venerdì 28 dicembre 2007

SANITA’: SE IL SERVIZIO PEGGIORA


“Repubblica - Palermo” 28.12.07
Augusto Cavadi

MALATI DI AIDS: SOS ASSISTENZA

Le tragedie non sono meno laceranti quando si vivono, lontano dai riflettori, nel segreto delle famiglie. A Palermo e in Provincia centinaia di uomini e donne, differenti per età e fascia sociale, sono accomunati ad esempio dall’ essere sieropositivi o malati di aids. E per loro questi giorni di festa sono, paradossalmente, segnati da motivi supplementari di sofferenza. Al punto da decidersi a invocare - attraverso il cronista - l’attenzione della città, in particolare delle istituzioni.

Che cosa è successo? Dal 1985 questi pazienti sono stati seguiti, sotto la direzione di Aurelio Cajozzo prima e di Vincenzo Abbadessa poi, dal Servizio di Riferimento Regionale per l’Aids, all’interno del Policlinico di Palermo, che - secondo Vincenzina R. - “comunicazione, rispetto, privacy, professionalità, percorsi assistenziali semplificati, facile accesso alle indagini e alle cure, competenza, gestione aggiornata della malattia” . “La gestione - aggiunge Carmelo N. - è stata per oltre venti anni ottimale, al passo con le novità scientifiche, con risultati tangibili sul nostro stato di salute. E’ giusto notare quando gli amministratori politici sanno scegliere i professionisti cui affidare ruoli di responsabilità“. Rosario C. ci tiene a precisare: “E, non dimentichi di scriverlo, per noi malati l’interfaccia istituzionale è stata la dottoressa Salvatrice Mancuso: non per mitizzarla, ma era esattamente quello che dovrebbe essere ogni medico. Era contenta del lavoro che svolgeva, abile nel comunicare, sapeva stabilire un formidabile rapporto con noi pazienti: sempre presente negli orari di servizi e raggiungibile, col cellulare personale, quando non era in ospedale. Se qualcuno non ce la faceva, stava per crollare psicologicamente, riusciva ad acciuffarlo per i capelli e a ridargli la forza per continuare”. La situazione, già molto positiva, sembrò destinata a migliorare ulteriormente nel 2006, quando il Servizio è stato spostato - sempre all’interno del Policlinico - in una sede nuova, dignitosissima, adeguata insomma.
Ma nel febbraio del 2007 l’incantesimo è rotto. In seguito alla chiusura dell’Ospedale Guadagna viene trasferito, nella stessa sede, il reparto di Malattie Infettive. Cominciano così disfunzioni e disservizi davvero scoraggianti. Racconta Antonella T.: “Attese prolungate, insostenibili per gente come noi che va in ospedale non qualche volta e per un periodo limitato, ma frequentemente e per tutta la vita; ambulatorio affollatissimo, di malati infettivi, in tragica promiscuità con noi affetti da aids e perciò soggetti, a causa dell’immunodeficienza, ad acquisire con estrema facilità ogni sorta di germi”. “Per non parlare ” - continua con un sorriso amaro Lucia T., madre di un ragazzo in cura - della privacy. E’ stata abolita. E’ normale che un medico si affacci dalla porta dell’ambulatorio e chieda a voce alta, davanti a tutti i presenti: chi sono i malati di brucellosi?”. In tutto questo - è il commento di un paziente non più giovanissimo che non vuole assolutamente dichiarare la propria identità anagrafica - la poca educazione di certi medici, che arrivano fra schiere di malati e non li degnano neppure di un cenno di saluto, passa in secondo piano. Certo non serve però a stabilire quel rapporto di fiducia che per noi ha anche benefici terapeutici”.
“Che sta succedendo? Perché questo accorpamento? A chi giova? E come mai la dottoressa Mancuso, tanto convinta - anzi entusiasta - del suo lavoro in questo difficile settore, ha chiesto ed ottenuto il trasferimento ad un altro reparto? Chi avrà la competenza e l’esperienza per sostituire una come lei che, dopo venti anni, conosceva perfettamente i nostri percorsi terapeutici e sapeva calibrare, caso per caso, il cocktail di farmaci più adatto?” Sono queste le domande che con più insistenza tornano, si accavallano, per le sale e i corridoi del Policlinico. “Non sembri esagerato quello che vogliamo dire: per noi malati di aids saper combinare i medicinali nelle proporzioni adatte a ciascuno fa la differenza fra la vita e la morte”, ci tiene a chiarire Mariano C. Già: una combinazione errata, o anche solo inadeguata in un determinato paziente, significa effetti collaterali talora mortali. Per questo l’appello che lanciano è composto, ma circostanziato e deciso. Sarebbe incoraggiante che venisse recepito prima che l’esasperazione lo trasformi in urla, in eclatanti azioni di protesta. Prima che i timori manifestati con tanta dignità civica trovino drammatiche, rovinose conferme.

