domenica 31 agosto 2008

DISCUSSIONI


FILOSOFIA E TEOLOGIA
N. 2 estate 2008

Eros e agape nella Deus caritas est .
Motivi di consenso e ragioni di perplessità.

Consensi
Poiché i papi più recenti hanno consegnato nella prima enciclica le linee programmatiche del pontificato, anche la Deus caritas est è stata accolta con particolare attenzione.
Va innanzitutto registrata la reazione di gradevole “sorpresa” - persino in teologi non certo ‘allineati’ pedissequamente con le posizioni del magistero ufficiale - nel constatare che “lo scritto papale è un invito a riscoprire il volto più affascinante di Dio, e il dono, la comunicazione più esaltante di sé che egli ha fatto all’uomo: la capacità di amare, l’unica molla che dà soddisfazione, gioia, forza di vivere. L’amore non è semplicemente piacere, passione, assillo, estasi, sogno. E’ tutto questo insieme e molto di più″ . Anche Hans Kueng ha riconosciuto prontamente che si tratta di “un documento rispettabile, solido e differenziato” in grado di offrire “un solido cibo teologico sull’eros e sull’agape, l’amore e la carità e che si guarda dal costruire falsi contrasti” . In particolare è stato notato da esponenti del clero sensibili al confronto con il laicato più inquieto come sia da salutare con soddisfazione il fatto che un papa abbia fatto proprie, “seppure tardivamente, le categorie della psicanalisi” e che l’Eros venga riconosciuto “come emanazione divina e non del demonio”
Nessuna riserva dunque sugli intenti - sul telos - dell’enciclica (riconciliare, nel concetto e nella vita, “le due accezioni principali, spesso congiunte ma spesso anche contrastanti, dell’amore: agape e eros, i due grandi amori che rischiano di dividere l’umanità” ): non altrettanto unanime, però, il giudizio sui percorsi intellettuali proposti per realizzare in effetti tale riconciliazione.

Dico subito che non prendo in considerazione, in questa sede, l’obiezione radicale di chi si confronta con questo documento del magistero da un’ottica puramente filosofica: non perché non ritenga lecito un esame critico-razionale dei testi che si autopresentano come ’sacri’ e/o variamente ‘ispirati’, ma perché mi sembra plausibile che un testo teologico non debba riprendere daccapo, ogni volta, la (possibile) fondazione dello statuto epistemologico della teologia. Un’enciclica non pretende di essere un trattato filosofico e neppure, a stretto rigore, teologico: affermare, dunque, come fa Michele Martelli, che “l’Amor Dei e Dio stesso” sono “articoli di fede, presupposti arbitrariamente o surrettiziamente assunti come già dimostrati” , non mi risulta convincente. Che l’enciclica non si preoccupi di mostrare, preliminarmente, le (ipotetiche) ragioni per affermare un Dio trascendente e benevolo, non mi sembra una lacuna da rimproverare. Più pertinente, piuttosto, una seconda obiezione: che Ratzinger abbia accennato all’enigma del dolore nell’universo e, pur appellandosi alla fede silenziosa di Giobbe, si sia poi avvicinato alla posizione degli amici di Giobbe che - secondo il testo biblico - hanno tentato (empiamente) di difendere Dio stesso . Il papa è entrato, infatti, sia pure en passant, nel dibattito su Dio dopo Auschwitz, dissociandosi da posizioni come quella di Hans Jonas sulla “debolezza” dell’Onnipotente : posizioni che sarebbe stato saggio o non evocare per nulla o decidersi a discutere con l’approfondimento che la loro serietà speculativa e spirituale richiederebbe. Se l’attuale pontefice sia esponente di una filosofia in senso genuino (dunque di una ricerca intellettuale senza presupposti dogmatici e senza esiti precostituiti) o piuttosto di un’ “antifilosofia” affetta da “forme (…) di fallacia logica” è, in sé, certamente una questione meritevole di riflessione: ma non penso che la si possa dirimere riferendosi a testi che appartengono ad un genere letterario differente dalla scrittura filosofica.

