venerdì 30 marzo 2007

POLITICA E INFORMAZIONE


Centonove 30.3.07

Augusto  Cavadi

DOVE SBAGLIA FAVA. E CUFFARO

I rapporti fra i politici e i giornalisti non sono pacifici in nessuna parte della terra, tranne dove una dittatura solida riesca ad imporre un controllo preventivo assoluto sulle redazioni. Ma in Sicilia sono, tradizionalmente, ancor meno pacifici che altrove.

La cronaca di questi giorni registra due casi specularmente esemplari: a Palermo il presidente Cuffaro si rifiuta di parlare con il giornalista del TG 3 Rino Cascio, a Catania l’eurodeputato Claudio Fava denunzia il boicottaggio dell’editore del quotidiano  “La Sicilia” che si rifiuta di parlare di lui. Due episodi che non vanno certo enfatizzati, ma neppure lasciati scivolare al rango di baruffe provinciali: al di là di sé stessi, rimandano alla questione del livello medio preoccupante del rapporto fra il potere politico ed il “quarto” potere. 

Sulla base delle poche notizie apparse sulla cronaca, ciò che preoccupa non è tanto il fatto che siano scoccate delle scintille: non si può pretendere che la dialettica fra chi governa (più o meno direttamente) e chi è pagato per controllare i governanti (in nome e in forza dell’opinione pubblica) scorra esente da momenti in cui la conflittualità esorbita dai binari fisiologici per farsi patologica. Ciò che allarma  - o che dovrebbe allarmare - è invece la mentalità, la cultura, la prospettiva che sembra manifestarsi in queste occasioni. Fava, ad esempio, sostiene che il black-out, intenzionale e sistematico, nei confronti delle sue iniziative lo danneggia  - politicamente ed economicamente - perché in questo modo la sua immagine, agli occhi degli elettori, tende a sfocarsi e rischia di svanire. Forse mi sbaglio, ma questa non mi pare una valida argomentazione per convincere un quotidiano ad occuparsi di un politico. Se fosse valida, chiunque investe dei soldi per promuovere iniziative e per farle conoscere ad una platea sempre più ampia  - fosse un produttore di vini o un pittore - potrebbe querelare per danni i responsabili della comunicazione sociale che non se ne facessero amplificatori. Fava dovrebbe esattamente capovolgere l’impostazione della sua protesta: lamentarsi del fatto che non lui, ma i lettori vengono privati del diritto di conoscere che cosa fa  - e che cosa non fa -  uno dei loro rappresentanti al parlamento europeo. Chi scrive un giornale non ha alcun debito nei confronti dei politici, dei produttori di vino e degli artisti: ne ha invece uno, immenso, nei confronti di chi compra quel giornale e che si aspetta di ricevere informazioni, quanto più veritiere e complete, sull’operato dei personaggi pubblici.

Ancor meno convincente mi è risuonata la motivazione con cui il presidente della giunta regionale ha spiegato (non soltanto a caldo, ma anche in una seconda replica) le ragioni del suo rifiuto a lasciarsi intervistare da Cascio: “è un giornalista politicamente schierato”. La frase può essere intesa in due sensi: ed in entrambi risulta sballata.

Con “politicamente schierato” Cuffaro intende “sponsorizzato da un partito politico”? Se sì, ci si stupirebbe del suo stupore: conosce forse più di due o tre casi di giornalisti RAI che non sono stati assunti per meriti ‘partitici’? Tranne rarissime eccezioni (che, come si sa, confermano la regola) quanti di loro sono entrati in RAI per esclusivi meriti professionali, selezionati con un concorso pubblico autentico?

Ma Cuffaro, che ben conosce i meccanismi delle aziende pubbliche (anche perché egli stesso potente sponsor di giornalisti, non per questo necessariamente incompetenti),  forse intende con “politicamente schierato” qualcosa come “ideologicamente connotato”. Se fosse fondata questa seconda ipotesi interpretativa, scatterebbe spontanea una domanda: il governatore intende auspicare di interloquire solo con giornalisti politicamente neutrali? Non credo: è troppo esperto delle pieghe segrete dell’animo umano per misconoscere che ognuno di noi, più o meno apertamente, ha le proprie preferenze ideologiche. Ogni cittadino, ogni professionista, ogni intellettuale che sceglie per mestiere di servire i concittadini. A meno di non essere un coerente ed eroico qualunquista. Ma un magistrato o un docente universitario qualunquisti sono esposti al rischio di opportunismo tattico molto più di un loro collega che, proprio perché “politicamente schierato”, moltiplica per dieci lo sforzo di essere obiettivo ed equanime nel redigere una sentenza o nel preparare un corso di lezioni accademiche.

Ben altre ragioni avrebbe avuto Cuffaro a sostenere (qualora fosse stato il caso) di rifiutare l’intervista ad un giornalista professionalmente incapace o deontologicamente scorretto. Perché se un operatore dell’informazione storpia, abitualmente e premeditatamente, le mie dichiarazioni o inventa falsità o commenta con offese gratuite il mio operato, sta danneggiando - più ancora che la mia onorabilità - il diritto dei suoi lettori alla (sempre imperfetta, parziale) verità. Dunque posso esercitare il diritto di  sottrarmi al confronto dialettico con lui. Se - per quanto mi risulta - non è questo il caso di Rino Cascio, in realtà il presidente auspica qualcos’altro: di essere intervistato da giornalisti politicamente schierati, ma solo dalla sua parte. Si rende conto che questo sarebbe un danno per la comunità e  - a lungo andare - persino per la sua stessa immagine? Nessuno, nella storia,   si è mai reso più ridicolo di chi abbia potuto esercitare il potere senza trovare un limite nella critica, argomentata e documentata, di altri. Che potrebbero essere schierati con un partito avverso o forse  - addirittura - solo dalla parte di quei cittadini, di qualsiasi appartenenza elettorale, desiderosi di capire, giudicare e comportarsi di conseguenza. 

lunedì 26 marzo 2007

Educare alla legalità: Varese 23 - 24 marzo 2007

La sera di venerdì 23 e la mattina di sabato 24 terrò a Varese due incontri pubblici sul tema dell’educazione alla legalità, a partire dal mio volume “Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa”, DG, Trapani 2005.

venerdì 23 marzo 2007

“A SCUOLA DI ANTIMAFIA”


Repubblica - Palermo


23.3.07 

L’ANTIMAFIA SENZA FRASI FATTE

di Marcello Benfante 


Accade che a scuola l’antimafia si traduca meccanicamente o quasi per inerzia in una specie di retorica legalitaria. Talora abbastanza efficace, in fin dei conti. Più spesso stucchevolmente agiografica e impacciata dagli imperativi categorici del “politicamente corretto”. Anche per questo, un libro come “A scuola di antimafia”, che a cura di Augusto Cavadi appare per i tipi dell’editore Di Girolamo, può aiutare (non solo i docenti) a superare certi sterili interventi normativi e omiletici. Si tratta infatti di un volume collettaneo di quasi trecento pagine in cui confluiscono - tra l’altro - i contributi di autorevoli esperti come Umberto Santino, Amelia Crisantino, Giovanni La Fiura e lo stesso Cavadi, il cui merito principale, oltre ad offrire numerosi spunti pedagogici e di riflessione storica, consiste in un lavoro di destrutturazione dei luoghi comuni relativi al fenomeno mafioso.

