venerdì 28 dicembre 2007

SANITA’: SE IL SERVIZIO PEGGIORA


“Repubblica - Palermo” 28.12.07
Augusto Cavadi

MALATI DI AIDS: SOS ASSISTENZA

Le tragedie non sono meno laceranti quando si vivono, lontano dai riflettori, nel segreto delle famiglie. A Palermo e in Provincia centinaia di uomini e donne, differenti per età e fascia sociale, sono accomunati ad esempio dall’ essere sieropositivi o malati di aids. E per loro questi giorni di festa sono, paradossalmente, segnati da motivi supplementari di sofferenza. Al punto da decidersi a invocare - attraverso il cronista - l’attenzione della città, in particolare delle istituzioni.

Che cosa è successo? Dal 1985 questi pazienti sono stati seguiti, sotto la direzione di Aurelio Cajozzo prima e di Vincenzo Abbadessa poi, dal Servizio di Riferimento Regionale per l’Aids, all’interno del Policlinico di Palermo, che - secondo Vincenzina R. - “comunicazione, rispetto, privacy, professionalità, percorsi assistenziali semplificati, facile accesso alle indagini e alle cure, competenza, gestione aggiornata della malattia” . “La gestione - aggiunge Carmelo N. - è stata per oltre venti anni ottimale, al passo con le novità scientifiche, con risultati tangibili sul nostro stato di salute. E’ giusto notare quando gli amministratori politici sanno scegliere i professionisti cui affidare ruoli di responsabilità“. Rosario C. ci tiene a precisare: “E, non dimentichi di scriverlo, per noi malati l’interfaccia istituzionale è stata la dottoressa Salvatrice Mancuso: non per mitizzarla, ma era esattamente quello che dovrebbe essere ogni medico. Era contenta del lavoro che svolgeva, abile nel comunicare, sapeva stabilire un formidabile rapporto con noi pazienti: sempre presente negli orari di servizi e raggiungibile, col cellulare personale, quando non era in ospedale. Se qualcuno non ce la faceva, stava per crollare psicologicamente, riusciva ad acciuffarlo per i capelli e a ridargli la forza per continuare”. La situazione, già molto positiva, sembrò destinata a migliorare ulteriormente nel 2006, quando il Servizio è stato spostato - sempre all’interno del Policlinico - in una sede nuova, dignitosissima, adeguata insomma.
Ma nel febbraio del 2007 l’incantesimo è rotto. In seguito alla chiusura dell’Ospedale Guadagna viene trasferito, nella stessa sede, il reparto di Malattie Infettive. Cominciano così disfunzioni e disservizi davvero scoraggianti. Racconta Antonella T.: “Attese prolungate, insostenibili per gente come noi che va in ospedale non qualche volta e per un periodo limitato, ma frequentemente e per tutta la vita; ambulatorio affollatissimo, di malati infettivi, in tragica promiscuità con noi affetti da aids e perciò soggetti, a causa dell’immunodeficienza, ad acquisire con estrema facilità ogni sorta di germi”. “Per non parlare ” - continua con un sorriso amaro Lucia T., madre di un ragazzo in cura - della privacy. E’ stata abolita. E’ normale che un medico si affacci dalla porta dell’ambulatorio e chieda a voce alta, davanti a tutti i presenti: chi sono i malati di brucellosi?”. In tutto questo - è il commento di un paziente non più giovanissimo che non vuole assolutamente dichiarare la propria identità anagrafica - la poca educazione di certi medici, che arrivano fra schiere di malati e non li degnano neppure di un cenno di saluto, passa in secondo piano. Certo non serve però a stabilire quel rapporto di fiducia che per noi ha anche benefici terapeutici”.
“Che sta succedendo? Perché questo accorpamento? A chi giova? E come mai la dottoressa Mancuso, tanto convinta - anzi entusiasta - del suo lavoro in questo difficile settore, ha chiesto ed ottenuto il trasferimento ad un altro reparto? Chi avrà la competenza e l’esperienza per sostituire una come lei che, dopo venti anni, conosceva perfettamente i nostri percorsi terapeutici e sapeva calibrare, caso per caso, il cocktail di farmaci più adatto?” Sono queste le domande che con più insistenza tornano, si accavallano, per le sale e i corridoi del Policlinico. “Non sembri esagerato quello che vogliamo dire: per noi malati di aids saper combinare i medicinali nelle proporzioni adatte a ciascuno fa la differenza fra la vita e la morte”, ci tiene a chiarire Mariano C. Già: una combinazione errata, o anche solo inadeguata in un determinato paziente, significa effetti collaterali talora mortali. Per questo l’appello che lanciano è composto, ma circostanziato e deciso. Sarebbe incoraggiante che venisse recepito prima che l’esasperazione lo trasformi in urla, in eclatanti azioni di protesta. Prima che i timori manifestati con tanta dignità civica trovino drammatiche, rovinose conferme.

giovedì 27 dicembre 2007

IL CENACOLO DEI METAFISICI


Repubblica – Palermo 27.12.2007
Augusto Cavadi

GIUSEPPE NICOLACI (DIR.)
Giornale di metafisica
Tilgher
Pagine 276
24,50 euro

Ontologia e metafisica è il titolo dell’ultimo numero (monografico) del “Giornale di metafisica”, rivista - tra le più note e prestigiose del panorama europeo - fondata molti anni fa dal siciliano Michele Federico Sciacca e, poi, diretta dal discepolo Nunzio Incardona. Dopo la morte di quest’ultimo le pubblicazioni si sarebbero interrotte del tutto se un gruppo di docenti universitari palermitani, coordinati da Giuseppe Nicolaci, nel 2005 non avesse rilanciato la rivista con un progetto rinnovato: che non è di una mera custodia del patrimonio spiritualistico cristiano ereditato, bensì di offrire uno strumento di confronto intellettuale aperto a tutti gli studiosi. Almeno a tutti quelli, di qualsiasi orientamento, ancora disposti a interrogarsi sulle domande fondamentali, senza ridurre la filosofia a semplice metodologia delle scienze naturali ed umane. Sinora i contributi sono stati raccolti soprattutto fra docenti universitari, ma il comitato di redazione ha deciso di aprire le porte di questa “nuova serie” anche al variegato mondo dei docenti liceali.

sabato 15 dicembre 2007

UN’ORA DI ANTIMAFIA A SCUOLA


“Repubblica - Palermo” 15.12.07
Augusto Cavadi

L’ANTIMAFIA NELLE SCUOLE

E’ di queste ore la notizia che i deputati Beppe Lumia e Giuseppe Giulietti hanno presentato alla Camera una proposta di legge che preveda un’ora settimanale di insegnamento antimafia nelle scuole medie (primarie e secondarie) dell’intero territorio nazionale.

Sulla validità delle intenzioni non ci sono dubbi ed anche nel merito la proposta legislativa ha diversi pregi. Innanzitutto sarebbe un modo per ribadire, in forma per così dire ufficiale, che - come spiega lo stesso Lumia in una dichiarazione - non si può contare esclusivamente sulla pur preziosa “attività repressivo - giudiziaria dello Stato”, ma “si deve costruire una risposta di sistema. E cioè lavorare sul fronte sociale e culturale”. Dunque: non bastano gli arresti eccellenti (Riina, Provenzano, Lo Piccolo) e neppure le normative, contenute nel pacchetto sicurezza sui patrimoni espropriati ai mafiosi. In secondo luogo il senso della proposta di legge sarebbe di sprovincializzare la questione mafiosa e sanzionare, con una legge nazionale, che educare a conoscere e a combattere le organizzazioni criminali non è un compito da riservare ad alcune regioni meridionali più sfortunate: tutto il Paese, in misura talora inimmaginabile (la Lombardia è la regione con il più alto numero di sequestri di immobili a mafiosi; l’Emilia - Romagna è una delle regioni in cui le mafie di mezzo mondo investono e riciclano proventi illeciti…), è un po’ complice ed un po’ vittima. Infine c’è almeno un terzo pregio di questa proposta: evitare che l’educazione antimafia sia un fulmine a ciel sereno, fare in modo che entri nell’ordinarietà del curriculum di uno studente. Non so quanto abbia senso la giornata del risparmio o della donazione del sangue: sicuramente non ne ha la giornata di educazione alla legalità democratica.
Eppure. Eppure - nonostante questi aspetti decisamente apprezzabili - spero che la proposta non venga approvata e non diventi esecutiva. Non c’è nulla di tanto interessante da sfuggire alla banalizzazione della normalità scolastica. Se si vuole strappare l’anima ad un poeta, ad una ricerca scientifica, ad una sperimentazione tecnica, ad un’opera di filosofia - se si vuole ridurre un capolavoro dell’ingegno umano a fantasma, a cadavere - basta renderne lo studio obbligatorio per legge. Non c’è censura statale o ecclesiastica più efficace per rendere inodore, insapore e inerme una qualsiasi novità teorico-pratica. Basti vedere che cosa è, nella stragrande maggioranza delle scuole, l’ora di educazione civica o l’ora di informatica. Per non abusare dell’esempio, troppo di moda in questi giorni in cui Benigni ne sta mostrando ad evidentiam la bellezza e la forza dirompente, della Divina Commedia.
E allora, che fare? Lasciamo tutto come prima? Sarebbe peggio di qualsiasi sperimentazione zoppicante. Possiamo, piuttosto, cogliere l’occasione perchè il Parlamento, recependo lo ’spirito’ della proposta, ne approfondisca e ne migliori le articolazioni. Nell’impossibilità di riassumere un ragionamento più completo che, con alcuni amici, ho provato recentemente ad elaborare (nel libro A scuola di antimafia), mi limito a due indicazioni di massima. La prima è che non si possono cercare scorciatoie: se si vogliono educare alla legalità democratica gli alunni, bisogna passare per la fase faticosa dell’autoformazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. Sino a quando presidi, professori, personale amministrativo ed ausiliario avranno idee sbagliate su che cos’è davvero la mafia e su come essa distrugge il tessuto connettivo sociale; soprattutto sino a quando le loro pratiche quotidiane saranno improntate a favoritismi, accanimento sui deboli, vigliaccheria nei confronti degli studenti violenti e dei genitori potenti, nessuna “ora di antimafia” ribalterà una cultura e aprirà un futuro migliore. Per raggiungere (o per avvicinarsi gradualmente) a tale traguardo pedagogico e politico il Parlamento potrebbe - e questa sarebbe una seconda indicazione concreta - estendere a tutta l’Italia e incrementare qualitativamente e finanziariamente quelle leggi regionali (attualmente in vigore in sei o sette regioni soltanto) che prevedono il sostegno non, velleitariamente, a pioggia, bensì a quegli istituti e a quelle facoltà universitarie in cui un gruppetto di docenti motivati riesce a predisporre progetti precisi di interventi educativi. Certo, non si tratta di metodologie infallibili: hanno esposto il fianco ad abusi e a distorsioni, ma in molti casi hanno prodotto risultati positivi. In ogni ipotesi, si tratta di procedere per contagio progressivo, a macchia di leopardo: un processo meno entusiasmante di una imposizione normativa nazionale, ma forse più realistico e produttivo. D’altronde, la pedagogia dei mafiosi insegna: per ottenere consensi al codice culturale di “Cosa nostra” e dintorni, i proclami non servono. Più efficace il lavoro persuasivo, silenzioso e quotidiano, di minoranze organizzate. Che, soprattutto, prediligano- rispetto allo spreco degli slogan - il linguaggio dei fatti concreti.