Dissensi I: una riabilitazione molto parziale dell’eros
Il papa affronta le contraddizioni - o, forse meglio, i contrasti - fra le diverse modulazioni possibili dello slancio amoroso nella logica ‘cattolica’ dell’ et - et. Ma in questa operazione riesce a rispettare la genuinità originaria dei termini in questione? O, per rendere compatibili la pulsione erotica (che cerca insaziabile ciò che manca al soggetto-io) e il gesto agapico (che dona instancabile ciò che manca ai soggetti-altri), opera una devitalizzazione della prima ed un addomesticamento del secondo? Provo a spiegarmi meglio.
Come scrive con precisione il teologo spagnolo Juan José Tamayo, “l’enciclica difende la compatibilità tra l’amore erotico e l’amore verso Dio, dopo secoli di demonizzazione del primo. Per questo cita il Cantico dei Cantici, che vuole come canto d’amore per una festa nuziale l’esaltazione dell’amore coniugale, e lo Pseudo Dionigi Aeropagita, che attribuisce a Dio eros e agape, e critica Nietzsche poiché sostiene che il cristianesimo converte l’eros in vizio. Tuttavia, man mano che va avanti con le argomentazioni, la compatibilità si trasforma nel suo contrario e attraverso le risposte date a chi considera il cristianesimo come avversario della corporeità finisce per dare ragione ai critici come Nietzsche” . Su che base si può asserire che, alla fine, l’eros “torna ad essere demonizzato” ? Tamayo indica due passaggi dell’enciclica. Il primo è al n. 4: “L’eros necessita di disciplina e purificazione, per dare all’uomo non il piacere dell’istante, ma un modo per pregustare in una certa maniera il momento più alto della propria esistenza, quella felicità alla quale tende tutto l’essere”. Il secondo è al n. 5: “L’eros vuole innalzarci ‘ nell’estasi ‘ al divino, portarci oltre noi stessi, ma per ciò è necessario seguire un cammino di ascesi, rinunzia, purificazione e recupero”.
Passaggi di questo tenore rendono difficile contestare l’opinione di lettori come Rossana Rossanda, a parere della quale “l’Enciclica non concepisce un rapporto con l’altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell’amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un’originale perversità” . Davvero la riabilitazione dell’eros, meritoriamente avviata da Benedetto XVI, è rimasta a metà strada?
Un indizio non secondario potrebbe essere la ricognizione storica, decisamente parziale, che ne fa al n. 4: ” Guardiamo al mondo pre- cristiano. I greci — senz’altro in analogia con altre culture — hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una « pazzia divina » che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: Omnia vincit amor, afferma Virgilio nelle Bucoliche — l’amore vince tutto — e aggiunge: et nos cedamus amori — cediamo anche noi all’amore. Nelle religioni questo atteggiamento si è tradotto nei culti della fertilità, ai quali appartiene la prostituzione ’sacra’ che fioriva in molti templi. L’eros venne quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino. A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione della religiosità. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros, che qui avviene, lo priva della sua dignità, lo disumanizza. Infatti, nel tempio, le prostitute, che devono donare l’ebbrezza del Divino, non vengono trattate come esseri umani e persone, ma servono soltanto come strumenti per suscitare la ‘pazzia divina’: in realtà, esse non sono dee, ma persone umane di cui si abusa. Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, ‘estasi’ verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende”. Se il papa avesse scritto che talora è capitato anche che l’eros diventasse perversione religiosa e strumentalizzazione delle donne, non avrebbe dato adito a nessuna obiezione. Ma le sue affermazioni si presentano con un tono perentorio e in una prospettiva generalizzante. Ecco perché, a mio avviso del tutto pertinentemente, un attento conoscitore della storia del pensiero religioso occidentale si è chiesto in proposito: “E’ corretto ridurre l’esperienza dell’eros nel mondo antico all’ebbrezza del Divino raggiunta mediante le prostitute sacre?”. Ed ha risposto: “Una presentazione più rispettosa della complessità di quel mondo avrebbe richiesto un cenno alla teoria platonica, quella che, per unanime giudizio degli studiosi, ‘caratterizza meglio, agli occhi della posterità, l’ideale greco dell’amore, ad un tempo slancio di tutto l’essere e conoscenza intellettuale, compimento dell’uomo e iniziazione alla vita divina’ (R. FLACELIERE, L’amour en Grèce, Paris 1960, p. 259). E basta leggere il dialogo platonico dedicato al tema dell’amore , il Simposio, per trovarsi di fronte a prospettive tutt’altro che volgari. (…). Certo un’enciclica non è tenuta a offrire una trattazione completa della cultura classica, ma se certi temi si vogliono affrontare è necessario un certo equilibrio: non si può parlare delle prostitute sacre tacendo il fatto che la Grecia antica ha parlato dell’amore in termini che si possono condividere o meno ma che sono innegabilmente di una grande nobiltà spirituale” .
Molto probabilmente un papa dello spessore teoretico di Ratzinger - e non certo ignaro della storia della teologia - accentua certi motivi e ne trascura altri non per caso. Lo ha notato, fra gli altri, uno dei maggiori teologi statunitensi, riconoscendo all’autore della Deus caritas est una indiscutibile - per quanto problematica - coerenza: “Il Concilio proponeva due criteri per il rinnovamento della Chiesa: il ritorno alle fonti e l’aggiornamento (specialmente tramite un ampio dialogo con gli altri). Negli anni dopo il Concilio, si è creata una divisione tra questi due approcci. La scuola del ritorno alle fonti, identificata con teologi come Von Balthasar, Danielou, De Lubac e Ratzinger, ha espresso timori per molti sviluppi della Chiesa post-conciliare. Il gruppo dell’aggiornamento dei tomisti teologici, come Congar, Rahner, Schillebeeckx, Chenu e Kung, hanno fatto appello a una continua riforma” . Se dunque il Ratzinger papa predilige “una sorta di agostinismo teologico” (e guarda con diffidenza ogni versione del “tomismo teologico, che accetta la fondamentale bontà di tutto ciò che Dio ha creato, malgrado la deturpante presenza del peccato nel mondo e nella Chiesa” ), non fa che confermare la continuità sostanziale con il Ratzinger perito conciliare prima, Prefetto della Congregazione per la fede dopo. Ovviamente il riconoscimento di questa coerenza non implica la condivisione della prospettiva. Infatti, come è stato osservato, “l’enciclica ‘Dio è amore’ si muove tutta sulla linea tracciata da Agostino. C’è al fondo una sfiducia totale verso l’amore umano” . Forse l’aggettivo totale non è il più appropriato: direi che dall’enciclica risulti verso l’eros una sfiducia essenziale che non esclude apprezzamenti accidentali e soprattutto condizionali. Mi spiego meglio. Già negli anni Trenta del secolo scorso il pastore luterano Anders Nygren segnalava “il malinteso corrente, per il quale l’agape viene concepita come una forma superiore, spiritualizzata dell’eros, e l’eros potrebbe eguagliarla tramite sublimazione. Il concetto [platonico] di ‘eros celeste’ ci ricorda che ciò non è possibile; esso potrebbe essere una sublimazione dell’amore sensuale, ma non è passibile di un’ulteriore sublimazione. L’ ‘eros celeste’ è il grado supremo assoluto nel suo genere, è stato spiritualizzato in una misura oltre la quale non è possibile andare. E’ giunto nella sua spiritualizzazione fin dove si può giungere. L’agape sta accanto all’ ‘eros celeste’ e non al di sopra di lui. Non è una differenza di grado, ma di natura. Nessuna via, nemmeno quello della sublimazione, può condurre dall’eros all’agape” . Ratzinger ha, qui, capovolto le tesi di Nygren: ha fatto dell’agape la sublimazione dell’eros, riducendo l’eros a qualcosa di valido solo a patto che venga spiritualizzato. Mi chiedo se sia opportuno che un papa, in un documento ufficiale, si pronunzi - investendo la sua autorità magisteriale - su una questione esegetico-teologica ancora dibattuta e, in caso affermativo, se sia opportuno che lo faccia senza portare un solo argomento contro la tesi che intende screditare. Anzi, senza neppure nominarla!

