giovedì 28 febbraio 2008

CUFFARO E L’ASPETTO ECCLESIALE


www.cdbitalia.it

“Primo piano”
28.2.2008

Cuffaro: l’aspetto ecclesiale della vicenda

Le vicende di Salvatore Cuffaro spiccano non per la loro inedita novità (altri presidenti di giunte regionali siciliane hanno subito in passato pesanti condanne penali) quanto per il genere di reato di cui è stato ritenuto colpevole da un tribunale di primo grado: favoreggiamento di boss mafiosi a cui ha fatto pervenire informazioni riservate su provvedimenti (per esempio intercettazioni ambientali) decisi a loro carico. Tra le numerose considerazioni circolate in questi giorni drammatici sui giornali e fra la gente, la meno nota riguarda l’aspetto ecclesiale della vicenda, circondata da silenzi tombali che solo voci isolate, pericolosamente isolate, hanno avuto in queste ore il coraggio di infrangere. Cuffaro non è solo un cattolico convinto e praticante, ma un cattolico che ha fatto della sua appartenenza ecclesiale una bandiera da esporre ai quattro venti. Ha chiamato un prete di periferia, generoso quanto ingenuo, a ricevere - in una stanza del Palazzo d’Orleans - i questuanti giornalieri cui distribuire elemosine e piccoli doni. Ha persino ritenuto opportuno supplire alla disattenzione dei vescovi siciliani, assumendo l’iniziativa plateale di consacrare la Sicilia alla Madonna delle lacrime di Siracusa. Ebbene, non è per lo meno strano che nessun esponente autorevole della comunità ecclesiale si sia fatto avanti in questa occasione per chiedergli un gesto di coerenza con gli ideali evangelici da lui strombazzati in tempi opportuni e inopportuni? Sinora si è appreso pubblicamente solo che alcune comunità si sono raccolte in varie chiese della Sicilia per pregare per lui prima della sentenza e che, dopo la sentenza, il parroco di Cuffaro, don Aldo Nuvola, abbia chiesto, a conclusione della celebrazione eucaristica domenicale, la solidarietà a un uomo ingiustamente perseguitato (”come Andreotti”) dalla “casta cattiva dei magistrati”. In senso contrario, solo una comunità cattolica di Ballarò ha avvertito il bisogno di chiedere perdono a Dio e ai concittadini per il pessimo esempio che il confratello Cuffaro ha dato e dà con i suoi reati (se saranno confermati anche in secondo e in terzo grado), con le sue frequentazioni e con il suo stile clientelare (che non hanno bisogno di nessuna conferma essendo da decenni davanti agli occhi di tutti).

Augusto Cavadi

Carabinieri e Guardie di Finanza a scuola di nonviolenza


“Repubblica-Palermo”
27 febbraio 2008

FORZE DELL’ORDINE A LEZIONE DI NONVIOLENZA

Soprattutto se siamo abitualmente severi con noi stessi, abbiamo il diritto - anzi l’obbligo - di mettere in evidenza i primati positivi della nostra città. Palermo non ne ha molti, ma tra questi pochi c’è un’attiva minoranza di cittadini che ha scelto di mettersi alla scuola della nonviolenza gandhiana. Che è scuola di pensiero, di studio, di riflessione critica, ma anche - inseparabilmente - laboratorio pratico di esperimenti creativi. E proprio a Palermo si è realizzato un esperimento d’avanguardia: trenta operatori della Guardia di Finanza, prima, quaranta membri dell’Arma dei Carabinieri, poi, hanno seguito - del tutto volontariamente - un corso di formazione alla nonviolenza proposto da Andrea Cozzo, che di questa disciplina si occupa ormai da anni nella Facoltà di lettere e filosofia del nostro Ateneo.

