sabato 29 novembre 2008

L’OMELIA DI DOMENICA 14 DICEMBRE


“Adista” 29.11.2008

QUALE TESTIMONIANZA
Giovanni 1, 6 - 8. 19 -28

Come notano gli esegeti, questi due brani del primo capitolo del vangelo secondo Giovanni sono “martellati” dal vocabolo ‘testimonianza’. Ci sono dei periodi storici in cui - per fortuna ma più ancora per sfortuna - prediche roboanti e comizi infuocati fanno effetto. In altri periodi, invece, la trasmissione ex cathedra (ed ex tribuna) non funziona altrettanto efficacemente. Sono fasi della storia in cui la gente sembra, o è davvero, impermeabile alle proclamazioni di fede solenni e agli slogan di partito gridati. Sono i momenti in cui dalla trasmissione ‘unilaterale’ (da un centro ‘emittente’ ad una platea di ‘recettori’ passivi) occorrerebbe passare alla comunicazione ‘biunivoca’ ( che, come ricordava Danilo Dolci nei suoi seminari, proprio in quanto comunicazione non può essere - per definizione - “di massa”). Non solo: in questi frangenti storici la comunicazione più efficace non è la ‘diretta’ ma, secondo la felice espressione di Kierkegaard, la ‘indiretta’. Ti parlo, ma tu mi ascolti più volentieri se - anziché rivolgermi a te verbalmente - ti racconto la mia storia. Ti mostro la mia esistenza. Ti testimonio quello in cui credo, e che vorrei comunicarti con amore, attraverso ciò che sono e ciò che faccio.

Anche se alcune chiese cristiane (ma temo che l’osservazione valga anche per alcune comunità ebraiche e islamiche) non mostrano di essersene accorte, stiamo attraversando una fase del genere: nelle questioni vitali, il discorso più convincente si configura più come testimonianza che come argomentazione retorica. I grandi messaggi religiosi si diffondono solo se, e quando, alcuni credenti riescono a comunicare confidenza nel Mistero, gusto della contemplazione, senso della giustizia, sete di libertà, servizio a chi è stato spossessato…mediante il linguaggio della loro esemplarità ordinaria. Per queste ragioni la figura di Giovanni il Battista è oggi di particolare attualità. Di attualità, ma non di moda: perché - come evoca il vocabolo greco che traduciamo con ‘tetsimonianza’: martirio - vivere ciò che si crede vero e giusto ha un suo prezzo. Non è un caso che, quando si sperimenta il costo di vivere come si ritiene corretto, spesso si finisce col preferire l’inverso: ritenere corretto il modo in cui si vive. Giovanni il Battista non è stato né il primo né l’ultimo a pagare con la testa la fedeltà ai suoi princìpi.
Gli esseri umani siamo così strani che riusciamo, però, a guastare tutto ciò che tocchiamo. Così persino il primato della testimonianza operosa sulla predicazione verbale - primato per tanti versi apprezzabile e fruttuoso - cova in seno i suoi terribili rischi. Primo fra tutti il rischio di enfatizzare la coerenza con sé stessi al punto da ritenenere secondario, anzi trascurabile, il grappolo di valori rispetto ai quali ci si sforza di vivere consequenzialmente. Cosa sono gli integralismi violenti, i fondamentalismi aggressivi - di ogni colore e di ogni bandiera (anche a stelle e striscie) - che infestano il panorama politico contemporaneo, se non tragici esempi di ideali incarnati sino alle estreme conseguenze? Dai piloti giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale ai giovanissimi militanti islamici odierni, passando per tutta una serie di cristiani che sacrificano cervello e cuore sull’altare della obbedienza alla volontà dei capi che si spacciano per portavoce di Dio stesso, il mondo pullula di persone che rovinano sè stessi e gli altri in nome del ‘martirio’. Per questo, probabilmente, il vangelo insiste su ciò per cui vale la pena farsi testimoni: “la luce”. Ogni testimonianza va misurata sul grado di coerenza di cui è capace il testimone, ma anche - e prima ancora - sulla validità intrinseca di ciò che egli condivide e intende comunicare: sulla luminosità ‘oggettiva’ (o, per lo meno, intersoggettiva) dei valori per cui si spende. I tiepidi sono un peso per la storia dell’umanità, ma molto più dannosi i martiri che non hanno maturato a sufficienza (mediante un’adeguata informazione, una ponderata riflessione , uno schietto confronto con gli altri, una critica attenzione ai segni dei tempi…) la scelta della causa per la quale vivere e, se proprio necessario, morire. Ma mai uccidere.

martedì 25 novembre 2008

Lunedì 1 dicembre a Palermo il mio libro sul cristianesimo


Lunedì 1 dicembre 2008 alle ore 18.15
Salone del Centro studi “Bonelli”

(presso la Chiesa valdese di via Spezio,
all’angolo con la via Emerico Amari,
alle spalle del teatro Politeama)

incontro pubblico sul tema

Ci si può ancora dire cristiani?

a partire dal volume di Augusto Cavadi

In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani

(Falzea, Reggio Calabria 2008, euro 15)

Il dibattito sarà introdotto e moderato da Franco Micela.
Interventi previsti:

Francesca Piazza (filosofa)
Nino Panzarella (teologo cattolico)
Elisabetta Ribet (teologa valdese)

lunedì 24 novembre 2008

Le agitazioni dell’Onda sono politiche?