Dissensi II: un ridimensionamento della radicalità dell’agape
Se nel tentativo, in sé apprezzabile, di ricucire la relazione tra “l’amore autocentrato proprio dell’eros con l’amore eterocentrato dell’agape” - risalendo a “Dio come fonte comune di entrambi” - il papa non è riuscito a restare all’altezza delle sue premesse a proposito dell’eros (di cui ha offerto una rappresentazione poco serena e non certo integrale), più sottili ma non meno gravi riserve ha suscitato la sua interpretazione dell’agape.
Due le pericopi più eloquenti. La prima al n. 7: “Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente - fascinazione per la grande promessa di felicità - nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro (…). Così il momento dell’agape si inserisce in esso”. La seconda al n. 14, dove si ritiene di indicare il perfezionamento e l’attuazione piena dell’agape nel modello ecclesiale neotestamentario: “Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità con tutti i cristiani”.
Anche qui è opportuno non lasciarsi abbagliare dalla suggestione letteraria ed emotiva, ma attrezzarsi di lucida penetrazione analitica. Come mostra l’attento studioso che ho sopra citato a proposito dell’eros, la prima delle due gambe con cui l’amore percorre l’universo, “affermare che l’amore cristiano è l’eros che si apre alla generosità e al dono significa in realtà lasciarsi sfuggire l’originalità dell’agape evangelica. Il papa, infatti, parla dell’amore come forza che unisce in Cristo ‘tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi’ e che genera ‘l’unità con tutti i cristiani’. Ma davvero l’amore evangelico si rivolge solo ai cristiani, attuali o potenziali, erigendo un recinto che esclude chi resta fuori? Non è, al contrario, puro dono, disinteressata ricerca del bene dell’altro, anche se questi fosse e rimanesse un estraneo o addirittura un nemico? E’ proprio questa la novità del vangelo: ‘amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori’ (Matteo, 5, 44). (…) In effetti è difficile ammettere che l’amore per i nemici possa sbocciare dall’eros, come ha mostrato in un’opera fondamentale Anders Nygren (..), le cui tesi sono state accolte ormai da tempo dalla maggior parte dei biblisti cattolici. Ma il papa, mostrando la consueta chiusura nei confronti delle acquisizioni esegetiche, preferisce muoversi nel solco dell’interpretazione tradizionale, e arriva ad affermare, a proposito del Dio d’Israele, che ‘Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape’. Per la verità è Plotino, ultima espressione della religiosità greca, che concepisce l’Uno come Causa sui, che ama la propria perfezione: egli è hautoù éros (Enneadi VI, 8, 15); Giovanni, invece, ha dato la più compiuta formulazione della concezione biblica di Dio come amore che si dona scrivendo: Theòs agàpe estìn (1 Giovanni 4,8). Forse sia Plotino che Giovanni avrebbero provato un leggero stupore apprendendo che, in fondo, parlavano dello stesso tipo di amore!” . Come non ricordarsi dell’avvertenza di U. von Wilamowitz-Moellendorrff che, nel suo Platon, metteva in guardia “dall’equivoco, oggi non più sempre innocuo, per il quale si confonde l’eros platonico con l’agape, a cui Paolo ha dedicato il cosiddetto Inno all’amore nella I Cor. 13 (…) L’uno non sapeva nulla dell’eros, e l’altro [Platone] nulla dell’agape: avrebbero potuto apprenderlo l’uno dall’altro, ma così come erano non l’avrebbero fatto” ?
Queste - e simili - osservazioni non mirano a contestare il benemerito tentativo di sanare il divorzio secolare fra due valenze dell’amore che, nel vissuto esistenziale, non si lasciano separare: probabilmente non è mai esistito un solo soggetto umano che non sia stato capace di autodonazione gratuita (ricordiamo la vecchietta di Dostojesvkji che, in una lunga esistenza di avarizia, è stata - sia pure per una sola volta - in grado di dare una cipollina a un mendicante?), proprio come non è mai esistito (chi di noi ne potrebbe dubitare seriamente?) un soggetto umano che non abbia assecondato, anche nei momenti di prevalente donazione agapica, l’esigenza del tutto naturale e legittima di attuare le proprie potenzialità. La questione è un’altra: è teoricamente legittimo e praticamente innocuo interpretare come identici i due movimenti, in sé opposti, dell’amore erotico centripeto e dell’amore agapico centrifugo? Oppure la nozione di ‘carità‘ (che è emersa dalla storia bimillenaria di questo tentativo di con-fusione), pur elaborata per conciliare la saggezza greca e la profezia ebraica, ha finito con lo snaturare sia l’eros (diffamato in sé stesso e recuperato solo in quanto anticamera di un amore ec-centrico) sia la stessa agape (re-interpretata come atteggiamento di solidarietà forte e indiscutibile fra membri della stessa famiglia, della stessa chiesa, se mai della stessa città e di solidarietà sempre meno intensa e sempre più facoltativa man mano che ci si allontana dal cerchio primigenio verso individui e popoli altri da noi)? Non è un caso che, già all’alba del XX secolo, Max Scheler richiami l’opposizione fra il movimento dell’eros (”ascendente, dal non formato al formato, dall’imperfezione alla perfezione, dal basso verso l’alto, dal ‘µη ον’ all’ ‘ον’, dal ’sembrare’ all’ ‘essere’, da non sapere al sapere”) e la ” conversione di movimento [Bewegungsumkehr], di abbassamento, di discesa dal nobile all’ignobile, dal sano al malato, dal ricco al povero, dal buono e santo al cattivo e comune, dal Messia insomma a pubblicani e peccatori” nell’ottica della “critica alla morale borghese ed alla morale degenere” Se davvero si riconoscesse l’originalità dell’impianto agapico monoteistico, in specie cristiano, per cui “non sussiste ragione di chiederci quale sia il valore di coloro che sono oggetto dell’amore divino” dal momento che Dio ama per la sola ragione che “la sua natura è amore” , quante probabilità di restare in piedi avrebbe la visione pedagogica e più ampiamente politica (tuttora dominante in campo cattolico e protestante) che privilegia minori ed adulti ‘obbedienti’ e ‘consenzienti’ - almeno secondo i parametri della morale maggioritaria - rispetto ad ogni possibile caso di ‘devianza’ dal sistema normativo?
Personalmente ritengo più rispettoso della memoria storica e più fecondo per le relazioni sociali adottare un modello antropologico realistico che preveda, nel continuum dell’esperienza esistenziale effettiva, la dimensione della passione erotica inebriante (che, nella sua schietta originalità, non ha bisogno di essere riscattata o sovraordinata ad altro ) e la dimensione dell’autodonazione commisurata al volto dell’altro (che solo una mitologia psicologistica contemporanea tende a ridurre meschinamente a forme di egoismo mascherato ). E se adotto il semantema ‘dimensione’ è perché alludo ad aspetti distinti della vita, non a momenti cronologicamente separabili. Concordo, infatti, senza riserve con Giovanni Ventimiglia quando sostiene che “il culmine del piacere di un atto sessuale, la famosa ‘intesa sessuale’, non si può raggiungere badando - egoisticamente - solo al proprio piacere, ma imparando - altruisticamente - ad ascoltare, aspettare e assecondare il corpo dell’altro. Dunque, è proprio vero che l’egoismo non aumenta ma diminuisce il piacere dell’atto sessuale. Insomma: un vero epicureo del sesso è sempre anche un po’ stoico e, comunque, fa molta ‘beneficenza sessuale’. Il culmine dell’eros non si ottiene senza agape” . Ingredienti agapici non snaturano il movimento erotico che resta eros, proprio come e perché elementi erotici non snaturano il movimento agapico che resta agape. Ma forse, su questi temi etici, si possono pronunziare - con più pertinenza rispetto ad illustri studiosi che si limitassero a leggere libri o a chierici ben inseriti nelle gerarchie ecclesiastiche - gli uomini e le donne che, come avvertiva Aristotele, ne avessero esperienza in prima persona: in questo caso, che avessero la ventura di sperimentare effettivamente, nell’esistenza quotidiana, sia il miracolo dell’estasi erotica (anche, ma non esclusivamente in ambito sessuale) sia il miracolo, irriducibile al primo, del servizio gratuito a chi versa nella sofferenza.