venerdì 14 dicembre 2007

LA PRIMA AGENDA ANTIMAFIA


Centonove 14.12.2007
Augusto Cavadi

L’AGENDA DELLA MEMORIA

Nel periodo natalizio piovono calendari, agende e strenne varie. Ce n’è per tutti i gusti: dalle donnine poco vestite che ammiccano invitandoti a goderti un po’ più la vita che scorre inesorabile ai padripii che ti indirizzano uno sguardo di malinconico rimprovero per tutti i tuoi peccati, reali o presunti. In tanto pullulare di proposte, quest’anno è possibile sceglierne una davvero originale: “l’agenda dell’antimafia” preparata dal Centro “Giuseppe Impastato” ed edita con la partecipazione di “Addiopizzo”, del Consorzio “Ulisse”, del “Centro servizi per il Volontariato” di Palermo e del Comune di Gela (una copia 10 euro, per acquisti tf. 091.6259789 o scrivere a csdgi@tin.it).

A prima vista, la struttura dell’agenda può dare un’impressione di tristezza: per ogni giorno dell’anno, si evoca in una didascalia a piè di pagina un anniversario luttuoso riguardante caduti nella lotta contro le mafie oppure vittime innocenti di stragi mafiose o anche vittime del banditismo. Alcune note sono dedicate, inoltre, a caduti nelle lotte per la democrazia o a vittime di stragi terroristiche in cui risultino coinvolte organizzazioni mafiose. Rileggere storie note e meno note, accompagnate spesso dalle foto di volti familiari o del tutto sconosciuti, non può che rinnovare l’amarezza per una guerra civile persistente che si combatte nel Sud d’Italia dal 1860 ai nostri giorni. Ma l’agenda non è stato pensata per diffondere scoramento. E’ stata piuttosto ideata e realizzata per spronare all’impegno concreto: come scrive Umberto Santino in una delle brevi e incisive note di presentazione pubblicate nelle prime pagine, “per legare memoria storica e impegni e scadenze del fare quotidiano”.
Mai come in questa fase - in cui i successi repressivi da parte di magistratura e forze dell’ordine s’intrecciano con coraggiose opzioni di rivolta da parte di commercianti e imprenditori tartassati dal pizzo - un moderato ottimismo è giustificabile: ma, affinché non si capovolga in cocente delusione, è indispensabile non allentare la morsa e moltiplicare i focolai di resistenza. Lo dobbiamo a quanti ci hanno preceduto e si sono spesi, senza riserve, per una società un po’ meno ingiusta; lo dobbiamo ai nostri figli, dal cui orizzonte dovremmo eliminare almeno alcune delle numerose e minacciose nubi che lo oscurano; lo dobbiamo a noi stessi, o per lo meno a quelli di noi (che non sono tanti, ma neppure pochissimi) che - con difetti e inadempienze e incoerenze e ritardi - da anni permaniamo nelle nostre terre per seminare consapevolezza e speranza, convinti di meritare un po’ più di democrazia e di libertà.
Avere questa agenda sul tavolo di lavoro o sul furgone che ci serve per trasportare disabili, spulciarla ogni giorno, regalarla e farla conoscere ai concittadini più disattenti è un modo - limitato ma concreto - di contribuire a rendere il 2008 un anno decisivo nella storia dell’antimafia.

giovedì 6 dicembre 2007

IL SINDACO E IL TRAFFICO


Repubblica – Palermo 6.12.2007
Augusto Cavadi

CHIUDERE IL CENTRO AL TRAFFICO: UNA SCOMMESSA PER IL SINDACO

E’ incredibile. Che una minoranza di cittadini possa decidere di procurarsi danni - e di imporre al resto della cittadinanza le conseguenze di questa voglia masochista - è incredibile. Quando una categoria di particolare rilievo economico per una città , non particolarmente esuberante dal punto di vista produttivo, avanza delle resistenze nei confronti dell’amministrazione pubblica, è comprensibile che si cerchi di capire le loro ragioni. Così molti di noi abbiamo cercato di ascoltare le motivazioni dei commercianti che, in questi giorni, si sono opposti alla chiusura di alcuni tratti del centro storico: ma, pur con la migliore predisposizione, non ne abbiamo trovato una sola che fosse convincente.

L’esperienza di tutte le città non solo europee, ma anche italiane, è ormai abbastanza prolungata per poter asserire che dal punto di vista biecamente mercantile le isole pedonali non abbattono le vendite (e i relativi guadagni) dei negozi. Certo, se si chiude solo qualche area di pochissimi chilometri quadrati e, per giunta, la si chiude per poche ore e saltuariamente, la gente non si adatta immediatamente alla situazione: ma se la chiusura riguarda una zona più ampia e, soprattutto, se è integrale e permanente, il quadro muta. La clientela impara a passeggiare serenamente, senza smog né rumori, nelle zone pedonali e, in questo clima di rilassatezza, non è certo meno proclive agli acquisti di quando deve attraversare vie intasate dal traffico e posteggiare abusivamente per pochi minuti col timore delle multe.
Come se ciò non bastasse, aree completamente vietate ai mezzi di trasporto inquinanti comportano un impressionante miglioramento della salute degli abitanti. E chi sono gli abitanti più esposti di un quartiere se non proprio i negozianti che vivono a livello della strada, spesso con le porte aperte? Quanti di loro contabilizzano, nel bilancio mensile, i malanni (faringiti, tracheiti, tosse, infiammazioni polmonari, irritazioni cutanee…) - con le relative assenze - cui espongono le proprie persone, i propri familiari, i propri dipendenti? E quanti di loro hanno idea dell’azione cancerogena - a medio e lungo termine - degli attuali livelli di inquinamento dovuto ai gas di scarico delle automobili, delle motociclette e degli autobus?
Catania, Messina, Siracusa, Trapani, Acireale, Marsala, Mazara del Vallo, Cefalù, Erice, Taormina sono centri siciliani dove - sia pure, in qualche caso, con eccessiva tolleranza per i trasgressori - delle più o meno ampie zone pedonali sono state già istituite: agenzie turistiche, pasticcerie, librerie, trattorie, commercianti hanno registrato un calo degli affari? Gli anziani, i bambini portati a passeggiare in carrozzella o in triciclo, le comitive dei turisti accompagnati in giro ne sono stati danneggiati?
L’attuale normativa dà al sindaco almeno due motivi in più, rispetto al passato, per imporre ciò che in coscienza ritiene opportuno per la qualità della vita della maggioranza o, come in questo caso, della totalità dei cittadini: è più forte rispetto alla variazione delle maggioranze nel Consiglio comunale e non può essere rieletto per la terza volta consecutiva. Almeno in questo caso, Cammarata darà - per altro in linea con i suggerimenti degli esperti della viabilità da lui stesso nominati - una prova della sua esistenza? Sarà disposto ad andare oltre i risultati ballerini dei sondaggi d’opinione per assumersi la responsabilità di una decisione politica e prepararsi a lasciare la città, come dovrebbe desiderare qualsiasi amministratore, un po’ migliore di come l’ha trovata?

sabato 1 dicembre 2007

IL COSTO DEI SERVIZI LITURGICI


“Repubblica - Palermo” 1.12.07
La giungla delle tariffe per nascite e matrimoni

Augusto Cavadi

Tra i tanti paradossi della cultura meridionale contemporanea si registra una schizofrenia nei comportamenti ‘religiosi’ del cittadino medio: da una parte diminuisce il numero di quanti si dicono cattolici convinti e praticanti, dall’altra regge il numero di quanti vogliono celebrare in chiesa gli eventi principali dell’esistenza. Così la frequenza statistica di battesimi, matrimoni e funerali in forma liturgica non accenna a diminuire, o per lo meno non nella misura in cui ci si aspetterebbe in base alle posizioni su questioni teologiche dichiarate.

