuzza”.
O, ancora, quando prende spunto da O massaru un ci manca travagghiu, o lagnusu un ci mancanu calunii: ” la lezione è di fare in modo che i massari lavorino un po’ meno, soprattutto quando fanno opera di supplenza ai pigri e agli infingardi, e che i lagnusi facciano di più, perché il massaro non sia alla fine schiacciato dal peso delle incombenze: quelle che gli appartengono e quelle che non gli appartengono. Che altro non significa se non la più alta delle virtù etico-politiche, la giustizia”.

domenica 5 novembre 2006

IL SACERDOZIO E IL CELIBATO


“Repubblica - Palermo” 5 .11. 06

SACERDOTI SPOSATI.
L’ESEMPIO DI PIANA

In attesa del mio turno in panetteria ho ascoltato uno scambio di opinioni - in forma di certezze - fra una casalinga del quartiere e un pensionato di passaggio. La signora: “Ma perchè non permettono a questi benedetti preti di sposarsi invece di farli ammattire moltiplicando le amanti o peggio molestando i bambini?”. E, di rimando, l’anziano signore: “Sarebbe logico. Ma il papa non può cambiare la Bibbia dove c’è scritto chiaro e tondo che chi vuol fare il sacerdote deve fare voto di castità perenne”. Non so se la chiacchierata estemporanea fosse stata del tutto casuale o suggerita ai due simpatici avventori dalla cronaca locale di questi giorni o dagli allarmi, altrettanto attuali, del papa su fenomeni di portata mondiale. A me, comunque, ha suggerito due o tre considerazioni che - sollecitato con lo sguardo ad intervenire nella discussione - ho potuto solo accennare (senza - mi è parso almeno sul momento - notevole successo di pubblico).

La prima considerazione è, per così dire, sociologica: l’obbligatorietà della castità celibataria urta contro il senso comune. Sappiamo che non sempre il ‘buon senso’ coglie nel segno: ma, nelle questioni di cuore e di sesso, ha minori probabilità d’errore che in tutti gli altri campi.
La seconda considerazione, strettamente collegata, attinge l’ambito teologico: non solo la massaia dell’Arenella, ma anche la Sacra Scrittura diffida da certi divieti. Nella Prima lettera a Timoteo - che fa parte del Nuovo Testamento - san Paolo raccomanda di eleggere come vescovo qualcuno che sia stato “marito di una sola moglie” (3, 2) e che abbia dato prova di “ben governare la propria famiglia e tenere con grande dignità i figli in sudditanza” (3, 4): infatti, aggiunge immediatamente dopo, “se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?” (3,5). Forse potremmo nutrire qualche riserva sullo stile un po’ patriarcale-maschilista di questa figura genitoriale: ma quel che è fuori dubbio, e che ci interessa in questo momento, è che sin dall’inizio del cristianesimo - e per diversi secoli - non solo non vi è stato nessun divieto di matrimonio per presbiteri ed episcopi, ma se mai una sorta di obbligo. Come si sia potuti passare nella tradizione cattolica - è noto infatti che da Lutero in poi, dunque dal XVI secolo in poi, questa tendenza sia stata invertita - dall’obbligo di essere dei buon padri di famiglia al divieto di sposarsi sarebbe intrigante, ma troppo complesso, indagare.
Una terza ed ultima considerazione riguarda da vicino il nostro territorio. In provincia di Palermo, infatti, è ospitata l’eparchia di Piana degli Albanesi: una delle poche, ma non esigue, diocesi cattoliche di rito orientale sparse nel mondo. Esse, in parole povere, sono delle comunità con un proprio vescovo che riconoscono il primato del papa ma che hanno ottenuto di poter continuare a seguire le norme liturgiche e giuridiche in vigore nelle chiese greco-ortodosse. Dunque alcune parrocchie siciliane, come altre diffuse nei vari continenti, sono affidate a preti cattolici sposati. Per la precisione: a fedeli sposati che sono stati - successivamente - ordinati preti. E proprio a Piana degli Albanesi, qualche mese fa, si è tenuto il primo convegno cattolico dedicato tematicamente all’approfondimento del caso del sacerdozio “uxorato”. Particolare risonanza ha avuto in questo convegno la relazione del teologo don Basilio Petrà (autore del recente volume, edito dalle Edizioni Dehoniane di Bologna, significativamente intitolato: “Preti sposati. Per volontà di Dio?”). Nella relazione - resa pubblica in questi giorni dall’agenzia di stampa “Adista” - l’autore lamenta la tendenza a considerare questo modello di sacerdozio “abusivo” o, almeno, “minore, meno perfetto”. E osserva, con amara ironia, come persino l’insegnamento magisteriale cattolico alimenti la tesi paradossale che l’amore di Cristo sposo della sua chiesa sia rappresentato più efficacemente da un prete celibe e solitario che non da uno coniugato che viva un rapporto di comunione con la sua donna… La conclusione cui arriva il docente di teologia morale presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale è tanto chiara quanto poco nota negli ambienti cattolici come in quelli ‘laici’: il credente sposato che viene ordinato prete non cancella la grazia del matrimonio ma, aggiungendo un’ulteriore grazia, rende ancora più preziosa la sua testimonianza di marito e di padre. Non è confortante poter constatare che, qualche volta, le conclusioni degli intellettuali si sintonizzino con l’intuizione delle casalinghe al mercato?