Due postille non pleonastiche
A conferma del fatto che questo contributo, in quanto filosofico, non è animato da intenti apologetici né - di contro - eristici, mi pare irrinunziabile aggiungere almeno due precisazioni.
La prima è di ordine più propriamente concettuale. Secondo le Scritture ebraico-cristiane (ma, in questo, riprese sostanzialmente anche dal Corano), il modello archetipico dell’agape è Dio stesso: “Non noi abbiamo amato Dio, ma ha amato noi…” (I Giovanni, 4, 10). Ma il Dio della Bibbia (il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, dei profeti, di Gesù e di Paolo) non è solo principio incondizionato che si autorivela e, autorilevandosi, si dona: è anche un’istanza esigente di severità. Nel Primo come nel Secondo Testamento è il Giano bifronte di cui ha parlato più volte Giuseppe Barbaglio La teologia cristiana si è distaccata, lentamente, da questa ‘immagine’ di Dio, ma sarebbe anacronistico attribuire ai Padri della Chiesa e agli stessi Dottori della Chiesa la concezione teo-logica che abbiamo maturato solo ai nostri giorni. Hannah Arendt, nella tesi di dottorato cui ho fatto riferimento sopra, ha attirato l’attenzione su brani agostiniani del genere: “Nulla ci rende inclini all’amore quanto il pericolo che ci sovrasta (…) Pertanto, la pace e l’amore siano conservati nel cuore grazie al pensiero del comune pericolo”. Di che pericolo si tratta? Della morte fisica e, ancor più, della dannazione eterna. Chi ama può fare ciò che vuole - secondo la celebre espressione del vescovo africano - a patto che si abbia la memoria e quasi la sensazione di essere sotto la spada della parola di Dio: Si memineris senserisque te in gladio verbi Dei.
Enzo Mazzi avverte in proposito quanto sarebbe istruttivo per la teologia non rimuovere queste radici ambigue la cui persistenza ha compromesso, attraverso la dogmatica ufficiale e la catechesi ordinaria, una prassi ecclesiale davvero nonviolenta e compassionevole. Egli evoca uno dei tanti passi di Ernesto Balducci in cui il religioso della Badia fiesolana invitava a rivedere profondamente la concezione tradizionale di Dio inteso come “cifra assoluta dell’aggressività umana”: “un Dio aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo in cui noi pensiamo che si debba essere giusti,capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per tutti i secoli dei secoli” .
Una seconda precisazione è di ordine più etico e storico. Con tutte le riserve del caso appena richiamate, non c’è dubbio che è stato il Libro delle tre grandi religioni monoteistiche a consegnare all’umanità una interpretazione dell’amore come agape che altre culture, non meno nobili, come la cultura greca o la cultura romana o la cultura cinese non hanno conosciuto o, meglio, non hanno tematizzato con la stessa insistenza e chiarezza. Il riconoscimento di questo dato ‘oggettivo’ non deve però indurre nell’errore - da cui questa stessa enciclica non sembra immune - di ritenere che, conseguentemente, siano stati i fedeli di queste tre confessioni religiose monoteistiche a vivere in maniera coerente o addirittura in maniera esclusiva tale modello di amore benevolente. Già le stesse Scritture ebraico-cristiane insegnano che presso i miscredenti, eretici o pagani che siano, è possibile trovare fulgidi testimonianze di amore gratuito e oblativo: un esempio fra i tanti, la parabola del buon Samaritano (cfr. Luca 10, 25 - 37). Ma anche le letterature di diverse epoche e di diverse aree geografiche confermano che in nessun modo si possono identificare una dottrina retta sull’agape e una prassi realmente agapica. E ciò nel doppio senso: che non necessariamente chi sa, sulla base del modello teologico, come si dovrebbe amare di gratuità agisce di conseguenza e che non necessariamente chi rifiuta il modello teologico dell’agape è poi, nei comportamenti effettivi, incapace di un’opzione agapica. Personaggi come don Abbondio dimostrano senza possibilità di equivoci che accettare, nominalmente, il modello biblico dell’amore come autodonazione disinteressata non costituisca una condizione sufficiente per viverlo praticamente; altri personaggi, come i medici de La peste di Camus, dimostrano che non è nemmeno una condizione necessaria.

