domenica 27 dicembre 2009

Il “lato B” della mafia


“Repubblica - Palermo”
27. 12. 2009

Augusto Cavadi

Angelo Vecchio
LA MAFIA DEL CULO
Nuova Ipsa
pagine 176
euro 15

La cronaca registra giri sempre più frenetici di “utilizzatori finali” di donnine allegre, transessuali seducenti e persino minori più o meno plagiati. E’ ovvio che un cronista di nera con la passione letteraria, come Angelo Vecchio, abbia avvertito il desiderio di trasporre in un romanzo - leggibile e a tratti avvincente - le notizie con cui lavora quotidianamente. La mafia del culo è il risultato di questo desiderio. Il racconto è costruito come la sceneggiatura di una puntata delle tante serie poliziesche televisive: e di questo taglio possiede pregi (ritmo incalzante, intreccio di vicende private e scenari sociali, fruibilità popolare) e limiti (soprattutto la fisionomia dei vari personaggi, un po’ troppo prevedibili, quasi riproduzioni di tipologie già viste, specie dopo l’inizio dell’era camilleriana). Nonostante il titolo, la mafia in senso tecnico (per intenderci: “Cosa nostra”) non entra nella trama. C’entra un’organizzazione segreta che delle associazioni mafiose possiede più di un tratto: dispone di denaro a fiumi, manovra uomini delle istituzioni e, se necessario, usa la violenza. Di specifico ha un’attrazione verso il lato B dei maschietti: il che la rende più pruriginosa, non meno pericolosa della mafia di cui l’autore si è a lungo occupato - con facilità di penna e zelo civico - su altri registri di scrittura.

giovedì 24 dicembre 2009

“Il Dio dei mafiosi” recensito su “Repubblica - Palermo”


Gabriele Barone mi ha recensito “Il Dio dei mafiosi”:

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/11/29/il-dio-dei-boss.html

domenica 20 dicembre 2009

LA SECONDA MODERNITA’


Repubblica – Palermo 20.12.2009

Sébastien Charles

L’IPERMODERNO SPIEGATO AI BAMBINI

Bonanno
pagine 155
euro 14

Quanti tra noi hanno i capelli brizzolati ritenevano, negli anni del liceo, di vivere la modernità. Poi, dopo il 1968, all’università hanno imparato di esser transitati in un’epoca successiva: la post-modernità. Da qualche tempo però gli viene notificato un contro-ordine: ne L’ipermoderno spiegato ai bambini, per esempio, Sebastien Charles, sostiene che “noi abbiamo oramai a che fare non con una rottura nei confronti della modernità ma con la sua radicalizzazione, non col postmoderno ma con l’ipermoderno”. Infatti i “princìpi costitutivi della modernità” (quali “la razionalizzazione tecnica del mondo, l’economia di mercato, la democratizzazione dello spazio pubblico e l’estendersi della logica individualistica”) non solo non sono rifluiti, ma anzi non hanno cessato di guadagnare terreno. Che è poi un altro modo di chiamare il nostro tempo “ultra-moderno” o “metamoderno”: insomma la “seconda modernità” in cui siamo immersi senza aver mai abbandonato la prima.
Come spiega nella nota introduttiva Davide Miccione, acuto curatore dell’edizione italiana, l’autore canadese dà prova di un pensiero “umile-presuntuoso”: presuntuoso perché cerca di definire la multiformità del contemporaneo; umile perché sa di non poter includere tutto in una sola categoria e che “ciò che c’è da capire sembra essere il fatto che non ci sia granché da capire”.

sabato 19 dicembre 2009

Nicola Lo Bianco recensisce “Chiedete e non vi sarà dato”


Dal sito internet www.ilportaledelsud.org/approfondimenti.htm#1107

A. Cavadi, Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore,
Editrice Petite plaisance, Pistoia 2009.

Recensione

La rivoluzione indifferibile
Cosa è stato, che cos’è, quale amore?
Augusto Cavadi, in questo agile, intelligente volume di poco più di cento pagine(oltre ad un’orientante Appendice di recensioni relative all’argomento) mette in circolazione una problematica di grande interesse in un periodo di inestricabile confusione morale che Galimberti, riferendosi ai giovani, definisce di “analfabetismo emotivo”, ma che sarebbe più propriamente da definire “analfabetismo sentimentale”.
Risponde, almeno secondo il mio punto di vista, alla esigenza, già in atto in alcuni limitati settori culturali, di riconsiderare alcuni fondamenti della cultura occidentale, come ad es., in ambito storico/ideologico, il “relativismo”, che ci ha portati fatalmente al “nichilismo”, a questo, dice il poeta Andrea Zanzotto, “ricchissimo nihil”.
La “rivoluzione indifferibile” è il capitolo sul quale è opportuno soffermarsi maggiormente, perché appare come la sintesi, il senso e la proposta filosofico/teologica di tutto il libro.
Nei capitoli precedenti, dopo una necessaria ed utile delucidazione delle concezioni storicamente fondamentali dell’amore, dall’eros/desiderio, all’amore/carità, all’amore agàpe/fratellanza, Cavadi, sulle orme delle riflessioni di Armido Rizzi (Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Ediz. Paoline), mostra quanto sia confacente al nostro tempo prendere in attiva considerazione il messaggio etico/religioso di una possibile “liberazione spirituale”.

La domanda, fondamentale, alla quale l’Autore cerca di dare una risposta di per sé problematica, è –che significa “amare il prossimo”?-.
E’ possibile che secoli di devozione per “meritare” l’amore di Dio abbiano distorto l’evangelico amore agapico, l’amore/fratellanza? Che anche il sentimento religioso si sia radicato come egoistico amore di sé, prima e a discapito dell’amore per “gli altri”?
L’amore di sé è ontologico, ineludibile:ma l’amore per gli “altri” davvero diminuisce l’amore di sé, o, al contrario, lo accresce?
Si tratta di rivedere il rapporto uomo/Dio, di assumere un “nuovo” modo di amare Dio:non Dio “desiderio infinito di sé”, un Dio che si attende “adorazione e gratitudine”, ma Dio/donazione, “amore divino per l’uomo”, Dio che ama “nel dargli quei beni di cui un uomo abbisogna:un mondo dove vi sia pane e casa, affetto e bellezza, lavoro e cultura”.(p.41)
Il riflesso religioso, culturale, nel comportamento umano sarebbe non più “la priorità della cura di sé”, ma “la precedenza alla preoccupazione di saziare negli altri la fame di pane e di poesia, di compagnia e di contemplazione”.(p.46)
Riconoscere nell’altro il “povero”, “l’indigente”, cioè colui al quale manca o è sottratto qualcosa per essere uomo “compiutamente umano”, “mi fa trovare in me il povero che Dio ama…il bisogno dell’altro fa assurgere anche il mio bisogno, di riflesso, a mio diritto”.(46)
“Liberazione” è, perciò, la possibilità/volontà di infrangere quel grumo di egocentrismo che, in definitiva, porta, entro una cerchia più o meno ampia, ad amare solo “i nostri” e ad escludere, se non a perseguitare, chi “nostro” non è:benevolenza, ad es., soccorso, difesa, rispetto, solo se “fa parte” del mio ambiente, della mia classe, del mio partito, della mia ideologia, della mia religione…
E’ il secolare atteggiamento che, portato alle estreme conseguenze, calato nel nostro tempo in un sistema di arbitrio e di controllo totale(tranne, si capisce, l’infinita libertà di consumo), ha reso possibile, ieri come oggi, i campi di concentramento.
“Ridefinire tutto”, a partire dal concetto di soggetto individuale, non “come il fine a cui tende la storia del cosmo…”, ma come “unicità di ciascuno da restituire al grembo originario della collettività… che è locale, nazionale, planetaria”.(p.48)
Insomma, non un chiuso, esclusivo, asfittico amore di sé, ma come sentimento circolare, dall’amore/eros all’amore/carità, che nasce e si riverbera dalla e nella collettività, che trova pienezza e valore dalla e nella corrispondenza, come una molteplicità di specchi che si riflettono gli uni sugli altri.
Si potrebbe richiamare, seppure in ambito più propriamente formativo, l’antico proverbio cinese, secondo il quale “per fare un uomo ci vuole un intero villaggio”.
Un amore che è espressione di una più ampia e confortante socialità.
Che è come dire, per usare le parole di Garcia Marquez, che “anche l’amore s’impara”, e perciò la responsabilità dell’amore/agape è del singolo, ma anche della collettività, di un rapporto dialettico, che, infine, è primaria responsabilità della politica, di una “radicalmente diversa” prassi politica che “ha bisogno dell’amore per non sclerotizzarsi in amministrazione dell’esistente”.E che ciò sia giusto necessario e possibile ce lo dimostra l’esempio luminoso del “sindaco santo” di Firenze, Giorgio La Pira, il cui principio coerentemente praticato, pur nelle sconcezze della politica, era “ogni movimento è un commovimento”.
E questo aspetto, amore/politica/amore, che mi sembra imprescindibile per dare autenticità alla speranza che il pensiero di Cavadi sottintende, dovrebbe trovare più ampia ed approfondita trattazione.
Un pregio ancora vorrei sottolineare:oltre al fervido contenuto, ed in conformità alle intenzioni dell’Autore, l’argomento è trattato con un approccio divulgativo, quasi un andamento didattico che avvince i lettori che , come me, non hanno dimestichezza con la filosofia, e tanto meno con la teologia.
Nicola Lo Bianco

venerdì 18 dicembre 2009

TRADIZIONI


GIOVANE MUSICA SICILIANA ALL’ UNESCO DI PARIGI

Il 25 novembre, a Parigi, presso la sede dell’ UNESCO (l’ Organizzazione educativa, scientifica e culturale delle Nazioni Unite), 200 ragazzini di tutto il mondo hanno festeggiato il ventesimo anniversario della Convenzione ONU sui Diritti dei bambini ( eguaglianza, identità, educazione, gioco, salute, protezione, libertà di pensiero, di opinione e di religione, lavoro, difesa nei conflitti armati, etc.). Per ogni diritto menzionato si sono succeduti interventi e testimonianze (canti, letture di testi, danze, film, montaggi, foto, etc.) di Organizzazioni non governative che hanno rappresentato la società civile nella sua diversità culturale. Anche i bambini che hanno partecipato alla manifestazione provenivano da strutture scolastiche e associative rispettanti la diversità culturale e geografica. Ogni intervento è stato seguito da un dialogo con la sala, specialmente con i bambini presenti.

Sono state presentate le storie di bambini-simbolo quali Iqbal Masih (1983-1995, Pakistan, vittima dello sfruttamento minorile, consacratosi all’età di 10 anni alla lotta contro la schiavitù dei bambini ed assassinato a 12 anni) e di grandi pedagogisti che hanno trasformato la pedagogia, Maria Montessori, Janus Korczak, Célestin Freinet, Stanislas Tomkiewicz.
I diritti del bambino sono stati interpretati anche da una delegazione di giovani musicisti siciliani di 12 e 13 anni, guidata dal maestro Alessandro Valenza e dalla rappresentante all’UNESCO dell’ International Fellowship of Reconciliation-Movimento Internazionale della Riconciliazione (IFOR-MIR), Maria Antonietta Malleo. Il gruppetto di siciliani si è esibito nell’ esecuzione di brani a sostegno dei diritti all’eguaglianza e alla scuola, affinchè ogni bambino possa sviluppare ed esprimere i propri talenti; di giocare, di ridere, di sognare; di non partecipare ai conflitti armati, riscuotendo numerosi consensi ed apprezzamenti. Ispirandosi alla genialità di Mozart, enfant prodige, il Quartetto di flauti, “Aulòs” composto dai tredicenni Giuseppe Attinasi, Giuseppe Di Gangi, Angelo Di Figlia, Antonio Cristiano Guerra, (Istituto comprensivo di Petralia Soprana, sezione di Blufi, Palermo), ha eseguito una Suite barocca per sottolineare il diritto all’eguaglianza e alla scuola, affinchè ogni bambino possa sviluppare ed esprimere i propri talenti. Una presenza, questa, anche a supporto della lotta che essi conducono per la sopravvivenza della scuola della loro piccola comunità montana nel Parco delle Madonie, che rischia di essere soppressa. I diritti di giocare, di ridere, di sognare, e di non partecipare ai conflitti armati sono stati sottolineati con il Tema de “La vita è bella” (Benigni-Piovani), eseguito su immagini dal film dal Quartetto Aulòs, e con la Danza araba, eseguita al piano dal dodicenne Enrico Lo Baido (Scuola media “Vittorio Emanuele Orlando” Palermo) quale espressione di pace e nonviolenza per i bambini che vivono in zone di conflitto e della multiculturalità della Sicilia mediterranea.
Al loro ritorno gli stessi partecipanti saranno protagonisti ed animatori di uno o più incontri sulla Convenzione, rivolti alle scuole, alle associazioni di appartenenza, ai coetanei, vivendo un’ esperienza di progettualità partecipata che garantirà una ricaduta locale al lavoro di sensibilizzazione internazionale sui diritti del bambino nel ventesimo anniversario della Convenzione dell’ONU.

giovedì 17 dicembre 2009

SCUOLA E MAFIA


Repubblica – Palermo 17.12.2009

LA SCUOLA ANTIMAFIA NON REGALA DIPLOMI

Il dibattito sui vuoti di organico nelle sedi giudiziarie più scottanti registra opinioni abbastanza discordanti fra il ministro della giustizia e alcuni magistrati impegnati in territori mafiosi. Un ricordo autobiografico può apportare, alla riflessione critica del cittadino, qualche elemento in più. Nel corso di un seminario, organizzato dalla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” circa dieci anni fa, ebbi a chiedere al procuratore Grasso come mai il Csm lasciasse vacanti tanti posti di magistrati. “Lo chieda ai suoi colleghi che insegnano nelle scuole secondarie e all’università - fu la risposta- : come facciamo ad inserire nei ruoli candidati laureati che non sanno neppure scrivere in italiano decente?”.
Alla luce di indagini anche recentissime sul livello di istruzione degli alunni italiani - e meridionali in particolare - sarebbe difficile tacciare di esagerazione la risposta del magistrato. Noi insegnanti dovremmo dunque, accantonata la tentazione di reagire corporativisticamente, provare a fare il punto sulla situazione in maniera adulta e oggettiva.

Che in molti docenti di ogni ordine e grado vi sia una sincera volontà di servire la causa dell’antimafia mediante il proprio lavoro quotidiano, non è contestabile: a parte qualche rara eccezione di insegnante frustrato che cerca di utilizzare le attività di educazione alla legalità per compensare frustrazioni personali e professionali, la stragrande maggioranza è animata da una passione civile che in qualche caso trovo commovente. La questione vera è però un’altra: alle benemerite intenzioni corrisponde una saggezza pedagogica adeguata? Oppure proprio i maestri e i professori più ‘progressisti’ finiscono - certo senza volerlo - per abbassare il livello medio dell’istruzione dei loro alunni e per contribuire così a ritardare un autentico rinnovamento del tessuto sociale meridionale? Per limitarmi ad un solo aspetto: quanti stravolgono la lezione di don Milani sulla necessità di superare la scuola capitalisticamente selettiva? Il parroco di Barbiana era certo contro la scuola che boccia i figli dei poveri, ma per evitare che ciò accadesse non auspicava che venissero sfornati ignoranti ricchi e poveri alla stessa stregua: al contrario, faceva studiare i suoi ragazzini poveri dieci ore al giorno e persino la domenica.
Insomma: vogliamo davvero - come educatori (insegnanti, genitori, animatori sociali) - dare un piccolo, ma decisivo, contributo ad una amministrazione statale culturalmente più attrezzata contro il sistema di potere mafioso? Possiamo fare tanto (dai cineforum alle manifestazioni, dai convegni alle visite guidate, dall’incontro con testimoni ai seminari pomeridiani di aggiornamento), ma solo se non sorvoliamo la base di partenza: insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto. Non mi voglio pronunziare sui criteri più opportuni per la scuola dell’obbligo: ma nelle scuole secondarie superiori e nelle facoltà universitarie non ci dovrebbe essere alcun dubbio nell’esigere dei livelli medi di preparazione. Non in nome di anacronistiche ed elitarie meritocrazie, ma per amore della democrazia e per difesa dai suoi nemici (che, non è un caso, spiccano quasi sempre per ignoranza e per odio all’istruzione). Che le scuole private (purtroppo anche tra quelle pochissime, cattoliche, che a Palermo erano tradizionalmente immuni dal lassismo più o meno mercificato) regalino pezzi di carta, è triste ma non evitabile nell’immediato. Che lo continuino a fare anche le scuole pubbliche statali è due volte triste ed è immediatamente evitabile. Quando un docente è tentato (per ‘raccomandazione’ o per pietismo o per solidarietà con le classi meno abbienti o per qualsiasi altra ragione) di chiudere un occhio sulle lacune dei propri alunni, si ricordi che - oltre a varie altre conseguenze - sta facendo un regalo all’illegalità sistemica. Non è detto che laureati in grado di capire un libro di sociologia - o di scrivere in italiano accettabile una tesi di diritto penale - saranno dei magistrati competenti e coraggiosi: ma è certo che, senza queste basi, non lo saranno.

lunedì 14 dicembre 2009

Una doppia recensione (molto generosa) di Gino Adamo


Ricevo - e volentieri rendo pubblico - questo messaggio, sin troppo generoso, di un amico che è stato sempre un acuto lettore:

Caro Augusto,

mi rallegro vivamente per il successo che stanno raccogliendo i tuoi ultimi libri, “La Mafia spiegata ai turisti” e “Il Dio dei Mafiosi”, opere che era tempo che qualcuno si decidesse a scrivere, per chiarire le idee a molti visitatori che del fenomeno mafioso mostrano di possedere idee assai approssimative e confuse, e che, in parecchi casi (si è visto anche questo) sono sollecitati a compiere il viaggio in Sicilia da dépliant pubblicitari (a cura di spregiudicati tour operator) che, nel promuovere un certo turismo di massa nell’Isola, fanno scoperto assegnamento su quanto di truce, di colorito e di banalmente grottesco emerge dalle cronache giornalistiche, che, soprattutto all’estero(specialmente Germania e paesi scandinavi), risultano le meno adatte ad offrire un quadro vagamente attendibile di questo nostro tumore criminale. Ecco quindi che libri come il tuo aiutano a capire: con serietà e levità! aggiungerei, con un lampo di sorriso intelligente, penetrando tratti di un sistema di potere criminale che, di per sé, di attraente non avrebbe proprio nulla. