mercoledì 31 ottobre 2007

IL LIBRO DI VENTIMIGLIA


“Repubblica-Palermo” 31.10.07

Augusto Cavadi

VIZI CAPITALI ALLA SICILIANA

Il direttore dell’Istituto di filosofia applicata presso la Facoltà di teologia di Lugano è un aitante e brillante quarantenne palermitano che vive ormai da anni, con la moglie e i due figli, nel vallone Ticino. Solitamente si occupa di argomenti un po’ astrusi difficilmente pronunziabili (del genere ‘ontologia del virtuale’ e ‘teorie della persona e della comunità‘), ma gli è capitato - del tutto casualmente - di essere invitato a occuparsi un po’ di morale per un pubblico di ascoltatori estranei al mondo filosofico accademico. Invertendo la prospettiva etica abituale, Giovanni Ventimiglia ha preferito passare in rassegna i vizi anziché le virtù, sfornando così un succinto, ma succoso, libretto dal titolo volutamente paradossale: Vizi. Esercizi per casa (Apogeo, Milano 2007).

La sequenza è suggerita dall’elencazione classica che risale addirittura al Medioevo: i sette vizi ‘capitali’, cioè fondamentali, intorno a cui ruotano “i sessanta e passa vizi di cui è capace l’uomo” (p. 3). Dunque, nell’ordine di gravità (decrescente!): superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria. Il superbo è, essenzialmente, il “vanaglorioso” : cioè, secondo il napoletano Tommaso d’Aquino, chi è affetto dall’irresistibile impulso ad “ostentare la propria eccellenza”, se reale, o ad inventarsela, se inesistente. Invidioso, invece, secondo l’etimologia latina è colui che guarda di “mal occhio” e che si serve, al fine di “impedire il successo altrui, ritenuto di impedimento al proprio”, della sussuratio (o maldicenza) che, nel caso si passi “dal segreto delle case alla sfera pubblica”, diventa vera e propria diffamazione. Una triste conseguenza dell’invidia è l’uso dei valori morali a scopo vendicativo: come la ragazza bruttina che denunzia come troppo leggero il comportamento della sorella sempre in giro per pub e feste o come Salvatore, “un mio amico mingherlino e simpatico”, che, “di fronte alle minacce di un compagno di studi, forzuto ed enorme, gli si avvicinò e gli urlò. …ma io ti perdono!”. Il terzo vizio capitale, l’ira, nasce in realtà come passione e “come tale né positiva né negativa ma neutra”: se si scatena per scopi turpi, degenera appunto in vizio; se si accende per combattere l’ingiustizia, “può diventare una virtù, e in questo caso prende il nome di zelo”. Dunque, filosoficamente parlando, chi si adira per motivi oggettivi (ad esempio un arbitraggio iniquo) non solo non è un vizioso, ma va ammirato (specie se, nota l’autore, evita gli insulti tratti dal “gergo palermitano” quali “arbitro, in confronto a te una cassetta di lumache è niente!” che equivarrebbe a “molto cornuto”). Così come chi si rassegna supinamente - senza nessun tentativo di cambiamento - a vivere in una terra dove prosperano favoritismi, imbrogli e discriminazioni va considerato non un virtuoso, ma un vizioso per difetto.
“Dopo la superbia, l’invidia e l’ira, nell’elenco dei vizi capitali, viene l’accidia”: che apparentemente assomiglia alla “neuroastenia” e alla “depressione”, ma in realtà è una “tristezza ostentata per giustificare e nascondere cose come indolenza, oziosità, fannullosità, pigrizia”. Anche in proposito, l’autore non trova di meglio che evocare il “sicilianissimo ed elegantissimo” compagno di studi Salvatore il cui motto era “Annascìu stancu e campu p’arripusarimi (sono nato stanco e vivo per riposarmi)”.
L’avarizia, quinta della compagnia, è “un vizio subdolo”: si traveste infatti di belle virtù (ad esempio la lotta contro il consumismo), pur essendo in realtà un modo di ragionare da “depressi”. Marx lo aveva detto con acume: “Quanto più accumuli risparmiando, tanto meno realizzi la tua vita: più hai, meno sei”. Più simpatici, invece, i molti risvolti del vizio della gola: non è un caso che “sul soffitto ligneo del Duomo di Cefalù, gli artisti pittori abbiano dipinto, sulle travi del tetto - così in piccolo da non poter essere visto dai visitatori in basso - un piccolo paradiso musulmano, con tanto di danzatrici, musica, cibi e bevande! In mezzo a tanta spiritualità - sembrano dire - concedeteci un’oasi di piaceri materiali!”. (Ciò non toglie che resti un po’ repellente incontrare nei salotti individui che “sanno tutto della ribollita e niente della torre di Pisa, tutto della trippa e niente del Colosseo” e che, dovendo evocare l’ultima vacanza a Palermo, si concentrano quasi unicamente sulle “arancine”).
Altrettanto simpatici possono risultare alcuni aspetti della lussuria, settimo ed ultimo vizio del catalogo, che non è “il lusso sfrenato delle società occidentali (secondo la felice definizione di uno studente all’esame)”, bensì l’insieme delle perversioni connesse con l’esercizio della sessualità. La confidenza di una “bella e simpatica” amica tedesca dell’autore (”Quando sono depressa vado in Sicilia e mi faccio una passeggiata in qualche rione popolare di Palermo: immancabili arrivano i fischi, i complimenti, gli apprezzamenti ad alta voce e mi passa la depressione!”) attesta che “la lussuria, certe volte, è meglio del prozac”. Infatti, ci tiene a sottolineare Ventimiglia, la perversione erotica autentica è rivelarsi incapaci di “ascoltare, aspettare e assecondare il corpo dell’altro”: dimenticare che “l’egoismo non aumenta ma diminuisce il piacere dell’atto sessuale”. E anche questo aveva ben espresso il “mitico Salvatore”: “La differenza fra gli animali e gli uomini è che gli animali lo fanno sempre in una sola posizione”. Certo: perché “gli uomini, facendolo, parlano. e l’ideale - lungi dall’essere la vita degli angeli - è quello di imparare a dire parole d’amore”.