venerdì 3 novembre 2006

L’UNIONE DI ANIMA E CORPO


“Centonove” 24 novembre 2006

Quando la danza è meditazione

Come spesso accade a noi siciliani, ho conosciuto Emma lontano dall’isola. Eravamo a Roma, ospiti di amiche comuni: e in quella casa accogliente, crocevia di molte strade, la professoressa ragusana - trasferitasi da anni nelle Marche per amore - mi parlò della sua passione per la danza meditativa. Ne restai talmente colpito da invitarla a darne un saggio nel corso delle “vacanze filosofiche per …non filosofi” che stavamo organizzando per l’estate successiva. Proprio quell’anno il tema di riflessione sarebbe stato “il linguaggio”. Cosa di più opportuno, dovendo trattare della molteplicità dei linguaggi, fare l’esperienza di un linguaggio corporeo? Altrimenti non si sarebbe usciti dalla gabbia: ci saremmo dovuti accontentare delle parole per esaminare persino il linguaggio non…verbale.

I partecipanti agli incontri guidati da Emma, sulle Madonie, rimasero molto contenti e chiesero fotocopia dei testi: perché allora non preparare un libretto che - grazie ad una casa editrice con distribuzione su tutto il territorio nazionale - lo rendesse fruibile ad un pubblico più vasto? Così La poesia del corpo. Spunti di danza meditativa (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2006) è diventato un titolo nella Collana “Prove di dialogo”.
Come suggerisce il nome, la Collana è nata per accogliere testi che contribuiscano al dialogo fra le diverse prospettive culturali, per esempio fra il pensiero cristiano e il pensiero ‘laico’: e quale libro, più di questo della Vindigni, costituisce un ponte fra le ragioni dei materialisti e le ragioni dei testimoni dello spirito? E con ciò siamo a quello che per me è il cuore del libro: senza pretese ambiziose - direi quasi con modestia - vuole offrire il servizio prezioso di aiutare chi vuole riconciliarsi con la propria corporeità.
***
Ormai quasi nessuno, infatti, nega che la cultura occidentale ha segnato, per secoli, un’indebita mortificazione del corpo (e di tutto ciò che ne è espressione: il lavoro manuale, la sessualità, le patologie…). Qual è la radice di questa ingiustificabile sottovalutazione? Non è facile rispondere, ma una cosa di può dire: il dualismo cartesiano. Nel XVII secolo il filosofo francese René Descartes - riprendendo ed aggravando un processo iniziato con Platone e proseguito con s. Agostino - ha spaccato in due l’essere umano: res cogitans e res extensa, anima e corpo, spirito e materia…Dando ovviamente il primato alla mente sul fisico. Oggi questo divorzio fra psichico e corporeo viene contestato: sia per motivi scientifico - filosofici che per motivi teologici.