È sul piano del linguaggio, infatti, che si gioca la partita più importante. Ovvero quella della formazione e dell’informazione, così strettamente connesse l’una all’altra. Solo costruendo un nuovo lessico e una nuova grammatica dell’antimafia sarà possibile affrontare il problema della criminalità organizzata con strumenti interpretativi efficaci, con una maggiore trasparenza comunicativa e con una riconquistata credibilità (oggi in parte compromessa dalla retorica istituzionale, dai sociologismi tautologici, dalla demagogia del politichese, dalla torbida ipocrisia di segmenti di società contigui a Cosa Nostra).Naturalmente, il testo consente una perlustrazione esauriente dell’argomento (e al riguardo i saggi di Santino offrono, per chiarezza e precisione, una sintesi ottimale). Tuttavia è la critica agli stereotipi, alle espressioni consunte, a quelli che

La Fiura definisce i “moduli fuorvianti”, agli equivoci frustri e ipocriti, agli ideologismi striscianti, l’apporto più significativo dell’antologia, nonché la proposta più interessante e operativa per i docenti a cui la pubblicazione esplicitamente si rivolge.Il compito della scuola, infatti, dovrebbe essere in primo luogo quello di ridefinire la questione sfrondandola dai termini mistificanti in cui troppo spesso si ammanta.Oltre a demistificare i topoi ambigui della mafiologia, Amelia Crisantino analizza, per esempio, termini apparentemente anodini della cronaca nera come “recrudescenza” o “emergenza” dai quali emerge un’erronea interpretazione di tipo congiunturale e non continuativo-strutturale del fenomeno mafioso. Questi termini, che ricorrono con insistenza nel giornalismo e nel linguaggio quotidiano, sottintendono infatti “un’idea di mafia come mera fabbrica di omicidi” che diventa inoperosa tra un fatto di sangue e l’altro e che quindi non ha una sua intrinseca e funzionale collocazione nella società.Il discorso si fa più complesso allorché si passa a considerare una serie di banalizzazioni tenacissime radicate in un immaginario collettivo, in un sentire diffuso: che la mafia ignori chi sa farsi i fatti propri; che alle sue origini ci sia un “codice d’onore” poi stravolto da uno sviluppo distorto; che essa sia un fossile subculturale, “un relitto della storia”, un arcaismo o comunque un elemento di persistente arretratezza.Santino, al riguardo, contesta l’opinione dell’antropologo tedesco Henner Hess secondo cui la mafia, piuttosto che un’organizzazione, sia “una mentalità e un modo di essere”, ovvero una sorta di primitivismo, di sottosviluppo culturale. Quest’idea (in fondo consolatoria) ha tradizionalmente trovato ampio spazio nella scuola poiché consente un superficiale giudizio di valore basato su una prospettiva di superamento storico e di dislivello civile tra i mondi separati della mafia e della modernità. Analogamente, Santino rifiuta lo schema interpretativo del “familismo amorale”, formula coniata negli anni ’50 dall’antropologo americano Edward Banfield, che oggi appare inadeguata (ma Cavadi ha un’opinione più sfumata) a spiegare la complessità di un fenomeno in cui interagiscono molteplici fattori.L’insidiosità di queste idee, in cui s’innerva perniciosamente un neosicilianismo difensivistico e una mitopoietica della piovra universale e del Male Assoluto, sta soprattutto in certe parziali e storpiate verità che esse contengono a un livello semplificato e in ultima analisi manipolatorio.Anche Cavadi insiste sui “pregiudizi da sfatare”, istituendo una serie di illuminanti analogie tra la visione del mondo mafiosa e la cultura cattolica e quella borghese.Da questo Rasoio di Occam, che elimina sistematicamente tutta una serie di equivoci e falsi truismi, scaturisce un libro problematico e dinamico che il curatore definisce un work in progress.Già apparso nel 1995 come Quaderno del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”, viene opportunamente riproposto in forma aggiornata e integrata per rifare il punto su una questione che è sempre in divenire e che sempre pone nuove sfide.Articolato in cinque sezioni (Materiali di studio, Contributi pedagogici, Esperienze e progetti, La legislazione, Strumenti bibliografici e sussidi didattici) il volume vuole essere soprattutto uno strumento di intervento messo a disposizione degli insegnanti e degli alunni nella consapevolezza che occorra contestualmente impegnarsi su tutte le direzioni temporali. Ossia: “Studiare il passato, analizzare il presente, progettare il futuro”. 

ECUMENISMO A PALERMO


Centonove  23.3.07

Augusto Cavadi

“GUARISCI, DIO, LE NOSTRE CHIESE”

Non capita tutti i giorni, ma qualche sera fa è avvenuto. Alcuni frati francescani, a Palermo per un convegno, hanno convocato intorno a un tavolo i rappresentanti delle principali chiese cristiane operanti in città per fare il punto sui loro rapporti reciproci. Così si sono alternati al microfono del convento di S. Antonino  - a due passi dalla stazione centrale - un laico cattolico, un vescovo cattolico di rito ortodosso, un prete ortodosso, un membro della chiesa avventista, una signora della chiesa anglicana, il pastore della chiesa valdese di via Spezio e la pastora della chiesa valdo-metodista della Noce (l’unica donna, tra i presenti, alla guida di una comunità, “non senza resistenze” - come ha precisato - “neppure all’interno del nostro ambiente”).

Diciamolo subito: è stato un incontro stimolante non solo dal punto di vista religioso, ma anche socio-culturale. Lo si è notato sin dalle battute introduttive  - sobrie nei toni ma dirompenti nei contenuti -  del padre francescano che ha gestito la regia: ciò che imprigiona gli individui, così come le comunità, è il senso di autosufficienza. Ciò vale sul piano teologico, ma prima ancora antropologico: le chiese, i gruppi, le civiltà  che ritengono di avere il monopolio della verità e della morale si chiudono sprezzantemente e non imparano niente da nessuno. Solo chi ha coscienza dei limiti del proprio punto di vista sul mondo può aprirsi davvero con curiosità all’altro, al diverso. Solo chi avverte la propria povertà smette di provare diffidenza e inizia a sperare nella positività nascosta nelle esperienze differenti dalla propria. Gli ha fatto immediatamente eco il vescovo della eparchia di Piana degli Albanesi: il vangelo ci proibisce il giudizio e la condanna degli altri, ci chiede solo di farci testimoni della benevolenza di Dio per l’umanità in generale e per ciascun essere in particolare. E’ stato il tasto su cui hanno insistito un po’ tutti gli altri esponenti delle diverse confessioni: evangelizzare non dev ‘ essere fare proselitismo, ma testimoniare una ricchezza interiore che possa eventualmente contagiare chi è oppresso da sensi di colpa o alla ricerca di motivazioni all’ esistere e all’agire.