martedì 30 ottobre 2007

IL PRIMATO DELLA LAICITA’


“Repubblica-Palermo” 30.10.07
Augusto Cavadi

GIUSEPPE SAVAGNONE
Dibatttito sulla laicità
Elle Di Ci
Pagine 160
Euro 8,50

Tra i cristiani ci sono persone sinceramente ‘laiche’ (capaci di confrontarsi con tutti senza demonizzare nessuno) e persone non ancora così mature. Proprio come tra gli atei. La tesi di questo interessante volume (Dibattito sulla laicità. Alla ricerca di una identità) del noto intellettuale cattolico palermitano Giuseppe Savagnone è che la laicità è un valore dal punto di vista non solo - come tutti sanno - civile e politico, ma anche evangelico. E’ forse solo un caso che Gesù di Nazareth non sia stato un ’sacerdote’ ma un maestro itinerante senza cattedra e senza stipendio? Ma se è così la chiesa cattolica è chiamata ad una continua autocritica per tutte le volte che, “contro i suoi stessi princìpi, solennemente affermati nel Concilio vaticano II, rischia di strumentalizzare la cultura, la politica, in generale le realtà terrene, in funzione della propria posizione partigiana o - che è lo stesso - di porsi unilateralmente come parte in concorrenza con altri soggetti storici, dimenticando che la sua vocazione la sospinge ben al di là della cura di sé stessa”.