“Centonove”
21.11.08
SCUOLA, SE LA PROTESTA E’ POLITICA

Lo si sente ripetere in televisione, alla radio, sui giornali e anche nei cortei di protesta: il movimento studentesco di queste settimane “non è politico”. E lo si afferma con tono rassicurante, irenico, soddisfatto. Che cosa vogliano dire la casalinga per la prima volta per strada a manifestare o il sindacalista ‘moderato’, che hanno votato centro-destra, lo capiamo benissimo: non siamo in piazza strumentalmente per far cadere questo governo. Non siamo pregiudizialmente e programmaticamente contro Berlusconi e i suoi ministri: vogliamo esprimere un dissenso circoscritto, limitatamente a questi provvedimenti di Tremonti che usa Gelmini come controfigura, giacché - come recitava uno dei cartelli partoriti dalla creatività individuale - “la scuola non ha colori: né di destra né di sinistra”. A questi elettori (”Può darsi che siamo pentiti…non ci puoi inchiodare alle nostre scelte elettorali” mi sosteneva una collega il cui fratello è un esponente pubblico della Cdl) bisogna spiegare, con rispetto ma con chiarezza, che il loro - eventuale - disappunto è sintomo di ingenuità politica. Non si può votare per un governo di centro-destra e poi, se per caso comincia ad attuare (con una coerenza interna che il centro-sinistra non ha saputo dimostrare) una politica scolastica conservatrice e liberista, stupirsene e lamentarsene. In cinque anni un governo di centro-destra non può trascurare d’intervenire su un settore vitale quale il sistema scolastico ed universitario: proprio come non potrebbe evitarlo un governo di centro-sinistra o di estrema destra o di estrema sinistra. Nel lungo periodo, insomma, chi fa politica con un minimo di incisività deve ripensare le idee forti che strutturano l’organizzazione militare, i rapporti internazionali, l’amministrazione della giustizia, i servizi socio-sanitari…E se fa politica con un minimo di coerenza, le decisioni che si assumono in un settore devono essere armonizzate con le decisioni operanti in tutti gli altri ambiti. Per esempio: se deve rinforzare il protagonismo militare in Afghanistan o in Iraq, deve tagliare le spese da qualche altro capitolo di bilancio (la sanità o l’istruzione); se deve ridurre la tassazione sui grandi patrimoni privati o evitare una seria lotta all’evasione fiscale, deve chiedere ai cittadini un maggiore esborso di denaro o una rinunzia ad alcune prestazioni statali gratuite.

Ma non sono solo elettori di centro-destra (come la casalinga o il sindacalista di cui sopra) a sostenere, con compiacimento, che le agitazioni studentesche attuali “non sono politiche”. Lo sostengono, con non minore compiacimento, anche elettori di centro-sinistra. Ora la questione è presto sintetizzabile in due interrogativi: è vero che questo movimento è ‘apolitico’ ? E, se è vero, c’è da rallegrarsene se si è all’opposizione del governo che si è intestato la riforma Gelmini?
Alla prima domanda non so rispondere. Probabilmente in larga parte è davvero una protesta settoriale, se non addirittura corporativa: molti non sarebbero in piazza se - come insegnanti, come studenti e come genitori - non vedessero minacciati i loro (sacrosanti) interessi. Ma per la parte migliore dei manifestanti (insegnanti, studenti e genitori) non è così: convinti che la politica non è - o non è soltanto né principalmente il salottino televisivo di Vespa - scendono in piazza perché per loro la politica riguarda il diritto allo studio, alla salute, a un lavoro dignitoso, ad una giustizia uguale per tutti, alla libertà di opinione e di critica. Che ci sia una consistente percentuale di manifestanti che vogliono fare politica lo hanno capito benissimo anche le squadracce neo-fasciste di piazza Navona che attaccano i cortei dei giovani disarmati: se non fiutassero la portata ‘politica’ di questi eventi, perché dovrebbero infiltrarsi fra i coetanei e provocare incidenti? Se davvero si trattasse di lamentele settoriali, destinate a restare tali, perché non lasciare ai cittadini ‘apolitici’ gli spazi di protesta?