Questa testimonianza dei credenti nel vangelo è incrinata, a Palermo come nel resto del mondo, da due ferite. Una interessa maggiormente gli addetti ai lavori: è lo “scandalo” (come lo ha definito la portavoce della comunità anglicana)  della mancanza di intesa, di cooperazione, tra le chiese delle varie confessioni cristiane. E Bruno Di Maio, l’ingegnere che da decenni promuove il dialogo interconfessionale in città, ha sottolineato la scarsa circolarità delle informazioni. Non si tratta, infatti, di mirare all’uniformità che livelli le identità differenti, ma di farle convergere verso una sinfonicità orchestrale: in cui ognuno continui a suonare il proprio strumento specifico, ma in accordo con gli altri strumenti. Una seconda ferita tocca più incisivamente il tessuto civile: è la mancanza di una strategia organica nella ‘diaconia’, cioè nel servizio ai cittadini più deboli, soprattutto agli stranieri bisognosi. Dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’Est arrivano incessanti flussi migratori: come possono le comunità che si riconoscono nel vangelo delle beatitudini non convogliare energie umane e risorse finanziarie  nell’accoglienza di questi pellegrini del XXI secolo, indipendentemente dalle loro idee religiose? Qualche gesto significativo è stato già realizzato: per esempio la Curia diocesana ha offerto ad un presbitero del Patriarcato ortodosso della Romania la bella chiesa di san Giorgio dei Genovesi per le celebrazioni liturgiche della nutrita comunità rumena (cinquemila immigrati circa). Ma resta ancora molto da fare, anche dal punto di vista del soccorso materiale immediato: cibi, vestiti, medicine, abitazioni. E opportunità di lavoro. Né, d’altronde, ci sarebbe altro modo per dare veridicità alla preghiera comune con cui si è concluso questo momento di autocritica e di progettualità: “Guarisci, Dio creatore, le nostre chiese dalla loro sordità affinché, insieme, possiamo udire il suono della tua voce nel silenzio dei poveri e dei sofferenti”.

giovedì 22 marzo 2007

Caffè filosofico a Catania

A Catania, Augusto Cavadi terrà un caffé filosofico sulla figura del consulente filosofico.

CITTA’ INVIVIBILE, FICARRA E PICONE


Repubblica – Palermo 22.3.2007

Augusto Cavadi 

COME RIDERE SUL BUS CANCELLATO 

Non è facile definire  - né tanto meno spiegare - il fascino esercitato sui palermitani da Ficarra e Picone. Per vedere il loro ultimo film (”Il 7 e l’8″) ci siamo dovuti sottoporre a lunghe code: eppure, una volta conquistata la poltroncina, abbiamo potuto verificare la fondatezza dei giudizi - positivi, ma non entusiasmanti - dei primi recensori. La trama non è originalissima né i dialoghi particolarmente brillanti: perché, allora, si esce dalla sala cinematografica con un sentimento di accresciuto affetto verso i due attori?

Ieri sera, quando alle 23,50 (dopo un’ora e dieci minuti di attesa condivisa con qualche lavoratore immigrato) ho appreso che non era più possibile raggiungere con l’autobus il rione periferico in cui abito perché  - col consenso dei responsabili - quattro autisti di due diverse linee avevano deciso di anticipare il rientro a casa per il freddo improvviso (adducendo come scusa fantomatici guasti alle macchine), mi è balenata una possibile, parziale risposta. Sì, Palermo è anche questo: una città dove ti è consentito agevolmente di disattendere i tuoi doveri civici (avete mai incontrato un controllore dei biglietti dalle 21 di sera alle 7 del mattino?), ma  - diciamo in contraccambio - non puoi fare affidamento sui servizi pubblici. E’ un’optional pagare ed è un’optional ricevere il servizio. (Chi ha abbastanza soldi, e un pizzico di fortuna, torna a casa in taxi: gli altri, i meno abbienti, si arrangino). Ebbene, in quell’ora e dieci minuti di attesa al buio e al gelo, ho letteralmente maledetto tutti gli operatori responsabili del disservizio, esasperato dalla certezza che non avrei avuto nessuna possibilità di segnalarlo il giorno dopo né di ottenere, seppur tardiva, giustizia. Che cosa avrebbero fatto, invece, Ficarra e Picone (non so in quanto cittadini, ma certamente in quanto personaggi)? Non si sarebbero indignati né, forse, stupiti. Gli sarebbe scappata una battuta sull’onda di un loro dialogo memorabile (”Hai sentito che Berlusconi ci ha assicurato un milione di posti di lavoro? ” - “Mi…, ma questo allora passa direttamente alle minacce!”), avrebbero sorriso sulla mancanza di etica professionale dei siciliani. Avrebbero sdrammatizzato una situazione oggettivamente intollerabile con la magia dell’ironia. Ecco il frammento di risposta alla mia curiosità sulle ragioni del successo, della simpatia di questi due giovani autori-attori: conoscono il segreto dell’autocritica antropologica. Figli di una città che non si ama abbastanza e non riesce a sorridere sui guai che la rendono effettivamente poco amabile, Ficarra e Picone si sono presentati sulla ribalta nazionale con l’atteggiamento di chi, proprio perché sinceramente affezionato a Palermo (bellissime molte inquadrature panoramiche nel film), non la prende troppo sul serio. E la tratta, dunque, come un bambino capriccioso, incoerente, un po’ tarato ereditariamente e - forse - redimibile con la maturazione degli anni. Ovviamente il rischio (come dire? politico) del loro magistero così innocente, così spontaneo, è di educare alla rassegnazione qualunquistica. Ma, a parte la possibile discussione filosofica sulla funzione educativa dell’arte, più elementarmente direi che - in sé stesse - la via della mobilitazione civica contro la strafottenza di chi dovrebbe servire il bene comune e la via del distanziamento ironico non sono alternative: risale ai nostri padri latini l’intento di “castigare i costumi ridendo”.  Non ho avuto notizia di nessun commento da parte loro del fatto, decisamente spiacevole e riprovevole, che i ricavi della prima giornata di proiezione del loro film in due diversi cinema siano stati sottratti nottetempo dalle casseforti. Eppure ho il sospetto che i due compari abbiano visto qualcosa di ficarra-piconesco anche in questo ennesimo episodio di panormità. Mi viene spontaneo immaginare che abbiano reagito con quel loro humour agro-dolce di cui, come pochi grandi comici, conoscono il segreto. Magari commentando che la loro città ha espresso con particolare calore l’entusiasmo per il film: sono andati a ruba, infatti, insieme ai biglietti, anche gli incassi.

mercoledì 21 marzo 2007

SCUOLA E ANTIMAFIA


Repubblica – Palermo 21.3.07

Augusto Cavadi

A SCUOLA DI POLITICA PER STUDIARE L’ANTIMAFIA

Come informa una recentissima circolare dell’Assessore regionale alla Pubblica Istruzione, scuole (dalle elementari alle secondarie superiori) e università hanno tempo sino al 30 aprile per presentare richiesta di contributi finanziari “per iniziative riguardanti attività integrative, di documentazione, approfondimento, studio e ricerca sul fenomeno della mafia in Sicilia, rivolte sia agli studenti sia ai cittadini del territorio”. Per favorire l’elaborazione, raccomandata dalla stessa circolare, di progetti in rete fra più istituti, due dirigenti scolastici palermitani hanno indetto in questi giorni una riunione di confronto delle esperienze e delle ipotesi di lavoro. E’ stato confortante constatare che una cinquantina, fra presidi e docenti referenti per l’educazione della legalità, hanno accolto l’invito: ma il quadro complessivo emerso dalla discussione non lo è stato altrettanto.