venerdì 26 ottobre 2007

UN GRANDE UOMO


Centonove 26.10.07
Augusto Cavadi

GRAZIE, PASTORE VALDO

Ci sono siciliani che hanno vissuto con l’intenzione determinata di lasciare la loro terra un po’ migliore di come l’hanno trovata, e ci riescono. Il pastore Valdo Panascia, deceduto sabato, è stato uno di questi. L’ultima volta che andai a visitarlo - tre anni fa - portava a fatica il peso della distanza crescente fra una mente sempre lucida e la complessione fisica indebolita di un vecchio che ha superato la soglia dei novant’anni. Sapeva che la fede cristiana non esonera da fasi di travaglio psichico e morale, neppure se sei un ministro di Dio.
Eppure, raccontandomi alcuni passaggi salienti della sua lunga esistenza, gli occhi di quest’omino ormai curvo si illuminavano ancora: forse di orgoglio, certo di gioia. Col tono sommesso di chi fugge spontaneamente la retorica, cercando ogni tanto il silenzioso conforto della moglie, rievocava le battaglie - talora vinte, sempre nonviolente - di un protestante valdese radicato in un territorio, almeno nominalmente, cattolicissimo.

La più epica delle sue imprese fu probabilmente la sfida pubblica lanciata, dopo la strage di Ciaculli, alle cosche mafiose. In nome della sparuta comunità minoritaria di cui era guida, fece stampare e affiggere dei manifesti di condanna della violenza stragista, dichiarata a chiare lettere incompatibile con qualsiasi professione di cristianesimo. Perfino a Roma arrivò l’eco della coraggiosa iniziativa ‘profetica’ e dai vertici del Vaticano arrivò all’arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, una lettera che sollecitava analoga iniziativa da parte cattolica. Ma - secondo i documenti pubblicati dallo storico della chiesa don Francesco Michele Stabile - la risposta del presule fu negativa: i protestanti esagerano, dimenticano che nel resto del mondo c’è altrettanta violenza che a Palermo, si sbraccino piuttosto nel sociale per prevenire il male.
L’apologia della situazione siciliana non fu la meno infelice delle posizioni di Ruffini, ma l’indicazione di lavorare socialmente per prevenire la criminalità aveva un suo valore: solo che anche a questo il pastore Panascia aveva già provveduto fondando il Centro diaconale della “Noce” che, sino ad oggi, opera nel campo dell’istruzione, della cura dei ragazzi in difficoltà, dell’accoglienza degli immigrati. Per lui la fede era l’essenziale: ma per ‘fede’ non intendeva un mero rapporto intimistico ed individualistico con Dio, bensì una fedeltà nella storia alla ‘parola’ che invita a servire gli altri, a cominciare dai più indigenti.
Per queste iniziative, e per tante altre, Pietro Valdo Panascia ha inciso positivamente e durevolmente nel tessuto cittadino, innalzando il livello del dibattito culturale, incrementando il dialogo fra le confessioni religiose, difendendo i pochi spazi di laicità e migliorando la qualità della vita di generazioni di diseredati. Sarebbe un segno di riconoscimento e di riconoscenza che la municipalità cittadina gli dedicasse, quanto prima, una strada o una piazza o una scuola: un segno di cui abbiamo bisogno noi per ricordarlo, non certo lui che - quale che sia la soglia varcata - è ormai estraneo alle faccende per cui ci agitiamo così tanto sul nostro pianetino periferico.

mercoledì 17 ottobre 2007

Caffè filosofico a San Salvador (El Salvador)


Café Cultural EL AIRE

Invita al

Conversatorio desde Palermo

“El Sur del Norte”

Invitado Especial:

AUGUSTO CAVADI

Filósofo Callejero

Profesor de Filosofía y Opinionista del Periódio República

Militante del Movimiento Antimafia

Fundador del Centro Social “San Francesco Saverio” y

De la Escuela de Formación Ético-Política “Giovanni Falcone”

Día: Miércoles 17 de Octubre

Hora: 7:00 pm

Lugar: Cafe Cultural “El Aire”

(Boulevard Constitución, Calle Londres y Av. Florencia No. 37,

Colonia Miralvalle, San Salvador/ Tel. 2517 6950)