Da pochi giorni è disponibile anche in città (presso la libreria delle Paoline) un numero speciale dei Quaderni di Satyagraha in cui quelle due sperimentazioni sono raccontate con tutti i dettagli e i documenti desiderabili. Già solo il titolo del quaderno - Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale per le Forze dell’ordine - lascia intendere che si sia trattato, come scrive il questore Nicola Zito, di una “scommessa ardita”. Gli scontri ricorrenti fra manifestanti e forze di polizia - che hanno toccato anche in Sicilia punte tragiche come l’uccisione di Raciti a Catania - farebbero supporre che il dettato costituzionale (secondo cui la polizia di Stato avrebbe il compito di intervenire “come strumento di tutela dei diritti contro la violenza, intesa come sopraffazione e grave lesione dei diritti dell’uomo”) sia destinato a restare sulla carta, senza nessuna incidenza concreta. E non è un caso che dalle nostre parti sbirru - il termine dialettale con cui si denominano i membri delle Forze dell’ordine - venga usato abitualmente (tranne quando qualche assessore regionale, mentre si intrattiene affabilmente con amici mafiosi, lo intende in senso vezzegiativo) come offesa, denigrazione infamante.
Solo un’inversione radicale di tendenza, nella mentalità e conseguentemente nello stile ordinario dei cittadini in divisa, può indurre nei concittadini - che talora a torto, talora a ragione, si ritengono vittime più che beneficiari - un mutamento di prospettiva e di atteggiamento nel rapportarsi con chi ha, anzi dovrebbe avere, il monopolio delle armi.
Come è facile intuire - e come questi preziosi racconti confermano - non si tratta di indebolire le ragioni della legalità né, ancor meno, di privare di mezzi coercitivi necessari chi è istituzionalmente deputato a farle rispettare. Si tratta, piuttosto, di ripensare i fini e le modalità di esercizio degli apparati repressivi: di inserirli in una “cultura del servizio” che sradichi anche solo l’apparenza di una condizione di privilegio di chi può dare ordini e farsi obbedire. A tale scopo Cozzo suggerisce ai suoi interlocutori di abbandonare il modello sanzionatorio per adottare un modello relazionale. Più precisamente, un modello di relazione terapeutica, di cura: “come il medico cerca di combattere la malattia ma non il malato e, anche quando ritiene di non potere riuscire nell’intento senza asportare tutta intera la parte malata, cerca di non infliggere sofferenza al malato (per esempio somministrandogli un anestetico) , così noi cerchiamo di combattere l’ingiustizia ma non colui che è ingiusto, cioè l’azione ma non la persona, e anche quando non riusciamo a fare la prima cosa senza la seconda, possiamo pur sempre almeno preoccuparci di ridurre al minimo quest’ultimo aspetto”.
Indicazioni di questo genere, istruttive in tutta Italia (non è un caso che Cozzo abbia riproposto il corso di formazione anche ai Vigili Urbani di Pescara), sono singolarmente urgenti per territori in cui forti organizzazioni criminali prosperano in un clima di “alegalità sistemica” (La Spina). In cui, per dirla semplicemente, la legge è uguale per tutti, tranne che per sé e per i propri amici. E’ urgente capovolgere, con la prassi quotidiana, questa filosofia di vita e arrivare a che il pubblico funzionario, armato di pistola o di timbro, tratti gli estranei con la delicatezza con cui tratta spontaneamente gli amici e gli amici con l’imparzialità che gli viene facile adottare nei confronti degli sconosciuti. Un’utopia? Forse. Ma, come sosteneva Edgar Allan Poe, ci sono molte cose che sfuggono a coloro che si limitano a sognare solo di notte.

Augusto Cavadi

mercoledì 20 febbraio 2008

IL PARROCO E DON MILANI


Repubblica - Palermo
20.2.2008

UNA LEZIONE DIMENTICATA

Che l’Azione Cattolica di una parrocchia programmi una serie di incontri su fede cristiana e mafia è una buona notizia. Che il titolare della stessa parrocchia accetti l’idea, la pubblicizzi sul sito web ed offra ospitalità per i primi due appuntamenti è anch’essa una buona notizia. Che, al terzo appuntamento - come abbiamo appreso ieri dalle cronache cittadine - relatori e pubblico trovino le porte sbarrate è, invece, una cattiva notizia. Lo è se, dietro le motivazioni ufficiali, ci fossero ragioni inconfessate (intimidazioni, lusinghe o pressioni d’altro genere); ma lo è anche se le motivazioni dichiarate fossero le uniche vere. Il parroco, infatti, sostiene che l’inizio di alcuni lavori edili (successivo ai primi due incontri) avrebbe reso inagibile il salone parrocchiale e che l’incontro non si poteva spostare all’interno della chiesa perché una norma della Conferenza episcopale italiana vieterebbe di ospitarvi “eventi sociali con risvolti politici”.

Una prima considerazione viene suggerita dalla mentalità legalistica che traspare da dichiarazioni di questo tenore. Una cosa è infatti la legalità, il rispetto delle regole anche all’interno della propria chiesa; un’altra cosa il legalismo, l’obbedienza feticistica senza nessuna elasticità. Che i vescovi sconsiglino di tenere negli spazi di culto incontri pubblici dove si possano scontrare opinioni differenti, mi pare una norma di buon senso elementare. Ma se ci si trova in una situazione eccezionale, imprevista, transitoria - come dei lavori di manutenzione nei locali parrocchiali adiacenti - deve prevalere la fedeltà alla ‘lettera’ della legge o alla propria missione? Ci si deve attenere burocraticamente ad una circolare o, piuttosto, privilegiare la crescita culturale e civile della propria comunità? Gesù di Nazareth - dal cui stile abituale, forse, un prete cattolico avrebbe qualcosa da imparare - ironizzava con quanti trovavano da ridire perché i suoi discepoli, se affamati, raccoglievano spighe dai campi anche di sabato, infrangendo la Legge mosaica: “E se vi cade un asino o un bue in un fosso, aspettate che passi la giornata festiva per tirarli fuori? Dio non ha fatto l’uomo in funzione del Sabato, ma il Sabato in funzione dell’uomo!”.
Ma - questa è una seconda considerazione - si sarebbe trattato, comunque, di una trasgressione? Il divieto dei vescovi si riferisce a ” eventi sociali” con risvolti “politici” o con risvolti “partitici”? Può sembrare una distinzione bizantina: in realtà è sostanziale. Chi conosce personalmente e da anni don Giuseppe Di Giovanni riferisce che, nel suo vocabolario, come nel vocabolario della stragrande maggioranza della gente, i due aggettivi si equivalgono. Ma questa grossolanità linguistica tradisce confusione di idee e partorisce decisioni infelici. Che le chiese debbano astenersi dal fare politica nel senso volgare e usuale, dunque evitare di prendere posizioni in campagna elettorale per questo o per quell’altro schieramento, mi pare una direttiva saggia (e, per la verità, non sempre rispettata neppure da quegli stessi vescovi che la emanano). Che le chiese debbano astenersi dal fare politica anche nel senso nobile e preciso, dunque trascurare le occasioni per tenere alta l’attenzione dei fedeli sui valori etici fondamentali (che, secondo i vangeli, sono la giustizia sociale, la solidarietà verso i sofferenti, la resistenza nonviolenta ai nemici, l’amore per la natura, la sobrietà nei consumi…molto prima e molto più che i comportamenti sessuali), sarebbe una direttiva stupida e miope: che, infatti, nessun organismo ecclesiale si è mai sognato di emanare (sostenendo, almeno ufficialmente, esattamente il contrario). Lunedì sera, nella parrocchia di san Basilio Magno, non erano attesi i candidati di schieramenti elettorali opposti, ma tre testimoni di spessore etico e ‘politico’ al di sopra di ogni sospetto: un dirigente della Confindustria siciliana per spiegare i recenti provvedimenti interni contro gli associati che s’intestardissero a pagare il pizzo; un giovane di “Addiopizzo” per spiegare le difficoltà e le gratificazioni morali di una rivolta popolare contro il sistema mafioso; un imprenditore che è stato disposto, coraggiosamente, a ribellarsi a viso aperto contro la criminalità organizzata anche a costo di subirne alcuni seri contraccolpi. Se non avessero trovato le porte sbarrate, avrebbero potuto rendere comprensibile in maniera semplice ed efficace la lezione di don Milani: tutti abbiamo problemi; uscirne da soli è avarizia, mettersi insieme è politica. Di quante centinaia di prediche domenicali, in liturgie perfettamente a norma, avrà bisogno don Giuseppe in futuro per far capire questa lezione ai fedeli (e, forse, prima ancora, a sé stesso)?

