giovedì 22 febbraio 2007

LA VIOLENZA GIOVANILE


Repubblica – Palermo 22.2.07

IL BULLISMO DEI GIOVANI NELLE FAMIGLIE SICILIANE

Le cronache di questi giorni hanno inanellato eventi (che riguardano anche, ma non esclusivamente, la nostra regione) attraversati da un filo rosso su cui vale forse la pena riflettere. I dati di cronaca cui mi riferisco sono, soprattutto, le strategie ministeriali per combattere il bullismo scolastico e per prevenire il teppismo negli stadi. Lo dico subito, per evitare equivoci: ogni rettifica normativa dell’andazzo prevalente - che spaccia per garantismo la condiscendenza verso chi viola le regole; per apertura mentale il giustificazionismo psico-sociologico da quattro soldi; per nobiltà d’animo il perdonismo a buon mercato (specie quando si tratta di perdonare i crimini commessi a danno di terzi) - è da salutare con estremo favore. Ma, subito dopo, va aggiunto che gli interventi istituzionali sono tanto necessari quanto insufficienti. Bisogna guardarsi dall’illusione (riscontrabile a destra come a sinistra) che distorsioni radicate possano essere sanate da provvedimenti amministrativi: sarebbe una sorta di feticizzazione della politica. Davanti alle emergenze è comprensibile che s’invochi la presenza dello Stato e del suo diritto-dovere di esercitare “il monopolio della violenza”: meno comprensibile è che questo appello si configuri - oggettivamente, se non nella coscienza dei cittadini - come una delega deresponsabilizzante. In ultima analisi, come un alibi liberatorio.

Per fare in breve un ragionamento molto più articolato, la logica della delega ai politici di turno zoppica per almeno due ragioni. La prima è che si dà per scontato che i poteri statuali vengano esercitati da concittadini che, per il solo fatto di essere stati eletti, posseggano la competenza lungimirante adeguata alla loro funzione sociale. Ma, ammesso che i dirigenti pubblici siano all’altezza delle sfide della storia, o per lo meno della cronaca, c’è una seconda ragione che s’impone: i provvedimenti politico-giudiziari possono, nella più felice delle ipotesi (dunque quando non vengono attuati con l’insipienza di cui anche abbiamo avuto prova nelle piazze di Napoli e di Genova), dissuadere dai reati, non certo motivare in senso propositivo. Ed è, invece, proprio di una continua rimotivazione che ogni generazione abbisogna. Il richiamo, trito e indisponente, ai “valori” perduti (che, in verità, raramente sono stati mai posseduti) può avere solo un significato: che nessun ragazzo si trattiene dal molestare i compagni più deboli, o dall’inscenare ignobili guerriglie urbane intorno ad uno stadio di calcio, solo per timore dei castighi. Anzi, il rischio delle sanzioni può rendere più affascinante - agli occhi dei compagni e suoi propri - l’idiozia della trasgressione. O incrementare il suo senso di insicurezza e, dunque, spingerlo ulteriormente ad immergersi nel branco.
L’unico deterrente veramente efficace (nel senso di diminuire, non certo di azzerare, il numero degli scervellati) può essere costituito da proposte costruttive seducenti: la passione per l’arte o per la ricerca scientifica, l’impegno per combattere con gesti precisi la fame nel mondo o lo sterminio degli animali, il coinvolgimento in attività concrete di difesa dell’ambiente…Insomma: quasi tutto ciò che né la scuola né i partiti né i sindacati né le chiese né - ancor meno - la “cattiva maestra televisione” riescono a suscitare. Se più di mezzo secolo fa Churchill poteva sostenere che gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre, potrebbe darsi che certi drammi odierni abbiano radici antiche e che sarebbe da miopi trattare i teppisti della domenica come corpi estranei: in quei soggetti particolarmente sbandati esplodono contraddizioni che covano dentro il tessuto sociale ‘normale’. E’ doloroso accettarlo, ma sono lo specchio che riflette e amplifica un vuoto propositivo di cui ognuno di noi è responsabile. Alcune cronache ci hanno lasciato immaginare volti di genitori (tra cui un poliziotto) arrossiti per la vergogna di vedere imputati i propri figli: come non vedere in questo stato d’animo qualcosa di emblematico? Chi di noi può negare una certa condivisione di genitorialità rispetto a questi ragazzi rincoglioniti? Se non si entra in un’ottica realistica del genere, nessuna terapia darà risultati. Solo confrontandoci su cosa è possibile fare, qui ed ora, per ridimensionare la banalità dominante (che non infesterebbe i giovani se non avesse istupidito la stragrande maggioranza degli adulti e delle agenzie educative) ci si potrà liberare dal comodo autoinganno di questi giorni: che la politica possa prestare alla società il “supplemento d’anima” necessario a differenziarla da uno zoo di belve impazzite.
Augusto Cavadi

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