giovedì 27 dicembre 2007

IL CENACOLO DEI METAFISICI


Repubblica – Palermo 27.12.2007
Augusto Cavadi

GIUSEPPE NICOLACI (DIR.)
Giornale di metafisica
Tilgher
Pagine 276
24,50 euro

Ontologia e metafisica è il titolo dell’ultimo numero (monografico) del “Giornale di metafisica”, rivista - tra le più note e prestigiose del panorama europeo - fondata molti anni fa dal siciliano Michele Federico Sciacca e, poi, diretta dal discepolo Nunzio Incardona. Dopo la morte di quest’ultimo le pubblicazioni si sarebbero interrotte del tutto se un gruppo di docenti universitari palermitani, coordinati da Giuseppe Nicolaci, nel 2005 non avesse rilanciato la rivista con un progetto rinnovato: che non è di una mera custodia del patrimonio spiritualistico cristiano ereditato, bensì di offrire uno strumento di confronto intellettuale aperto a tutti gli studiosi. Almeno a tutti quelli, di qualsiasi orientamento, ancora disposti a interrogarsi sulle domande fondamentali, senza ridurre la filosofia a semplice metodologia delle scienze naturali ed umane. Sinora i contributi sono stati raccolti soprattutto fra docenti universitari, ma il comitato di redazione ha deciso di aprire le porte di questa “nuova serie” anche al variegato mondo dei docenti liceali.

sabato 15 dicembre 2007

UN’ORA DI ANTIMAFIA A SCUOLA


“Repubblica - Palermo” 15.12.07
Augusto Cavadi

L’ANTIMAFIA NELLE SCUOLE

E’ di queste ore la notizia che i deputati Beppe Lumia e Giuseppe Giulietti hanno presentato alla Camera una proposta di legge che preveda un’ora settimanale di insegnamento antimafia nelle scuole medie (primarie e secondarie) dell’intero territorio nazionale.