Una prima constatazione ha riguardato il clima di disincanto che si registra, in proposito, nelle varie scuole. Un po’ perché molte iniziative hanno ormai il sapore della ritualità ripetitiva, stanca, abitudinaria, senza scatti di fantasia creativa; un po’ perché le dichiarazioni programmatiche verbali sono spesso contraddette dal linguaggio dei fatti (così che un ragazzino, ad esempio, sin dal primo giorno di scuola sa che i raccomandati vanno nelle sezioni ‘buone’ e gli altri dove resta posto). Si tratta dunque di inventare nuove modalità di coinvolgimento (per esempio attraverso la produzione di audiovisivi o l’utilizzo dei cantautori italiani più sensibili ai temi della denuncia civile e della partecipazione democratica) , a partire da interrogativi emergenti dall’esperienza quotidiana (per esempio attraverso l’incontro con cittadini  - come i ragazzi di “Addiopizzo” – che provano a reagire con gesti concreti che coniugano le idealità alla convenienza). E soprattutto di provare a correggere, nella gestione delle comunità scolastiche, quelle forme di favoritismi clientelari,  inadempienze contrattuali e  complicità conniventi che creano (per responsabilità congiunte di vari adulti:  dirigenti, insegnanti, personale amministrativo ed ausiliare,  genitori) situazioni oggettive di illegalità permanente.

Una seconda constatazione ha riguardato  la necessità di un aggiornamento culturale specifico da parte di quella minoranza critica di educatori che, nonostante tutto, intende tenere accesi i riflettori. E’ stato notato, infatti, che le nuove generazioni hanno un’idea negativa del fenomeno mafioso: e questo è un dato incoraggiante. Se venti o anche dieci anni fa ci si offendeva dandosi del “pentito” o del “Buscetta” o dello “sbirro”, oggi è più frequente che ci si dia del “mafioso” con tono sprezzante. Ma questo dato positivo è in parte inficiato dall’impressione che fra i ragazzi  - esattamente come avviene nel dibattito politico nazionale – il fenomeno mafioso venga considerato un fatto residuale, un relitto del passato. La scuola, che ha avuto il merito di gettare discredito sulla mafia come criminalità armata e sanguinaria, deve adesso attrezzarsi mentalmente e didatticamente per aprire gli occhi degli alunni sulla mafia come sistema di potere affaristico-politico che inquina la competizione elettorale, la libertà d’impresa, la solidarietà fra i cittadini. Ma per dare questa lettura più critica e più ampia, gli insegnanti per primi devono avere la generosità di dedicare tempo ed energie alla loro autoformazione: se le loro conoscenze restano, sostanzialmente, allo stesso livello delle fiction  seguite in tv dai ragazzi, come possono giocare un ruolo davvero propulsivo?

A questo punto, però, si intuisce  - e ciò ha costituito un terzo ambito di discussione – che nessuna didattica antimafia è possibile se non viene inserita in un percorso di alfabetizzazione politica. Per prendere le distanze da chi strangola i bambini o fa saltare in aria i giudici, basta il buon senso supportato da un minimo di senso etico. Ma per prendere le distanze da chi introduce la corruzione sistemica inquinando i meccanismi con cui si decide quali studenti ammettere alle scuole di specializzazione, quali disoccupati assumere nelle aziende pubbliche, a quali imprenditori erogare finanziamenti,  quali medici promuovere al rango di primari, a quali aziende concedere appalti, con quali cooperative stabilire convenzioni…occorre conoscere un minimo il ruolo delle istituzioni. Se lo studente ignora  - come per altro molto spesso i suoi stessi docenti – la Costituzione; se non riesce a seguire un telegiornale perché sigle come Csm o Tar non gli dicono nulla; se non regge un confronto televisivo fra politici perché non ha la minima idea di cosa significhi liberismo o Stato sociale o corporativismo, come può esercitare una cittadinanza attiva? Nel corso dell’incontro palermitano sono stati messi a disposizione dei presenti vari strumenti bibliografici pubblicati negli ultimi anni: nella convinzione che cultura antimafia non può essere un meteorite occasionale, ma la tappa di un percorso curriculare, costante e transdisciplinare, che consenta  - ai docenti insieme ai loro alunni – di elaborare, gradualmente, una cultura politica. Che nella scuola non entri la politica dei partiti è un conto; che non entri la politica come “conflitto delle interpretazioni” di ciò che la società è stata ed è diventata, è un altro conto. La mafia - come sottosistema sociale che accomuna criminali  armati di mitra e criminali armati di capitali illeciti e di tessere partitiche fasulle – non la si riesce neppure a nominare se non si possiedono le parole elementari del diritto, dell’economia e della sociologia.

martedì 20 marzo 2007

CAMORRA, PACE E BAMBINI


Repubblica – Palermo 20.3.07

Augusto Cavadi 

F. MASI – M. MASI TANKSLEY

La pace incomincia da me.

Il pozzo di Giacobbe

Pagine 32

5,9  euro 

Fulvia Masi, la madre, palermitana emigrata a New York, ha scritto i testi e la figliuola, Mósa Masi Tanksley , ha creato gli insoliti disegni: risultato un libretto in edizione bilingue (italiano e inglese) per i bambini, ma non solo. Infatti il protagonista  -  il “bambino filosofo” Memmo - vive “una storia semplice nel linguaggio e nel contenuto, eppure sottilmente profonda nel significato”:  la pace mondiale è una conquista politica, ma le sue radici sono antropologiche.  Quasi un commento alla riflessione del filosofo francese P. Hadot: “numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”. La pace di cui è alla ricerca Memmo ha molti nomi perché molte sono le forme della violenza: in particolare è liberazione dalla criminalità camorristica. Il libro è infatti dedicato ai bambini di una scuola di Scampia che hanno, tempo fa, organizzato una manifestazione  per chiedere “il silenzio delle armi dei clan”.

sabato 17 marzo 2007

“A scuola di antimafia” è in libreria


Il volume da me curato (con contributi di Umberto Santino, Amelia Crisantino, Giovanni La Fiura, Adriana Saieva, Pia Blandano, Loredana Iapichino) e pubblicato dalle edizioni Di Girolamo (Trapani) è in libreria.

Si tratta di un manuale per i dirigenti scolastici, i docenti e gli educatori che vogliano avere idee, progetti, materiali didattici su come impostare una organica pedagogia antimafia.