Entrada Libre

**********************************************

Fundación Metáfora y

Café Cultural “El Aire”

le invita a disfrutar de su cartelera cultural de esta semana

Miércoles 17 de octubre/ 7 de la noche

Conversatorio “El Sur del Norte”

Invitado: Augusto Cavadi

(intelectual y activista italiano)

Entrada libre

Jueves 18 de octubre/ 8 de la noche

Exposición Pictórica “Ojos de octubre”

7 Pintores nacionales del Punto Convergente de las Artes

inaugurando su exposición

(Habrá coctel)

Entrada libre

Viernes 19 de octubre/ 8 de la noche

Franklin Quezada en Concierto

Entrada $3

Sábado 10 de octubre/ 8 de la noche

Lectura Antológica de Poesía

Invitado: Ricardo Lindo

Entrada Libre

Café Cultural “El Aire”

Boulevard Constitución Calle Londres y Avenida Florencia, Nº 37, Colonia Miralvalle, San Salvador.

Teléfono: 2517-6950

martedì 9 ottobre 2007

CONTRADDIZIONI NELLA CHIESA CATTOLICA


“Repubblica-Palermo” 9.10.07

Augusto Cavadi

LE DUE ANIME DELLA CHIESA: I BANCHIERI E I FRANCESCANI

Che cosa prova “un cittadino europeo, sbarcato in un’isola piena di misteri, di contraddizioni, di cupezza” come la Sicilia? Marcelle Padovani, nota per aver firmato con Falcone Cose di Cosa nostra, risponde: ” il dilemma tragico, ma fecondo: essere un vigliacco o un eroe in tutti i gesti della quotidianità“. La risposta, contenuta nella sua presentazione al libro di Davide Romano La pagliuzza e la trave (La Zisa), dà una delle due chiavi di lettura principali. Perché la raccolta di articoli e interviste e brevi del giornalista palermitano non è solo una rivisitazione di alcuni protagonisti cattolici del “laboratorio” siciliano: come annunzia già il sottotitolo (Indagine sul cattolicesimo contemporaneo), essa intende presentarsi, più ambiziosamente, come un saggio di informazione laica sul cattolicesimo nazionale. E Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno in una fase storica in cui del cattolicesimo o parlano (quasi sempre apologeticamente) i cattolici o nessuno.

Ma che significa visitare il cattolicesimo con occhi laici? Leggendo queste pagine si intuisce che non si tratta di invertire il registro agiografico in prospettiva polemica: piuttosto di cercare di fotografare l’oggetto dello studio in maniera onesta, rispettando la varietà (talora persino contraddittoria) dei pezzi che costituiscono questo strano puzzle. Perché il cattolicesimo contemporaneo non è un blocco monolitico: è costituito da politici che in nome della religione tessono legami con i poteri forti (mafia non esclusa), ma anche da preti che in nome del vangelo denunziano quegli stessi poteri al punto da rimetterci la vita. E’ costituito da monsignori che vivono, da diplomatici e da banchieri, tra diplomatici e banchieri; ma anche da uomini e donne, senza nessuna investitura ecclesiastica istituzionale, che per fedeltà al battesimo lavorano quotidianamente - in sincera solidarietà con uomini e donne del proprio tempo che non si riconoscono in nessuna confessione religiosa - per costruire una società meno ingiusta e meno infelice.
Questa poliedricità del cattolicesimo è già, in qualche modo, esemplificata in due testi che introducono al libro. E’ il cattolicesimo di chi, come Anna la Rosa, ritiene appropriata l’espressione “Chiesa viva e giovane” per designare la chiesa, un po’ azzoppata, che Giovanni Paolo II ha consegnato a Benedetto XVI dopo più di un ventennio di dura repressione del dissenso interno (anche a costo di perdere quasi tutte le firme più prestigiose della teologia del XX secolo); ed è il cattolicesimo di chi, come don Vitaliano La Scala, protesta accoratamente contro l’attuale gerarchia che “sa solo pronunciare i suoi eterni, anacronistici e indiscutibili ‘no’ di fronte a qualsiasi richiesta di apertura che viene dalla base”, dando però l’impressione che per lui l’andazzo possa mutare anche senza rimettere in discussione il quadro teologico-dogmatico di fondo.
Uno sguardo laico sul cattolicesimo non censura nessuno di questi aspetti e scopre che persino nella stessa persona possono registrarsi mutamenti sorprendenti. “Al di sopra del papa resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica”: chi attribuirebbe oggi questa frase del 1967 al suo vero autore, il perito conciliare tedesco Joseph Ratzinger?