Questo dato sociologico può essere letto da angolazioni diverse, non necessariamente confliggenti. Alcuni storici del cristianesimo, come don Francesco Michele Stabile, hanno sottolineato i rischi di una religiosità tradizionalista e conformista che non viene neppure sfiorata dal travaglio di accettare o meno il messaggio evangelico. Tra i rischi di un “cattolicesimo municipale” - ridotto a mera “religione civile” - don Stabile, parroco a Bagheria, da decenni sottolinea l’imbarazzante puntualità con cui i boss mafiosi partecipano alle manifestazioni religiose: come potrebbero, mancare se devono spacciarsi per uomini d’onore, ligi ai doveri morali e vicini ai sentimenti popolari? Nessuno, d’altronde, chiede loro di confrontarsi - preventivamente - con le esigenze di giustizia e di fraternità, in nome dell’unico vero Padre, che caratterizzano il vangelo di Gesù.
Se, e come, intervenire per modificare questa tendenza della secolarizzazione nel Meridione a succhiare la linfa vitale del cristianesimo lasciando inalterati i gusci vuoti delle abitudini sociali è una questione teologico-pastorale interna alla Chiesa cattolica. Chi osserva dall’esterno non può esimersi dal notare un paradosso nel paradosso, un enigma nell’enigma: la fedeltà della gente ai riti cattolici persiste nonostante la levitazione delle tariffe. Tranne qualche rara eccezione - guardata con scarsa simpatia dai confratelli, talora persino con aperto disappunto - anche in Sicilia la maggioranza dei preti esercita il ministero dietro compenso economico prefissato. La storia è vecchia e, come recita un proverbio popolare, “senza soldi non si canta neppure messa”, ma nell’attuale contingenza acquista caratteri particolarmente inquietanti: infatti, dalle informazioni e dalle lamentele che mi arrivano da più zone dell’isola, anche i preti - come i notai, i medici, gli avvocati, i meccanici, gli idraulici e i panettieri - si sono guardati bene dal tradurre le lire in euro con esattezza matematica. Non solo avviare le pratiche di dichiarazione di nullità del matrimonio, ma anche chiedere l’autorizzazione a sposarsi in una parrocchia diversa dalla propria o la celebrazione di una messa in suffragio di un caro defunto è diventato enormemente più costoso: anche fra le mura ovattate e semioscure delle sacrestie la monetina metallica dell’euro ha finito col sostituire la banconota di mille lire.
Pure questo aspetto della questione si presta a considerazioni da vari punti di vista. Nell’ambito cattolico c’è sempre qualcuno - ciclicamente - che si incarica di esprimere riserve, talora addirittura indignazione: vero è che, come è scritto anche nel Nuovo Testamento, “ogni operaio ha diritto alla sua mercede” e che, come pochissimi sanno, i preti in servizio nelle diocesi alle dirette dipendenze del vescovo non hanno mai formulato un “voto di povertà” (a differenza dei monaci e dei preti che fanno parte di Ordini religiosi, come i Cappuccini o i Gesuiti), ma è anche vero che c’è un problema di sensibilità e di buon gusto. Perché un servitore di Dio dovrebbe adeguarsi le entrate mensili con la prontezza di un parlamentare o di un manager d’industria e non condividere i lentissimi progressi dei dipendenti pubblici e privati? Non si tratta di inseguire il pauperismo, ma di rendere - con un tocco di sobrietà - il proprio ministero presbiterale un po’ più credibile. Era, fra tanti altri, il parere di don Primo Mazzolari che, ne Le pieve dell’argine, riferiva le parole di don Checco a don Stefano: ” Se la gente ci vedesse guadagnare il pane come loro e un po’ più onestamente di loro, la religione si farebbe strada senza molte prediche e molte organizzazioni. Una povertà sana è come il mio vino: porta via la sete e non ubriaca”. Tra i primi atti di Salvatore Pappalardo, nominato arcivescovo di Palermo, ci fu una circolare in cui chiedeva ai parroci di rendere pubblici i bilanci finanziari annuali in vista di una perequazione fra parrocchie di quartieri cittadini ricchi e parrocchie di paesini di montagna poveri. Ma, come ebbe a confidarmi direttamente, “da questo orecchio i miei preti non ci sentono: dopo un anno, di bilanci ne ho ricevuto due o tre”.
Osservata dall’esterno, la questione del tariffario per i servizi liturgici presenta qualche aspetto amaramente umoristico: può capitare anche a voi di ascoltare involontariamente, in attesa del turno in salumeria, una massaia che al cellulare passa all’amica la dritta sulla chiesa “giusta” di Ficarazzi o di Ballarò dove il prete è disposto a pronunziare a messa il nome del nonno defunto senza chiedere soldi (”se vuoi, puoi dare liberamente qualcosa quando passa il cestino delle offerte”). Si presta anche a domande più impegnative: perché la cultura laica non riesce a inventarsi dei modi propri, originali, di solennizzare nascite e morti? Perché - senza polemica contro nessuno, ma in alternativa al ristretto panorama attuale delle offerte di senso - non riesce a forgiarsi un suo linguaggio simbolico? E’ proprio indubbio che i matrimoni civili debbano avere un tono sbrigativo e squallidoccio e che solo in un tempio religioso si possa fruire di colori, di profumi, di canti, di brani poetici e di una riflessione - meditata e garbata - sulla bellezza e sulle trappole della vita di coppia? E’ proprio inevitabile che i funerali civili si svolgano in ambienti tristi e spogli, che in assenza di un prete non ci sia qualcuno - meglio ancora se, coralmente, l’intera cerchia dei parenti e degli amici sinceri - che sappia dare voce al dolore, al rimpianto, alla stima e alla speranza? “C’è bisogno di riti” abbiamo letto tutti quanti ne Il piccolo principe di Saint-Exupery. E’ verissimo. Ma la ritualità, che segna le tappe della nostra vicenda terrena e la tiene aperta - come direbbe Michele Perriera - al mistero che ci circonda e ci attende, si eredita come un soprammobile da salotto o come un giardino vivo da coltivare, rinnovare e ricreare ad ogni generazione?

venerdì 23 novembre 2007

FELICITA’ E IMPEGNO SOCIALE


Centonove 23.11.07
Augusto Cavadi

C’E’ UN LEGAME TRA FELICITA’ E POLITICA

Qui di seguito una traccia dell’intervento di Augusto Cavadi al seminario di formazione etico-politica organizzato il 1 ottobre 2007 dall’Associazione “Donne per Messina”. Per informazioni sull’Associazione contattare Tina Palmisano (donnepermessina@libero.it oppure 339.7714099).

La domanda - guida, cui cercheremo di rispondere insieme questa sera, è se esista un rapporto fra felicità e politica. Anche qui, come si è tentato di fare introducendo altri interrogativi negli incontri precedenti, occorre intendersi sul significato che diamo a quei segni linguistici convenzionali che sono le nostre parole. Chiediamoci dunque, innanzitutto, cosa intendiamo per ‘felicità‘ sia quelli che pensiamo che sia accessibile su questa terra sia quelli che la concepiamo come inattingibile. Per gli uni e per gli altri è uno stato interiore - in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva, realistica, ontologica - di gratificazione piena, tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale. Dico “in qualche modo corrispondente ad una condizione oggettiva” perché, in genere, non siamo disposti ad accreditare per felicità lo stato psichico di chi sia in preda ad allucinogeni e che, una volta uscito dal delirio, si dovesse scoprire senza amori o senza lavoro o senza salute. E dico “tale da non poterne auspicare una modifica sostanziale” perché, se sperimento la felicità - almeno nel momento in cui la sperimento - sarebbe molto strano che desiderassi un cambiamento radicale (o se, al contrario, non lo temessi come una disgrazia).