mercoledì 20 agosto 2008

Francesco Palazzo su “Repubblica - Palermo” del 17.8.08


LA REPUBBLICA PALERMO DOMENICA 17 AGOSTO 2008

Pagina XVI

COPPOLE E FICHIDINDIA LA MAFIA PER I TURISTI

FRANCESCO PALAZZO

Passeggiando per Erice, ma accade anche in altri luoghi strategici del turismo siciliano, non ci si fa quasi caso. Tuttavia capita di distogliere lo sguardo dalle bellezze urbanistiche, artistiche e paesaggistiche e di notare che quasi tutti gli esercizi commerciali vendono una miriade di souvenir aventi come soggetto la mafia. Non sappiamo che mercato abbia tale merce, che presa possa avere sul viaggiatore americano, inglese o danese o sugli stessi italiani non siciliani. Difficilmente ci è capitato di vedere negozianti incartare questi ricordi “particolari” della Sicilia. Se ne trovano per tutti i gusti. Le statuette della mafiusa e del mafiusu, con l´immancabile lupara sotto il braccio, sono offerte in tutte le salse, pure dentro le classiche boccette di vetro, quelle che capovolte danno la romantica percezione della neve che scende a fiocchi. Sulle magliette, poi, si possono leggere scritte di tutti i tipi. Si va dal rinomato «non vedo, non sento e non parlo», alla frase «lupara, tecnologia sicula è», passando dagli immancabili «omu di panza sugnu» e «baciamo le mani». La donna sicula, in tale iconografia, è rappresentata con il seno grosso, baffuta, il sedere superdimensionato e il grembiule casalingo. L´uomo in divisa da combattimento con la coppola d´ordinanza. Alle spalle dei soggetti il ficodindia, simbolo eterno della Sicilia che non cambia. Tanto che, negli anni Cinquanta, uno storico fotocronista palermitano, constatando la propensione dei quotidiani a pubblicare foto di omicidi solo se sullo sfondo c´era un ficodindia, se ne portava sempre uno di cartapesta nel bagagliaio dell´auto, tirandolo fuori quando arrivava sulla scena del delitto.

Anni lontani. Vicina rimane l´esigenza di vendere un´Isola fatta di immaginette, dove della mafia non sono fornite chiavi di lettura che possano far capire al turista di cosa si parla, ma soltanto visioni stereotipate. Le quali, più che mettere ironicamente alla berlina i mafiosi e quanti ci vanno appresso, imbalsamano un´istantanea sempre uguale a se stessa: il mafioso è solo chi spara, colui che si esprime in un certo modo vestendo determinati abiti, che si accompagna a una consorte fotocopia, brandendo il fucile a canne mozze da mattina a sera. Insomma, al visitatore si suggerisce che basta guardarsi dal fucile puntato in mezzo agli occhi e poi può andare tranquillo, la mafia non potrà più scorgerla in alcun luogo. Tale raffigurazione è impressa nell´oggettistica più varia. Troviamo il tamburello, il guantone, l´adesivo, l´apribottiglia e via seguendo. Si può ipotizzare che dietro tali proposte di acquisto non ci sia in fondo un vero interesse commerciale, ma proprio una predisposizione culturale degli stessi siciliani o della maggior parte di essi. A chi viene da fuori si vuole comunicare che la mafia non è quella cosa terribilmente seria, complessa, strutturale, non emergenziale che abbiamo imparato a conoscere meglio negli ultimi trent´anni. Ma un fatto di pura folkloristica violenza, che si può proporre negli scaffali tra un vaso di ceramica e una collanina di perle. Mentre argomento mentalmente queste idee, entro in una libreria e vedo l´opuscoletto di Augusto Cavadi (dell´editore trapanese Di Girolamo) “La mafia spiegata ai turisti”, tradotto in sei lingue. Il senso dell´operazione è esattamente l´opposto. Quasi al prezzo di uno solo dei tanti ricordini che dicono niente sulla criminalità organizzata siciliana, si danno poche ma fondate informazioni sulla mafia e sull´antimafia. Souvenir inutili o un piccolo utile libretto. Due modi profondamente diversi per ricordarsi dell´Isola quando si tornerà a casa. I primi continueranno ad alimentare l´ignoranza, il secondo contribuirà a far capire un po´ di più la Sicilia e i siciliani.

martedì 19 agosto 2008

SULLA STORIA D’ITALIA


Repubblica – Palermo 19.8.08

MORO, CALO’ E SINDONA
I MISTERI DI UN “FALSARIO”

“Non tutto ciò che è accaduto dalla strage di Portella della Ginestra sino alla commissione Telekom- Serbia è crimine”: ma, non c’è dubbio, “i criminali hanno spesso e volentieri interagito con le vicende cruciali del nostro passato recente”. La premessa serve a Giancarlo De Cataldo per inquadrare la storia di Tony Chichiarelli, “uno di quei disgraziati che il pittoresco gergo mafioso definirebbe canazzi di bancata “. La raccontano ne Il falsario di Stato (Cooper, Roma 2008) - con efficacia giornalistica e, in qualche passaggio, anche letteraria - Massimo Veneziani e il palermitano Nicola Biondo, che da anni si occupa in libri ed articoli degli intrecci fra mafia, criminalità comune e istituzioni deviate.