RIQUADRO
Davide Romano è un giovane giornalista free - lance che vive ed opera a Palermo (cura alcuni uffici stampa e collabora con testate giornalistiche regionali e nazionali ). Questa raccolta di scritti (La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo tradizionale, La Zisa, pagine 152, euro 12) contiene, fra l’altro, un’intervista al cardinal Tonini, al vescovo di Trapani Micciché, a don Francesco Michele Stabile, nonchè il testo dell’orazione funebre pronunciata nel 1976 dal vescovo di Ragusa, mons. Angelo Rizzo, alle esequie di Calogero Volpe (deputato democristiano e suo “cugino di sangue”).

venerdì 5 ottobre 2007

IL SISTEMA DI POTERE


Centonove 5.10.07
Augusto Cavadi

PALERMO E SABBIE MOBILI

Un prodotto letterario deve, prima di tutto, farsi leggere con piacere. E il romanzo breve - o il racconto lungo - di Mario Di Caro (”Mezzanotte al teatro Massimo”, Di Girolamo, Trapani 2007, pp. 92, euro 10) l’ho letto con gusto: dopo le prime righe mi ha arpionato e mi ha mollato solo alla fine. Come effetto collaterale (desiderato), il libro mi ha dato da pensare: come danno da pensare i libri che, invece di raccontare la mafia come organizzazione criminale militarizzata (per carità, quando sono scritti bene sono istruttivi pure questi!), raccontano la mafia come sistema di potere diffuso, articolato, radicato nel contesto sociale.