Ebbene, posto che le felicità sia questo - o qualcosa di simile - possiamo cominciare a fissare alcuni paletti, almeno provvisori.
Il primo: forse la felicità è attingibile in questa vita, forse un’illusione atroce, ma in ogni caso ogni uomo ha diritto di poterla cercare con tutti gli strumenti immaginabili, tranne quelli che danneggino altri non consensualmente.
Il secondo paletto è consequenziale: la politica non può assicurare la felicità ai cittadini (quando lo promette, prepara infelicità inumane), ma può provocarne l’infelicità (per esempio calpestando i diritti umani elementari). Dunque non ci dobbiamo attendere dai regimi politici la felicità, ma abbiamo il diritto di attenderci che essi non ce la distruggano alla radice: la buona politica può - e deve - assicurare le condizioni perché i cittadini stessi possano, se vogliono, mettersi alla ricerca della felicità.
***
Ammettiamo di vivere in un regime democratico che, con tutti i limiti, ci garantisca - come fa la Costituzione della Repubblica italiana sinora vigente - il diritto alla ricerca di una felicità, sia pur parziale e provvisoria. Ebbene, se interroghiamo la tradizione occidentale, che indicazioni possiamo raccogliere?
Ogni tanto il papa, in curiosa sintonia con atei strumentalmente devoti, ricorda che l’Europa ha radici cristiane. Verissimo. Ma altrettanto vero che il cristianesimo, come noi lo abbiamo conosciuto, soprattutto nella versione cattolica, ha a sua volta radici ebraiche e radici greche: l’Europa cristiana è come un fiume in cui sono confluite almeno due filoni precedenti: la sapienza greca (Atene) e la profezia biblica (Gerusalemme ).
Ebbene, quali modelli di felicità ci vengono consegnati da queste due antiche sorgenti di cultura?
Per la saggezza greca, la felicità è - fondamentalmente - astensione dal dolore, ricerca dei piaceri ragionevoli e contemplazione della verità delle cose. “Astensione dal dolore”: il male e il bene sono entrambi costitutivi della natura ed è illusorio, dunque, sperare di vivere solo in una dimensione di positività. Ciò che possiamo fare è perseguire una strategia di riduzione del danno, magari usando la filosofia che - secondo Epicuro - deve guarirci dai mali dell’anima esattamente come la medicina ci può guarire dai mali del corpo. Questa visione non va scambiata per un pessimismo paralizzante e rinunciatario: evitare i mali non esclude la “ricerca dei piaceri ragionevoli”, dunque di piaceri moderati (per la ragione che, se eccessivi, diventano causa di nuovi malanni). La saggezza è dunque saper miscelare dolore e piacere che - Platone lo fa dire a Socrate nel “Fedone” - sono come i due capi della stesso pezzo di corda: non si può afferrarne uno senza, per ciò stesso, portar via anche l’altro.
Tra i piaceri che ci sono accessibili in questo mondo, secondo diversi filosofi greci ce ne è uno talmente intenso da assomigliare alla felicità, al massimo di fioritura che un soggetto umano può sperimentare da mortale: la sapienza, la “contemplazione della verità delle cose”. Quando sappiamo qualcosa di vero (sapère, il “sàpere” dei Latini, cioè l’assaporare con gusto e il far proprio con calma), la nostra beatitudine si avvicina a quella divina. Se poi arriviamo a contemplare le essenze della realtà, la nostra passione (il nostro eros) arriva al culmine dell’appagamento. Il discorso di Diotima sull’amore nel “Simposio” sintetizza questo itinerario esistenziale in maniera anche letterariamente affascinante.
***
Se dovessimo scegliere un testo che si abbini, un po’ per somiglianza ed un po’ per contrasto, con il discorso sull’amore platonico, potremmo scegliere il Discorso della Montagna così come viene costruito, nei rispettivi “vangeli”, da Matteo e da Luca. So che può sembrare strano: il passaggio cruciale di quel Discorso evangelico non è forse costituito dalle “beatitudini”? E le “beatitudini” non sono forse l’esaltazione dell’infelicità? La “vulgata” catechetica lo sostiene da non so quanti secoli, ma gli esegeti insegnano esattamente l’opposto: Gesù di Nazareth proclama “beati” (cioè: “felici”) i poveri e gli oppressi non perché avranno il privilegio di restare tali sino alla morte e di essere ricompensati nell’altra vita, ma perché già da subito - e già da qui - comincia il ribaltamento della loro condizione. Che poi questo non sia avvenuto, o stia avvenendo in tempi troppo dilatati e in maniera troppo deludente, è un’altra faccenda (e coinvolge il fallimento storico del cristianesimo o, come titolava più drasticamente un libro di Sergio Quinzio, “La sconfitta di Dio”). Ebbene, perché questo brano evangelico può essere adottato come sintesi emblematica - sul tema della felicità - di tutta la tradizione ebraico-cristiana? Perché esso proclama che il segreto ultimo della felicità non è l’eros che aspira a perfezionarsi moralmente e ad appagre la propria sete di sapere, bensì l’agape: l’amore che cerca il bene dell’altro in quanto altro, senza contare su gratitudini e gratificazioni. Essere felici è possibile nella misura in cui non si insegue la propria felicità, ma ci si impegna nella storia a favore degli infelici - di chi è infelice come noi o più di noi.
***
Da queste due lezioni che ci provengono dalla sapienza greca, da Atene, e dalla profezia biblica, da Gerusalemme (rimando, per approfondimenti maggiori, ma accessibili ad un vasto pubblico, il volumetto di Elio Rindone dal titolo “Ma è possibile essere felici? Interpretare il passato senza restarne prigionieri”, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2005), penso che derivi per noi che viviamo nel XXI secolo un compito inedito: ipotizzare e sottoporre a sperimentazione una sintesi che - dopo aver destrutturato il ‘buon senso’ cattolico-borghese - inveri la saggezza greca e la testimonianza biblica. Che significa “destrutturare il ‘buon senso’ cattolico-borghese”? Significa dire no all’esaltazione della “carità” (che è negazione di aspetti basilari dell’eros e negazione di aspetti basilari dell’agape) e dire sì alla rivalutazione di questi aspetti positivi, rivoluzionari, sia dell’eros che dell’agape. Più concretamente, significa dire no all’accettazione del dolore (proprio e altrui) come dato indiscutibile e insuperabile e dire sì alla lotta (scientifica, tecnica e sociale) contro ogni forma di sofferenza fisica e psichica (vedi, solo per trarre un esempio dall’agenda politica attuale, le cure palliative e l’accanimento terapeutico); significa dire no all’ascetismo moralistico e dire sì ad una distribuzione più equa del diritto ai piaceri come possibili vie alla gioia (dunque contrastando la tendenza ad una divaricazione sempre più schizofrenica fra l’edonismo spudorato di pochi privilegiati e l’invidia, più o meno rassegnata, delle masse) ; significa dire no all’egoismo individualistico (che, al massimo, si estende al familismo tribale) e dire sì alla solidarietà planetaria e metodica.

venerdì 16 novembre 2007

LE VARIE FORME DI CONTROLLO DEL TERRITORIO


Repubblica – Palermo 16.11.07
Augusto Cavadi

E SE PROVASSIMO A RIBELLARCI AGLI ESTORSORI DEL POSTEGGIO?

Anche grazie alle sollecitazioni dei giovani di “Addiopizzo”, imprenditori e commercianti palermitani hanno lanciato in questi giorni “Futurolibero”, la prima associazione antiracket nella capitale della mafia. Un certo ottimismo - che sarebbe sciocco trasformare in euforia - è giustificato. Non si può stare in tensione tutta la vita: ogni tanto bisogna sapersi godere le boccate d’ossigeno. Tra un respiro di sollievo e l’altro, però, è lecito provare a rispondere a qualche interrogativo.

Il primo - e più rilevante - lo ha posto Tano Grasso verso la conclusione della manifestazione di sabato scorso al teatro Biondo: che cosa sta facendo di nuovo, e di meglio, il governo di centro-sinistra a favore di quanti si schierano in concreto contro i mafiosi? Forgione, in qualità di presidente della commissione parlamentare antimafia, è stato molto preciso nell’elencare le cose fatte e le cose da fare. Dai due sottosegretari presenti ci si aspettava risposte almeno altrettanto puntuali, ma invano. Si sono avute delle dotte disquisizioni di carattere generale che, nel contesto, sono risultate deludenti. Poiché si tratta di due persone preparate e dialetticamente attrezzate, si può ritenere che mancassero fatti documentabili da raccontare. L’attenzione verso queste tematiche, da parte del governo che rappresentano, sarà tale nei prossimi mesi da metterli in condizione di essere più dettagliati in un’occasione futura?
Un secondo interrogativo che circolava nel corso della mattinata nasceva dalla constatazione che tra le centinaia di cittadini accorsi non si individuasse “nessun rappresentante della chiesa cattolica”. Capisco il senso della domanda e sarebbe certo il caso che la chiesa di Palermo - come è stato auspicato anche da queste colonne in occasioni recenti - rendesse manifesto l’appoggio a quelle persone (cattoliche o no) che si stanno maggiormente esponendo nella resistenza contro l’oppressione mafiosa. Tuttavia è opportuno considerare che i preti più sensibili alle problematiche civili non godono - di solito - del dono dell’ubiquità e non ci si può aspettare di vederli presenziare ad ogni appuntamento pubblico (specie quando, come forse in questo caso, non sono stati esplicitamente invitati). Soprattutto è opportuno approfittare di queste assenze, più o meno casuali, per tentare di modificare una diffusa mentalità involontariamente clericale: perché non considerare rappresentanti della chiesa cattolica anche dei fedeli battezzati e praticanti? Di questi laici credenti, uomini e donne impegnati in organizzazioni cattoliche, ce n’erano in sala più d’uno: un piccolo segno, forse esiguo, ma che va valorizzato senza nostalgie per tonache svolazzanti e crocifissi penduli.
Terzo, ed ultimo, interrogativo: sarebbe strategico accompagnare la lotta di alcune fasce produttive contro il mega-pizzo degli estortori con una lotta, meno eroica ma più quotidiana, contro il micro-pizzo dei posteggiatori abusivi? Non mi riferisco - è chiaro - al ragazzo di colore che ti indica un posto libero, ti offre con un sorriso la scheda del parcheggio, ti saluta garbatamente anche se non ti trovi spiccioli in tasca. No, mi riferisco a quei posteggiatori che si armano di berretto d’ordinanza, fischietto al collo, blocchetto di tagliandi fantomatici e ti chiedono - con tono deciso - di versare l’obolo non appena hai chiuso la serratura dell’automobile. Ce ne sono dappertutto, ma soprattutto nelle adiacenze degli ospedali pubblici. E se, timidamente, proponi di saldare il ‘debito’ al tuo ritorno - magari dopo aver constatato che l’auto non è stata né rubata né scassinata - ti senti rispondere che il tuo angelo custode quella sera deve andar via prima. Inutile obiettare che allora dovresti pagare in anticipo una vigilanza…che non ci sarà. Forse, per alcuni bilanci familiari, due o tre euro al giorno (dunque sessanta o novanta euro al mese) sono trascurabili: ma, anche in questi casi (per altro sempre meno frequenti), cedere alle pressioni - in mancanza di un controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine - significa alimentare un espediente per far soldi parassitariamente (con la minaccia, non sempre tacita, di procurare danni) che, nel tempo, se incontrastato, si trasforma in costume e, infine, in mentalità. Abolire il mini-pizzo da marciapiede potrebbe costituire un modo per boicottare quella “industria della protezione” (che protegge i cittadini inermi dalle intimidazioni da essa stessa prodotte) di cui il mega-pizzo è il profitto più cospicuo.

venerdì 9 novembre 2007

SIAMO VERAMENTE SUPERIORI?