Sulla validità delle intenzioni non ci sono dubbi ed anche nel merito la proposta legislativa ha diversi pregi. Innanzitutto sarebbe un modo per ribadire, in forma per così dire ufficiale, che - come spiega lo stesso Lumia in una dichiarazione - non si può contare esclusivamente sulla pur preziosa “attività repressivo - giudiziaria dello Stato”, ma “si deve costruire una risposta di sistema. E cioè lavorare sul fronte sociale e culturale”. Dunque: non bastano gli arresti eccellenti (Riina, Provenzano, Lo Piccolo) e neppure le normative, contenute nel pacchetto sicurezza sui patrimoni espropriati ai mafiosi. In secondo luogo il senso della proposta di legge sarebbe di sprovincializzare la questione mafiosa e sanzionare, con una legge nazionale, che educare a conoscere e a combattere le organizzazioni criminali non è un compito da riservare ad alcune regioni meridionali più sfortunate: tutto il Paese, in misura talora inimmaginabile (la Lombardia è la regione con il più alto numero di sequestri di immobili a mafiosi; l’Emilia - Romagna è una delle regioni in cui le mafie di mezzo mondo investono e riciclano proventi illeciti…), è un po’ complice ed un po’ vittima. Infine c’è almeno un terzo pregio di questa proposta: evitare che l’educazione antimafia sia un fulmine a ciel sereno, fare in modo che entri nell’ordinarietà del curriculum di uno studente. Non so quanto abbia senso la giornata del risparmio o della donazione del sangue: sicuramente non ne ha la giornata di educazione alla legalità democratica.
Eppure. Eppure - nonostante questi aspetti decisamente apprezzabili - spero che la proposta non venga approvata e non diventi esecutiva. Non c’è nulla di tanto interessante da sfuggire alla banalizzazione della normalità scolastica. Se si vuole strappare l’anima ad un poeta, ad una ricerca scientifica, ad una sperimentazione tecnica, ad un’opera di filosofia - se si vuole ridurre un capolavoro dell’ingegno umano a fantasma, a cadavere - basta renderne lo studio obbligatorio per legge. Non c’è censura statale o ecclesiastica più efficace per rendere inodore, insapore e inerme una qualsiasi novità teorico-pratica. Basti vedere che cosa è, nella stragrande maggioranza delle scuole, l’ora di educazione civica o l’ora di informatica. Per non abusare dell’esempio, troppo di moda in questi giorni in cui Benigni ne sta mostrando ad evidentiam la bellezza e la forza dirompente, della Divina Commedia.
E allora, che fare? Lasciamo tutto come prima? Sarebbe peggio di qualsiasi sperimentazione zoppicante. Possiamo, piuttosto, cogliere l’occasione perchè il Parlamento, recependo lo ’spirito’ della proposta, ne approfondisca e ne migliori le articolazioni. Nell’impossibilità di riassumere un ragionamento più completo che, con alcuni amici, ho provato recentemente ad elaborare (nel libro A scuola di antimafia), mi limito a due indicazioni di massima. La prima è che non si possono cercare scorciatoie: se si vogliono educare alla legalità democratica gli alunni, bisogna passare per la fase faticosa dell’autoformazione degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. Sino a quando presidi, professori, personale amministrativo ed ausiliario avranno idee sbagliate su che cos’è davvero la mafia e su come essa distrugge il tessuto connettivo sociale; soprattutto sino a quando le loro pratiche quotidiane saranno improntate a favoritismi, accanimento sui deboli, vigliaccheria nei confronti degli studenti violenti e dei genitori potenti, nessuna “ora di antimafia” ribalterà una cultura e aprirà un futuro migliore. Per raggiungere (o per avvicinarsi gradualmente) a tale traguardo pedagogico e politico il Parlamento potrebbe - e questa sarebbe una seconda indicazione concreta - estendere a tutta l’Italia e incrementare qualitativamente e finanziariamente quelle leggi regionali (attualmente in vigore in sei o sette regioni soltanto) che prevedono il sostegno non, velleitariamente, a pioggia, bensì a quegli istituti e a quelle facoltà universitarie in cui un gruppetto di docenti motivati riesce a predisporre progetti precisi di interventi educativi. Certo, non si tratta di metodologie infallibili: hanno esposto il fianco ad abusi e a distorsioni, ma in molti casi hanno prodotto risultati positivi. In ogni ipotesi, si tratta di procedere per contagio progressivo, a macchia di leopardo: un processo meno entusiasmante di una imposizione normativa nazionale, ma forse più realistico e produttivo. D’altronde, la pedagogia dei mafiosi insegna: per ottenere consensi al codice culturale di “Cosa nostra” e dintorni, i proclami non servono. Più efficace il lavoro persuasivo, silenzioso e quotidiano, di minoranze organizzate. Che, soprattutto, prediligano- rispetto allo spreco degli slogan - il linguaggio dei fatti concreti.

venerdì 14 dicembre 2007

LA PRIMA AGENDA ANTIMAFIA


Centonove 14.12.2007
Augusto Cavadi

L’AGENDA DELLA MEMORIA

Nel periodo natalizio piovono calendari, agende e strenne varie. Ce n’è per tutti i gusti: dalle donnine poco vestite che ammiccano invitandoti a goderti un po’ più la vita che scorre inesorabile ai padripii che ti indirizzano uno sguardo di malinconico rimprovero per tutti i tuoi peccati, reali o presunti. In tanto pullulare di proposte, quest’anno è possibile sceglierne una davvero originale: “l’agenda dell’antimafia” preparata dal Centro “Giuseppe Impastato” ed edita con la partecipazione di “Addiopizzo”, del Consorzio “Ulisse”, del “Centro servizi per il Volontariato” di Palermo e del Comune di Gela (una copia 10 euro, per acquisti tf. 091.6259789 o scrivere a csdgi@tin.it).