***
Ma laddove non sono in grado di rispondere alla domanda su quale sia - di fatto - il tasso di politicità di queste agitazioni, sono molto più certo della risposta al secondo interrogativo: che cosa pensare della - più o meno diffusa - assenza di consapevolezza politica dei manifestanti? Veltroni, intervistato da un tg nazionale della RAI, ha assicurato che i partiti di opposizione rispetteranno la natura spontanea ed a-ideologica di queste proteste. A me pare una risposta davvero stupefacente per un politico di professione. Lo so: voleva dire che gli apparati partitici non tenteranno di cavalcare dall’esterno questi moti, di metterci - come usava dire anni fa - il cappello sopra. E ha detto una verità istruttiva. Ma uno dei leader dell’opposizione democratica non può dimenticare di dire l’altra metà della verità: che chi vuole una scuola ed una università migliori delle attuali (e Dio solo sa di quante riforme normative e morali ci sarebbe bisogno!) non può accontentarsi di piccoli lifting, più o meno tattici, che il governo potrà apportare ai propri decreti sotto la pressione contingente della piazza (e dei sondaggi), magari in attesa che la marea si abbassi e la gente si stanchi. Uno statista, un dirigente, deve spiegare ai cittadini - di destra e di sinistra e soprattutto ai qualunquisti - che chi vuole una scuola migliore non può limitarsi a lottare per una scuola migliore: deve iniziare a fare politica. Cioè: a lavorare per un sistema sociale complessivo (una polis, appunto) migliore. E con continuità testarda: non per un giorno ogni trecentosessantacinque. Deve aggregarsi con qualcuno che già lavora in un partito politico, in un sindacato, in un’associazione, in un movimento…O, per lo meno, deve cominciare a leggere il quotidiano e magari qualche libro intelligente. Deve capire che in politica tutto si tiene: scuola, sanità, magistratura, politica estera, finanza. Gli si deve spiegare che in democrazia si possono fare tutte le manifestazioni di piazza che si vogliono, ma queste o hanno valenza ‘politica’ perché sono l’anticamera di un nuovo modo di concepire la società oppure si condannano a non esercitare nessuna seria incidenza storica.

Non stimo Berlusconi né la sua corte, ma ne apprezzo sinceramente la coerenza con cui si sforza di tenere fede agli impegni assunti pubblicamente in campagna elettorale. Ha avuto la franchezza di dire che riteneva una follia l’idea ‘comunista’ che il figlio di un operaio debba avere le stesse possibilità di ascesa sociale del figlio di un professionista: chi ha votato per lui e per la sua coalizione, deve sapere che o cambia schieramento o è più dignitoso che se ne resti a casa. Non si può applaudire uno Stato violento con gli immigrati e lassista con gli speculatori di borsa; esigente quando fissa le tariffe per i ticket sanitari e tollerante verso chi si arricchisce con il lavoro in nero degli operai; pronto a rinnovare i finanziamenti per i contingenti militari in “missioni di pace” dove Bush puntava l’indice e restio a sostenere la cooperazione internazionale… e poi dissentire, di punto in bianco, su una questione determinata, particolare, come il sistema scolastico. Non si può, insomma, eleggere un capo del governo perché mostra i muscoli e si offre a strenuo difensore degli abbienti e, però, pretendere che muti codice genetico e diventi attento ai bisogni della gente quando si occupa di istruzione. Sarebbe come chiedergli di trasformarsi prodigiosamente in una sorta di Dottor Jeckil e di Mr. Hide. Vero è che Berlusconi è stato reso quasi onnipotente da un consenso elettorale plebiscitario (che continua ad avere proprio in Sicilia una straordinaria riserva di voti), ma non ci si può attendere un miracolo al giorno. Il 30 ottobre ne ha già fatto uno, riuscendo a rimettere a fianco Pd, Italia dei valori, sinistra extra-parlamentare, cittadini apartitici di vario orientamento e persino alcuni elettori ed eletti di centro-destra (trasformando, per dirla col mio amico Alberto Biuso, l’intera Italia in “un’aula scolastica invece che il solito passivo studio di Mediaset”). Avrà diritto anche lui a qualche giorno di riposo? Il disastro è che - del tutto illusoriamente - pensano di averne diritto gli altri, i suoi avversari.
Augusto Cavadi

sabato 22 novembre 2008

L’OMELIA DI DOMENICA 7 DICEMBRE


“Adista”
22.11.2008

IL BATTESIMO SECONDO GESU’

Marco 1, 1- 8

La storia è scritta di solito da chi ha vinto o da chi si allinea dalla parte del vincitore. Anche questa pagina lo conferma. A leggerla, infatti, sembra che tutto si incastri a meraviglia e che dopo Giovanni Battista sia arrivato Gesù il Nazareno, come quando nei concerti musicali una band minore riscalda l’atmosfera e prepara l’apparizione della vera star della serata. In realtà le cose non sono scivolate proprio così lisce. Per anni i discepoli del Battista si sono contrapposti ai discepoli del Nazareno e, attraverso vicende complicate di cui ci sfuggono molti passaggi, il secondo gruppo ha finito con il prevalere sul primo: conquistata l’egemonia, infine, ha potuto costruire un racconto irenico in cui, cancellate le tracce della precedente dialettica, il ruolo di Giovanni è sì riconosciuto ma in condizione di subordine rispetto alla figura e all’opera di Gesù.
Questa possibile ricostruzione storica non avrebbe alcuna rilevanza se non ci portasse a capire meglio in cosa consista - almeno secondo Marco - la novità evangelica. Giovanni non era infatti un profeta meno brillante per loquela, né meno rigoroso nei comportamenti, del cugino galileiano.