“Centonove” 9.11.07
Augusto Cavadi

UN SICILIANO IN COLOMBIA

I numerosi addetti che hanno controllato, ai quattro scali del viaggio, il mio biglietto aereo da Palermo a Medellin, si sono equamente distribuiti in due sottogruppi: i diffidenti e i divertiti. Come mi ha spiegato, all’arrivo, il collega dell’università da cui ero stato invitato, non capita tutti i giorni che un palermitano attraversi l’oceano alla volta della Colombia per un convegno di didattica della filosofia. Pare che la ragione più frequentemente abbia un diverso carattere - per così dire - speculativo.

Confesso che - istruito solo da alcune fonti più o meno ufficiali pescate da internet - ero sbarcato con l’atteggiamento sottilmente paternalistico di chi pensa che, per quanto male si possa stare in Sicilia, comunque si è sempre europei che visitano una parte del mondo in via di sviluppo. Ma presto mi sono dovuto ricredere. Certo, né a Medellin né a Bogotà, si può notare quell’ostentazione di benessere che nelle strade principali di Palermo o di Trapani nasconde molto bene la povertà - non solo materiale - di vaste zone sia del centro storico che delle periferie di recente urbanizzazione. Insomma, fosse questione di vetrine o di jeans firmati o di fuoristrada (?!) nel cuore del traffico cittadino, il siciliano in Colombia potrebbe benissimo mantenere il più o meno celato senso di superiorità. Non così se si parla con la gente, si partecipa ai seminari di studio, si visitano le biblioteche pubbliche: c’è un fervore di idee, una sete di confronto, come dalle nostre parti - forse un po’ in tutto l’Occidente industrializzato - è sempre più raro registrare.
Tre esempi per tutti. Gli insegnanti - dei vari gradi d’istruzione scolastica - si interrogano con molta serietà sulla dimensione politica della loro attività professionale. Nei momenti conviviali o di relax davanti all’immancabile cerveza si appassionano alle discussioni sugli aumenti salariali, ma non sbadigliano distrattamente quando si tratta di interrogarsi sul rischio di appiattire la vita scolastica sulla mentalità, i desideri e i linguaggi del consumismo sociale dominante: astutamente sostenuti dalla convinzione che c’è, per quanto sotterraneo, un nesso fra sistema capitalistico sfrenato e sottovalutazione della funzione intellettuale.
All’università di Bogotà sono attivi dei corsi specificamente predisposti per alunni sordomuti, con traduzione simultanea delle lezioni nel linguaggio dei segni.
Le biblioteche pubbliche, poi, non hanno nulla della severa, tetra clausura delle nostre, quasi templi da riservare ai fedeli più motivati. Sembrano davvero tese ad autopromuoversi per promuovere cultura nel territorio: spazi luminosi e colorati, pareti di vetro in modo da ridurre al minimo - proprio fisicamente - la separazione fra chi passa per strada e chi è dentro a consultare un libro o un periodico. E, per attrarre l’interesse dei passanti, vistosi gonfaloni impermeabili sfidano venti e piogge per ricordare che “un popolo che non legge si condanna all’oscurità” o che “la lettura può liberarci dallo sconforto verso il genere umano e ricordarci che siamo capaci di realizzare cose magiche”.
Non si può supporre che questa atmosfera effervescente sia dovuta, come nei Paesi scandinavi, al fatto che siano stati definitivamente appagati i bisogni materiali elementari. Da espressioni raccolte in momenti differenti e da persone differenti, ho recepito un senso pacato ma profondo della propria dignità di popolo: con radici, mi pare, che potrebbero benissimo risalire a ben prima dell’invasione coloniale europea. Per questo, a poche ore dalla partenza, una considerazione captata per caso non mi è risuonata - come sarebbe stato all’inizio del viaggio - paradossale. Di fronte ad un intoppo burocratico fastidiosissimo, una signora colombiana - del tutto ignara della mia nazionalità e rivolta polemicamente al funzionario - osservava a voce alta e indispettita: “Se procediamo di questo passo, arriveremo ai livelli dell’Italia”. Scherzi della globalizzazione: ormai le banane si producono in molte repubbliche.

martedì 6 novembre 2007

LA NASCITA DEL PARTITO DEMOCRATICO


Repubblica – Palermo 6.11.07
Augusto Cavadi

MISSIONE DEL PD SICILIANO: FORMARE DI PIU’ I CITTADINI

Il Partito democratico è partito con un passo più allegro del previsto. Le riserve avanzate sulla sua natura e sulle modalità della sua genesi appartengono al passato: sarebbe mero disfattismo qualunquistico continuare a brandirle come una clava, ma imperdonabile superficialità non tenerne conto quali indicazioni prospettiche e costruttive.
In primo luogo va chiarita la necessità di un funzionamento effettivamente democratico del nuovo partito. Sappiamo come è andata a finire sino ad ora nelle vecchie organizzazioni: formalmente è la base ad eleggere i dirigenti locali e sono questi ad eleggere i dirigenti regionali e nazionali; sostanzialmente sono i dirigenti di rango superiore a nominare dall’alto i dirigenti locali distribuiti sul territorio a titolo di luogotenenti cooptati in virtù della loro provata fedeltà.

Per le primarie si sono portate varie e, credo, solo parzialmente convincenti ragioni per spiegare come mai più che di elezioni si dovesse trattare di una specie di referendum confermativo delle decisioni romane: ma, chiuso il periodo costitutivo, sarà il momento di praticare all’interno del PD quella democrazia partecipativa che - a parole - si auspica all’esterno? Se questa innovazione non dovesse realizzarsi, il PD si distinguerebbe dalla Casa delle libertà solo per un particolare: la minore coerenza rispetto a quelle formazioni di destra che si basano sul leaderismo e hanno, almeno, il pudore di non autodefinirsi eredi di tradizioni democratiche come il socialismo, il cattolicesimo popolare e il liberalismo progressista. A giudizio di un gruppo di partecipanti alla prima assise nazionale di Roma ancora non ci siamo. In una lettera aperta a Walter Veltroni contestano che la votazione finale si sia svolta “a sorpresa, su un documento letto in fretta, mai discusso in precedenza e senza alcuna possibilità di discuterlo”, 
”senza alcuna garanzia di democrazia (nessuna verifica dei votanti, dei favorevoli e dei contrari)”.
Contestano, inoltre, “una nomina delle commissioni per quote di liste contraddicendo le dichiarazioni che non ci sarebbero state correnti”; “la votazione per un vicesegretario non prevista in alcuna norma del Regolamento e presentata con una palese forzatura dello stesso regolamento”; 
”la decisione di far eleggere i Coordinatori provinciali (da nessuna parte si dice provvisori) dagli eletti nelle Assemblee Costituenti regionali e nazionali con uno straordinario percorso di autoleggittimazione dall’alto verso il basso”; “la decisione di costituire il partito democratico nei territori, secondo le modalità decise congiuntamente dal Segretario Nazionale e dai Segretari Regionali, con un metodo che definire verticistico è un eufemismo”. Tra pochissimi giorni avremo, in Sicilia come nel resto del Paese, la prima assemblea regionale: assisteremo a procedure altrettanto disinvolte, con forzature interpretative e adattamenti fantasiosi?
In secondo luogo va chiarita la necessità di un radicamento culturale della nuova aggregazione politica. Con entusiasmo un po’ infantile, si è ripetuto da più parti (soprattutto da chi ha creduto dogmaticamente ad alcuni sistemi ideologici del XIX - XX secolo) che il PD nasce come partito “post-ideologico”: ma questo significa che va oltre le ideologie del Novecento o che navigherà a vista, pragmatisticamente, senza idee orientative? Non si tratta ovviamente di ricostruire le vecchie “scuole di partito” che avevano il pregio di fornire criteri interpretativi ma con le modalità dell’indottrinamento catechistico: si tratta piuttosto di programmare, con convinzione e serietà, dei luoghi di alfabetizzazione politica in cui a tutti i cittadini (dunque non solo a iscritti e simpatizzanti del PD) venga offerta la possibilità di un’istruzione - semplice, chiara e per quanto possibile obiettiva - sui principali meccanismi istituzionali e sulle principali proposte alternative riguardanti la politica internazionale, i sistemi economici, la sanità, la scuola, i diritti civili. In questo campo Palermo, insieme a Milano, può vantarsi di aver avviato i primi spazi in cui si è provato ad offrire, in maniera pressoché gratuita, un’offerta di formazione civica a cittadini di varie età e di vari orientamenti personali: ai nuovi organismi direttivi del PD decidere se valorizzare questo patrimonio (accentuandone, dove il caso, laicità e pluralismo) o fare del post-modernismo l’alibi di una politica senza idee e senza valori.
In terzo luogo - abbastanza conseguentemente - va chiarita la necessità di una organicità programmatica. Che all’interno di una aggregazione partitica pluralistica ci sia un dibattito continuo, spregiudicato, autentico non può scandalizzare se non chi è abituato a ricevere “la linea” dalla dirigenza centrale o dal padrone del vapore. Ma questo dibattito, a trecentosessanta gradi, non può ignorare alcuni punti fermi. Non avere un’identità rigida, sclerotizzata, non significa essere privi di dna. E’ troppo facile bollare come “antipolitica” ogni richiesta, più o meno rumorosa, di moralità elementare e di legalità minima. Dalle nostre parti questo significherà non solo vigilare attentamente sulla pregiudiziale antimafiosa nel reclutamento interno e nella stipulazione delle alleanze esterne, ma anche lavorare affinché il PD nazionale assuma la lotta alla mafia con una determinazione di cui, sinora, non si è notato alcuna traccia di rilievo. Una cosa, infatti, è attendere il giudizio della magistratura prima di condannare questo o quell’esponente partitico (attendere il giudizio di primo grado, senza necessariamente differire il proprio al termine di una scalata quasi infinita…) e tutta un’altra cosa è denunziare con forza la responsabilità oggettiva di quei politici che nella mentalità, nel modo di esprimersi e soprattutto nel modo di agire, mostrano di saper convivere troppo bene con i mafiosi e con i loro complici. Deve essere chiaro che nessuna dote elettorale più o meno limpida può trasformare un politico di questa risma in un alleato tatticamente utile per spostare le maggioranze. O, per lo meno, chi non è d’accordo su questo criterio dovrebbe mostrare un minimo di decenza e spiegare pubblicamente perché, a suo parere, il PD in Sicilia potrebbe ospitare nel suo mini-pantheon - senza contraddirsi - anche il totem andreottiano .

venerdì 2 novembre 2007

IL CONVEGNO


Centonove 2.11.07
Augusto Cavadi

FILOSOFIA MEDIEVALE, E POI?