La casa editrice è distribuita in Italia dalle Dehoniane di Bologna.

In caso di difficoltà contattare info@ilpozzodigiacobbe.com

venerdì 16 marzo 2007

Disavventure con la Biblioteca comunale di Palermo


Repubblica –Palermo” 16.3.07

VOLONTARI DELLA CULTURA E ISTITUZIONI INDIFFERENTI

Sulle politiche culturali del Comune di Palermo si possono scrivere trattati. Ma anche piccole commedie e skeches divertenti. Come si sa  - o forse no - ci sono numerosi cittadini che, da anni,  offrono progettualità e collaborazione organizzativa: non, come alcuni, per guadagnarsi legittimamente il pane o, come altri, per lucrare illecitamente sull’erario pubblico, ma a titolo del tutto gratuito e disinteressato. 

Ad alcuni di questi volontari della cultura è stato chiesto dal dott. Filippo Guttuso, Direttore della Biblioteca comunale, di organizzare -a nome della Biblioteca stessa - una serie di incontri mensili fra autori palermitani e lettori. Il progetto  - “Furbo chi legge”- è partito con discreto successo nel mese di gennaio, è andato avanti all’inizio di marzo e si  sarebbe dovuto concludere a maggio. E ciò nonostante il personale della Biblioteca, disattendendo gli accordi verbali, non abbia avvertito via e-mail nessun destinatario (a quanto ci risulta una mailing-list apposita è ancora inoperante) né abbia preparato le fotocopie della locandina da distribuire in giro per le scuole, dichiarando - incredibilmente - che in nessun ufficio della Biblioteca funzioni una fotocopiatrice.  Anche di questo hanno dovuto occuparsi, investendo  tempo e soldi, gli ignari cittadini ‘esterni’. Proprio per ieri era stato programmato un incontro con Andrea Cozzo, docente dell’Università di Palermo, sul tema  - di scottante attualità - “Quando gli insegnanti sono violenti”. Ma 62 ore prima una certa dott.ssa Guastella , addetta alle pubbliche relazioni, ha comunicato, via e-mail, che per improvvise (e non meglio specificate) difficoltà tecniche l’incontro si sarebbe dovuto spostare a data da destinarsi.

Comprensibile la curiosità sulle ragioni di una informazione così secca, così unidirezionale, così perentoria. E così tardiva. Dopo accurate indagini  - e risposte depistanti - si è arrivati al motivo vero: per imperizia organizzativa era stato concesso ad un’importante libreria la possibilità di presentare una novità editoriale nello stesso luogo, nella stessa data e nello stesso orario. Quando, finalmente,  si è realizzata l’inopportunità della coincidenza di due iniziative analoghe nel medesimo spazio istituzionale, non restavano che due possibilità: spostare di un giorno, in avanti o indietro, la presentazione del romanzo (resa ancor più solenne dalla prevista partecipazione dello stesso Assessore comunale alla cultura) o cancellare dal calendario (stabilito e pubblicato quattro mesi prima)  il seminario sulla violenza nella scuola. Facile indovinare la saggia decisione adottata .

Il seminario sarà  cortesemente ospitato questa sera  - alle 17,30: senza modifiche di orario - dal liceo scientifico statale “Benedetto Croce” del quartiere, ma l’amarezza per questa mancanza di stile resta. In seguito allo sconcerto espresso da chi aveva organizzato il progetto “Furbo chi legge” è stato, in extremis, offerto di tenere l’incontro programmato in qualche angolino della Biblioteca. Ma come continuare a fidarsi di un interlocutore istituzionale tanto umorale? Senza considerare una difficoltà tecnica: non risulta che sia stato consegnato lo stock di  sedie richieste da tempo dalla Direzione e la cui mancanza ha penalizzato il pubblico di alcune recenti manifestazioni culturali. Già, forse sarebbe bene che anche di queste quisquilie venisse informato  il sindaco Cammarata. Non per offuscare il buon nome dell’amministrazione, ma per consentirgli di dare più solido fondamento ad uno slogan della sua ultimissima campagna di manifesti: “Non abbiamo scomodato la cultura. L’abbiamo fatta accomodare”.    

UNA NUOVA RIVISTA: “ALVEARE”


Centonove 16.3.07

Augusto   Cavadi  

IL CAMBIAMENTO POSSIBILE

Una minoranza profetica in più, qualche autocritica in meno. 

C’è qualcosa di toccante nel fatto che un gruppo di cittadini, pur consapevoli di essere una minoranza trascurabile, decidano di lanciare un ennesimo segnale di protesta e di proposta ad una regione  - e più ampiamente a un Paese - sonnolenti e rassegnati alla mediocrità. Dopo essersi incontrati per due anni intorno allo stesso tavolo e aver attivato un laboratorio culturale-politico, hanno infine fondato un quadrimestrale - “I quaderni di Alveare” - che possa fare da canale comunicativo con l’opinione pubblica più sensibile (per contatti 091.7303739 oppure quadernidialveare@istitutoarrupe.it) .

Il primo numero della rivista (sul tema “il cambiamento possibile”) è stato presentato, in questi giorni, al Centro studi “Pedro Arrupe” da un gruppo di redattori e di invitati che si sono trovati concordi nell’invocare un rinnovamento della classe dirigente come condizione basilare per un futuro diverso. Ma nelle modalità dell’incontro c’è stato qualcosa di paradossale: a chiedere il ricambio di mentalità e di stili era una fascia di anziani  - da cinquant’anni in su - molto inseriti nei gangli del tessuto istituzionale cittadino. Senza il minimo accenno di autocritica: ciascuno chiedeva con forza che si cambiasse musica, ma in un settore dell’orchestra diverso rispetto al proprio.

