venerdì 13 giugno 2008

Tra posta, banca e ateneo palermitano: cose da folli


“Centonove” 13 giugno 2008

POSTE, UN GIORNO DI ORDINARIA FOLLIA

La psicanalisi ce l’ha insegnato, non possiamo negarlo: ciascuno di noi deve fare i conti con una vena di sadismo che ci porta a godere della sofferenza altrui. Sin quando queste pulsioni si manifestano nei rapporti interpersonali, possono essere compensate da atteggiamenti più positivi nei confronti degli altri. Ma se si concretizzano in norme ufficiali, se regolano rapporti istituzionali, rendono la vita davvero pesante.
Volete una prova, anzi due?

Andate in un ufficio postale qualsiasi (io sono andato in via Ammiraglio Rizzo), fate una fila di mezz’ora per spedire un pacco in Giappone e, al momento di pagare i 54 euro, tirate fuori la vostra brava tessera “bancomat”. Con un sorriso tra il dispiaciuto e il compiaciuto l’impiegato vi dirà che non potete pagare con la tessera, bensì in contanti. “Veramente alle Poste ho sempre pagato con questa!” obietterete voi ingenuamente. Ma lui ha la risposta pronta: “Alle Poste si può pagare tutto con il bancomat, tranne i pacchi postali”. Se vi resta un filo di voce potrete replicare: “Perché non avvertite almeno con un cartellino, prima che si faccia la fila?”; ma lui - asserragliato nella sua postazione e protetto da un provvidenziale vetro antiproiettili - ha l’ennesima risposta: “Che bisogno c’è di un avviso? Non lo sanno forse tutti che alle Poste i pacchi si pagano in contanti?”. Dunque: cornuti e mazziati. O almeno: fregati e presi per ignoranti. A quel punto non vi resta che uscire, andare alla ricerca di una banca con sportello del bancomat funzionante, prelevare liquidi, ritornare all’ufficio postale: in premio, però, di solito non vi sarà inflitta una seconda fila. E, in più, avrete gratis un passatempo assicurato: andare in giro fra amici, vicini di casa, colleghi di ufficio e conoscenti vari per verificare quanti di loro sanno che alle Poste il bancomat si usa per tutto, tranne che per i pacchi. Magra consolazione: non ne troverete neppure uno (a meno che non sia in quiescenza dopo trentanove anni di lodevole servizio alle Poste italiane!).
Se non avete un pacco da spedire, c’è un altro esperimento da fare. A me è capitato un protocollo inesorabilmente completo, ma credo che a voi può bastare lo spezzone finale. Cominciamo dall’inizio. L’Università di Palermo mi chiede di pagare certe tasse, ma con una raccomandazione sorprendente: il modulo è “da presentare presso gli sportelli del Banco di Sicilia in duplice copia e, solo in caso di effettiva impossibilità, per i residenti fuori dalla Sicilia, ad effettuare i versamenti tramite una filiale del Banco di Sicilia, in quanto assente dalla propria città, i versamenti potranno essere effettuati con un bonifico bancario”. Leggo e rileggo, incredulo, ma non ci sono dubbi: nell’epoca della terza rivoluzione industriale - l’epoca della telematica, della globalizzazione - non posso usare, come di solito, il mio computer per sdebitarmi con l’Ateneo palermitano. Anzi, se vivo in una città del pianeta in cui c’è anche una sola filiale del Banco di Sicilia, non posso neppure farlo attraverso la mia banca. No: devo andare pirsonalmente di persona - per citare l’appuntato Catarella di camilleriana memoria - ad uno sportello del Banco di Sicilia.
Vinta la tentazione di dichiarare di trovarmi, per un lungo periodo di studio o di lavoro, a Oslo o a Pechino (ma è sicuro che almeno là non ci siano filiali del Banco ex- ‘nostro’ ?), mi rassegno a recarmi alla filiale del Banco di Sicilia di via De Gasperi. Dopo la fila regolamentare, la gentilissima signora dello sportello tenta di digitare un certo codice e - stanca di vari quanto inani tentativi - mi comunica che forse è meglio che ritorni a casa. Timidamente suggerisco di provare a verificare se il guasto è anche nel computer del collega che siede alle spalle, ma questi fa, per un altro quarto d’ora, orecchio da mercante (anzi, da bancario). Meno timidamente, anzi sfacciatamente, chiedo allora che si provi col computer della collega accanto: e questa volta il meccanismo si sblocca. Raggiante per il successo insperato, mi accingo a pagare i 396 euro con la solita tessera bancomat, ma neppure nel tempio della finanza postmoderna mi è concesso. Carta di credito? Neppure. Assegno bancario? Neppure. Lei deve uscire dalla sala, preleverà al distributore automatico contanti, ritornare allo sportello e pagare in moneta sonante (o in banconote ancora tiepide). Mi arrendo: la vena di masochismo che mi ha trattenuto per più di mezzo secolo a Palermo non arriva al punto da contrastare il “combinato disposto” del sadismo dell’Università e del Banco di Sicilia. Mi appiglio all’ultimo granello di energia rimastami per chiedere se questo divieto di usare moneta elettronica vale solo in Sicilia o è stato emanato dalla nuova direzione romana, ma la signora è desolata: “Non so chi l’abbia deciso, non so perché l’abbia deciso. So che è così e basta”.
Alla radio, tornando in auto a casa, sento i risultati di un recente calcolo statistico: il cittadino medio trascorre diciotto giornate l’anno (non ho capito se si tratta di giornate di 24 ore o ’solo’ lavorative) per sbrigare nei vari uffici delle pratiche che, in futuro, potrà liquidare in pochi minuti dal computer di casa. Mi chiedo se la promessa varrà anche nel caso che si debba spedire un pacco alle Poste o un versamento all’Ateneo palermitano.

Augusto Cavadi

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