venerdì 28 settembre 2007

DENTRO LE MURA DOMESTICHE


Centonove 28.9.07

Augusto Cavadi

CHI E’ SENZA VIZI…

Il funzionario di una banca svizzera propone ad un amico filosofo di tenere una conferenza: non per scopi puramente teoretici, ma per favorire l’intesa di squadra fra i dipendenti della stessa. Dopo non poche esitazioni, l’interpellato accetta. “Pensai: fra gli ostacoli nella realizzazione di un team, vi saranno senz’altro anche i vizi umani. Ebbene, io potrei parlar di quelli, mostrando poi alcune dinamiche fra colleghi a partire dai vizi. Accettai la scommessa. La serata andò benissimo. Accomunato dai vizi, il team si consolidò! E io mi ritrovai fra le mani, senza volerlo, un testo di quello che oggi si chiama counseling filosofico, cioè: come ti uso la filosofia - persino quella medievale - per fini più disparati, tipo il team doing della banca. Chi l’avrebbe detto: Tommaso d’Aquino riscoperto da una banca svizzera” (G. Ventimiglia, “Vizi. Esercizi per casa”, Apogeo, Milano 2007, p. VIII).

Si potrebbe obiettare che la filosofia non è qualcosa che si può ‘usare’ senza sfigurarla dal momento che l’inutilità gratuita le appartiene costitutivamente. Ma chi apre questo brillante volumetto del Direttore dell’Istituto di filosofia applicata dell’Università di Lugano si rende conto, sin dalle prime righe, che va interpretato con elasticità, senza pedanterie: con un pizzico di quella (auto) ironia con cui è stato redatto nella convinzione che “certa filosofia serissima oggi di moda” sia “un po’ noiosa” (p. IX). Autoironia, registro linguistico colloquiale, leggerezza di tocco: nessuna di queste caratteristiche offusca, a differenza di quanto accade in tante altre pubblicazioni divulgative, la solidità ’scientifica’ dell’impianto strutturale.
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La trama teoretica, infatti, riproduce il catalogo classico dei sette vizi “capitali” (cioè principali): dal più grave (superbia o vanagloria) ai meno gravi (gola e lussuria), passando - in ordine decrescente - per invidia, ira, accidia, avarizia.
Il superbo è uno che deve innalzare sé sopra gli altri. A qualunque costo. Di solito lo si riconosce perché “parla e straparla di sé” (p. 35), cercando di mettere in ombra chiunque possa costituire - anche solo oggettivamente - un concorrente. Del superbo “standard” (p. 37) esistono diverse versioni: il “silenzioso” (che parla poco per lasciar supporre agli altri chi sa quale alta sapienza ed evitare di “svelare la propria nullità“); il “simpatico” (capace di stare per un’intera cena al centro dell’attenzione con storielle e battute, senza lasciare spazio a nessun altro commensale “dal momento che considera l’umanità - lui escluso ovviamente - una nullità“); il brontolone (”una specie di superbo capovolto: invece di ostentare la sua eccellenza, ostenta le sue disgrazie, che presenta come le più gravi del mondo”, anche perché accentuate dall’incomprensione e dall’ingratitudine dell’intero universo); l’ “umile” (forse la versione più “subdola e insidiosa”: “non si cimenta in nessuna grande impresa, a cominciare dal fare nel migliore dei modi il suo lavoro, per paura di poter sbagliare, per paura di non essere il primo”).
L’invidioso - esteriormente si riconosce in quanto deride (privatamente) o addirittura diffama (pubblicamente) chiunque raggiunga un traguardo considerato d’impedimento alle proprie mire - prova interiormente due “sentimenti soggettivi” opposti: “la gioia per le avversità degli altri (exultatio in adversis) o la tristezza per la loro prosperità (afflictio in prosperis)” (p. 39). Il vizio dell’invidia vanta un primato poco… invidiabile: è “l’unico a non provocare alcun piacere” in chi lo esercita, come “un tarlo che rode anzitutto chi ce l’ha” (p. 9).
“I sintomi classici dell’ira” - siamo così al terzo peccato capitale - coinvolgono il triplice piano delle emozioni (”indignazione” e “tracotanza”), delle parole (”clamore” ed “insulto”) e delle azioni (”risse”, “lesioni a terzi” e “omicidi”). Ma non va dimenticato che, in sé, l’ira è una passione e, in quanto tale, moralmente ambivalente. Se preceduta da una valutazione razionale e mirata a ripristinare una situazione giusta, non solo non è un difetto, bensì addirittura una virtù. Vizio lo diventa se precede ogni esercizio della ragione e se mira a colpire, più che l’infrazione delle regole, la persona che le ha infrante (cfr. pp. 11 - 15).