Secondo la versione di Luca il suo messaggio poteva condensarsi in poche, precise richieste. A chi faceva l’esattore delle tasse, chiedeva di non esigere più del dovuto; ai soldati, di non fare violenza a nessuno; alla gente in generale, di dare a chi non aveva nulla metà dei propri beni. Che cosa si poteva desiderare di più?
Forse le parole conclusive di questa perìcope possono aprire uno spiraglio: Giovanni battezzava “in acqua”, il Messia “in Spirito Santo”. Giovanni chiedeva ai seguaci di mettercela tutta e di coronare l’itinerario di ascesi e di ascesa con il segno del battesimo; Gesù conosceva la fragilità del cuore dell’uomo e chiedeva ai seguaci di affidarsi ad una Forza più che umana. Non di stare quietisticamente ad aspettare il miracolo che cada dal cielo come il frutto maturo da un albero di fico (come avvertirà Agostino in una delle sue formule più felici, il Dio che ci ha creati senza di noi non ci salverà senza di noi); ma di lavorare per liberarci interiormente dalle ingiustizie, e per rendere vivibile il deserto sociale in cui siamo gettati, senza perdere mai di vista la fragilità umana e le sue contraddizioni. Dunque impegnandoci come se tutto dipendesse da noi, ma senza dimenticare che tutto dipende anche da quell’Energia potente ed amorevole che le religioni chiamano Dio. La fede non diventa per questo più comoda, ma certamente meno presuntuosa e meno logorante. Non siamo noi che costruiamo il “regno di Dio”: lo assecondiamo - o al contrario lo ostacoliamo - soltanto. Un biblista rinomato l’ha saputo esprimere con radicale lucidità: non è Gesù che ha portato il regno (dunque tanto meno i cristiani), è il regno di Dio che ha portato Gesù. Nel vangelo secondo il Battista, bisogna saper remare con tutte le proprie forze (e non sappiamo che fine facciano i deboli, gli incerti, gli incoerenti); nel vangelo secondo Gesù bisogna saper offrire le vele della barca al Vento (Soffio, Spirito) divino.
Se è così, vestirsi di pelle d’animale o di cotone, abitare nelle grotte o nelle case, digiunare stabilmente o alimentarsi regolarmente…sono tutte scelte secondarie, strumentali. L’essenziale è altrove: rinunziare ad ogni alterigia antropocentrica ( persino a quella versione particolarmente insidiosa che è l’antropocentrismo religioso e moralistico) e inserire il proprio impegno quotidiano e locale nel più ampio mosaico della storia e del pianeta. Forse dell’eternità e dell’universo. L’ho trovato scritto anche su una t-shirt che ho acquistato qualche mese fa all’aeroporto di Cagliari: “Dio c’è. Ma rilassati: non sei tu”.

Augusto Cavadi

domenica 16 novembre 2008

LIBERTA’ E AMORE SECONDO PINO GIOIA


“Repubblica - Palermo”
16.11.08

GIUSEPPE GIOIA
Libertà e amore
Vita e Pensiero
Pagine 245
20 euro

La storia della filosofia occidentale è stata visitata da un ospite discreto ma inquietante: Gesù di Nazareth. Di solito si fa di tutto per cancellarne le tracce: Giuseppe Gioia, mite e tenace pensatore palermitano, in questo libro (Libertà e amore) dal sottotitolo eloquente (Filosofia ed esperienza cristologica) si impegna in direzione opposta. Prova a schizzare la bozza di una possibile “filosofia cristica”. In particolare egli mostra un tassello del futuro mosaico: nel Figlio di Dio fattosi carne “libertà” e “amore” non sono inversamente proporzionali perché, nella sua vicenda terrena, l’uomo si rivela capace di essere liberamente “desiderio di Dio” e Dio di essere “desiderio dell’uomo”.
Meditando le pagine, scritte con passione pari alla precisione concettuale, il lettore elabora motivi di consenso non scevri da perplessità: il Cristo in questione - il Cristo della dogmatica ecclesiale e dell’esperienza dei mistici - è ancora il Gesù della storia consegnatoci dai vangeli? Ne è almeno un’immagine esplicitata o non piuttosto una caricatura enfatizzata?

giovedì 13 novembre 2008

Su testamento biologico, eutanasia e suicidio assistito


“Centonove”
venerdì 7 novembre 2008

MORIRE COME UN CANE O COME UN CATTOLICO OSSERVANTE?

Il caso di Eluana, la ragazza in coma da 16 anni per la quale il padre ha chiesto - ricevendo il conforto della magistratura - la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, ha riproposto per l’ennesima volta gli interrogativi bioetici riguardanti la fase terminale della vita. Innanzitutto la questione del testamento biologico o, come sarebbe preferibile, delle dichiarazioni anticipate sui trattamenti medici cui si è disposti a sottoporsi in caso di perdita della propria capacità di autodeterminazione (o, per lo meno, di comunicare in maniera inequivoca le proprie decisioni). Infatti Eluana - secondo le dichiarazioni del padre - in una fase dell’esistenza assolutamente lucida e serena, aveva manifestato a voce e per iscritto la volontà di non essere mantenuta in vita puramente biologica qualora non le fosse stato possibile la piena padronanza delle proprie azioni. Ma tale manifestazione di volontà non è avvenuta in forme canoniche, rituali, legalmente strutturate; inoltre, quand’anche tali forme fossero state rispettate, si potrebbe accettare moralmente che un soggetto disponga di sé come se fosse l’unico responsabile del proprio vivere? Si potrebbero privare i genitori, i familiari, i medici, la comunità cristiana (cui, in concreto, Eluana apparteneva) e la società tutta da ogni diritto-dovere di concorrere sinergicamente alle decisioni del singolo individuo? Sappiamo che l’istituto giuridico del testamento offre il fianco - di fatto - a innumerevoli mistificazioni, abusi, falsificazioni, indebite pressioni sul titolare: è ragionevole permettere che simili interferenze possano ripetersi a proposito di documenti dalla cui validità dipendono non solo beni materiali (per quanto ipoteticamente ingenti) ma addirittura il bene incomparabilmente più prezioso dell’unica vita a disposizione di ogni persona umana?