All’inizio dell’autunno Palermo ha ospitato il XII congresso mondiale di filosofia medievale. A prima vista, un tipico esempio di evento del tutto esterno ed estraneo alla vita della città. Ma è andata proprio così? E, in ogni caso, cosa resta da fare adesso perché si raccolgano i frutti dell’imponente iniziativa?
Non mi riferisco, prioritariamente, all’aspetto turistico-sociale (anche se non mi pare irrilevante che centinaia di professori e ricercatori provenienti dai cinque continenti abbiano avuto modo di conoscere da vicino Palermo, al di là degli stereotipi, nei suoi vizi effettivi come nei suoi non piccoli pregi), ma proprio al significato culturale dell’assise: alle sue potenzialità di crescita intellettuale e civile.

Il cittadino medio non ha avuto né il tempo né la pazienza per seguire decine di relazioni e dibattiti, spesso in lingue diverse dall’italiano, per giunta su argomenti per lo più tecnici. Le analisi accurate sul contesto storico in cui è vissuto il pensatore islamico del dodicesimo secolo Ibn Tufayl’s Havy ibn Yaqzan (chi era costui?) o sul trattato De amore di Andrea Cappellano (chi era quest’altro?) avranno appassionato i tre o quattro competenti della materia, non certo l’opinione pubblica alle prese con interrogativi ben più concreti e immediati. Ma il convegno ha dimostrato che la filosofia non è essenzialmente ricostruzione filologica e storica di testi, bensì interrogazione radicale sull’enigma della vita individuale e universale: perciò i diversi intellettuali, soprattutto insegnanti, siciliani che hanno partecipato - in tutto o in parte - al convegno potranno ‘tradurre’ per un pubblico più ampio - a cominciare dagli studenti universitari e liceali delle città di provenienza- alcune acquisizioni emerse dall’imponente nella settimana di studio.
Un dato incoraggiante è che alcuni interventi hanno provato ad osare uno sguardo ben oltre le dispute specialistiche (per altro, al loro livello, ineludibili) sull’interpretazione di un’opera minore del XIV secolo o addirittura di un singolo termine latino in essa ricorrente. Mi riferisco, pescando quasi casualmente tra le fitte pagine del programma, alla relazione di José Luis Cantòn Alonso sull’uomo come “luogo” in cui si manifesta l’universalità; o alla riproposizione, da parte di Giuseppe Allegro, della questione sull’onnipotenza di Dio; o alla focalizzazione, proposta da Mariana Paolozzi, del rapporto fra ragione e fede in funzione della ricerca della felicità. Come si sviluppano le idee? è la questione, non certo superata, cui ha provato a rispondere Mikko Yrjonsuuri, mentre Maria Lucilla Vassallo ha indagato, in un’ottica interculturale, Il femminile nelle filosofie tantriche shiva. Ma gli interventi dai titoli intriganti non hanno di certo scarseggiato: per esempio di Olli Hallamaa sull’eredità delle dispute teologiche nell’attuale ricerca sui calcolatori elettronici o di Aurélien Robert sull’atomismo nel Medioevo o di Gabriela Kurylewicz sulla musica come sintesi tra vita attiva e vita contemplativa. Altri contributi - quali Contro la teologia: una rivoluzione alla Kuhn di Howard Wettstein o Disordini mentali e ragione nel tardo Medioevo di Vesa Hirvonen o Padrona di casa, moglie, madre di Pavel Blazek o Implicazioni filosofiche di alcune opere sull’omosessualità di Carlo Chiurco o Persecuzione e soppressione fisica degli eretici nella tradizione teologica latina di Luciano Cova o La repressione dell’eresia nel pensiero scolastico di Guglielmo Russino - si sono configurati davvero provocatori. Anche perché - come nel caso della trattazione sull’universalità della ragione nel pensiero islamico da parte di Giuseppe Roccaro (in quanto docente palermitano ha esercitato, con la consueta signorile affabilità, gli ‘onori di casa’) - hanno sollecitato gli stessi musulmani a riscoprire dimensioni di laicità e di apertura di cui, nel Medioevo, sono stati esemplari esponenti.
Che questo congresso si sia svolto nel capoluogo della Sicilia presenta un significato storico e attuale da non trascurare: il Medioevo è stato per la nostra isola un’epoca di particolare splendore (ovviamente in relazione ai limiti di quel tempo). Nel basso Medioevo, infatti, i normanni e il loro ultimo erede, Federico II di Svevia, seppero creare un clima di accoglienza e di interazione fra culture ed etnie disparate: non solo gli indigeni siciliani con i normanni provenienti dalla Francia, ma anche ebrei, arabi, bizantini, latini, tedeschi poterono convivere nelle stesse città e cooperare, lasciando fra l’altro monumenti di insuperata bellezza come le cattedrali di Palermo, Monreale e Cefalù. Ognuno poté esprimersi nella propria lingua, senza la minaccia dell’omologazione forzata: l’integrazione avvenne (sino al 1492, quando il fondamentalismo cattolico di Isabella di Castiglia decretò l’espulsione di ebrei e musulmani) in nome del pluralismo e del rispetto delle minoranze. Che non ci sia qualche lezione che meriterebbe, oggi, di essere recuperata e valorizzata?

mercoledì 31 ottobre 2007

IL LIBRO DI VENTIMIGLIA


“Repubblica-Palermo” 31.10.07

Augusto Cavadi

VIZI CAPITALI ALLA SICILIANA

Il direttore dell’Istituto di filosofia applicata presso la Facoltà di teologia di Lugano è un aitante e brillante quarantenne palermitano che vive ormai da anni, con la moglie e i due figli, nel vallone Ticino. Solitamente si occupa di argomenti un po’ astrusi difficilmente pronunziabili (del genere ‘ontologia del virtuale’ e ‘teorie della persona e della comunità‘), ma gli è capitato - del tutto casualmente - di essere invitato a occuparsi un po’ di morale per un pubblico di ascoltatori estranei al mondo filosofico accademico. Invertendo la prospettiva etica abituale, Giovanni Ventimiglia ha preferito passare in rassegna i vizi anziché le virtù, sfornando così un succinto, ma succoso, libretto dal titolo volutamente paradossale: Vizi. Esercizi per casa (Apogeo, Milano 2007).