Questi aspetti sono più sfuggenti, più ardui da mettere a fuoco: perché sono divieti taciti, ordini silenziosi, omissioni intenzionali, impercettibili moti del volto…Insieme, solo insieme, costituiscono quella coltre pesante che opprime la quotidianità a Palermo, in Sicilia, in Italia meridionale. Una nebbia vischiosa, appiccicosa, in cui è illusorio separare nettamente carnefici e vittime, colpevoli e innocenti: perché non ci sarebbero tanti padroni e padroncini se non ci fossero tante animucce rassegnate, per viltà o per quieto vivere, a farsi manipolare l’esistenza. Sì, che la città sia malata e si lasci “scivolare come narcotizzata nelle sabbie mobili dei suoi misteri” può essere “l’effetto dei miasmi del tritolo incrostati sull’asfalto delle strade” (p. 60): ma anche la causa. Queste pagine di Di Caro confermano l’idea che ci si forma vivendo dalle nostre parti: la mafia non è un destino irreversibile, ma neppure una macchia d’inchiostro su un tessuto immacolato. E’ nata storicamente e, prima o poi, tramonterà: ma più ‘poi’ che ‘prima’ perché ben piantata in un terreno sodale, impregnato di ignavia e di accidia. E di invidia: “E’ sempre stato così a Palermo, anche cento anni fa: alla fine vince l’invidia perché l’importante non è essere più bravi di tutti, ma impedire agli altri di esserlo” (p. 36).
Una nota preliminare avverte che “fatti e personaggi del racconto sono frutto della fantasia dell’autore”, ma è una nota che non si riesce a prendere sul serio: troppi fatti, come la chiusura per trent’anni del Teatro Massimo, sono (per quanto incredibili) storici e troppi personaggi, come il senatore Santiago, hanno di fantasioso solo il nome e l’esatta posizione istituzionale. Chi ha i capelli anche solo brizzolati, come fa a non riconoscere, nella finzione letteraria, il profilo inconfondibile di quel leader politico democristiano che, prima di cadere vittima di fuoco ‘amico’, si era dimostrato capace di “aspettare e colpire al momento opportuno”, “in silenzio, misurando le parole, sempre attento a non dirne una di troppo, come se avesse voluto risparmiarle per quando ne avrebbe avuto bisogno”? Ed il cui potere, “saldo al vertice del partito, si estendeva dagli ospedali ai teatri, dalle società finanziarie alle municipalizzate: una sorta di impero che controllava attraverso una corte di fedelissimi ramificata in tutti i consigli di amministrazione della città e allevata a suon di favori e raccomandazioni, sorta di cambiali senza scadenza che riscuoteva al momento opportuno. Formava le giunte comunali, minava la stabilità dei governi regionali ogni volta che un alleato gli voltava le spalle, tesseva accordi, nominava direttori d’azienda, dirigeva speculazioni immobiliari ma riusciva sempre a rimanere dietro le quinte” (p. 23)? Magari tipi come questo fossero davvero “frutto della fantasia dell’autore”! Se non si possono individuare con nome, cognome ed indirizzo postale è piuttosto per una ragione opposta: sono troppo ‘veri’, si riproducono per apprendimento imitativo - pressoché identici - in diverse generazioni di politici. Quando ne scompare uno, presto la maggioranza dei siciliani si affretta a riversarne il consenso tesaurizzato nei decenni ad un nuovo erede: quasi come pecore dominate dalla nostalgia di un pastore che le conduca a piacimento, pur di assicurare una certa dose di foraggio. Gli uomini passano, il metodo di governo resta. Lo spiega efficacemente lo stesso “senatore”: “Questa città è fatta così, non ha alcuna voglia di cambiare, checché ne pensino i miei colleghi più giovani e più sfrontati. E sarà così per sempre. Cambia solo lo scenario, come succede in quel teatro che le piace tanto fra un atto e l’altro, ma la storia resta sempre la stessa” (pp. 80 - 81).
Eppure. Eppure, in una città che implode lentamente nelle proprie stesse viscere, un fantasma del Massimo - Turandot - non rinunzia ad evocare quell’imponderabile che “ogni notte nasce e ogni notte muore”: la “speranza” (p. 69). E un altro fantasma, Mefistofele, osa persino declinarla in concreto: “Adesso i giovani vanno solo in palestra, hanno smesso di sognare. Ecco, io invece voglio che la lotta per il teatro coinvolga tutti, operai e intellettuali, giovani e anziani, principesse e giullari. Vorrei farli sognare tutti assieme. Abbiamo l’occasione di cambiare la nostra storia. Non posso continuare a vedere i miei compagni che avvizziscono nell’inerzia” (p. 76). Chi sa? Forse, avendo stancato tutti gli dei del pantheon, solo un diavolo potrà salvarci. Di Caro non sembra prendere posizione. La sequenza finale è esposta alle interpretazioni anche opposte: il caos, “la più squinternata delle rivoluzioni” (p. 91), è la prova scoraggiante che “il mondo è tutto una burla” (e non c’è onesto che non abbia un prezzo) o, piuttosto, la conferma incoraggiante che “nessuna storia” va considerata “immutabile” (p. 92)?

lunedì 1 ottobre 2007

L’IMPEGNO SOCIALE SILENZIOSO


“APPUNTI” Settembre-Ottobre 2007

Augusto Cavadi, GENTE BELLA, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, pp.197, Euro 15.00

Questo libro raccoglie una serie di interviste di persone più o meno note: persone che hanno contribuito con il loro impegno a migliorare l’umanità. Una pluralità di voci che si sono andate intrecciando in reti di solidarietà e di cultura. Religiosi e laici che interpretano la storia, la religione, l’attualità dalla parte di chi mette le mani e il cuore in pasta, nella fragilità della storia umana.