Così il padrone di casa (che è anche direttore della rivista), padre Gianni Notari, ha evidenziato l’urgenza di un cambiamento di rotta nel mondo dei partiti, dei sindacati, dell’imprenditoria: ma senza citare gli ambienti ecclesiali dove di mese in mese si sta correndo, indietro, verso l’epoca pre-conciliare. Il rettore dell’ateneo, Giuseppe Silvestri, ha puntato il dito sui guasti del sistema televisivo: ma (per il poco tempo a disposizione ?) non ha dedicato neppure due parole alla corruzione che inquina i meccanismi di reclutamento del personale docente universitario, rendendo pressocché impossibile ad un laureato meritevole il sorpasso del collega raccomandato e costringendolo ad emigrare in Paesi dove la selezione avviene con criteri diversi. Italo Tripi, il sindacalista presente, è stato molto efficace nel denunziare i ritardi dei politici e degli intellettuali: ma neppure lui ha avuto modo di spiegare perché il sindacato (al di là di singoli casi di figliuoli e nipoti  assunti per chiamata diretta da aziende municipalizzate in mano a professionisti del clientelismo) venga visto e vissuto sempre di più come strumento di privilegio individuale e sempre meno come spazio di rivendicazione solidale. Leoluca Orlando, da parte sua, ha lamentato il rischio che  - in caso di vittoria elettorale - studiosi ed esperti non gli forniscano un “progetto esecutivo” per dare concretezza alla “speranza”: ma dimenticando di aggiungere anche solo un cenno autocritico su quanto poco attento sia stato egli stesso, nelle tre sindacature precedenti,  alle indicazioni dei competenti e dei tecnici. Ha tuonato contro “l’analfabetismo politico” diffuso, ma col tono di chi non abbia sprecato - nel recente passato - preziose possibilità  di contrastarlo. Ha denunziato la disaffezione dei giovani nei confronti della partecipazione politica, ma col candore di chi non abbia nulla da rimproverarsi per il fallimento nazionale della “Rete” e la conseguente onda lunga della delusione (che ha bloccato il processo di avvicendamento dei cittadini nelle amministrazioni locali).  Eravamo presenti anche insegnanti, giornalisti, operatori sociali, medici, volontari: tutti animati da sincero desiderio di mutamento, nessuno consapevole di essere testimone e corresponsabile di un fallimento generazionale. Ma così, con questa ingenuità virginea, non si fa molta strada. Lo so: non siamo stati dei mostri. Soggettivamente abbiamo provato a remare contro la corrente, placida e implacabile, dei mafiosi e dei loro amici. Ma se tra le nostre intenzioni e i risultati oggettivi c’è un baratro, qualcosa non ha funzionato. Se nelle nostre scuole i ragazzini sanno di essere assegnati alla sezione ‘giusta’ per raccomandazione (e ciò li rende immuni, per i successivi decenni, da ogni educazione alla legalità) o se molte associazioni di volontariato si trasformano in agenzie di lavoro nero (senza nessun progetto di trasformazione del sistema sociale), avremo pure peccato di viltà o di stupidità. O non abbiamo fatto abbastanza o non l’abbiamo fatto abbastanza bene. Consegnare a chi è più giovane la diagnosi di queste disfunzioni non è già un modo concreto di preparare il cambiamento possibile?  

domenica 11 marzo 2007

Presentazione rivista “Mezzocielo” domenica 11 ore 11

Mezzocielo

Invito alle nostre abbonate e ai nostri abbonati.
Ti invitiamo alla presentazione del primo numero della rivista per l’anno 2007, che si svolgerà Domenica 11 marzo alle ore 11 all’Orto Botanico nella sala Domenico Lanza. Interverranno Marina Turco (brillante giornalista della testata televisiva siciliana TGS) ed Augusto Cavadi (insegnante di Filosofia al Liceo Classico Garibaldi, opinionista di “Repubblica-Palermo” ed animatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”).

sabato 10 marzo 2007

L’INTERVENTO DI MONS. ROMEO SUI TICKET SANITARI


Repubblica – Palermo 10.3.07

Augusto Cavadi



SBAGLIATO CONDIZIONARE LE SCELTE DEL LEGISLATORE


La lettera con cui il neo-arcivescovo di Palermo, che è anche presidente della conferenza episcopale siciliana, ha indirizzato al presidente della commissione Sanità dell’Ars (e, per conoscenza, al governatore Cuffaro e all’assessore regionale competente) per chiedere di esprimere parere negativo sull’estensione dei ticket  sui medicinali ha colto di sorpresa. Per alcuni con preoccupazione, per altri con compiacimento, è scattata una serie di interrogativi: che la chiesa siciliana, in questo ultimo decennio ossequiosamente silenziosa nei confronti di amministratori regionali in accertati rapporti confidenziali con mafiosi, voglia cambiare rotta? Che non solo non accetti più ingerenze da parte di politici che si arrogano il diritto di decidere a quale santo - o a quale Madonna - consacrare la Sicilia, ma addirittura osi criticare a voce alta alcune scelte strategiche della giunta in carica?

Forse una rondine non fa primavera e l’apprensione degli uni potrebbe risultare prematura quanto l’entusiasmo degli altri. In attesa di osservare gli sviluppi e di capire meglio, può essere istruttiva una pausa di riflessione. Non tanto sul merito dell’intervento di mons. Romeo (che, a occhio e croce, mi sembra azzeccato) quanto sul metodo. Qui, infatti,  le perplessità non mancano. In Italia ci stiamo abituando, o ri-abituando, al ruolo della chiesa cattolica come una potente lobby che cerca di condizionare, più o meno apertamente, le scelte delle assemblee legislative e degli organi esecutivi. A molti cittadini di orientamento progressista questo andazzo non va. Ma se è vero che la gerarchia cattolica non dovrebbe farsi così insistente e così invadente quando si tratta di questioni etiche (divorzio, aborto, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni, riconoscimento delle coppie di fatto e così via), questo criterio smette di essere valido quando si tratta di bilanci finanziari? O i vescovi possono parlare anche di imposte, balzelli, tagli alla spesa pubblica…purché le loro parole  risultino di supporto allo schieramento partitico in cui ognuno di noi si riconosce in una determinata  fase? Personalmente non avrei dubbi: i vertici della comunità ecclesiale dovrebbero evitare di essere i difensori d’ufficio delle autorità in sella ma anche di giocare d’anticipo sui tempi troppo lenti dell’opposizione e diventarne i supplenti.

Con ciò non auspico, certamente, una chiesa rinserrata all’interno dei propri templi, cieca e sorda nei riguardi delle donne e degli uomini ingarbugliati nelle trame complicate della storia. Ma - per sintetizzare in un’evocazione un ben più ampio ragionamento -  auspico una chiesa che, come si è auto-interpretata nel Concilio Vaticano II, intervenga con forza e chiarezza sulle opzioni di civiltà (pace o guerra; salvaguardia dell’ambiente o profitti privati; Stato sociale o mercato della salute e dell’istruzione; legalità democratica o impunità per le organizzazioni criminali…); che lo faccia non in nome di presunti monopoli dottrinari, ma cercando di portare argomenti in atteggiamento di dialogo con tutte le altre rappresentanze  culturali e religiose; e che lasci ai laici   - dunque, prima di tutto, ai laici cattolici - la responsabilità di tradurre i princìpi di fondo in formule legislative e in provvedimenti tecnici.

“Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Né pensino che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta. Assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità“: non è il parere di qualche teologo spericolato o di qualche politico praticante ma smanioso di togliersi il guinzaglio. E’ un passo (43, b) della Costituzione conciliare “Gaudium et spes”, uno dei testi più autorevoli del magistero cattolico nel XX secolo.

Educare le coscienze di quanti  dichiarano di volersi impegnare in politica anche da cristiani - educarle alla saggezza e al coraggio necessari per applicare nel qui e nell’ora  gli orientamenti valoriali di massima - è una strada più lunga, più faticosa e più rischiosa che dettare dalla cattedra curiale  le proprie indicazioni operative. Ma è l’unica strada che può salvaguardare la fedeltà della chiesa al suo Maestro e la lealtà dei cattolici nei confronti dei concittadini che li eleggono.

venerdì 9 marzo 2007

UN LIBRO SULLA PACE


Centonove 9.3.07

Augusto Cavadi


DOVE NASCE LA PACE

“Poiché le guerre hanno origine nella mente degli uomini, nella mente degli uomini si debbono costruire le difese della pace”: così recitava, all’indomani della Seconda guerra mondiale (1945), l’Atto costitutivo dell’Unesco. Una convinzione elementare e, proprio per questo, disattesa a cui invece ritornano Fulvia Masi e la giovane figliuola Mósa Masi Tanksley, autrici - rispettivamente - dei testi e dei disegni di un delizioso libretto (La pace incomincia da me, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2006, pp. 32, euro 5,90) in edizione bilingue (italiano e inglese).