Per motivi scientifico-filosofici, innanzitutto. Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere il libro sulla depressione di uno psichiatra che insegna all’Università pontificia salesiana. Dopo essersi chiesto cosa sia l’umore e perché oscilli (dal ‘buon’ umore al ‘cattivo’), Ludovico Berra scrive che non è facile rispondere perché esso non dipende né solo da fattori psichici (abbiamo fatto cinque al superenalotto) né solo da fattori fisici (ci fa male il pollice) bensì dall’intreccio inestricabile di entrambi: “il nostro stato fisico, di stanchezza o riposo, fattori ormonali, malattie o algie, così come eventi, ricordi, fantasie interagiscono tra loro producendo variazioni nell’umore” (Oltre il senso della vita. Depressione ed esistenza, Apogeo, Milano 2006, p. 8). Ma, secondo lui, per arrivare a capire questo, dobbiamo ammettere che “il nostro cervello non deve essere visto come limitato all’organo posto all’interno del cranio, ma si espande attraverso i nervi cranici, il midollo e i nervi spinali a tutto l’organismo raggiungendo organi interni, vasi sanguigni e ghiandole endocrine” (ivi). Insomma: “tutto il nostro corpo è parte del cervello, tutto il nostro corpo è cervello” (ivi). O, se si preferisce, equivalentemente, “la nostra mente è tutto il nostro corpo, che si organizza in pensieri subendo l’azione di sensazioni proveniente da ogni nostra regione somatica” (ivi).
Ma non è solo la ricerca scientifica e filosofica che spinge per una rivoluzione culturale tendente a non farci più dire “ho” un corpo bensì “sono” un corpo. E’ anche la ricerca esegetica e teologica che ha messo in evidenza come l’uomo nella Bibbia non è mai scomposto in ’spirito’ e ‘corpo’. Quando la Bibbia dice “l’anima mia ha sete del Dio vivente” non indica una ‘parte’ dell’uomo che avrebbe desiderio di Dio, ad esclusione di altre ‘parti’ che se ne fregherebbero: con ‘anima’ sta nominando l’uomo nella sua interezza in quanto animato dal soffio dello Spirito. E quando dice che l’uomo è “carne” lo sta designando sempre nella sua interezza, ma in quanto creatura debole e mortale. Nell’uno e nell’altro caso, nessun dualismo antropologico. Poi la Bibbia è stata letta in ambiente ellenistico, con occhiali filosofici greci e specificamente platonici, e sono nati gli equivoci che ci siamo portati sin quasi ai nostri giorni. Forse l’inculturazione del messaggio biblico in ambiente dominato dal logos greco non è stata così felice come alcuni, anche da cattedre autorevoli, vanno ripetendo…Se mi fermassi a questo punto, potrei suggerire la falsa congettura che Emma Vindigni abbia scritto un libro di filosofia o di teologia. Ma il titolo stesso del libro non è casuale: la poesia del corpo. La ‘poesia’, non la filosofia o la teologia, del corpo. E proprie le righe di una delicata poetessa francese meriterebbero d’essere scelte come sintesi, e suggello, di questo volumetto: “Ti ho troppo amato per accettare che il tuo corpo scompaia e proclamare che basta la tua anima e che essa vive. E poi, come fare a separarli, per dire: questa è la tua anima, questo il tuo corpo? Il tuo sorriso, il tuo sguardo, il tuo comportamento e la tua voce erano materia o spirito? L’uno e l’altro ma inseparabili” (A.Philippe, Le temps d’un supir, Jiulliard, 1963, p. 48).