domenica 17 febbraio 2008

La mafia spiegata ai turisti


Nell’ambito delle manifestazioni su “Mafia e nonviolenza” (cfr. programma allegato), presso il Convento dei Frati Carmelitani di piazza Ballarò (ingresso da via Grasso), alle 20,30 esatte (subito prima della proiezione gratuita del film “I cento passi”) Augusto Cavadi presenterà brevemente il suo tascabile “La mafia spiegata ai turisti”, Di Girolamo, Trapani 2008 (pp. 54, euro 5.90) edito in sei distinti volumetti: italiano, francese, spagnolo, inglese, tedesco e giapponese.

Arrivare mezz’ora in anticipo consentirebbe di visitare la mostra fotografica su Danilo Dolci e i banchetti delle associazioni antimafia.

venerdì 15 febbraio 2008

“INGIUSTO DEFINIRLO CONSERVATORE”


Centonove 15.2.2008

Dalla parte di Croce

Livio Ghersi, sino a poco tempo fa funzionario dell’Assemblea regionale siciliana, è autore del volume “Croce e Salvemini. Uno storico conflitto ideale ripensato nell’Italia odierna”, pubblicato a Roma nell’ottobre del 2007 per i tipi di Bibliosofica e che ora è stato oggetto di una prima ristampa.
Il volume sarà presentato a Palermo (Hotel Jolly, venerdì 15 febbraio, ore 16.15) nel corso di un seminario con la partecipazione di Liliana Sammarco, Paolo Bonetti, Luigi Compagna, Ernesto Paolozzi, Augusto Cavadi, Stefano de Luca e Pasquale Dante.
Una seconda presentazione si terrà a Messina (Hotel Royal Palace, venerdì 29 febbraio, ore 16,30), nel corso di un seminario con la partecipazione di Girolamo Cotroneo, Giuseppe Buttà, Dino Cofrancesco, Giuseppe Gembillo, Antonio Saitta, Raffaello Morelli, Giovanni Feliciani.
Qui di seguito una breve conversazione con Livio Ghersi.

Dottor Ghersi, Lei non è uno storico delle idee per professione. Da dove dunque l’idea di impegnarsi in uno studio così corposo su “Croce e Salvemini”?
Si tratta di autori che, grazie a mio padre, ho cominciato a leggere subito dopo la licenza liceale, quando frequentavo i primi anni dell’università. Ricordo una bella biografia di Italo de Feo, titolata “Croce. L’uomo e l’opera” (1975), che mi ha comunicato una passione nei confronti di Croce che, nel tempo, non è mai venuta meno. Ricordo che consultavo continuamente un’antologia del settimanale di Salvemini “L’Unità“, curata da Francesco Golzio e Augusto Guerra, pubblicata nel 1962, come quinto volume della collana “La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste”. L’esigenza di scrivere il libro mi è venuta nell’ottobre del 2000, quando lessi il saggio di Sergio Bucchi «Una storia lunga cinquant’anni», che costituiva l’introduzione di una nuova edizione de “Il Ministro della mala vita”, uscita allora per ii tipi di Bollati Boringhieri. Mi diede molto fastidio leggere che veniva riproposta, senza alcun corredo critico, la durissima polemica che Salvemini sviluppò contro Croce, a partire dalla formazione del secondo governo Badoglio in poi. Trovo non rispondente a verità continuare a ripetere il ritornello del Croce “conservatore”. Trovo ingeneroso non riconoscere che Croce diede, insieme ad altri (De Gasperi, Sforza, Togliatti), un contributo importante affinché i Paesi vincitori del secondo conflitto mondiale si riconciliassero con lo Stato italiano, finalmente restituito a libere istituzioni rappresentative.