La sequenza è suggerita dall’elencazione classica che risale addirittura al Medioevo: i sette vizi ‘capitali’, cioè fondamentali, intorno a cui ruotano “i sessanta e passa vizi di cui è capace l’uomo” (p. 3). Dunque, nell’ordine di gravità (decrescente!): superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria. Il superbo è, essenzialmente, il “vanaglorioso” : cioè, secondo il napoletano Tommaso d’Aquino, chi è affetto dall’irresistibile impulso ad “ostentare la propria eccellenza”, se reale, o ad inventarsela, se inesistente. Invidioso, invece, secondo l’etimologia latina è colui che guarda di “mal occhio” e che si serve, al fine di “impedire il successo altrui, ritenuto di impedimento al proprio”, della sussuratio (o maldicenza) che, nel caso si passi “dal segreto delle case alla sfera pubblica”, diventa vera e propria diffamazione. Una triste conseguenza dell’invidia è l’uso dei valori morali a scopo vendicativo: come la ragazza bruttina che denunzia come troppo leggero il comportamento della sorella sempre in giro per pub e feste o come Salvatore, “un mio amico mingherlino e simpatico”, che, “di fronte alle minacce di un compagno di studi, forzuto ed enorme, gli si avvicinò e gli urlò. …ma io ti perdono!”. Il terzo vizio capitale, l’ira, nasce in realtà come passione e “come tale né positiva né negativa ma neutra”: se si scatena per scopi turpi, degenera appunto in vizio; se si accende per combattere l’ingiustizia, “può diventare una virtù, e in questo caso prende il nome di zelo”. Dunque, filosoficamente parlando, chi si adira per motivi oggettivi (ad esempio un arbitraggio iniquo) non solo non è un vizioso, ma va ammirato (specie se, nota l’autore, evita gli insulti tratti dal “gergo palermitano” quali “arbitro, in confronto a te una cassetta di lumache è niente!” che equivarrebbe a “molto cornuto”). Così come chi si rassegna supinamente - senza nessun tentativo di cambiamento - a vivere in una terra dove prosperano favoritismi, imbrogli e discriminazioni va considerato non un virtuoso, ma un vizioso per difetto.
“Dopo la superbia, l’invidia e l’ira, nell’elenco dei vizi capitali, viene l’accidia”: che apparentemente assomiglia alla “neuroastenia” e alla “depressione”, ma in realtà è una “tristezza ostentata per giustificare e nascondere cose come indolenza, oziosità, fannullosità, pigrizia”. Anche in proposito, l’autore non trova di meglio che evocare il “sicilianissimo ed elegantissimo” compagno di studi Salvatore il cui motto era “Annascìu stancu e campu p’arripusarimi (sono nato stanco e vivo per riposarmi)”.
L’avarizia, quinta della compagnia, è “un vizio subdolo”: si traveste infatti di belle virtù (ad esempio la lotta contro il consumismo), pur essendo in realtà un modo di ragionare da “depressi”. Marx lo aveva detto con acume: “Quanto più accumuli risparmiando, tanto meno realizzi la tua vita: più hai, meno sei”. Più simpatici, invece, i molti risvolti del vizio della gola: non è un caso che “sul soffitto ligneo del Duomo di Cefalù, gli artisti pittori abbiano dipinto, sulle travi del tetto - così in piccolo da non poter essere visto dai visitatori in basso - un piccolo paradiso musulmano, con tanto di danzatrici, musica, cibi e bevande! In mezzo a tanta spiritualità - sembrano dire - concedeteci un’oasi di piaceri materiali!”. (Ciò non toglie che resti un po’ repellente incontrare nei salotti individui che “sanno tutto della ribollita e niente della torre di Pisa, tutto della trippa e niente del Colosseo” e che, dovendo evocare l’ultima vacanza a Palermo, si concentrano quasi unicamente sulle “arancine”).
Altrettanto simpatici possono risultare alcuni aspetti della lussuria, settimo ed ultimo vizio del catalogo, che non è “il lusso sfrenato delle società occidentali (secondo la felice definizione di uno studente all’esame)”, bensì l’insieme delle perversioni connesse con l’esercizio della sessualità. La confidenza di una “bella e simpatica” amica tedesca dell’autore (”Quando sono depressa vado in Sicilia e mi faccio una passeggiata in qualche rione popolare di Palermo: immancabili arrivano i fischi, i complimenti, gli apprezzamenti ad alta voce e mi passa la depressione!”) attesta che “la lussuria, certe volte, è meglio del prozac”. Infatti, ci tiene a sottolineare Ventimiglia, la perversione erotica autentica è rivelarsi incapaci di “ascoltare, aspettare e assecondare il corpo dell’altro”: dimenticare che “l’egoismo non aumenta ma diminuisce il piacere dell’atto sessuale”. E anche questo aveva ben espresso il “mitico Salvatore”: “La differenza fra gli animali e gli uomini è che gli animali lo fanno sempre in una sola posizione”. Certo: perché “gli uomini, facendolo, parlano. e l’ideale - lungi dall’essere la vita degli angeli - è quello di imparare a dire parole d’amore”.

martedì 30 ottobre 2007

IL PRIMATO DELLA LAICITA’


“Repubblica-Palermo” 30.10.07
Augusto Cavadi

GIUSEPPE SAVAGNONE
Dibatttito sulla laicità
Elle Di Ci
Pagine 160
Euro 8,50

Tra i cristiani ci sono persone sinceramente ‘laiche’ (capaci di confrontarsi con tutti senza demonizzare nessuno) e persone non ancora così mature. Proprio come tra gli atei. La tesi di questo interessante volume (Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità) del noto intellettuale cattolico palermitano Giuseppe Savagnone è che la laicità è un valore dal punto di vista non solo - come tutti sanno - civile e politico, ma anche evangelico. E’ forse solo un caso che Gesù di Nazareth non sia stato un ’sacerdote’ ma un maestro itinerante senza cattedra e senza stipendio? Ma se è così la chiesa cattolica è chiamata ad una continua autocritica per tutte le volte che, “contro i suoi stessi princìpi, solennemente affermati nel Concilio vaticano II, rischia di strumentalizzare la cultura, la politica, in generale le realtà terrene, in funzione della propria posizione partigiana o - che è lo stesso - di porsi unilateralmente come parte in concorrenza con altri soggetti storici, dimenticando che la sua vocazione la sospinge ben al di là della cura di sé stessa”.

venerdì 26 ottobre 2007

UN GRANDE UOMO


Centonove 26.10.07
Augusto Cavadi

GRAZIE, PASTORE VALDO

Ci sono siciliani che hanno vissuto con l’intenzione determinata di lasciare la loro terra un po’ migliore di come l’hanno trovata, e ci riescono. Il pastore Valdo Panascia, deceduto sabato, è stato uno di questi. L’ultima volta che andai a visitarlo - tre anni fa - portava a fatica il peso della distanza crescente fra una mente sempre lucida e la complessione fisica indebolita di un vecchio che ha superato la soglia dei novant’anni. Sapeva che la fede cristiana non esonera da fasi di travaglio psichico e morale, neppure se sei un ministro di Dio.
Eppure, raccontandomi alcuni passaggi salienti della sua lunga esistenza, gli occhi di quest’omino ormai curvo si illuminavano ancora: forse di orgoglio, certo di gioia. Col tono sommesso di chi fugge spontaneamente la retorica, cercando ogni tanto il silenzioso conforto della moglie, rievocava le battaglie - talora vinte, sempre nonviolente - di un protestante valdese radicato in un territorio, almeno nominalmente, cattolicissimo.

La più epica delle sue imprese fu probabilmente la sfida pubblica lanciata, dopo la strage di Ciaculli, alle cosche mafiose. In nome della sparuta comunità minoritaria di cui era guida, fece stampare e affiggere dei manifesti di condanna della violenza stragista, dichiarata a chiare lettere incompatibile con qualsiasi professione di cristianesimo. Perfino a Roma arrivò l’eco della coraggiosa iniziativa ‘profetica’ e dai vertici del Vaticano arrivò all’arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, una lettera che sollecitava analoga iniziativa da parte cattolica. Ma - secondo i documenti pubblicati dallo storico della chiesa don Francesco Michele Stabile - la risposta del presule fu negativa: i protestanti esagerano, dimenticano che nel resto del mondo c’è altrettanta violenza che a Palermo, si sbraccino piuttosto nel sociale per prevenire il male.
L’apologia della situazione siciliana non fu la meno infelice delle posizioni di Ruffini, ma l’indicazione di lavorare socialmente per prevenire la criminalità aveva un suo valore: solo che anche a questo il pastore Panascia aveva già provveduto fondando il Centro diaconale della “Noce” che, sino ad oggi, opera nel campo dell’istruzione, della cura dei ragazzi in difficoltà, dell’accoglienza degli immigrati. Per lui la fede era l’essenziale: ma per ‘fede’ non intendeva un mero rapporto intimistico ed individualistico con Dio, bensì una fedeltà nella storia alla ‘parola’ che invita a servire gli altri, a cominciare dai più indigenti.
Per queste iniziative, e per tante altre, Pietro Valdo Panascia ha inciso positivamente e durevolmente nel tessuto cittadino, innalzando il livello del dibattito culturale, incrementando il dialogo fra le confessioni religiose, difendendo i pochi spazi di laicità e migliorando la qualità della vita di generazioni di diseredati. Sarebbe un segno di riconoscimento e di riconoscenza che la municipalità cittadina gli dedicasse, quanto prima, una strada o una piazza o una scuola: un segno di cui abbiamo bisogno noi per ricordarlo, non certo lui che - quale che sia la soglia varcata - è ormai estraneo alle faccende per cui ci agitiamo così tanto sul nostro pianetino periferico.

mercoledì 17 ottobre 2007

Caffè filosofico a San Salvador (El Salvador)


Café Cultural EL AIRE

Invita al

Conversatorio desde Palermo

“El Sur del Norte”

Invitado Especial:

AUGUSTO CAVADI

Filósofo Callejero

Profesor de Filosofía y Opinionista del Periódio República

Militante del Movimiento Antimafia

Fundador del Centro Social “San Francesco Saverio” y

De la Escuela de Formación Ético-Política “Giovanni Falcone”

Día: Miércoles 17 de Octubre

Hora: 7:00 pm

Lugar: Cafe Cultural “El Aire”

(Boulevard Constitución, Calle Londres y Av. Florencia No. 37,

Colonia Miralvalle, San Salvador/ Tel. 2517 6950)

Entrada Libre

**********************************************

Fundación Metáfora y

Café Cultural “El Aire”

le invita a disfrutar de su cartelera cultural de esta semana

Miércoles 17 de octubre/ 7 de la noche

Conversatorio “El Sur del Norte”

Invitado: Augusto Cavadi

(intelectual y activista italiano)

Entrada libre

Jueves 18 de octubre/ 8 de la noche

Exposición Pictórica “Ojos de octubre”

7 Pintores nacionales del Punto Convergente de las Artes

inaugurando su exposición

(Habrá coctel)

Entrada libre

Viernes 19 de octubre/ 8 de la noche

Franklin Quezada en Concierto

Entrada $3

Sábado 10 de octubre/ 8 de la noche

Lectura Antológica de Poesía

Invitado: Ricardo Lindo

Entrada Libre

Café Cultural “El Aire”

Boulevard Constitución Calle Londres y Avenida Florencia, Nº 37, Colonia Miralvalle, San Salvador.