All’apparenza la pubblicazione sembra destinata solo ai bambini,  ma una sorta di prefazione avverte che è invece “per bambini e per grandi”. Il protagonista, infatti, il “bambino filosofo” Memmo, vive “una storia semplice nel linguaggio e nel contenuto, eppure sottilmente profonda nel significato”. Siamo, insomma, nella tradizione di quei racconti, come Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery, che si lasciano leggere - come palinsesti - a diversi livelli di profondità.

E, in effetti, anche un piccolo alunno delle scuole elementari può cogliere il messaggio di Memmo: la pace mondiale è un albero immenso che può formarsi solo a partire da piccoli semi piantati nel cuore dei singoli. Ma la stessa verità - che potrebbe diventare oggetto di conversazione in una sperimentazione circolare di “philosophy for children” alla Lipman-  non sfigurerebbe in simposi per adulti: dove, tramontate le visioni collettivistiche e de-responsabilizzanti, si fa strada (anche grazie alla lezione della psicoanalisi) la consapevolezza che la soggettività individuale è “la radice originaria del legame sociale”; che tale soggettività è costitutivamente “posta nella relazione con gli altri umani e con la biosfera”; e che solo un contagio progressivo, a macchia d’olio, di tale consapevolezza può diventare “evento cosmopolitico” (così Romano Màdera nel volume, scritto in collaborazione con Luigi Vero Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 72).

La pace di cui è alla ricerca Memmo ha molti nomi: perché altrettanti sono i volti della non-pace, della guerra, della violenza. In particolare essa è anche la pace come cessazione della criminalità camorristica: il titolo del libro, infatti, è stato suggerito alle autrici da uno slogan scelto dai bambini della scuola media ed elementare “Virgilio IV” di Scampia per una manifestazione organizzata sul loro territorio al fine di chiedere “il silenzio delle armi dei clan”. Ma se lo spunto è nato da una circostanza locale ben determinata, lo sguardo si è poi lentamente alzato su un orizzonte planetario: verso una “universalità (…) senza frontiere (geografiche o religiose)”. Perché, tra i tanti paradossi della pace, si registra anche questo: non c’è pace fra le nazioni se non c’è pace dentro gli individui, ma sarebbe solo una pia illusione alla new age coltivare una pace privata in un contesto storico-politico dilaniato dalla dialettica terrore degli Stati - terrorismo delle minoranze esasperate.

giovedì 8 marzo 2007

DONNE, RIVISTE E COMPLEANNI


Repubblica - Palermo 8.3.07

Augusto Cavadi
MEZZOCIELO CON SOLE E NUBI

La festa delle donne coincide, questa volta, con un compleanno significativo per la storia della nostra città: i quindici anni della rivista “Mezzocielo” (che saranno festeggiati adomenica 11 presso l’Orto botanico di via Lincoln). Perché significativo?

Innanzitutto perché, in Italia, non sono rimaste ormai in molte le riviste fondate e dirette da donne per tenere viva la coscienza femminista e femminile: ed è importante che la nostra città, famigerata per tanti primati negativi, si segnali qualche volta per iniziative costruttive.

Nella vita sociale ci sono battaglie che si combattono una volta (e quell’unica volta si vincono o si perdono) e ci sono guerre che comportano strategie di lunga scadenza, resistenze, arretramenti, rimonte: rivendicare per le donne gli stessi diritti e le stesse opportunità dei maschi rientra in questa seconda tipologia. E proprio per questo è essenziale che ci siano luoghi di elaborazione culturale in cui certe questioni vengano monitorate di continuo ed in cui si sperimentino strumenti per consegnare il patrimonio via via elaborato alle nuove generazioni. E’ un po’ come per il movimento pacifista o per il movimento antimafia: non ci si può illudere che le ragioni dell’impegno dei padri e delle madri si trasmettano ai figli per eredità biologica, senza la fatica di rifare nella storia di ciascun individuo il percorso, lento e accidentato, della generazione precedente.

Un secondo motivo che rende significativo questo anniversario è che, dopo una lunga fase di clausura, la rivista si è aperta alla collaborazione degli uomini. E’ stato importante che, con geloso rigore, un gruppo di donne abbia voluto addossarsi la responsabilità di trovare - bimestre dopo bimestre - contributi esclusivamente femminili: molto probabilmente questa tensione ha suscitato energie e scovato risorse che sarebbero rimaste potenziali se si fosse attinto ad un più ampio ambito di collaboratori. Ma altrettanto importante è che, superato il periodo di incubazione, la rivista - rimanendo nelle mani di donne e continuando a occuparsi di donne - abbia deciso di accogliere, tra le tante altre voci ‘diverse’, la voce di maschi. E, si spera, non solo dei maschi politicamente corretti, ma anche di quelli che vedono la donna come preda o come trofeo o come prezioso strumento di ascesa sociale. Sì: perché queste figure (molto più frequenti di quanto si supponga) attestano sia il ritardo con cui fruttificano le lezioni più belle delle donne belle sia gli effetti più brutti dell’immagine brutta che le donne banali - assetate di notorietà e di lusso quanto gli uomini che frequentano - continuano a proiettare di sé.

Infine il compleanno di “Mezzocielo” mi pare significativo per una terza ragione. E’ una festa che sarebbe potuta essere più completa, più spensierata, se negli ultimissimi anni non ci fosse stata una lacerazione interna al gruppo promotore della rivista che ne avrebbe potuto provocare la chiusura. Di solito, negli ambienti progressisti, il tasso di litigiosità è più alto che in altre aree ideologico-politiche: e questo non è un motivo di compiacimento. Va subito aggiunto, però, che molte di queste tensioni scoppiano per dissensi che hanno a che fare non solo con le strutture caratteriali ma anche con idee, progetti, strategie: e non so se dividersi sui princìpi sia meno nobile che rimanere allineati e coperti in nome dei soldi e del potere. Inoltre, proprio per il livello dei dissensi, può capitare - come è capitato in questo caso - che la scissione abbia prodotto altre iniziative non meno lodevoli: e che dunque tutte le signore e le ragazze che si erano impegnate insieme continuino a lavorare per la stessa causa, con modalità e per sentieri differenti ma senza spirito di concorrenza. E, soprattutto, senza risentimenti personali.