“I sintomi dell’accidia” - quarto vizio capitale - “sono difficili da definire, dal momento che tale vizio assomiglia molto a una patologia vera e propria: la depressione. Tuttavia, mentre la depressione è solo da curare (…), l’accidia è da evitare, come la pigrizia e l’indolenza sue sorelle quasi gemelle” (p. 47). Inutile usare contro gli accidiosi, ad esempio certi adolescenti, le maniere forti: “se, infatti, tutto nasce dal sentimento di disincanto e disperazione nei confronti del senso della vita, i genitori, prima di adottare metodi duri, dovrebbero chiedersi se hanno trasmesso ai figli la gioia di vivere, la testimonianza che la vita, nonostante tutto, ha un senso e riserva gioie a chi, seppure con fatica, le sa cercare” (p. 49).
“I sintomi dell’avarizia ” - quinto vizio dell’elenco - si possono distinguere in “psicologici” ed “esteriori” (p. 51). Fra i primi possiamo annoverare “l’indurimento del cuore o disumanità” e “l’inquietudine” di chi è insaziabile e per giunta teme di perdere ciò che ha già conquistato; fra i secondi “il furto e l’inganno”. I vantaggi che può produrre questo vizio non sono comparabili con gli inconvenienti. Lo aveva già visto Marx (che, a torto, limitava la sua analisi alla classe dei capitalisti): “Quanto meno mangi, bevi , compri libri, vai al teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti (…), tanto più risparmi. Ma tanto più hai, quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita” (cfr. p. 22). L’avaro non è sfiorato dalle “nuove scoperte sull’idea di benessere, secondo cui esso implica una buona qualità di vita, un rapporto equilibrato tra averi e piaceri”: l’idea che “si possa essere relativamente poveri ma felici, gli sembrerà non già la tesi di premi nobel dell’economia, come è, ma una trovata giornalistica di qualche comunista” (p. 71).
Il goloso che sia davvero imputabile del sesto vizio capitale lo si riconosce a tavola e, ancor più, quando non mangia. Sino a quando sa apprezzare il cibo e il buon vino non solo non è in difetto, ma anzi dà segni di sanità fisica e morale. La sintomatologia diventa preoccupante quando non si pensa a niente di meglio che a “corsi di cucina, di sommelier, viaggi per le vie dei vini e dei tartufi, dell’olio e dello champagne” (p. 55). Quando “si arriva a un punto di demenza tale da recarsi in città d’arte non più per ammirarne i monumenti ma per andar a mangiare in quella trattoria”; da dedicare, a Venezia, “dieci minuti per visitare San Marco e tre ore per mangiare al ristorante tipico veneziano”; da sapere “tutto della ribollita e niente della torre di Pisa, tutto della trippa e niente del Colosseo”; da rispondere, alla domanda su che cosa venga in mente quando si pensa alla visita di Palermo, “le arancine” (pp. 55 - 57). (Il sintomo sarebbe meno grave, però, se si rispondesse: “la pasta con le sarde”).
“I sintomi più comuni della lussuria” - vizio che chiude, in quanto meno rilevante e coinvolgente dei precedenti, la serie - sono: fornicazione (l’unione sessuale al di fuori del matrimonio), incesto, stupro, adulterio (l’unione sessuale con un partner che non coincide con la propria moglie o il proprio marito) e ratto (cioè il rapimento della fidanzata senza il consenso paterno di solito finalizzato al matrimonio segreto)” (p. 59). E’ il vizio meno antipatico del gruppo e ogni suo sintomo è sottoposto alle vicende ermeneutiche della storia sociale dell’umanità. La sua essenza rimane però costante: fare “dei piaceri sessuali il centro della vita, attorno a cui ruota tutto il resto” (p. 62). Quando ciò accade, non è infrequente che si registrino inconvenienti poco gradevoli su cui i pensatori medievali avevano attirato l’attenzione: “cecità della mente, irriflessione, incostanza, precipitazione, amore di sé, odio di Dio, attaccamento al mondo presente, disperazione per il mondo futuro”. Ovviamente ad alcuni di questi esiti si può arrivare anche percorrendo vie diverse, talora persino opposte: come l’astensione forzata - a causa di vincoli psicologici moralistici o di condizionamenti oggettivi - da qualsiasi godimento sessuale. E ci possono essere casi in cui un pizzico di civetteria più o meno seduttiva libera da momenti depressivi, come testimonia un’amica tedesca dell’autore che, a tale scopo, si reca appositamente a passeggiare per le vie di qualche rione popolare di Palermo: vi raccoglie, infatti, “i fischi, i complimenti, gli apprezzamenti ad alta voce”, riacquista la fiducia in sé stessa e si conferma nella convinzione che “la lussuria, certe volte, è meglio del prozac” (p. 63).
Il “libricino” è sigillato da alcuni “giochi”, come il resto delle pagine solo apparentemente futili, tesi a individuare i vizi nelle persone che ci circondano e più ancora nella nostra identità: non per giudicare né per giudicarci, quanto per “accettare in profondità tutte le parti di noi” e così “comprendere e sopportare meglio gli altri” (p. 78).

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