Teléfono: 2517-6950

martedì 9 ottobre 2007

CONTRADDIZIONI NELLA CHIESA CATTOLICA


“Repubblica-Palermo” 9.10.07

Augusto Cavadi

LE DUE ANIME DELLA CHIESA: I BANCHIERI E I FRANCESCANI

Che cosa prova “un cittadino europeo, sbarcato in un’isola piena di misteri, di contraddizioni, di cupezza” come la Sicilia? Marcelle Padovani, nota per aver firmato con Falcone Cose di Cosa nostra, risponde: ” il dilemma tragico, ma fecondo: essere un vigliacco o un eroe in tutti i gesti della quotidianità“. La risposta, contenuta nella sua presentazione al libro di Davide Romano La pagliuzza e la trave (La Zisa), dà una delle due chiavi di lettura principali. Perché la raccolta di articoli e interviste e brevi del giornalista palermitano non è solo una rivisitazione di alcuni protagonisti cattolici del “laboratorio” siciliano: come annunzia già il sottotitolo (Indagine sul cattolicesimo contemporaneo), essa intende presentarsi, più ambiziosamente, come un saggio di informazione laica sul cattolicesimo nazionale. E Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno in una fase storica in cui del cattolicesimo o parlano (quasi sempre apologeticamente) i cattolici o nessuno.

Ma che significa visitare il cattolicesimo con occhi laici? Leggendo queste pagine si intuisce che non si tratta di invertire il registro agiografico in prospettiva polemica: piuttosto di cercare di fotografare l’oggetto dello studio in maniera onesta, rispettando la varietà (talora persino contraddittoria) dei pezzi che costituiscono questo strano puzzle. Perché il cattolicesimo contemporaneo non è un blocco monolitico: è costituito da politici che in nome della religione tessono legami con i poteri forti (mafia non esclusa), ma anche da preti che in nome del vangelo denunziano quegli stessi poteri al punto da rimetterci la vita. E’ costituito da monsignori che vivono, da diplomatici e da banchieri, tra diplomatici e banchieri; ma anche da uomini e donne, senza nessuna investitura ecclesiastica istituzionale, che per fedeltà al battesimo lavorano quotidianamente - in sincera solidarietà con uomini e donne del proprio tempo che non si riconoscono in nessuna confessione religiosa - per costruire una società meno ingiusta e meno infelice.
Questa poliedricità del cattolicesimo è già, in qualche modo, esemplificata in due testi che introducono al libro. E’ il cattolicesimo di chi, come Anna la Rosa, ritiene appropriata l’espressione “Chiesa viva e giovane” per designare la chiesa, un po’ azzoppata, che Giovanni Paolo II ha consegnato a Benedetto XVI dopo più di un ventennio di dura repressione del dissenso interno (anche a costo di perdere quasi tutte le firme più prestigiose della teologia del XX secolo); ed è il cattolicesimo di chi, come don Vitaliano La Scala, protesta accoratamente contro l’attuale gerarchia che “sa solo pronunciare i suoi eterni, anacronistici e indiscutibili ‘no’ di fronte a qualsiasi richiesta di apertura che viene dalla base”, dando però l’impressione che per lui l’andazzo possa mutare anche senza rimettere in discussione il quadro teologico-dogmatico di fondo.
Uno sguardo laico sul cattolicesimo non censura nessuno di questi aspetti e scopre che persino nella stessa persona possono registrarsi mutamenti sorprendenti. “Al di sopra del papa resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica”: chi attribuirebbe oggi questa frase del 1967 al suo vero autore, il perito conciliare tedesco Joseph Ratzinger?

RIQUADRO
Davide Romano è un giovane giornalista free - lance che vive ed opera a Palermo (cura alcuni uffici stampa e collabora con testate giornalistiche regionali e nazionali ). Questa raccolta di scritti (La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo tradizionale, La Zisa, pagine 152, euro 12) contiene, fra l’altro, un’intervista al cardinal Tonini, al vescovo di Trapani Micciché, a don Francesco Michele Stabile, nonchè il testo dell’orazione funebre pronunciata nel 1976 dal vescovo di Ragusa, mons. Angelo Rizzo, alle esequie di Calogero Volpe (deputato democristiano e suo “cugino di sangue”).

venerdì 5 ottobre 2007

IL SISTEMA DI POTERE


Centonove 5.10.07
Augusto Cavadi

PALERMO E SABBIE MOBILI

Un prodotto letterario deve, prima di tutto, farsi leggere con piacere. E il romanzo breve - o il racconto lungo - di Mario Di Caro (”Mezzanotte al teatro Massimo”, Di Girolamo, Trapani 2007, pp. 92, euro 10) l’ho letto con gusto: dopo le prime righe mi ha arpionato e mi ha mollato solo alla fine. Come effetto collaterale (desiderato), il libro mi ha dato da pensare: come danno da pensare i libri che, invece di raccontare la mafia come organizzazione criminale militarizzata (per carità, quando sono scritti bene sono istruttivi pure questi!), raccontano la mafia come sistema di potere diffuso, articolato, radicato nel contesto sociale.

Questi aspetti sono più sfuggenti, più ardui da mettere a fuoco: perché sono divieti taciti, ordini silenziosi, omissioni intenzionali, impercettibili moti del volto…Insieme, solo insieme, costituiscono quella coltre pesante che opprime la quotidianità a Palermo, in Sicilia, in Italia meridionale. Una nebbia vischiosa, appiccicosa, in cui è illusorio separare nettamente carnefici e vittime, colpevoli e innocenti: perché non ci sarebbero tanti padroni e padroncini se non ci fossero tante animucce rassegnate, per viltà o per quieto vivere, a farsi manipolare l’esistenza. Sì, che la città sia malata e si lasci “scivolare come narcotizzata nelle sabbie mobili dei suoi misteri” può essere “l’effetto dei miasmi del tritolo incrostati sull’asfalto delle strade” (p. 60): ma anche la causa. Queste pagine di Di Caro confermano l’idea che ci si forma vivendo dalle nostre parti: la mafia non è un destino irreversibile, ma neppure una macchia d’inchiostro su un tessuto immacolato. E’ nata storicamente e, prima o poi, tramonterà: ma più ‘poi’ che ‘prima’ perché ben piantata in un terreno sodale, impregnato di ignavia e di accidia. E di invidia: “E’ sempre stato così a Palermo, anche cento anni fa: alla fine vince l’invidia perché l’importante non è essere più bravi di tutti, ma impedire agli altri di esserlo” (p. 36).
Una nota preliminare avverte che “fatti e personaggi del racconto sono frutto della fantasia dell’autore”, ma è una nota che non si riesce a prendere sul serio: troppi fatti, come la chiusura per trent’anni del Teatro Massimo, sono (per quanto incredibili) storici e troppi personaggi, come il senatore Santiago, hanno di fantasioso solo il nome e l’esatta posizione istituzionale. Chi ha i capelli anche solo brizzolati, come fa a non riconoscere, nella finzione letteraria, il profilo inconfondibile di quel leader politico democristiano che, prima di cadere vittima di fuoco ‘amico’, si era dimostrato capace di “aspettare e colpire al momento opportuno”, “in silenzio, misurando le parole, sempre attento a non dirne una di troppo, come se avesse voluto risparmiarle per quando ne avrebbe avuto bisogno”? Ed il cui potere, “saldo al vertice del partito, si estendeva dagli ospedali ai teatri, dalle società finanziarie alle municipalizzate: una sorta di impero che controllava attraverso una corte di fedelissimi ramificata in tutti i consigli di amministrazione della città e allevata a suon di favori e raccomandazioni, sorta di cambiali senza scadenza che riscuoteva al momento opportuno. Formava le giunte comunali, minava la stabilità dei governi regionali ogni volta che un alleato gli voltava le spalle, tesseva accordi, nominava direttori d’azienda, dirigeva speculazioni immobiliari ma riusciva sempre a rimanere dietro le quinte” (p. 23)? Magari tipi come questo fossero davvero “frutto della fantasia dell’autore”! Se non si possono individuare con nome, cognome ed indirizzo postale è piuttosto per una ragione opposta: sono troppo ‘veri’, si riproducono per apprendimento imitativo - pressoché identici - in diverse generazioni di politici. Quando ne scompare uno, presto la maggioranza dei siciliani si affretta a riversarne il consenso tesaurizzato nei decenni ad un nuovo erede: quasi come pecore dominate dalla nostalgia di un pastore che le conduca a piacimento, pur di assicurare una certa dose di foraggio. Gli uomini passano, il metodo di governo resta. Lo spiega efficacemente lo stesso “senatore”: “Questa città è fatta così, non ha alcuna voglia di cambiare, checché ne pensino i miei colleghi più giovani e più sfrontati. E sarà così per sempre. Cambia solo lo scenario, come succede in quel teatro che le piace tanto fra un atto e l’altro, ma la storia resta sempre la stessa” (pp. 80 - 81).
Eppure. Eppure, in una città che implode lentamente nelle proprie stesse viscere, un fantasma del Massimo - Turandot - non rinunzia ad evocare quell’imponderabile che “ogni notte nasce e ogni notte muore”: la “speranza” (p. 69). E un altro fantasma, Mefistofele, osa persino declinarla in concreto: “Adesso i giovani vanno solo in palestra, hanno smesso di sognare. Ecco, io invece voglio che la lotta per il teatro coinvolga tutti, operai e intellettuali, giovani e anziani, principesse e giullari. Vorrei farli sognare tutti assieme. Abbiamo l’occasione di cambiare la nostra storia. Non posso continuare a vedere i miei compagni che avvizziscono nell’inerzia” (p. 76). Chi sa? Forse, avendo stancato tutti gli dei del pantheon, solo un diavolo potrà salvarci. Di Caro non sembra prendere posizione. La sequenza finale è esposta alle interpretazioni anche opposte: il caos, “la più squinternata delle rivoluzioni” (p. 91), è la prova scoraggiante che “il mondo è tutto una burla” (e non c’è onesto che non abbia un prezzo) o, piuttosto, la conferma incoraggiante che “nessuna storia” va considerata “immutabile” (p. 92)?