A queste, e ad analoghe, micro-obiezioni si potrebbero contrapporre micro-risposte complanari: per esempio che gli eredi sono molto più litigiosi per difendere una certa interpretazione delle volontà di un defunto quando si tratta della ‘roba’ propria di quanto non lo sarebbero se si trattasse di poche settimane o di pochi mesi della vita altrui. O, più generalmente, che tutte le distorsioni a cui in via di fatto vengono sottoposti i testamenti non hanno mai suggerito l’idea di abolire l’istituto testamentario: è vero che il diritto offre il fianco all’esasperazione legalistica e ai cavilli dei legulei, ma è altrettanto vero che l’assenza di norme provocherebbe uno scenario sociale molto più disastroso.
***
Ad una considerazione più profonda, mi pare di poter rilevare che - tranne rare eccezioni - il tema del testamento biologico viene considerato l’anticamera della legislazione pro-eutanasia: ed è proprio questo nesso logico che spiega sia le resistenze verso il testamento biologico da parte di quanti condannano l’eutanasia sia l’accettazione entusiastica dello stesso da quanti sono favorevoli all’eutanasia.
Su questo argomento gli interrogativi si profilano più impegnativi ed inquietanti e, per affrontarli con serietà, occorrerebbe sgombrare il terreno dai fraintendimenti più colossali. Un primo equivoco è sostenere che l’eutanasia sia una opzione fra la vita e la morte: è evidente, da ogni legislazione sinora emanata in Paesi civili, che la regolarizzazione dell’eutanasia riguarda esclusivamente quei casi in cui l’alternativa non è fra vivere e morire ma fra morire in preda a dolori fisici ed angosce psichiche e morire in maniera dignitosa e per quanto umanamente possibile serena. Un secondo equivoco è ritenere che la fede religiosa, in particolare biblica, implichi necessariamente il rifiuto di ogni ipotesi eutanasica e che l’ateismo, o l’agnosticismo teologico, siano gli unici presupposti teoretici possibili di un’approvazione etica dell’eutanasia. Infatti, come insegnano molti illustri teologi anche cristiani contemporanei, credere che la vita sia un dono di Dio non implica credere che vada coltivata anche quando la malattia la devasta e la sfigura: se offro un fiore non pretendo che l’altro lo tenga nel vaso anche quando sia quasi del tutto marcito né se offro una torta, e l’altro ne ha gustato con gratitudine i sette ottavi, ho motivo di attendermi che consumi anche l’ultima fetta pur se andata a male. Credere che esista un Dio personale che liberamente si rapporta a persone libere (dunque un Dio che non si identifichi stoicamente col fato o con il destino o con la macchina inesorabile delle leggi naturali) può costituire, se mai, una ragione in più e non in meno per ammettere la liceità di subordinare la lunghezza biologica dell’esistenza alla sua qualità ontologica e spirituale. E’ di questi giorni la lettera aperta di una delle più delicate pensatrici cattoliche contemporanee, Roberta De Monticelli, in cui rende pubblica la sua decisione di uscire dalla chiesa cattolica perché ritiene le posizioni della gerarchia ecclesiastica in tema di eutanasia “nichilistiche”, incompatibili con il vangelo di liberazione di Gesù Cristo. Si potrebbe aggiungere che ammettere tranquillamente per un cagnolino o per un asinello, affetti da tumori dolorosi, la possibilità di accorciare la tortura e negare la medesima possibilità, nelle medesime condizioni, ad un essere umano non è solo indice di nichilismo generale: è anche segno di un anti-umanesimo misantropico. Per coerenza, non dovrebbe più usarsi la locuzione “Morire come un cane” ma - restando queste le normative e la prassi effettiva - si dovrebbe piuttosto sostituire con “Morire come un cattolico osservante”. Ma può il Dio della vita, anzi dei viventi, permettere che una creatura tolga la vita ad un’altra creatura? Emerge qui un terzo, davvero madornale, fraintendimento: considerare l’eutanasia un omicidio. Quando un medico nazista avvelena un malato ebreo non sta eseguendo un’eutanasia ma una soppressione ingiustificabile di una vita umana. L’eutanasia, per essere tale e non la sua tragica caricatura, esige che il morente chieda esplicitamente di essere aiutato a gestire in maniera quanto meno atroce possibile il proprio decesso. Essa è il caso limite che illumina, retrospettivamente, la necessità morale (oggi nei fatti trascurata o realizzata riduttivamente) di restituire al paziente la centralità nel contratto terapeutico con il medico: a cominciare dal diritto di essere messo in grado, per quanto lo consentano le sue reali potenzialità intellettuali, di esprimere un “consenso informato” alle cure cui sta per essere sottoposto e alle conseguenze, certe o probabili o anche solo possibili, che tali cure possono comportare.
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Ma se l’eutanasia è questo, essa rimanda a sua volta alla questione del suicidio assistito. I concetti hanno una concatenazione logica spietata, evitando la quale le posizioni etiche difficilmente raggiungono una coerenza armonica (è chiaro che qui considero la coerenza mentale fra le proprie idee, non la coerenza molto più problematiche fra le proprie idee e le scelte in situazione: altro parlar di morte, altro morire…). Siamo, mi pare, all’osso: riteniamo davvero che un soggetto umano abbia il diritto di disporre autonomamente della propria vita? E, in caso di risposta affermativa, riteniamo che abbia il diritto di essere aiutata da un medico a spegnersi (anche se si trattasse di una sedicenne in preda a gravi delusioni sentimentali o di un diciottenne schiacciato dal senso di fallimento professionale) solo perché ce lo chiede con tutti i crismi della legalità?
Nessuno, se non per superficialità imperdonabile, può ritenere che ci si trovi qui davanti a ‘problemi’ (in quanto tali risolubili una volta e per tutti) e non davanti a ‘misteri’ (nel senso filosofico, non teologico-confessionale, di Gabriel Marcel che così denominava gli aspetti della natura e della storia che l’uomo può sondare ma senza nessuna presunzione di chiarificarli esaurientemente e definitivamente ed universalmente): non è forse la ‘morte’ l’enigma più enigmatico della nostra vicenda terrena? Ma se di ‘mistero’ si tratta e non di un mero ‘problema’ logico-scientifico, solo una mentalità dogmaticamente intollerante può cercare una ‘risposta’ esclusiva ed escludente e contrastare l’inevitabile pluralismo degli ‘approcci’, anziché salutarlo come fecondo di incessanti approfondimenti. Chi, come me, è favorevole all’eutanasia non può, per onestà intellettuale, rispondere che affermativamente. Sin da ragazzo ho vissuto casi di coetanei e di adulti che, dopo aver invocato inutilmente la morte, se la sono data in maniera davvero lacerante e dirompente: il male minore (dal punto di vista materiale della loro integrità corporea ma anche dal punto di vista della loro dignità morale) sarebbe stato certamente un’assistenza da parte di altri esseri umani rispetto alla disperazione cieca della solitudine. Ciò detto, vanno subito aggiunte almeno quattro considerazioni. La prima è che un aspirante suicida ha diritto di chiedere sostegno solo se dimostra (esattamente come nel caso dell’eutanasia) di disporre - sul momento o in anticipo mediante testamento - della sua vita in maniera consapevole. Un’alterazione dello stato mentale (come nei casi dei due giovani sopra ipotizzati, l’una abbandonata e l’altro inoccupato) costituirebbe a mio avviso una ragione sufficiente per ritenere che quella persona, in quel momento della sua esistenza, non possiede neppure quel minimo di libertà che la possa far considerare compos sui, responsabile di sé. Una seconda considerazione è che - qualora la società abbia fondati motivi per ritenere che il candidato al suicidio non sia nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali - il dovere di aiutarlo a morire si trasforma in dovere di aiutarlo a guarire: solo ristabilitosi un accettabile equilibrio psichico si può profilare un ragionevole diritto al suicidio assistito. Una terza considerazione è che - escluso il caso precedentemente evocato di soggetti irresponsabili - si potrebbe prevedere uno spazio di dialogo fra l’aspirante suicida e qualcuno (la figura professionale specifica sarebbe il filosofo consulente) disposto a confrontarsi razionalmente con lui: non programmaticamente e pregiudizialmente per convincerlo a desistere dall’intento (se si discute filosoficamente, nessuno dei due interlocutori può dare per scontato che arriverà alla conferma delle proprie posizioni iniziali e non alla condivisione delle posizioni dell’altro), ma per creare le condizioni del massimo di consapevolezza concretamente possibile. Una quarta, ed ultima, considerazione è che al diritto di essere assistito nel proprio suicidio non può corrispondere un dovere assoluto da parte di ciascun altro componente della comunità (il mio diritto al cibo o alla salute non implica il dovere legale di ogni salumiere di sfamarmi o di ogni medico di visitarmi gratuitamente) . Lo Stato, nel momento stesso in cui predisponesse norme giuridiche e strutture tecniche per rendere effettivo tale diritto, non potrebbe contemporaneamente esimersi dal prevedere per i suoi cittadini (medici in primis) il diritto all’ obiezione di coscienza.

Commento al vangelo di domenica 16 novembre 2008


“Adista” (Agenzia di stampa)
1.11.08
FUORITEMPIO
Omelie
Nella navata in penombra, passi in un punta di piedi. Cercano Cose nascoste ai dotti e ai sapienti, ma vuoto è il Sepolcro del sacro. E là fuori, oltre il sagrato, un venticello leggero soffia sulla vita e dà la parola. Parole di donna, parole di uomo. Parola di Dio.
COMMENTI AL VANGELO DA CHI E’ “SVESTITO”: SENZA PARAMENTI, DOTTRINA E GERARCHIE, MA NON PER QUESTO “SENZA DIO”.

Anno A
XXXIII Domenica del Tempo ordinario
Matteo 25, 14 - 30

Cercate una eloquente teologia del capitalismo? Eccola. Questa parabola, letta con ingenua immediatezza, fonda teoreticamente la logica mercantile più spietata: Dio si manifesta come il “duro” che miete dove non ha seminato. Dunque l’uomo che più fedelmente si sintonizza con questo Dio è colui che sa trafficare nel mondo con spirito d’iniziativa, furbizia e sprezzo del pericolo sì da essere in grado di restituire il doppio del denaro ricevuto in affidamento. E c’è anche lo slogan che sintetizza efficacemente la regola aurea del capitalismo: “A chiunque ha, sarà dato di più ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (v. 29).

Ma l’autore di questa pagina si muoveva sul registro dei consigli finanziari? Intendeva abbozzare uno dei manuali per diventare manager perfetto? O egli, rielaborando la parola di Gesù, intendeva usare un caso tratto dall’esperienza quotidiana per stordire il lettore e affibbiargli uno choc tale da mettere in crisi la sua immagine cristallizzata di Dio? Gli esegeti più avvertiti si ritrovano in questa seconda linea interpretativa e sostengono che “la chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone” (Maggioni), la condanna di quel “timore servile che cerca rifugio e sicurezza contro Dio stesso in una esatta osservanza dei suoi comandamenti” (Dupont). E’ insomma l’appello del Maestro a non fare della moralità, della prudenza e del buon senso - tutte qualità in sé preziose - uno scudo per difendersi dagli sconvolgimenti dell’amore. Perché in questo caso la moralità diventa moralismo, la prudenza scade in viltà e il buon senso degenera in conformismo qualunquistico.
Un poeta americano del secolo scorso ha saputo rappresentare - senza fare nessun riferimento al vangelo e probabilmente senza averne alcuna consapevolezza - in maniera efficace la figura di questo servo che, per paura di perdere l’unico talento, lo seppellisce lasciandolo sterile. In una poesia della raccolta Spoon River Anthology Edgar Lee Masters immagina che un certo George Gray spieghi, dall’oltretomba, il significato dell’incisione tombale che gli hanno dedicato. Un po’ convenzionalmente, i parenti avevano inteso esprimere il destino di George facendo scolpire sul marmo «una nave con la vela piegata in riposo nel porto», come se egli fosse arrivato alla meta dopo aver solcato molti mari. Ma l’interessato non si riconosce nel simbolo: «In verità non ritrae la mia destinazione / ma la mia vita». La sua vela è piegata perché non è stata mai issata, non perché ha finito i suoi viaggi. Per tutta l’esistenza, George ha evitato di concentrarsi su un ideale, di scommettere su qualcosa di compromettente: «L’amore mi venne offerto ed io fuggii dalla sua delusione; / il dolore bussò alla mia porta, ma io avevo paura; / l’ambizione mi chiamò, ma io ero atterrito dai suoi rischi». Solo in ritardo egli si accorge che, non scegliendo, si sceglie di non scegliere; che lo sbaglio più grave è decidere di non rischiare di sbagliare: «Dare significato alla vita può sortire follia, / ma la vita senza significato è la tortura / dell’irrequietezza e del desiderio vago — / è una nave che anela il mare eppur lo teme».
Dolorosa è l’immagine di quei nostri fratelli che a venticinque anni hanno già sperimentato la dolcezza di tutti i vini e l’amaro di tutti gli aceti e si trascinano come zombi in mezzo ai viventi: relitti ambulanti pronti a cadere nelle braccia misericordiose di un padre - o di un Padre - disposti ad accoglierli fra le braccia. Non meno dolorosa, però, l’immagine di quei fratelli, ormai anziani, incartapecoriti dopo una vita senza slanci e senza passioni. Essi pure si trascinano con biancore cadaverico nel caos della vita reale: ma così irrigiditi dalla coscienza di essere puri e incontaminabili che nessun abbraccio potrà mai scioglierli e restituirli al soffio dell’amore.
Augusto Cavadi

Cuffaro e la chiesa cattolica


“Primo piano”
www.cdbitalia.it
28. 2. 2008

Le vicende di Salvatore Cuffaro spiccano non per la loro inedita novità (altri presidenti di giunte regionali siciliane hanno subito in passato pesanti condanne penali) quanto per il genere di reato di cui è stato ritenuto colpevole da un tribunale di primo grado: favoreggiamento di boss mafiosi a cui ha fatto pervenire informazioni riservate su provvedimenti (per esempio intercettazioni ambientali) decisi a loro carico.

Tra le numerose considerazioni circolate in questi giorni drammatici sui giornali e fra la gente, la meno nota riguarda l’aspetto ecclesiale della vicenda, circondata da silenzi tombali che solo voci isolate, pericolosamente isolate, hanno avuto in queste ore il coraggio di infrangere. Cuffaro non è solo un cattolico convinto e praticante, ma un cattolico che ha fatto della sua appartenenza ecclesiale una bandiera da esporre ai quattro venti. Ha chiamato un prete di periferia, generoso quanto ingenuo, a ricevere - in una stanza del Palazzo d’Orleans - i questuanti giornalieri cui distribuire elemosine e piccoli doni. Ha persino ritenuto opportuno supplire alla disattenzione dei vescovi siciliani, assumendo l’iniziativa plateale di consacrare la Sicilia alla Madonna delle lacrime di Siracusa. Ebbene, non è per lo meno strano che nessun esponente autorevole della comunità ecclesiale si sia fatto avanti in questa occasione per chiedergli un gesto di coerenza con gli ideali evangelici da lui strombazzati in tempi opportuni e inopportuni? Sinora si è appreso pubblicamente solo che alcune comunità si sono raccolte in varie chiese della Sicilia per pregare per lui prima della sentenza e che, dopo la sentenza, il parroco di Cuffaro, don Aldo Nuvola, abbia chiesto, a conclusione della celebrazione eucaristica domenicale, la solidarietà a un uomo ingiustamente perseguitato (”come Andreotti”) dalla “casta cattiva dei magistrati”. In senso contrario, solo una comunità cattolica di Ballarò ha avvertito il bisogno di chiedere perdono a Dio e ai concittadini per il pessimo esempio che il confratello Cuffaro ha dato e dà con i suoi reati (se saranno confermati anche in secondo e in terzo grado), con le sue frequentazioni e con il suo stile clientelare (che non hanno bisogno di nessuna conferma essendo da decenni davanti agli occhi di tutti).

Augusto Cavadi

domenica 9 novembre 2008

Filosofi e teologi a caccia del gatto nero


“Repubblica - Palermo”
9.11.08

AA.VV.
Filosofia e teologia
ESI
Pagine 180
Euro 26

Esattamente venti anni fa alcuni studiosi di filosofia hanno fondato una rivista che si concentrasse sulle grandi domande di senso e che, in questa prospettiva, ricercasse - senza arroganza ma neppure con complessi d’inferiorità - il confronto con i teologi di varie confessioni religiose. Una caratteristica originale è che la rivista è preparata, a turno, da una delle cinque redazioni attive presso le università statali di Torino, Venezia, Bologna, Salerno e Palermo. Il numero in distribuzione, (il 2/2008: “Amore della verità“: la passione verso la verità, ma anche in qualche modo la condiscendenza da parte della verità che si manifesta all’uomo) è stato predisposto proprio dalla redazione palermitana e contiene, fra gli altri, contributi di Giuseppe Nicolaci, Leonardo Samonà, Rosaria Caldarone, Giorgio Palumbo e Massimo Naro. Insomma: un tentativo di mostrare che solo ironicamente si può affermare che il filosofo cerca un inesistente gatto nero in una stanza oscura e che l’unica differenza col teologo sarebbe che quest’ultimo arriva, persino, a trovarlo.