La figura del giovane abruzzese Chichiarelli è emblematica di questi intrecci ancora da dipanare: è infatti un abile falsario di quadri, scende dalla Marsica a Roma, frequenta la banda della Magliana e Pippo Calò che rappresenta Cosa nostra nella capitale, ammira le Brigate rosse e finisce assassinato nel 1984 subito dopo aver portato a termine una rapina miliardaria alla Brink’s Securmark.
Il racconto, scandito come la sceneggiatura di un film, ripercorre le vicende di un personaggio ‘minore’ che, emigrato da un piccolo centro degli Appennini , finisce per trovarsi nel bel mezzo di ‘misteri’ più grandi di lui.
La svolta - che coincide con un salto dalla cronaca di quartiere alla storia d’Italia - ha una data precisa: 18 aprile 1978. E’ il giorno in cui un giornalista del “Messaggero” di Roma si precipita, dopo aver ricevuto una telefonata in redazione, verso uno dei cestini di rifiuti di piazza Belli, nelle immediate vicinanze di Trastevere. E vi trova il comunicato n° 7 delle Brigate Rosse in cui si annuncia il ’suicidio’ di Aldo Moro. Il ritrovamento provoca lo sguinzagliamento delle forze dell’ordine in tutto il lago della Duchessa, alla ricerca del cadavere dello statista. Ma sarà una ricerca vana: il comunicato risulterà falso e - secondo varie, persuasive testimonianze - Tony Chiachirelli ne risulterà l’autore. Per puro piacere di giocare o per obbedire a ordini superiori? E’ l’ennesimo interrogativo destinato a risultare irrisolto. Ma non basta. Il falsario si trova implicato, a vario titolo, nel delitto di Mino Pecorelli (direttore dell’agenzia di stampa settimanale “OP”) e del fratello del magistrato Ferdinando Imposimato ad opera, secondo la testimonianza del boss camorrista Carmine Schiavone, di esponenti di Cosa nostra e della banda della Magliana in combutta.
La sua gimkana, fra criminali e servizi segreti, finisce qualche mese dopo che Tony, con altri tre complici, è riuscito ad introdursi nel caveau di un deposito portavalori in via Aurelia e a realizzare “la rapina del secolo”: il bottino, in quello che gli stessi delinquenti definiscono il “bunker di Stato di Sindona”, è di “almeno trentacinque miliardi di lire tra banconote, titoli e valori di varia natura”. Infatti, la notte del 28 settembre 1984 viene trucidato con la compagna: il bambino di appena un mese si salva per miracolo. Ai due autori del libro torna in mente la celebre metafora della “palma che va a Nord”, a proposito della mentalità mafiosa che si espande nel resto della Penisola: “la storia di Tony Chicchiarelli forse sarebbe piaciuta a Sciascia”. O senza forse.

venerdì 1 agosto 2008

Nuovo dizionario di mafia e antimafia


E’ in edicola da pochi giorni il NUOVO DIZIONARIO DI MAFIA E ANTIMAFIA edito dalle Edizioni Gruppo Abele di Torino (a cura di M. Mareso e L. Pepino, prefazione di N. Tranfaglia), pp. 603, euro 28,00.
La voce “Educazione alla legalità” (pp. 233 - 237) è stata curata da me.

RELIGIOSITA’ E PAURA


Centonove 1.8.08

SE LA POLITICA SFRUTTA I SENTIMENTI

Il mondo della politica e la sfera dei sentimenti privati: due universi paralleli? La risposta può solo essere calibrata, di volta in volta, in contesti storici e geografici precisi. Grosso modo, si potrebbe dire che, nel secolo delle ideologie da poco trascorso, la politica mostrava il volto duro dei grandi ideali di libertà o di giustizia o di patria rispetto ai quali il privato - la soggettività individuale - andava spietatamente subordinato. Il ‘68 suonò però un primo campanello d’allarme: è proprio sicuro che il ‘personale’ non abbia nulla a che fare con il ‘politico’? Su questo tasto ha insistito, tra fatiche e contraddizioni, il femminismo occidentale: una politica che ignori i sentimenti è monca, fallimentare, proprio in quanto politica, cioè impegno trasformativo per una città migliore.

Con il XXI secolo il ceto politico, preoccupato di non trovare ascolto fra la gente, si è fatto più attento al mondo dei sentimenti: per ascoltarli, decodificarli e predisporre risposte confacenti oppure per cavalcarli e strumentalizzarli? Quanto sia scottante e attuale tale interrogativo ce lo dicono le cronache siciliane e nazionali quasi ogni giorno. Due sono i sentimenti più sfruttati, sui quali si fa leva per raccogliere consenso: la religiosità e la paura.
La religiosità (in Italia identificata un po’ frettolosamente con l’adesione ad una delle tante possibili confessioni di fede) si mostra più resistente a scomparire di quanto autorevoli profezie sociologiche non abbiano previsto negli scorsi decenni: sarà perché è una dimensione costitutiva dell’essere umano o anche solo perché, come sosteneva Marx, sino a quando ci sarà sofferenza sociale non potrà spegnersi “il sospiro della creatura oppressa”. Questo lo sanno bene quei presidenti di governi regionali che ‘consacrano’ alla Madonna di Siracusa l’isola che dovrebbero amministrare con equità, senza discriminazioni confessionali tra i cittadini. O anche quei presidenti del consiglio dei ministri che si genuflettono di fronte al papa, “prostrandosi - ha osservato il prete e teologo genovese don Paolo Farinella, intervistato da “Adista” - in un baciamano che somiglia più a rappresentazioni di stampo mafioso che non a un atto di devozione sincera”. E l’incontro pubblico “fra una politica genuflessa ed una Chiesa imperiale” - ha commentato, sulla stessa agenzia di stampa, il parroco abruzzese don Aldo Antonelli - “rende evidenti tante cose”. Tra l’altro, rende evidente - a mio avviso - che le gerarchie ecclesiastiche preferiscono, in questa fase, strumentalizzare i politici non minacciando scomuniche e usando le maniere ‘forti’, ma corteggiandoli, ricevendoli in Vaticano con tutti gli onori e senza sollevare critiche (anzi assumendo come consiglieri della politica estera gli stessi consiglieri, come Kissinger, già al servizio dei potenti di questo mondo): ciò ha fatto scrivere una volta all’attuale vescovo di Trapani, in una lettera privata ad un’associazione di teologi milanese, che l’episcopato italiano - come l’Esaù biblico - sta vendendo la primogenitura per un piatto di lenticchie. Del tutto simile la tattica dei dirigenti politici nei confronti della gerarchia ecclesiastica: si prostrano per poter cavalcare meglio la credibilità (residua) dei papi e dei vescovi davanti a cui si inginocchiano.
Un altro sentimento radicato nella struttura antropologica è la paura. E, come tutti sentimenti, non ascolta ragioni. Puoi benissimo dimostrare, statistiche alla mano, che il numero degli omicidi, dei ferimenti, delle rapine e dei furti - in un determinato lasso di tempo - diminuisce: niente da fare. Se un delitto viene ripreso e amplificato, per così dire da porta a porta, la gente impara a percepire come minacciosi il vicino di casa, il lattaio e persino la mamma che dorme nella stanza accanto. Così può capitare che governi nazionali enfatizzino la microcriminalità all’angolo della strada per distrarre l’opinione pubblica dalle decisioni macroscopicamente minacciose nei riguardi della convivenza pacifica fra i popoli (a livello di politica estera) e dell’amministrazione della giustizia (nell’ambito della politica interna).
E’ possibile una politica che ascolti i sentimenti
senza servirsene per i propri interessi? Alla riflessione, pluralistica e schietta, su questi temi la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” ha deciso di dedicare il suo tradizionale seminario estivo. Si è svolto presso il Convento dei Frati francescani di Gibilmanna da venerdì 11 a domenica 13 luglio. Dopo un primo giro di opinioni fra i partecipanti, gestito da Francesco Palazzo e Pietro Spalla, si è avuta una discussione a partire dalla relazione di Giuseppe Savagnone su “Il sentimento religioso e la politica” e, successivamente, un’altra discussione introdotta da Andrea Cozzo e Roberto Tagliavia su “Il sentimento della paura e la politica”.
Il primo, prestigioso esponente del mondo cattolico italiano, ha sostenuto la necessità di riconciliare logos e pathos, pensiero e amore, ragione e sentimento. In un contesto in cui questa circolarità virtuosa venisse attuata, si capirebbe meglio la sostanza positiva dell’appello di Ratzinger (anche a Ratisbona) a confrontare le diverse proposte etiche, anche da parte delle religioni monoteistiche, sul piano ‘laico’ del confronto razionale. Savagnone (forse per amore di sintesi, forse per scelta tattica) non ha però precisato che, nell’ottica cattolica, questo confronto razionale è viziato da una pregiudiziale: che, se nel dibattito un interlocutore arriva a conclusioni che il magistero ecclesiastico reputa incompatibili con la dogmatica da lui stabilita ‘infallibilmente’, viene accusato non solo di avere poca fede (come se la fede fosse essenzialmente adesione ad un pacchetto di verità soprarazionali), ma anche di essersi allontanato dalla ‘retta’ ragione. Insomma, viene bollato come ‘eretico’ (se pretende di dirsi cristiano) e come cattivo ‘ragionatore’ (se ha almeno il buon senso di dichiararsi a-cristiano). Siamo proprio sicuri, dunque, che basta appellarsi di principio al metodo razionale per non essere, di fatto, dei fondamentalisti? Non chi dice “ragione, ragione” entra, per ciò stesso, nel regno dei liberi.
Andrea Cozzo, tra i più noti ed attivi esponenti del movimento nonviolento in Italia, ha voluto mostrare, con esempi concreti, la tendenza attuale a non saper gestire la propria ‘angoscia’, personale e collettiva, trasformandola - dunque - in ‘paura’: l’angoscia infatti è indeterminata, la paura ha oggetti precisi. E quando gli oggetti concreti non esistono, bisogna inventarseli. La politica, con la complicità dei media, riesce benissimo a favorire questa trasformazione dell’angoscia (al singolare) in paure (al plurale): anzi, in questo momento, fa di tutto per enfatizzare alcuni motivi di insicurezza (la microcriminalità, i comportamenti illegali di alcuni zingari…) pur di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dai pericoli più gravi (le guerre, le mafie, la corruzione ai vertici dell’amministrazione…).
Roberto Tagliavia, funzionario che da anni lavora presso il gruppo parlamentare PCI/PDS/DS/PD all’Assemblea regionale siciliana, ha messo in guardia dai pericoli del fondamentalismo in politica: a suo avviso, le diverse visioni del mondo e della vita presenti nella società devono contribuire al dibattito pubblico sui diversi temi dell’agenda politica ma, quando si perviene al momento di legiferare, l’apparato statale deve trovare soluzioni che, per quanto possibile, rispettino gli orientamenti etici di ciascun gruppo sociale (etnico, religioso o altro). Altrimenti si andrà incontro al gravissimo rischio per la democrazia che ogni maggioranza imponga alla minoranza un’etica che la minoranza, una volta diventata maggioranza, abolirà e sostituirà con un’etica opposta. Ma le leggi, una volta promulgate con il massimo di condivisibilità teorica, devono poi essere praticamente rispettate: lo Stato di diritto è uno Stato in cui tutti possono ‘leggere’ le regole (leges) affisse al muro, ma nessuno può violarle impunemente. Neppure “le alte cariche dello Stato”; anzi, queste meno di chiunque altro.
Domenica mattina, infine, una Tavola rotonda - aperta agli interventi di tutti i partecipanti - ha chiuso l’intensa terna di giornate. E’ stato un tentativo di offrire a quanti sono impegnati attivamente in politica una pausa di meditazione rilassante, lontano dalle polemiche di bottega e dalle furbizie di giornata. Ma anche, e soprattutto, di offrire ai cittadini-elettori un’occasione di consapevolezza critica: se qualcuno specula sui nostri sentimenti è perché noi glielo consentiamo per superficialità e distrazione. Se qualcuno ci manca di rispetto, quasi sempre dipende dal fatto che noi per primi abbiamo scarso rispetto per la nostra dignità di persone.

UNA STORIA VERA


“Confronti”
2008, 7/8 (luglio - agosto)

L’amore è cieco, la mafia no

Sulle tragedie provocate in gente inerme dal sistema criminale mafioso sappiamo ormai molto. Anche perché ad essere colpiti sono stati, in non pochi casi, nostri familiari o amici d’infanzia o personaggi pubblici che stimavamo per la loro professionalità. Eppure - anche su argomenti come questo in cui avremmo preferito restare inesperti - non si finisce d’imparare.