In che senso Lei pensa che Salvemini sia la perfetta antitesi di Croce?
All’inizio del mio lavoro, stilai una sorta di schema sintetico per stabilire i termini del confronto. Sotto la voce “Croce” scrissi, in colonna: «Filosofia / Storicismo / realismo / democrazia come male minore / Giolitti uomo di Stato». Sotto la voce “Salvemini”, in corrispondenza alle voci della precedente colonna: «Anti-filosofia / Storia come scienza / moralismo / democrazia come valore / Giolitti ministro della mala vita». Ovviamente, lo studio e l’approfondimento hanno poi confermato che la vita reale è sempre più complessa e ricca di qualsiasi schema interpretativo. Ma, effettivamente, tra Croce e Salvemini c’è una profonda differenza di impostazione. Ritengo, come Croce, che gli esseri umani abbiano l’esigenza di trovare un orientamento nella loro esistenza, e che la filosofia possa aiutarli a questo scopo. Il problemismo salveminiano, il misurarsi con problemi precisamente individuati per cercare di dar loro soluzioni concrete, va benissimo, a condizione però che ci sia una scala di valori, cioè che l’individuo impari a distinguere ciò che è veramente importante da ciò che lo è meno, e che, quindi, anche nell’approccio ai problemi sia capace di stabilire delle priorità. Il torto di Salvemini, secondo me, è quello di avere mosso guerra contemporaneamente alle religioni, alla filosofia, alle ideologie, o teorie generali che dir si voglia. Invece, la filosofia, la fede religiosa, perfino le tanto disprezzate ideologie, svolgono tutte, meglio o peggio, lo stesso compito: dare un orientamento. Si intende che non tutte le religioni, le concezioni filosofiche, le ideologie, si equivalgono: quindi, bisogna fare la fatica di distinguere e di scegliere.

Lei si considera dunque una figura abbastanza anomala di crociano cattolico?
Sono radicalmente laico. Essere “laico” per me significa non accettare il principio di autorità in questioni di coscienza. Di conseguenza, non posso in alcun modo essere definito cattolico; non soltanto perché non sono praticante. Tuttavia, a differenza di quanto ritengono gli eredi di Voltaire o di Marx, ritengo che le religioni non siano «inganno dei preti» ed «oppio dei popoli». Rispondono ad esigenze umane reali e profonde. In particolare, ritengo che il Cristianesimo sia una delle componenti essenziali sulle quali è stata edificata la nostra civiltà. Croce sentì il bisogno di scrivere il “Perché non possiamo non dirci cristiani” come reazione al nuovo barbaro paganesimo di cui erano portatori i nazisti.
Per quanto riguarda l’essere “crociano”, oggi in Italia viviamo il paradosso che la creatura prediletta di Croce, l’Istituto italiano di Studi storici di Napoli, abbia come direttore un filosofo che è contemporaneamente presidente della Fondazione “Giovanni Gentile”. Fa impressione che chi, per il suo stesso ruolo, dovrebbe difenderlo, abbia scritto che Croce (morto nel 1952) non abbia prodotto nulla di serio dal punto di vista filosofico dopo il 1909. Cioè andava bene finché era in sintonia con Gentile. Nel mio piccolo, invece, senza avere la pretesa di averlo capito meglio di altri, difendo tutto il pensiero di Croce, anche per il lungo periodo che va dal 1909 al 1952. Da questo punto di vista, ho avuto come ideale maestro Adolfo Omodeo.

Torniamo al moralismo di Salvemini.
La stroncatura di Croce da parte di Salvemini è chiara dimostrazione che i moralisti — pure in perfetta buona fede — possono prendere solenni cantonate. Più in generale, la personalizzazione della polemica politica porta a conseguenze rovinose e controproducenti per chi la pratica.

Possiamo dire, dunque, che il suo grosso volume è — in sostanza — un’apologia di Benedetto Croce?
Secondo me Croce è un autore importante, da cui ancor oggi ci sarebbe molto da imparare. Mi sono sforzato di spiegare tre concetti che sono fondamentali per la comprensione del suo pensiero: l’idealismo, lo storicismo, il liberalismo. Ad ogni concetto è dedicato un capitolo. Tuttavia, le mie convinzioni non sono sempre collimanti con quelle di Croce. Mi sono sforzato di conciliare lo storicismo di Croce e la ragione illuministica di Kant. Il Kant del «Sapere Aude!», il grande filosofo che con l’imperativo categorico, ed il connesso imperativo pratico, ci ha dato una bussola per orientarci nella condotta morale. In un passo del libro cito Guido De Ruggiero che, per primo, ha teorizzato questa possibilità di tenere insieme Croce e Kant.

Questo per quanto riguarda i contenuti. Ritiene che vi siano delle peculiarità anche nello stile letterario?
La tecnica di scrittura che ho usato è l’opposto di quella normalmente seguita nella produzione scientifica ed accademica. Non ho mai dato per scontato alcunché. Non ho fatto “dotti” richiami che soltanto pochissimi sono in condizioni di cogliere. Nel libro si lascia molto parlare Croce (così come Salvemini, o gli altri autori, di volta in volta, citati). Le citazioni sono riportate fra virgolette e in nota sono sempre puntualmente indicati i riferimenti bibliografici. Del resto, lo scrupolo filologico e la precisione nelle citazioni sono tra le prime cose che impara chi abbia una qualche dimestichezza con le opere teoretiche crociane sulla storia e la storiografia. L’esattezza dei riferimenti bibliografici è indice di onestà intellettuale: perché rende “trasparente” il lavoro, consentendo a chiunque di fare tutte le verifiche che vuole, ogni qual volta ne ravvisi l’esigenza.