mercoledì 7 marzo 2007

NONVIOLENZA SENZA BUONISMI


“Repubblica - Palermo” 7.3.07

Augusto Cavadi

JEAN GOSS

Fede e nonviolenza

L’epos

Pagine 170

Euro 16,80

Si può essere praticanti della nonviolenza senza avere una ‘fede’? Jean Goss, leader storico del “Movimento internazionale per la riconciliazione”, offre una risposta profonda: una fede è necessaria, ma non è necessario che sia religioso-confessionale. Basta credere che ogni essere umano non sia riducibile al suo errore e che ci si possa appellare alla sua coscienza morale seppellita sotto la montagna di male che egli compie. Niente buonismi, però. Il nonviolento è attivo, a suo modo ‘aggressivo’: denuncia i responsabili delle ingiustizie; se non è sufficiente, si rifiuta di collaborare a ogni genere di sopruso; in extremis, disobbedisce alle leggi ingiuste e si sottopone alle sanzioni previste. Perché dietro ogni situazione di violenza ci sono due gruppi (uno che la compie, un altro che la subisce) e se uno solo si sottrae, l’altro crolla. Tutti i ceti dominati sono corresponsabili, con la propria viltà, dell’arroganza di chi li domina. E questo vale anche “per tutti coloro che nel mondo ci dirigono, sia che si tratti di governo, sia che si tratti di Chiesa”.

martedì 6 marzo 2007

IL CASO LOMBARDO


Augusto Cavadi


UNA DOPPIA VERITA’ NELLA LOTTA ALLA MAFIA


Il 4 marzo del 1995 un colpo di pistola suicida ha, inopinatamente, interrotto la vita del maresciallo dei Ros Antonino Lombardo. E’ l’atto conclusivo di una serie inquietante di episodi che segnano uno dei momenti più oscuri della storia dell’antimafia. Infatti: il 23 febbraio, durante la trasmissione di Santoro “Tempo reale”, Leoluca Orlando e Manlio Mele denunziano il “comportamento equivoco di qualche esponente dell’Arma dei Carabinieri” che, nel recente passato, aveva avuto responsabilità a Terrasini; il 24 febbraio il maresciallo Lombardo (oggetto, insieme ad un suo superiore gerarchico, della plateale denunzia da parte dei due politici) presenta querela; il 25 i superiori esonerano Lombardo dalla missione negli Stati Uniti dove avrebbe dovuto prelevare il boss Badalamenti; poche ore dopo, lo stesso giorno, Badalamenti comunica di non voler più riconsegnarsi alle autorità italiane; nella notte fra il 25 e il 26 febbraio viene incaprettato Francesco Brugnano (confidente di Lombardo); il 2 marzo Lombardo parte per Milano come caposcorta del collaboratore di giustizia Cangemi; il 4, in mattinata, torna in Sicilia, incontra alcuni superiori che lo avvertono della possibilità molto concreta di indagini della magistratura sulla sua correttezza professionale. Agli stessi interlocutori confida la sua amarezza, poi scrive una breve lettera di addio e si uccide nella sua auto in caserma.

Su questi fatti si sono aperte inchieste, svolte indagini, celebrati processi: a dodici anni di distanza la questione, dal punto di vista giudiziario, è chiusa. Che nei familiari, negli amici, in fasce dell’opinione pubblica interessata a queste vicende siciliane resti l’ansia di saperne di più, è comprensibile. Ed è per rispondere a questa esigenza, legittima, che Daniela Pellicanò ha preso in mano tutte le carte disponibili ed ha redatto un’accurata ricostruzione giornalistica (Uno sparo in caserma. Il caso Lombardo, Città del sole, Ravagnese 2006). Non mi pare, però, che il risultato riesca a svincolarsi da una contraddizione: da una parte si afferma e si ribadisce che “il caso è aperto”, che gli enigmi da sciogliere restano ancora troppi; ma, dall’altra, l’autrice mostra di essere arrivata a delle certezze sulle ragioni del suicidio di Lombardo, costretto intenzionalmente ad autoeliminarsi dalla scena per evitare che Badalamenti potesse tornare in Italia.

Poiché, in questa ipotesi, sarebbero individuabili alcuni responsabili - diretti o indiretti - del piano, alla prima contraddizione se ne intreccia una seconda (certamente non meno grave). Da una parte, infatti, il libro sembra scritto per difendere la memoria di un investigatore dal fango con cui è stata imbrattata da accuse fondate su dati di fatto opinabili o, per lo meno, superficiali. Ma, dall’altra, non sembra che l’autrice usi lo stesso doveroso garantismo nei confronti di altri protagonisti della vicenda, per esempio di tre magistrati della Procura di Palermo accusati - rispettivamente - di aver ostacolato, il primo, il rientro di Badalamenti (in quanto il vecchio boss di Cinisi avrebbe potuto contestare l’impianto accusatorio contro Andreotti poggiante sulle dichiarazioni di Buscetta) e di aver propalato, gli altri due, la notizia di alcune accuse contro Lombardo formulate dal ‘pentito’ Salvatore Palazzolo. Quali infatti le fonti di tali gravissime accuse? Per quanto riguarda l’intento di ostacolare il rientro di Badalamenti dagli Usa, una relazione scritta da Lombardo e ritrovata, dopo la sua morte, in un cassetto; per quanto riguarda la violazione di segreto d’ufficio a proposito delle ‘voci’ riferite da Palazzolo, una “confidenza” che il maresciallo avrebbe fatto ai familiari prima di togliersi la vita. Insomma, nell’uno e nell’altro caso, le asserzioni di una persona che - avendo optato per il suicidio - non è in grado di poter dimostrare quello che ha affermato.

Personalmente, al posto della Pellicanò, avrei evitato - davanti ad una congerie di dati tanto contrastanti - di prendere posizione: anche perché, in casi del genere, difendere la causa di qualcuno comporta ledere gravemente l’onorabilità di altri. Mi sarei limitato a riportare, insieme alle accuse contro Lombardo, le convinte testimonianze di stima e di fiducia di quanti gli erano a vario titolo vicini (soprattutto all’interno dell’Arma dei Carabinieri). Come hanno dimostrato episodi quali la mancata perquisizione dell’ultimo rifugio di Totò Riina, la lotta alla mafia ha comportato - e possiamo supporre che continui a comportare - manovre e intrecci al confine fra la legalità democratica e l’illegalità strategica: difficile separare con un colpo di spada l’innocenza dalla colpevolezza. Come in tutte le guerre - sporche, per definizione- pochissimi sono gli eroi a tutto tondo: per molti altri vale il detto “chi mangia fa molliche” e, quando abbandonano la scena di questo mondo, è preferibile lasciarli riposare sotto il velo dell’umana pietà. Ci sono casi - come questo - in cui, per restare nell’area dei proverbi, “tu hai ragione, ma non per questo io ho torto”. Sono casi tragici proprio nell’accezione greca del termine: i margini di libertà soggettiva sono talmente ristretti da apparire azzerati. E’ come se, a certi bivi, non importasse cosa scegli davvero: tanto, ormai,sono entrambe strade senza uscita. Attraversare questa tragicità, in religioso o civile silenzio, è il prezzo che un po’ tutti dovremmo essere disposti a pagare per serrare le fila contro le organizzazioni mafiose ed uscire dal pantano di questi anni.