Ricevo una e-mail da indirizzo sconosciuto, firmata con nome e cognome e indirizzo da una giovane donna altrettanto sconosciuta. “Sono anch’io una vittima di mafia” - esordisce il messaggio - “ma una vittima di genere particolare che non avrà mai nessuna forma di risarcimento morale”. Come può capitare alle ragazze carine, era stata corteggiata da un collega di lavoro già sposato, alle cui avances aveva risposto sulle prime negativamente. Ma lui aveva insistito, aveva raccontato tante cose poco gradevoli sulla moglie, dichiarato che con lei era ormai finita e spiegato di avere diritto ad una seconda vita. E ad averla con una persona speciale come lei, come Lucia. Lucia ha intanto l’occasione di trasferirsi in Toscana a lavorare per la sua azienda realizzando così un progetto che aveva da tempo - da prima di conoscere lui - pensando anche che la nuova vita le avrebbe permesso di dimenticarlo. Invece la lontananza ha l’effetto di unirli ancora di più. Al punto che lui decide di separarsi. Lucia, credendo di non avere altra scelta, si licenzia, torna in Sicilia, va a convivere con il nuovo compagno. “Mi sembrava finalmente che tutti i sacrifici fossero stati ben ripagati”; ma l’illusione dura poco. Intanto Lucia arriva ad una tremenda verità: ha lasciato carriera, famiglia, amicizie promettenti per vivere con un mafioso. Lo ama, ma ha bisogno di capire come può una persona legarsi per amore ad un’altra che incarna proprio quei principi - di sopraffazione, di illibertà, di sfruttamento dei deboli - per i quali sin da bambina ha provato disgusto. Lui proclama di essere in crisi, di voler uscire dalla trappola in cui si è trovato per ragioni anagrafiche, anche a costo di rinunziare ai tanti benefici che la familiarità con quel mondo gli aveva sino ad allora assicurato, soprattutto nell’ambito professionale (l’ambito della sanità, dove appartenere a certe ‘famiglie’ - lungi dall’essere un handicap - viene considerato un valore aggiunto). Sono giorni, settimane, mesi terribili. L’agonia è rotta dal colpo di grazia finale: “Mi dice che dobbiamo lasciarci…Nega però che deve obbedire a un ordine insindacabile perché non c’è più chi lo aveva protetto dalla punizione riservata a chi lascia la moglie, per giunta se essa stessa figlia di un mafioso. Circostanza che, in un’altra occasione precedente, aveva lui stesso dichiarato e con una certa forza.”
Così Lucia si ritrova davvero senza nulla in mano. Oggi scrive di sentirsi in pericolo: “Ho paura che per la troppa sofferenza si possa rompere qualcosa nella mia mente. Dico questo perché il comportamento di questo individuo non è stato normale: non è stato il solito ‘bastardo’. E’ stato spietato come solo un mafioso figlio di mafioso lo sa essere, specie quando è succube di una sorta di regia più grande di lui “. Dentro, nel profondo, le è rimasta una rabbia indomabile. Contro se stessa, contro la presunzione di poter davvero partecipare alla “salvezza” di un uomo; ma anche contro un sistema di potere che non si limita a condizionare elezioni politiche ed affari commerciali, delibere amministrative e carriere mediche, ma vuole e può disporre anche dei sentimenti della gente.
Continua Lucia: “ Ho sentito vari consigli e commenti da parte di amici e colleghi su ciò che dovevo fare, dire. Avrei dovuto essere, pensare, capire e …bla bla. È vero: lui non mi ha costretto con la forza, ero maggiorenne e capace di scegliere e di decidere. Anche tutti quelli che sono sepolti sotto terra erano persone capaci di decidere e scegliere, ma hanno creduto in qualcosa. Anch’io ho creduto in qualcosa: nella forza del mio affetto e in un progetto di vita con un uomo che amavo e che ho creduto capace di ribellarsi e di dire no alla mafia, scegliendo la strada dell’onestà e dell’impegno civile e morale con me. Ma lui non è tornato indietro perché non era mai andato via, non è stato capace (o non ne vedeva più la convenienza ! ) di essere un uomo nuovo: e ho pagato solo io. Quando qualcuno non ti costringe ma ti rispetta, quando ti dice di agire in nome dell’amore e che sei la sua nuova famiglia ti senti al sicuro e protetta. È allora che questo qualcuno può fare tutto di noi perché sta usando l’amore come arma infallibile, più efficace delle bombe. Sì, l’amore è un arma potente nel bene e nel male. I mafiosi lo sanno e fanno tutto in suo nome: amore per la famiglia, per il potere, per il denaro, per Dio. Un essere umano non si uccide solo con le armi: c’è una morte ancora più terribile perché ti raggiunge in un posto non ben definito dell’anima”.
Rabbia, impotenza, disperazione: come spiegare che “la mafia non uccide solo con la lupara”? Una prostrazione psichica che arriva a somatizzarsi, a raggelare la vitalità di una donna entusiasta ed ora sballottata da un medico a un altro per tentare di sopravvivere. Ma forse, anche, uno sconforto che può - gradualmente - trasformarsi in consapevolezza e in progetto: nella decisione di uscire dal limbo dei siciliani che osservano, distaccati, la guerra di civiltà fra “Cosa nostra” e i suoi sudditi obbedienti, da una parte, e, dall’altra, le “minoranze morali” che le si oppongono con la testa, con la parola e con i fatti. Non avviene di frequente: ma l’odio e il risentimento, se rielaborati e metabolizzati, possono fare di una persona umiliata un protagonista di cambiamento culturale e sociale. Perchè, certo, è importante - dove possibile - che gli individui paghino per le conseguenze della propria viltà; ma in fondo, poiché rinunziano al diritto elementare di autodeterminarsi, sono essi stessi vittime di un sistema perverso che, prima di spegnere la vita biologica degli avversari, sfregia la dignità degli affiliati riducendoli a burattini alla mercè di mani invisibili. Ed è questo sistema - fondato sulla gerontocrazia, sul conformismo, sulla perpetuazione di codici comportamentali ipocriti, sulla passività agli ordini anche più disumani dei capi, sul disprezzo delle ragioni del cuore, sulla svalutazione della femminilità - che va scardinato. A partire dalla propria vicenda, ma con l’intento di farne un’inversione di tendenza storica.