Visto che la letteratura crociana è sterminata e che, in particolare, il pensiero politico di Croce è stato analizzato da ogni possibile punto di vista, ritiene che un lettore mediamente informato possa imparare qualcosa di nuovo dal suo libro?
Ho la presunzione di rispondere di sì. Invece di seguire il metodo consueto, che è quello di prendere in mano il libro «Elementi di politica» e di iniziare a commentarlo, ho seguito un percorso diverso. Ho cercato di ricostruire il mondo culturale di Croce ed il rapporto con i “suoi” autori. In particolare, nei due paragrafi che ho dedicato alla Destra Storica ed a Silvio Spaventa, si trovano informazioni che non è facilissimo trovare nella pubblicistica corrente. Ho messo poi a confronto la concezione liberale di Croce con i principali critici del suo liberalismo; ad ogni nome che di seguito cito corrisponde una diversa interpretazione critica: Gaetano Salvemini, Norberto Bobbio, Ernesto Galli della Loggia, Nicola Matteucci, Giovanni Gentile. Mi sembra che Croce sia uscito bene dal confronto.

Nel riesame del rapporto polemico fra Croce e Salvemini, Lei vede delle indicazioni istruttive per molte problematiche a noi contemporanee.
Nell’ambito della storia delle idee, riflettere sul pensiero di Croce significa recuperare consapevolezza che l’ideale liberale è in sé cosa diversa dall’ideale democratico. Nel libro ho indicato i sei punti che, secondo me, costituiscono la sostanza di una concezione liberale. Tra questi ho incluso pure «l’onesta accettazione del metodo democratico per l’assunzione delle decisioni collettive». Ma sono gli altri cinque punti che danno un senso compiuto alla teoria liberale. Li elenco: 1) garanzia di tutte le libertà fondamentali dei cittadini; 2) legame indissolubile fra libertà individuale e responsabilità personale; 3) Stato di diritto; 4) riconoscimento di un interesse pubblico, distinto dagli interessi privati; 5) società aperta, che consenta la libera affermazione delle capacità e dei meriti, in concorrenza fra loro. Il libro vorrebbe appunto contribuire a far comprendere che proprio l’ideale liberale è quello più frainteso e nei fatti meno difeso nella realtà italiana odierna.

Un liberale crociano, dunque di orientamento storicistico, è anche necessariamente un relativista?
Il primo paragrafo dell’ultimo capitolo ha un titolo inequivoco: «Confutazione del relativismo». Lo apro con questa citazione di Croce: «A proposito dello storicismo, si parla di relativismo; dunque vuol dire che non s’è compreso nulla della natura, della estensione e della profondità di quel pensiero». Il relativismo, nell’accezione in cui viene comunemente inteso, produce guasti: si traduce, infatti, in indifferentismo morale. La mia critica del relativismo deriva da Croce, ma deriva pure da Kant. Mi sforzo di far comprendere gli ambiti in cui non soltanto è possibile, ma doveroso, ripristinare il giudizio vero/falso.

Vi sono altre questioni all’ordine del giorno che sono state toccate nel suo libro?
Tutto l’ultimo capitolo riguarda questioni con cui ci misuriamo oggi, ma ricondotte al loro significato essenziale, senza stare ad inseguire la cronaca.

martedì 12 febbraio 2008

IL VESCOVO SCOMPARSO DI MONREALE


Repubblica – Palermo 12.2.2008

IL DIALOGO DI DON NARO

Non capita spesso che la morte di un prelato susciti cordoglio sincero in ambienti laici e, addirittura, ecclesiastici. Così è avvenuto lo scorso anno per Cataldo Naro, giovane arcivescovo di Monreale, stroncato da un infarto a meno di quattro anni dall’insediamento in una delle cattedre episcopali più prestigiose, ma anche più faticose, della Sicilia. Al di là dell’emozione per una vicenda umanamente toccante, resta la domanda più radicale: chi era, e che cosa ha lasciato di rilevante in eredità, questa figura di prete e di studioso?

