martedì 30 gennaio 2007

L’ALTRA META’ DEL CIELO


“Mezzocielo”, 2007, anno XV, N. 1

Augusto Cavadi 

UN UOMO DAVANTI AL PIANETA DONNA 

Per diventare misogino, essere cattolico non è necessario. Ma aiuta. Non è necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta:  infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarietà di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano può considerarsi “imago Dei” solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si dà) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunità celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passò per un episodio preciso. Un prete più anziano di me - per altro tra i più preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovò spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: “Ma hai proprio un cervello da femmina!”. Obiettai solo, con un sorriso amaro,  che speravo di averne metà femminile e metà maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere ‘completo’.
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da René Girard il più grande teologo dopo san Paolo): c’è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa è stata la ‘buona notizia’ annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, più in generale,cristiana) che si è sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesù, la maschilità esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di sé e, proprio per questo, a non aver paura del femminile fuori di sé. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura è stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si è fatto senso comune e ha improntato di sé l’occidente cristiano.Se ci chiediamo se questa mentalità della disparità ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensì un groviglio  - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversità. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosità e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguità e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversità (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici…), il sapore della familiarità rispetto al sentimento di estraneità. Ovviamente, familiarità non equivale ad omologazione. Avvertire ciò che, in radice, accomuna non implica cecità riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze. Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’è chi accetta la sfida della diversità (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversità) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’è chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non è un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo…E’ di per sé evidente che questa mentalità sia - già a livello ideologico - violenta. Ma, poiché in genere il diverso è più debole (fisicamente, economicamente, militarmente…), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione…Quando un soggetto allergico alla diversità si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro,  ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosità, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni ‘alterità‘, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da sé la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre più profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con ciò, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sarà proprio perché amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi  in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Ciò non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata  - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.

venerdì 26 gennaio 2007

I LIBRI DI DANIELA MUSUMECI


Centonove
26.1.2007

FIGURA DI DONNA

Perché si sceglie di leggere proprio questo o quell’altro libro tra la marea di titoli che tracimano dagli scaffali delle biblioteche e dai banconi delle librerie? Nel mio caso, molto spesso, per cause davvero occasionali. Quasi capricciose. Per esempio perché te lo ha regalato una persona - forse l’autore stesso - particolarmente gentile. Così è stato col dittico Doveri di allegria e Devota come un ramo (entrambi per i tipi dell’Ila-Palma di Palermo ed entrambi del 2006) di Daniela Musumeci, una dolce e vispa creatura che, ormai da decenni, raramente manca un appuntamento importante per la vita sociale e culturale del capoluogo siciliano. Come me, anche Daniela è arrivata alla fase dei bilanci esistenziali: in quella fascia d’età in cui si è vissuto abbastanza per doverli fare, ma non tanto da non poterne trarre giovamento.

Daniela è insegnante di filosofia: ma – sorpresa ! – per raccontare a sé stessa, prima ancora che ad altri, il filo della propria storia ha privilegiato il registro poetico. Sia in Doveri di allegria dove raccoglie solo componimenti lirici sia in Devota come un ramo in cui alterna il genere letterario lirico con delle prose di difficile catalogazione dove - quasi per associazione psicanalitica di idee - srotola immagini mitiche, eventi storici, citazioni dotte… a partire da alcune parole fondamentali come acqua, aria, fuoco o terra.
Ma è davvero l’autrice a privilegiare il registro poetico o, piuttosto, come lei stessa si esprime riecheggiando (non so quanto consapevolmente, il persiano medievale Al-Rumi) “la poesia ci è data, donata:/ci attraversa e ci suona./Noi siamo come flauti o conchiglie:/l’aria ci colma e ci percuote”? Come che sia, è in versi che Daniela narra alcune delle tappe più salienti della sua intensa esistenza: i suoi amori (“Tu,nomade mago,/fosti sapienza e passione,/estasi e strazio nelle viscere”); le sue lotte contro i missili a Comiso e contro i mafiosi (“Digiune/abitammo una piazza/abitate da un dolore/per trasformarlo in festa/coi corpi in rivolta”); la memoria delle compagne e dei compagni che “A uno a uno se ne vanno,/le mani ruvide il cuore petroso”, come Isidoro Fogazza, Salvo Restivo e Giuliana Saladino, lasciando i superstiti a tentare di riannodare “i fili rotti”; le sue laicissime preghiere sussurrate all’ombra del doloroso “silenzio/ del dio assente/del dio nascosto”); la sua cittadinanza planetaria (“Sono armena:/la madre di mia madre riarsa di freddo e di fame/tra le rocce della Cappadocia nel 1916./ Sono ebrea: / la donna che mi ha dato la vita/ gasata a Birkenau nel Quarantatre./ Sono hutu: /mia sorella dissanguata/appena fuori le porte di Kinhasa./Sono tutsi … palestinese… curda… afghana… nigeriana … iraquena… bianca… israeliana… americana…. italiana…. / Apolide infine/ e senza nome/non più in volo/mi accascio stremata”). Nel complesso, si staglia la figura di una donna – non certo avara di sentimenti – in cui potranno riconoscersi numerose lettrici, ma anche lettori: “Per vivere, ho vissuto/intensamente/di letto in letto/di casa in casa/di piazza in piazza,/nei nord del sud/nei sud del nord./Amare, ho amato/senza riserve/con qualche errore./Amata, sono stata anche amata,/ finché l’incontro dileguava/in commiato./Per vivere, ho vissuto intensamente./Ora però/sono un poco stanca”. Una figura femminile che i tocchi di amara autoironia rendono ancora più amabile: “Fossi povera,/sarei già in manicomio,/ma siccome ho studiato/posso scrivere libri”.
E’ questa personalità, poliedrica e inquieta, che ha pubblicato anche - prendendone a prestito il titolo da Cristina Campo – la silloge, di prose e liriche, Devota come un ramo. Qui la frequentatrice di saggistica è più presente; se vogliamo, è più presente la filosofa, ma a patto di non associare il termine a personalità esangui e cerebrali: Daniela sta infatti dalla parte della “filosofia delle viscere” di Maria Zambrano e del “pensiero del cuore” di Hillman. Invano si cercherebbe dunque la cogenza delle dimostrazioni logiche: pregio o difetto che sia, la sua è una proposta intuitiva, rapsodica, che procede di lampo in lampo. Quasi la rappresentazione letteraria del “pensiero nomade nonviolento, vicino al pacifismo, al femminismo, all’ecologia e al comunismo libertario” in cui ella sembra riconoscersi. Vari gli spunti, o i pretesti, di questi excursus: ora il velo (“tutto ciò che ci tocca profondamente viene avvolto da un velo, battesimale o nuziale o infine sudario”); l’acqua (nella sua inestricabile “doppiezza”: “sereno gioco di raggi e suoni o triste, oscura profondità”); il fuoco (anch’esso segnato, “come ogni elemento naturale nel mito”, da “duplice valenza: purifica o danna, scalda e protegge o distrugge”); l’aria (che è elemento fisico appena palpabile, ma anche “Psyche, anima, e Pneuma, soffio vitale”); la terra (che “possa divenire un locum amoenum piuttosto che un’orribile cava di rifiuti dipenderà dalle scelte di ciascuno di noi, dalle nostre pressioni sui potenti, da una assunzione di responsabilità etica prima che politica”).
Queste divagazioni sono comunque collegate, come perle, da un filo conduttore: l’intreccio inestricabile, in “ciascuno e ciascuna”, di “Eros e Logos” o, se si preferisce, “il cuore, la testa e le mani”. Ed è un intreccio che viene professato - o più ancora testimoniato – senza futili orgogli intellettualoidi, bensì con la dignitosa umiltà di chi è approdato ad una religiosità “non confessionale”, “in cerca di nessun imprimatur”, ma non per questo meno autentica e vivida. La religiosità di chi, avendo a lungo battuto le strade del mondo, sa riconoscere che “il mistero ci viene incontro sulla soglia, come un dono gratuito che esige consentimento e si rivela gioco amoroso”. E sa, conseguentemente, atteggiarsi – concretamente – di fronte a uomini, animali e cose con tatto delicato, nella profonda convinzione che “tutto può farsi preghiera, la potatura di un albero in giardino come la composizione di una lezione di filosofia o di una poesia, la distribuzione delle ciotole ai gatti come una lettura di tarocchi, poiché l’abito interiore è quello suggerito da Rabindronath Tagore: ”.

martedì 23 gennaio 2007

ALTRE CULTURE


Repubblica - Palermo
23.1.2007

ANTONIO SERINA
Africa. Pagine di un diario.
Di Girolamo
Pagine 141
14 euro

L’autore ha lavorato per anni in Africa e vi ha svolto delle ricerche etno-antropologiche di cui ha dato conto in pubblicazioni scientifiche (come il recente Miti e riti dei Lotuho del Sudan Meridionale). In questo agile volumetto - edito con la medesima casa editrice, ma destinato ad un pubblico più vasto e consigliabile anche nelle scuole come strumento di educazione al multiculturalismo - si mettono in luce, attraverso la forma accattivante del racconto autobiografico, aspetti peculiari della visione del mondo dei popoli africani. Con molto rispetto, anzi con sincera empatia, si cerca di approfondire il significato di istituzioni e costumi (la contrattazione matrimoniale con lo scambio donne-bestiame, la poligamia, la famiglia allargata, le ubriacature di gruppo…) che la nostra mentalità occidentale è incline a condannare ancor prima di analizzarli. Alla fine, il lettore avrà degli attrezzi in più per conoscere non solo comunità lontane che probabilmente non visiterà mai, ma anche individui e famiglie che ormai popolano i quartieri storici delle nostre città.

venerdì 19 gennaio 2007

IL CASO WELBY VISTO DA POHIER


“Centonove” 19.1.07

LA MORTE OPPORTUNA

Quante migliaia di persone muoiono ogni giorno di morte violenta, evitabile, scandalosa? Tra bambini, adulti e vecchi privi di cibo e di acqua, di medicine e di mezzi per riscaldarsi; tra vittime del terrorismo fanatico di alcune frange minoritarie e del terrore sistemico da parte di governi democraticamente eletti; tra vittime di incidenti stradali e di litigi privati…la contabilità è difficile. Ci siamo assuefatti a queste morti inutili, insensate, ma almeno se ne parla. Di un numero non certo inferiore di decessi silenziosi, invece, si tace. Specie nei paesi occidentali, si allunga la durata della vita (e nessuno si sogna di rimpiangere questi progressi della medicina): ma, con essa, la durata della vecchiaia anche in condizioni di incoscienza, di totale dipendenza e persino di sofferenza fisica. Sommati agli ammalati di varie forme di tumore, questi degenti sepolti nelle case e negli ospedali costituiscono una massa enorme e crescente da cui i ‘sani’ preferiamo distogliere l’attenzione. Ogni tanto un grido di disperazione, come l’appello di Piergiorgio Welby in questi giorni, prova a squarciare il velo dell’indifferenza: ma è questione di qualche ora soltanto.

Questa marea di dolore sommerso pone invece interrogativi pressanti: perché in Italia sono ancora pochissimo usati i rimedi farmacologici antalgici? Perché tanta incertezza sulle varie forme di accanimento terapeutico? Perché i medici sono abbandonati, culturalmente e legislativamente, alla solitudine della loro responsabilità davanti ai pazienti che chiedono di interrompere l’agonia?
Proprio perché si tratta di domande di rilievo sociale ben più ampio rispetto alle categorie professionali degli operatori della sanità, molto interesse ha riscontrato la decisione della “Società italiana per le cure palliative” di aprire con una tavola rotonda pubblica il congresso (Palermo 30 novembre – 2 dicembre) dedicato a fare il punto sulla situazione siciliana e a confrontarsi con gli amministratori regionali. Con i partecipanti (medici e psicologi, ma anche teologi e filosofi) la discussione – più che su un tema circoscritto – si è srotolata a trecentosessanta gradi su un ampio ventaglio di problematiche scottanti: a partire da alcuni dati di fatto e da alcuni pregiudizi da sfatare. Tra i dati di fatto: la prima legge istitutiva di strutture sanitarie (i cosiddetti hospice) in Italia è stata emanata, con decenni di ritardo rispetto ad altre nazioni europee, solo nel 1999 e tuttora la sua attuazione è parziale. In Sicilia siamo ancora ai primi - lodevoli ma insufficienti rispetto al crescente bacino di utenti - passi. Anche nella pratica medica quotidiana prevale la resistenza al ricorso (per altro recentissimamente raccomandato dal Ministro della Sanità) agli analgesici leggermente o fortemente oppiacei. Quanto all’eutanasia, anche questa viene affidata ipocritamente all’iniziativa clandestina di medici, infermieri o familiari. Se poi si cerca di capire cosa stia alla base di tanta reticenza, si scopre l’incidenza distruttiva di quella “teoria implicita del dolore” (l’espressione è di Jacques Pohier nel suo preziosissimo La morte opportuna, Avverbi, Roma 2004) che, per una miscela perversa di equivoci ideologici, lo fa ritenere ad alcuni spiritualmente edificante, ad altri clinicamente utile per seguire il decorso delle patologie. Proprio su questo fronte dei pregiudizi culturali i formatori d’opinione (dagli insegnanti nelle scuole ai giornalisti, dai preti ai medici di base) avrebbero molto campo da arare. A cominciare dal chiarimento dei termini: le cure palliative non sono illusorie, ma curano davvero i sintomi delle malattie reali. E non costituiscono “tutto ciò che si può fare quando non c’è più nulla da fare” perché possono non solo subentrare alle cure terapeutiche, ma anche accompagnarle per lenirne gli effetti collaterali indesiderati. Affinché questa rivoluzione mentale si attui, la strada è tutta in salita: non c’è solo l’insensibilità dei medici (nel cui curriculum di studi è quasi sempre assente la terapia del dolore), ma l’ineducazione dei pazienti (disposti a sopportare passivamente gli effetti negativi dell’impreparazione dei medici).
Non c’è dubbio che il dissenso fra le varie prospettive scatta soprattutto quando ci si interroga sui casi estremi di richiesta, da parte di un soggetto in grado d’intendere, di porre fine alle sue sofferenze mediante o l’eutanasia o l’assistenza medica al suicidio. L’autore francese (teologo e psicanalista, oltre che militante del movimento “per il diritto ad una morte dignitosa”) che ho appena citato segnala, in proposito, alcune considerazioni che meriterebbero d’essere riprese e diffuse. Una prima considerazione parte dall’obiezione corrente che il giuramento d’Ippocrate vieterebbe, dal punto di vista deontologico, al medico di favorire la morte del paziente. Ma, “prestandosi a un’eutanasia volontaria, il medico non tradisce la sua vocazione di servire gli esseri viventi (…) perché non prende alcuna decisione in materia di vita o di morte. Il suo ruolo si limita - tale verbo non si addice a un ruolo così importante – ad aiutare il malato a vivere nel miglior modo possibile la sua scelta tra differenti modi di morire” (pp. 128 – 129).
Altre due considerazioni riguardano l’opinione che un credente della tradizione ebraico-cristiana debba condannare ogni autodeterminazione del malato, anche in senso estremo, come bestemmia teologica. Ma – controbbatte Pohier - non è san Tommaso d’Aquino, il teologo ufficiale della chiesa cattolica, a scrivere che l’uomo è immagine di Dio in quanto “dotato di intelligenza, di libero arbitrio e di dominio sui propri atti” (p. 19)? E – poi – non è stata proprio la Bibbia a desacralizzare il culto generico della “vita” (in polemica con le religioni della fecondità umana, animale e vegetale) sostituendovi la cura dei singoli, unici, irripetibili “viventi” (perché ogni persona è “santa” ed “amata da Dio”)? Se ciò è vero, si capisce perché il pensatore umanista Thomas More (per altro proclamato martire e santo) trovasse logico prevedere, nella sua città ideale, che “sacerdoti e magistrati” potessero esortare un paziente “inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a sé stesso”, a non “sopravvivere alla propria morte”, ma a “liberarsi lui stesso da quella vita amara” ovvero a “consentire di sua volontà a farsene strappare gli altri” (cfr. p. 179). O perché il poeta romantico Rainer Maria Rilke non ritenesse di porsi fuori dall’alveo della tradizione cristiana quando chiedeva: “Concedetemi di morire della mia morte, non della morte dei medici”. Solo se si evita di trasformare alcune malattie in una lenta agonia, e ogni agonia in maledizione, quando sarà il nostro turno potremo accogliere la morte non certo con entusiasmo, ma almeno con serenità.

martedì 16 gennaio 2007

UNA NUOVA STRADA


“Repubblica – Palermo”
16.1.07
IL FILOSOFO CONSULENTE DI FAMIGLIA

Richiesto di formulare una proposta per il terzo millennio, il Nobel per la letteratura José Saramago ha risposto: “Ritorno alla filosofia che significa ritorno a pensare”. Non che si debba diventare tutti quanti filosofi di professione, bensì riscoprire “la riflessione, l’analisi, lo spirito critico e libero, la capacità di circolare nell’universo umano dove concetti di ogni tipo si scontrano, si incontrano, si uniscono, si separano” (Pensar, pensar y pensar. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006). L’intento è lodevole, ma come realizzarlo? Una delle possibili vie: che i filosofi di professione decidano (se ne hanno voglia e qualche attitudine) di mettersi al servizio dei non-filosofi per stimolarne il cervello. L’ipotesi sarebbe di creare spazi, occasioni, in cui anche il sindacalista o il medico, il pensionato o la casalinga abbiano l’opportunità di prendere coscienza delle proprie idee sulla vita e sulla morte, sulla felicità e sul dolore, sull’amore e sulla guerra…; di confrontarle con le idee altrui; di riassestarle in maniera un po’ più organica ed - eventualmente - di correggerle.

Da un po’ più del ventennio, dalla Germania un po’ in tutto il mondo, si va perciò diffondendo una nuova figura professionale: il ‘consulente filosofico’ o, come forse sarebbe preferibile, il ‘filosofo - consulente’. In cosa consisterebbe la novità di questa professione? Per certi versi, nulla di inedito. Nei secoli, molto spesso i maestri si sono rivolti ad altri in atteggiamento ‘maieutico’ (anche se abitualmente per cerchie ristrette di discepoli) nella convinzione, efficacemente espressa da Kant, che occorra insegnare a filosofare piuttosto che trasmettere filosofie belle e pronte. Ma, per altri versi, si tratta di una revisione profonda del mestiere di filosofo. Intanto per l’aspetto esteriore, sociologico, del pubblico: non dovrebbe limitarsi ad una cerchia di discepoli ma – ampliandosi il più possibile - includere uomini e donne che non siano filosofi di professione e che non abbiano nessuna intenzione di diventarlo. Gente ‘comune’ che può decidere di chiedere un sostegno alla propria riflessione razionale, in assetto duale o all’interno di un gruppo, per un periodo limitato della sua vita e in vista di una tematica specifica (la decisione se generare un figlio, la perdita di una persona cara, la scelta di una carriera professionale e così via). Un secondo aspetto innovativo di questa professione è più intrinseco, qualitativo. Come ha notato un cattedratico di lungo corso, Pier Aldo Rovatti, nel recentissimo e fortunato La filosofia può curare? (Cortina, Milano 2006) la stragrande maggioranza degli studenti che si iscrivono in filosofia lo fa perché avverte dei problemi esistenziali e spera di trovare delle indicazioni illuminanti; ma dopo due o tre anni di frequentazione accademica il “desiderio di filosofia” viene frustrato e il “legame tra filosofia e vita” “fortemente penalizzato” , se non addirittura “del tutto spezzato” . Dunque non si tratta di moltiplicare i laureati né di aggiungere corsi di specializzazione se non si accetta, sperimentandolo e testimoniandolo, che “la filosofia stessa sia una pratica e un esercizio, prima e piuttosto che una produzione di metodi o canoni atti a dirigere il pensiero”.
La Sicilia non è rimasta estranea a questo dibattito. Proprio in questi giorni l’Università di Enna ha inaugurato un master in Pratiche filosofiche con l’apporto decisivo di un gruppo di docenti dell’Ateneo catanese. Due studiosi del quale, Rosaria Longo e Davide Miccione, hanno raccolto in volume (Vivere con filosofia. La consulenza come pratica, Bonanno, Acireale 2006) gli Atti di una “Giornata internazionale di studio” del 2005. Ricche e articolate le prospettive presentate sia da illustri cattedratici (come Carmelo Vigna, Enrico Berti ed Andrea Poma) sia da pionieri della consulenza filosofica (come Eckart Ruschman, Paola Grassi e Neri Pollastri). Quest’ultimo - che ha aperto da anni uno studio professionale a Firenze - ha sottolineato con lucidità le affinità, ma anche le radicali differenze, fra le pratiche filosofiche e le pratiche psicoterapeutiche: tutte mirano ad aiutare il cliente, ma le prime non si concentrano sui “risultati” immediati e non si muovono in una “logica strumentale”. Si propongono, piuttosto, una crescita nella saggezza (dunque la capacità del consultante di liberarsi dalla mentalità dominante della delega agli ‘esperti’ e di afferrare le redini della propria vita) e solo come effetti collaterali desiderati le risoluzioni di dilemmi esistenziali concreti. Poiché molti neo-laureati in filosofia hanno espresso il desiderio di poter sperimentare anche in pratica come funziona questa nuova attività, lo stesso Neri Pollastri ha tenuto a Palermo, qualche settimana fa, un laboratorio propedeutico. A conclusione della giornata si è pervenuti alla decisione di raccogliere le adesioni all’attivazione, nella nostra regione, di un primo itinerario formativo riconosciuto ufficialmente da “Phronesis”, la più autorevole associazione di filosofi consulenti italiani.

venerdì 12 gennaio 2007

IL VESCOVO DI TRAPANI CRITICA I CONTRIBUTI AGLI ENTI RELIGIOSI


“Centonove” 12.1.07

Micciché e le strenne natalizie

Il 30 dicembre, sulla pagina locale di un quotidiano a diffusione regionale (“Giornale di Sicilia”), il vescovo di Trapani legge un articolo sui contributi regionali agli enti di culto che non lo entusiasma per nulla. Trova un po’ sproporzionata la scelta di indicare genericamente la somma complessiva elargita a vari enti della provincia (1.409.571,00 euro) e di soffermarsi, in dettaglio, esclusivamente sulla piccola quota (8.100 euro) destinata in particolare alle comunità cattoliche (che vengono, invece, citate una per una). Se questa scelta fosse stata motivata da intenti scandalistici o denigratori, forse il presule avrebbe taciuto. Ma ciò che lo indigna è il sospetto che l’articolo sia stato suggerito dal deputato regionale Paolo Ruggirello, al quale viene attribuito esplicitamente il merito dello stanziamento regionale. Da qui la decisione di prendere carta e penna per una lettera - riservata ma non troppo – indirizzata all’assessore Paolo Colianni e, per conoscenza, allo stesso Ruggirello.

Dopo aver evocato l’appello del Presidente della Repubblica ( “Non allontaniamoci dalla politica”), monsignor Francesco Micciché si chiede, “con preoccupata responsabilità”, a quale “politica” vengano, di fatto, invitati, i cittadini. Infatti – prosegue - “il criterio di assegnazione di detti contributi suscita in me indignazione e sconcerto per il modo disinvolto con cui, purtroppo, vengono gestite le risorse pubbliche”.
Poiché certe elargizioni un po’ arbitrarie, e dal sapore vagamente clientelare, non sarebbero possibili se non trovassero delle mani aperte, pronte a ricevere, il pastore della chiesa trapanese ammette onestamente la corresponsabilità da parte ecclesiastica: “D’altro canto, anche per quanto riguarda gli enti di culto interessati, che si sono adeguati, senza forse rifletterci troppo, a questo sistema, non posso non manifestare riprovazione con la segreta speranza che non cadano per il futuro in simili tranelli. A nessuno è lecito svendere in cambio di un piatto di lenticchie il bene più grande della libertà e della profezia”.
Per il futuro dunque, Micciché si augura un’ attenta e concreta vigilanza per superare “un modo di fare politica che, in coscienza, reputo di scarsa valenza morale; politica che crea dipendenza, servilismo, cultura sociale inquinata”. Ma che può significare ciò in concreto se non una duplice, reciproca, sobrietà da parte dell’amministrazione regionale nel dare e del mondo cattolico nell’accettare? Da qui la conclusione. Che rivolta ai due politici destinatari della missiva è di liberarsi da una visione della politica “in termini di clientela, governata con una gestione non rispettosa della cosa pubblica e con una progettualità che appare sganciata dal bene comune, da un sano sviluppo del territorio, dalla vocazione propria di questa terra”. E, rivolta ai parroci e agli istituti religiosi destinatari dei contributi finanziari per arredi sacri e spese analoghe, significa invito a ricredersi sull’innocenza della “strenna natalizia”: “Mi vergogno e faccio mea culpa anche per quanti si sono prestati a questo stupido gioco. Se fossi io a decidere, rimanderei tutto al mittente”. Forse chi a natale si è tanto inorgoglito per i favori elargiti ai cattolici del proprio collegio elettorale non si aspettava di ricevere, per la befana, un ringraziamento di questo tenore.

venerdì 5 gennaio 2007

GIORNALISMO OGGI: QUALI REGOLE?


Centonove 5.1.07

Per un’etica del giornalismo

Nel panorama del cattolicesimo italiano Giuseppe Savagnone rappresenta un punto di riferimento intellettuale significativo. Alcune sue posizioni (per esempio, negli anni di Tangentopoli, la critica faziosamente garantista alla magistratura) mi son sembrate francamente inaccettabili, ma - al di là dei contenuti particolari - ho trovato il suo modo di praticare l’attività riflessiva tanto apprezzabile quanto raro: a differenza - infatti - della stragrande maggioranza dei suoi colleghi, per i quali fare filosofia significa sapersi muovere agevolmente fra i testi più o meno classici e fra le novità bibliografiche della letteratura critica, egli preferisce pensare sulle cose. Su questioni precise che emergono dall’esperienza, personale o sociale.

Questa attenzione alla concretezza ed alla quotidianità ha indotto il pensatore palermitano ad occuparsi, in un quarantennio di instancabile attività di conferenziere e di scrittore (decine di titoli, alcuni dei quali tradotti in lingue straniere, con editori di rilievo nazionale), di tematiche che angustiano - o, per lo meno, interessano - ampie fasce di opinione pubblica avvertita: dalla didattica alla mafia, dalla bioetica alla politica, dalla spiritualità all’impegno sociale. Caratteristica costante - pregio o difetto secondo i punti di vista - della sua produzione è di attraversare lo spessore ‘materiale’ dei dati di partenza con uno sguardo che tende verso un punto di vista ulteriore: letteralmente ‘meta-fisico’.
E’ l’atteggiamento intellettuale con cui ha riflettuto sulla sua attività di pubblicista (editorialista di varie testate, tra cui “Avvenire” e “Giornale di Sicilia”) sul suo recentissimo Sotto il segno di Hermes. La comunicazione giornalistica dal conflitto alla democrazia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2006). Non è (o non è soltanto) un breviario deontologico per gli operatori della televisione, della radio e della carta stampata: “in un momento in cui la figura tradizionale del ‘maestro’ sembra essere definitivamente tramontata, coloro che ne hanno preso il posto sono i giornalisti o comunque coloro che, attraverso i mezzi di comunicazione, esercitano la funzione di opinion leader. Ciò ha una particolare rilevanza ai fini della elaborazione di un’etica pubblica e della maturazione di una coscienza politica diffusa”. La questione viene dunque inscritta nel contesto più ampio del senso di una convivenza democratica: quanto può resistere un regime democratico se, come attestano continuamente le statistiche per il nostro Paese, la popolazione legge poco e guarda il peggio dei programmi televisivi? E come uscire dal circolo vizioso di un’offerta che si adegua ad una domanda poco qualificata e, così facendo, abbassa ulteriormente il livello qualitativo della domanda?
Ovviamente il libro non propone ricette, nel senso moralistico o strumentale, ma invita chi lavora nel campo della comunicazione sociale e chi ne fruisce come cliente a rivedere i propri atteggiamenti: troppo spesso di estraneità o di ironico disprezzo (reciproco). Più in radice, si tratta di rivedere criticamente la dimensione di conflittualità presente nei processi comunicativi: non per demonizzarli o tentare (per altro inutilmente) di nasconderli, ma per imparare a gestirli costruttivamente. Non c’è dubbio che un rapporto biunivoco lega chi fa un giornale con chi lo legge: il primo ha dalla sua un potere culturale, il secondo un potere economico. Se chi scrive “privilegia lo scoop rispetto alla descrizione documentata dei fatti, l’insistenza morbosa su episodi di cronaca nera o rosa, la polemica aggressiva rispetto alla critica argomentata”, di fatto esercita una violenza sull’intelligenza del lettore; ma se questi continua ad acquistare i giornali peggiori e ad evitare i migliori, o ad assistere alle trasmissioni televisive più squallide, da vittima si trasforma in complice.
Traducendo le ragioni etiche in scelte economiche capillari (purtroppo questo aspetto viene solo sfiorato da Savagnone, distratto da un’ottica spiritualistica), si potrà forse attivare un circolo virtuoso: così da eliminare gradualmente dal vocabolario dell’uomo della strada la valenza dispregiativa dell’aggettivo ‘giornalistico’ (sinora inteso come sinonimo di superficiale, approssimativo e mistificante) e da indurre, dall’altro lato, i giornalisti ad adeguare i propri registri linguistici ad un pubblico ‘reale’ che non è così istruito e raffinato come lo immaginano alcuni, ma neppure così rozzo e credulone come se lo rappresentano altri.