A prima vista, la struttura dell’agenda può dare un’impressione di tristezza: per ogni giorno dell’anno, si evoca in una didascalia a piè di pagina un anniversario luttuoso riguardante caduti nella lotta contro le mafie oppure vittime innocenti di stragi mafiose o anche vittime del banditismo. Alcune note sono dedicate, inoltre, a caduti nelle lotte per la democrazia o a vittime di stragi terroristiche in cui risultino coinvolte organizzazioni mafiose. Rileggere storie note e meno note, accompagnate spesso dalle foto di volti familiari o del tutto sconosciuti, non può che rinnovare l’amarezza per una guerra civile persistente che si combatte nel Sud d’Italia dal 1860 ai nostri giorni. Ma l’agenda non è stato pensata per diffondere scoramento. E’ stata piuttosto ideata e realizzata per spronare all’impegno concreto: come scrive Umberto Santino in una delle brevi e incisive note di presentazione pubblicate nelle prime pagine, “per legare memoria storica e impegni e scadenze del fare quotidiano”.
Mai come in questa fase - in cui i successi repressivi da parte di magistratura e forze dell’ordine s’intrecciano con coraggiose opzioni di rivolta da parte di commercianti e imprenditori tartassati dal pizzo - un moderato ottimismo è giustificabile: ma, affinché non si capovolga in cocente delusione, è indispensabile non allentare la morsa e moltiplicare i focolai di resistenza. Lo dobbiamo a quanti ci hanno preceduto e si sono spesi, senza riserve, per una società un po’ meno ingiusta; lo dobbiamo ai nostri figli, dal cui orizzonte dovremmo eliminare almeno alcune delle numerose e minacciose nubi che lo oscurano; lo dobbiamo a noi stessi, o per lo meno a quelli di noi (che non sono tanti, ma neppure pochissimi) che - con difetti e inadempienze e incoerenze e ritardi - da anni permaniamo nelle nostre terre per seminare consapevolezza e speranza, convinti di meritare un po’ più di democrazia e di libertà.
Avere questa agenda sul tavolo di lavoro o sul furgone che ci serve per trasportare disabili, spulciarla ogni giorno, regalarla e farla conoscere ai concittadini più disattenti è un modo - limitato ma concreto - di contribuire a rendere il 2008 un anno decisivo nella storia dell’antimafia.

giovedì 6 dicembre 2007

IL SINDACO E IL TRAFFICO


Repubblica – Palermo 6.12.2007
Augusto Cavadi

CHIUDERE IL CENTRO AL TRAFFICO: UNA SCOMMESSA PER IL SINDACO

E’ incredibile. Che una minoranza di cittadini possa decidere di procurarsi danni - e di imporre al resto della cittadinanza le conseguenze di questa voglia masochista - è incredibile. Quando una categoria di particolare rilievo economico per una città , non particolarmente esuberante dal punto di vista produttivo, avanza delle resistenze nei confronti dell’amministrazione pubblica, è comprensibile che si cerchi di capire le loro ragioni. Così molti di noi abbiamo cercato di ascoltare le motivazioni dei commercianti che, in questi giorni, si sono opposti alla chiusura di alcuni tratti del centro storico: ma, pur con la migliore predisposizione, non ne abbiamo trovato una sola che fosse convincente.

L’esperienza di tutte le città non solo europee, ma anche italiane, è ormai abbastanza prolungata per poter asserire che dal punto di vista biecamente mercantile le isole pedonali non abbattono le vendite (e i relativi guadagni) dei negozi. Certo, se si chiude solo qualche area di pochissimi chilometri quadrati e, per giunta, la si chiude per poche ore e saltuariamente, la gente non si adatta immediatamente alla situazione: ma se la chiusura riguarda una zona più ampia e, soprattutto, se è integrale e permanente, il quadro muta. La clientela impara a passeggiare serenamente, senza smog né rumori, nelle zone pedonali e, in questo clima di rilassatezza, non è certo meno proclive agli acquisti di quando deve attraversare vie intasate dal traffico e posteggiare abusivamente per pochi minuti col timore delle multe.
Come se ciò non bastasse, aree completamente vietate ai mezzi di trasporto inquinanti comportano un impressionante miglioramento della salute degli abitanti. E chi sono gli abitanti più esposti di un quartiere se non proprio i negozianti che vivono a livello della strada, spesso con le porte aperte? Quanti di loro contabilizzano, nel bilancio mensile, i malanni (faringiti, tracheiti, tosse, infiammazioni polmonari, irritazioni cutanee…) - con le relative assenze - cui espongono le proprie persone, i propri familiari, i propri dipendenti? E quanti di loro hanno idea dell’azione cancerogena - a medio e lungo termine - degli attuali livelli di inquinamento dovuto ai gas di scarico delle automobili, delle motociclette e degli autobus?
Catania, Messina, Siracusa, Trapani, Acireale, Marsala, Mazara del Vallo, Cefalù, Erice, Taormina sono centri siciliani dove - sia pure, in qualche caso, con eccessiva tolleranza per i trasgressori - delle più o meno ampie zone pedonali sono state già istituite: agenzie turistiche, pasticcerie, librerie, trattorie, commercianti hanno registrato un calo degli affari? Gli anziani, i bambini portati a passeggiare in carrozzella o in triciclo, le comitive dei turisti accompagnati in giro ne sono stati danneggiati?
L’attuale normativa dà al sindaco almeno due motivi in più, rispetto al passato, per imporre ciò che in coscienza ritiene opportuno per la qualità della vita della maggioranza o, come in questo caso, della totalità dei cittadini: è più forte rispetto alla variazione delle maggioranze nel Consiglio comunale e non può essere rieletto per la terza volta consecutiva. Almeno in questo caso, Cammarata darà - per altro in linea con i suggerimenti degli esperti della viabilità da lui stesso nominati - una prova della sua esistenza? Sarà disposto ad andare oltre i risultati ballerini dei sondaggi d’opinione per assumersi la responsabilità di una decisione politica e prepararsi a lasciare la città, come dovrebbe desiderare qualsiasi amministratore, un po’ migliore di come l’ha trovata?

sabato 1 dicembre 2007

IL COSTO DEI SERVIZI LITURGICI


“Repubblica - Palermo” 1.12.07
La giungla delle tariffe per nascite e matrimoni

Augusto Cavadi

Tra i tanti paradossi della cultura meridionale contemporanea si registra una schizofrenia nei comportamenti ‘religiosi’ del cittadino medio: da una parte diminuisce il numero di quanti si dicono cattolici convinti e praticanti, dall’altra regge il numero di quanti vogliono celebrare in chiesa gli eventi principali dell’esistenza. Così la frequenza statistica di battesimi, matrimoni e funerali in forma liturgica non accenna a diminuire, o per lo meno non nella misura in cui ci si aspetterebbe in base alle posizioni su questioni teologiche dichiarate.

Questo dato sociologico può essere letto da angolazioni diverse, non necessariamente confliggenti. Alcuni storici del cristianesimo, come don Francesco Michele Stabile, hanno sottolineato i rischi di una religiosità tradizionalista e conformista che non viene neppure sfiorata dal travaglio di accettare o meno il messaggio evangelico. Tra i rischi di un “cattolicesimo municipale” - ridotto a mera “religione civile” - don Stabile, parroco a Bagheria, da decenni sottolinea l’imbarazzante puntualità con cui i boss mafiosi partecipano alle manifestazioni religiose: come potrebbero, mancare se devono spacciarsi per uomini d’onore, ligi ai doveri morali e vicini ai sentimenti popolari? Nessuno, d’altronde, chiede loro di confrontarsi - preventivamente - con le esigenze di giustizia e di fraternità, in nome dell’unico vero Padre, che caratterizzano il vangelo di Gesù.
Se, e come, intervenire per modificare questa tendenza della secolarizzazione nel Meridione a succhiare la linfa vitale del cristianesimo lasciando inalterati i gusci vuoti delle abitudini sociali è una questione teologico-pastorale interna alla Chiesa cattolica. Chi osserva dall’esterno non può esimersi dal notare un paradosso nel paradosso, un enigma nell’enigma: la fedeltà della gente ai riti cattolici persiste nonostante la levitazione delle tariffe. Tranne qualche rara eccezione - guardata con scarsa simpatia dai confratelli, talora persino con aperto disappunto - anche in Sicilia la maggioranza dei preti esercita il ministero dietro compenso economico prefissato. La storia è vecchia e, come recita un proverbio popolare, “senza soldi non si canta neppure messa”, ma nell’attuale contingenza acquista caratteri particolarmente inquietanti: infatti, dalle informazioni e dalle lamentele che mi arrivano da più zone dell’isola, anche i preti - come i notai, i medici, gli avvocati, i meccanici, gli idraulici e i panettieri - si sono guardati bene dal tradurre le lire in euro con esattezza matematica. Non solo avviare le pratiche di dichiarazione di nullità del matrimonio, ma anche chiedere l’autorizzazione a sposarsi in una parrocchia diversa dalla propria o la celebrazione di una messa in suffragio di un caro defunto è diventato enormemente più costoso: anche fra le mura ovattate e semioscure delle sacrestie la monetina metallica dell’euro ha finito col sostituire la banconota di mille lire.
Pure questo aspetto della questione si presta a considerazioni da vari punti di vista. Nell’ambito cattolico c’è sempre qualcuno - ciclicamente - che si incarica di esprimere riserve, talora addirittura indignazione: vero è che, come è scritto anche nel Nuovo Testamento, “ogni operaio ha diritto alla sua mercede” e che, come pochissimi sanno, i preti in servizio nelle diocesi alle dirette dipendenze del vescovo non hanno mai formulato un “voto di povertà” (a differenza dei monaci e dei preti che fanno parte di Ordini religiosi, come i Cappuccini o i Gesuiti), ma è anche vero che c’è un problema di sensibilità e di buon gusto. Perché un servitore di Dio dovrebbe adeguarsi le entrate mensili con la prontezza di un parlamentare o di un manager d’industria e non condividere i lentissimi progressi dei dipendenti pubblici e privati? Non si tratta di inseguire il pauperismo, ma di rendere - con un tocco di sobrietà - il proprio ministero presbiterale un po’ più credibile. Era, fra tanti altri, il parere di don Primo Mazzolari che, ne Le pieve dell’argine, riferiva le parole di don Checco a don Stefano: ” Se la gente ci vedesse guadagnare il pane come loro e un po’ più onestamente di loro, la religione si farebbe strada senza molte prediche e molte organizzazioni. Una povertà sana è come il mio vino: porta via la sete e non ubriaca”. Tra i primi atti di Salvatore Pappalardo, nominato arcivescovo di Palermo, ci fu una circolare in cui chiedeva ai parroci di rendere pubblici i bilanci finanziari annuali in vista di una perequazione fra parrocchie di quartieri cittadini ricchi e parrocchie di paesini di montagna poveri. Ma, come ebbe a confidarmi direttamente, “da questo orecchio i miei preti non ci sentono: dopo un anno, di bilanci ne ho ricevuto due o tre”.
Osservata dall’esterno, la questione del tariffario per i servizi liturgici presenta qualche aspetto amaramente umoristico: può capitare anche a voi di ascoltare involontariamente, in attesa del turno in salumeria, una massaia che al cellulare passa all’amica la dritta sulla chiesa “giusta” di Ficarazzi o di Ballarò dove il prete è disposto a pronunziare a messa il nome del nonno defunto senza chiedere soldi (”se vuoi, puoi dare liberamente qualcosa quando passa il cestino delle offerte”). Si presta anche a domande più impegnative: perché la cultura laica non riesce a inventarsi dei modi propri, originali, di solennizzare nascite e morti? Perché - senza polemica contro nessuno, ma in alternativa al ristretto panorama attuale delle offerte di senso - non riesce a forgiarsi un suo linguaggio simbolico? E’ proprio indubbio che i matrimoni civili debbano avere un tono sbrigativo e squallidoccio e che solo in un tempio religioso si possa fruire di colori, di profumi, di canti, di brani poetici e di una riflessione - meditata e garbata - sulla bellezza e sulle trappole della vita di coppia? E’ proprio inevitabile che i funerali civili si svolgano in ambienti tristi e spogli, che in assenza di un prete non ci sia qualcuno - meglio ancora se, coralmente, l’intera cerchia dei parenti e degli amici sinceri - che sappia dare voce al dolore, al rimpianto, alla stima e alla speranza? “C’è bisogno di riti” abbiamo letto tutti quanti ne Il piccolo principe di Saint-Exupery. E’ verissimo. Ma la ritualità, che segna le tappe della nostra vicenda terrena e la tiene aperta - come direbbe Michele Perriera - al mistero che ci circonda e ci attende, si eredita come un soprammobile da salotto o come un giardino vivo da coltivare, rinnovare e ricreare ad ogni generazione?