Al tema sarà dedicato un incontro nella Parrocchia di S. Pietro a Caltanissetta (venerdì 21, ore 18) e sarà l’occasione per discutere anche il più recente volume postumo (Torniamo a pensare), pubblicato dall’editore Sciascia, in cui sono raccolti interventi, relazioni e interviste dal 1998 al 2006.
Molti di questi materiali hanno un interesse, per così dire, interno al dibattito teologico-pastorale e, come tali, meriteranno d’essere analizzati in altra sede. Non mancano però idee che, direttamente o indirettamente, toccano problematiche civili e sociali di più ampio raggio. Qui possiamo evocarne solo tre o quattro principali.
La prima consiste in un criterio metodologico che attraversa, quasi filo rosso, le riflessioni del presbitero nisseno: il cattolicesimo deve imparare a dialogare con il mondo laico. Sino ad oggi questo dialogo è stato ostacolato da varie difficoltà, non ultime - per limitarsi solo alla sponda cattolica - “il livello generalmente non alto della produzione teologica in Italia” ed una “certa insufficienza della recezione dell’insegnamento del Vaticano II”. Se ancora fra noi, continuando un dialogo a tratti vivace ma sempre rispettoso da ambo le parti, avrei chiesto a don Aldo quanto, a suo parere, non abbiano inciso su questi ritardi dei cattolici italiani gli insegnamenti e le decisioni di un papa come Giovanni Paolo II e di un presidente della Cei come Ruini, interessati a salvaguardare l’ortodossia e la disciplina ecclesiastica molto più che a stimolare la ricerca intellettuale e la sperimentazione organizzativa.
Don Naro non si è limitato a proclamare, in astratto, la necessità del dialogo con la cultura laica: l’ha praticato costantemente. Sono stato sempre impressionato dalla sua diligenza, in ogni questione, di fare il punto a partire dai contributi scientifici degli specialisti. In questo volume, ad esempio, non esprime il suo personale parere sulla “identità italiana” senza prima riferire le tesi sul tema esposte nei più recenti contributi di storici come Ernesto Galli della Loggia, sociologi come Franco Ferrarotti, letterati come Alberto Asor Rosa, filosofi come Remo Bodei e teologi (anche non allineati sulle posizioni ufficiali del magistero) come Giannino Piana. E, in conclusione, Naro fa proprio il parere - non certo di senso comune - del collega Andrea Riccardi: “Io sono più italiano, più nazionalista di altri in Italia, quando dico che bisogna misurarsi con le sfide che vengono dall’immigrazione e sono più fiducioso nell’identità italiana quando dico che bisogna accogliere. Mentre è meno convinto dell’identità italiana chi vuole porre limiti”. E’, insomma, il metodo adottato in suoi saggi precedenti a proposito della mafia: esercitare un’insolita capacità di documentarsi senza filtri selettivi prima di elaborare una proposta specifica.
Non c’è dialogo autentico senza capacità di autocritica. Tra i preti della sua generazione, don Naro non era certamente fra i più innovatori: meditativo e prudente per carattere, era diventato - se possibile - ancora più cauto per la formazione di storico abituato a comprendere più che a giudicare. Proprio questo suo registro abituale rende maggiormente significativi gli squarci di autocritica ecclesiale che si aprono, non di rado, nel bel mezzo di analisi apparentemente distaccate ed oggettive. Come là dove, a conclusione di una lunga relazione agli insegnanti di religione della sua diocesi, rivolge un appello che equivale ad una diagnosi spietata: “Bisogna tornare o, se è il caso, cominciare a pensare. Non più una conduzione pastorale per slogan, non più uno stanco e disincantato gestire il presente, una sorta di navigazione a vista, ma un guardare la realtà, un comprenderla con amore e passione, uno studiarla con intelligenza e fatica, un ardimentoso proiettarsi in avanti”. Tornano spontaneamente alla memoria le volte in cui il cardinale Carlo Martini sostiene che la differenza fra credenti e non-credenti è meno decisiva della differenza, davvero radicale, fra chi pensa e chi non pensa.

IL MISTERO DI DIO


Repubblica – Palermo 12.2.2008

Augusto Cavadi

ALBERTO MAGNO
Tenebra luminosissima
Officina di Studi Medievali
Pagine 197
Euro 25

Dio ha creato l’uomo affinché Lo contemplasse “faccia a faccia”; ma in sé stesso, nella sua intima essenza, non è forse Egli al di sopra di ogni possibile conoscenza umana? Nel XIII secolo Alberto Magno (noto fra l’altro in quanto maestro di Tommaso d’Aquino) si pone il dilemma e prova a scioglierlo commentando la Teologia mystica attribuita, dalla tradizione scolastica, a uno (pseudo) Dionigi l’Aeropagita. Quel commento sarebbe rimasto confinato nel latinorum degli specialisti se due valenti studiosi che ricercano nell’ambito dell’Officina di Studi Medievali di Palermo, Giuseppe Allegro e Guglielmo Russino, non ne avessero curato la traduzione italiana, con introduzione e note, editandola con un titolo che suggestivamente compendia la prospettiva additata da Alberto Magno: Tenebra luminosissima. Già, perchè - se esiste - Dio non è una ‘cosa’ fra le cose: piuttosto, la Luce che rende visibili le cose che vediamo. Proprio per questo, la visione diretta di Lui sarebbe abbagliante: lo si può intravedere obliquamente, “unicamente attraverso la conoscenza delle creature”.

giovedì 7 febbraio 2008

SICILIA? INDUSTRIA DEL TURISMO…


REPUBBLICA - PALERMO
7.2.2008

DISAVVENTURE DI DUE TURISTI NELLA TERRA DELL’ACCOGLIENZA

Ho incontrato Nancy, svizzera, e Benjamin, tedesco, su uno scompartimento del treno per Roma: entrambi reduci di una vacanza in Sicilia che “non sarebbe stato facile dimenticare”. Incapace di decifrare il loro sorriso ironico, chiedo se per motivi piacevoli o di segno opposto. “Per entrambi”: e comincia un racconto che - se non fosse stato puntellato da continui nomi, cognomi e indirizzi - mi sarebbe sembrato inverosimile.
I due turisti avevano chiesto ospitalità a Maria, amica di amici tedeschi, che vive proprio alle spalle del teatro Massimo: la quale, correttamente, li aveva però avvertiti dei disagi notturni per i quali è in contenzioso giudiziario con dei vicini rumorosi. Infatti i due ospiti, verso le 23, sentono attaccare a tutto volume la musica di un pub proprio sotto la loro stanza. Pensano che, come avviene in tutta Europa, a mezzanotte potranno avere un po’ di silenzio. Quando alle 3 del mattino si rassegnano alla veglia forzata, si armano d’ironia e si presentano al gestore del locale: “Visto che non ci permettete di dormire, possiamo almeno avere una birra?”.

Il giorno dopo decidono di prendere un’auto in noleggio e gli viene consigliata una ditta palermitana “low cost che fa la differenza”. Il costo non si rivela proprio low (anche perché i due scelgono la formula assicurativa più completa), ma l’auto almeno è buona. Lo è talmente che, posteggiatala la sera stessa nei pressi di un ostello della gioventù a Catania, attira la fatale attenzione di ignoti ladri. Nessuno, a cominciare dal gestore dell’ostello (che li aveva stranamente invitati a spostare l’auto da una piazza illuminata ad un vicolo buio e deserto), mostra interesse ad aiutare i due malcapitati turisti. L’agenzia di Palermo, contattata telefonicamente, sostiene di trovarsi davanti ad un caso eccezionale (!?) e di non essere in grado di inviare immediatamente un’auto di riserva. Intanto i due sporgessero denunzia alla polizia e consegnassero le chiavi dell’auto rubata all’agenzia di Catania. Verso sera, lasciano l’ostello e si spostano in un albergo vicino. Qui il gestore sembra più attento alle loro disgrazie: “Sa, nel quartiere ci conosciamo un po’ tutti. Parlando con le persone giuste, l’auto si potrebbe anche riavere. Magari pagando qualcosa per il disturbo…”. Passano così, nel limbo dell’attesa, altre due giornate. Al terzo giorno, arriva il responso ufficiale: non è prevista alcuna sostituzione. Anzi, se vogliono evitare guai legali, i due clienti devono preoccuparsi di riconsegnare personalmente o per corriere le chiavi della vettura. Così, con le pive nel sacco (come si usava dire nelle novelle ottocentesche per ragazzi), ritornano a Palermo, consegnano la prova della loro innocenza e scoprono l’ultima beffa: non gli viene restituito neppure un centesimo della somma preventivamente addebitata sul conto della carta di credito!
Mentre Nancy e Benjamin raccontano, mi chiedo quante fiction sulla mafia dovremo esportare in giro per il mondo prima di provocare altrettanto danno all’immagine della Sicilia. E quanti milioni di euro in locandine e spot pubblicitari dovrà spendere l’amministrazione regionale per compensare gli effetti disastrosi di questo genere di accoglienza. Quando infine concludono la narrazione, mi resta una curiosità: quale potrebbe essere stato il risvolto gradevole di questa mini-odissea? “Maria, la nostra ospite palermitana che non conoscevamo prima del nostro arrivo, è rimasta più sconcertata e addolorata di noi. Preoccupata che ripartissimo scandalizzati, ci ha regalato pomodori secchi, capperi di Pantelleria, un chilo di pasta da frumento coltivato in terreni confiscati alla mafia e dolci di natale fatti in casa. Buccellatini mi pare: li chiamate così?”.

venerdì 1 febbraio 2008

IL PRESIDENTE CONDANNATO


“Narcomafie”, febbraio 2008

MA IL CUFFARISMO E’ VIVO E VEGETO

Lo Statuto speciale siciliano prevede che al presidente della Regione spetti “la direzione dei servizi di pubblica sicurezza” operanti nell’isola. Per fortuna, anche questa norma - come altre - è rimasta inchiostro su carta. Se così non fosse stato, in sessanta anni avremmo avuto più di un presidente soggetto e oggetto, nello stesso tempo, di indagini giudiziarie: che, in qualche caso, si sarebbero concluse con sentenze di condanna.
Le vicende di Salvatore Cuffaro spiccano, infatti, non per la loro inedita novità; piuttosto per il genere di reato di cui è stato ritenuto colpevole da un tribunale di primo grado: favoreggiamento di boss mafiosi a cui ha fatto pervenire informazioni riservate su provvedimenti (per esempio intercettazioni ambientali) decisi a loro carico.
Solo arbitrariamente si può scegliere di evidenziare alcune tra le numerose considerazioni circolate in questi giorni drammatici sui giornali e fra la gente.

Una prima perplessità riguarda l’anomalia, almeno a prima vista e senza aver letto le motivazioni dettagliate della sentenza, di una condanna per aver favorito una serie di insigni associati a Cosa Nostra (Domenico Miceli, Vincenzo Greco, Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona) che però non include il favoreggiamento a Cosa nostra come associazione.
Una seconda perplessità riguarda l’anomalia giuridica, difficile da interpretare per chi si accosta alla legislazione vigente attrezzato solo di buon senso, per cui uno stesso cittadino può essere interdetto perpetuamente dai pubblici uffici ma continuare a presiedere una giunta di governo regionale (o, nel caso lo preferisca, dimettersi per diventare deputato nazionale, senatore della Repubblica o direttamente ministro).
Una terza considerazione viene suggerita dal comportamento schizofrenico di quei cittadini che, da una parte, ritengono particolarmente odiosa la speculazione economica sulla pelle dei malati (l’ingegnere Michele Aiello, condannato a 14 anni per mafia e ritenuto prestanome di Provenzano, ha concordato nel retrobottega di una merceria di Bagheria con il suo coimputato Cuffaro il tariffario - risultato poi sovradeterminato - dei rimborsi da parte del sistema sanitario regionale delle prestazioni mediche elargite nella sua clinica privata), ma dall’altra ribadiscono in forma pubblica e vivace la loro indefettibile fedeltà elettorale all’ex- Governatore.
Una quarta considerazione è stata imposta dai festeggiamenti, a base di cannoli di ricotta fresca, di Cuffaro nella sede istituzionale più alta (l’Assemblea regionale), dopo aver appreso la sentenza di condanna. Se questo stile è moralmente e civicamente giustificabile, non c’è nulla da eccepire sull’euforia degli ammiratori di Andreotti che si trasmette - per così dire da porta a porta - da quando una sentenza giudiziaria ha confermato i suoi rapporti con Cosa nostra (però solo sino al 1980); anzi, sarà prevedibile che le strade del Paese saranno perennemente intasate da decine di cittadini (attorniati da migliaia fra parenti, amici, vicini di casa e simpatizzanti) che ogni giorno daranno sfogo all’entusiasmo per essere stati condannati dai tribunali della Repubblica a non più di cinque anni di reclusione per volta.
Una quinta considerazione è suggerita da silenzi tombali che solo voci isolate, pericolosamente isolate, hanno avuto in queste ore il coraggio di infrangere. Cuffaro non è solo un cattolico convinto e praticante, ma un cattolico che ha fatto della sua appartenenza ecclesiale una bandiera da esporre ai quattro venti. Ha chiamato un prete di periferia, generoso quanto ingenuo, a ricevere - in una stanza del Palazzo d’Orleans - i questuanti giornalieri cui distribuire elemosine e piccoli doni. Ha persino ritenuto opportuno supplire alla disattenzione dei vescovi siciliani, assumendo l’iniziativa plateale di consacrare la Sicilia alla Madonna delle lacrime di Siracusa. Ebbene, non è per lo meno strano che nessun esponente autorevole della comunità ecclesiale si sia fatto avanti in questa occasione per chiedergli un gesto di coerenza con gli ideali evangelici da lui strombazzati in tempi opportuni e inopportuni? Sinora si è appreso pubblicamente solo che alcune comunità si sono raccolte in varie chiese della Sicilia per pregare per lui prima della sentenza e che, dopo la sentenza, il parroco di Cuffaro, don Aldo Nuvola, abbia chiesto, a conclusione della celebrazione eucaristica domenicale, la solidarietà a un uomo ingiustamente perseguitato (”come Andreotti”) dalla “casta cattiva dei magistrati”. In senso contrario, solo una comunità cattolica di Ballarò ha avvertito il bisogno di chiedere perdono a Dio e ai concittadini per il pessimo esempio che il confratello Cuffaro ha dato e dà con i suoi reati (se saranno confermati anche in secondo e in terzo grado), con le sue frequentazioni e con il suo stile clientelare (che non hanno bisogno di nessuna conferma essendo da decenni davanti agli occhi di tutti).
Una quinta (e provvisoriamente ultima) considerazione nasce dalla constatazione che la stragrande maggioranza del popolo siciliano ha avuto la possibilità di evitare tutto questo (e molto altro ancora che non verrà mai alla luce dei processi giudiziari) con le armi della democrazia e , altrettanto democraticamente, l’ha sciupata. Alle ultime elezioni Cuffaro ha vinto non battendo un ‘qualsiasi’ candidato di centro-sinistra dalla storia ambigua, ma Rita Borsellino. Gli elementi per una opzione, anche simbolicamente ed eticamente netta, c’erano tutti (come mai prima di allora): ma la paura di perdere i mille piccoli favoritismi ha prevalso sulla prospettiva di un futuro di dignità. E’ stato il carisma onnipotente di un Puffo tracimante baci e abbracci? Se così fosse, le sue dimissioni sarebbero state motivo di sollievo nell’immediato, di speranza in prospettiva. Purtroppo però è un po’ come nel sistema mafioso: più decisiva della personalità del capo si rivela la struttura di potere di cui quella singola individualità era espressione. Temo dunque che, eclissatosi (con la fattiva solidarietà di Casini e di Cesa, forse per pochissimo tempo) Cuffaro, resterà in piedi - vivo e vegeto - il cuffarismo. O come si voglia chiamare l’intricata rete di interessi, scambi di favori, accordi sottobanco in cui si riconosce senza complessi morali il 60% della popolazione siciliana. Una ragnatela vischiosa che non si può identificare con la mafia (la quale “fa schifo” persino a Cuffaro, stando ai manifesti da lui fatti affiggere per le strade dell’isola), ma senza la quale la mafia sarebbe da tempo scomparsa.
Quando il 40% dei siciliani che non si riconoscono nella cultura della solidarietà familistica cominceranno a dare segni concreti di resipiscenza; quando non accetteranno di scambiarsi raccomandazioni fra loro sia pur a titolo eccezionale; quando smetteranno di litigare per stabilire chi è più duro e puro degli altri; quando decideranno di azzerare i compromessi e di imparare l’arte della mediazione politica… forse sarà possibile che diventino un polo di riferimento. Che convincano i più scoraggiati, specie tra i giovani. Che possano finalmente aprire una campagna elettorale in cui l’obiettivo del 51 % cessi d’apparire un sogno senza fondamenti.
Allora, ma non un momento prima, darò fondo a tutti i risparmi di una vita e mi precipiterò davanti al Palazzo dei Normanni per offrire agli onorevoli deputati in uscita cannoli di ricotta fresca.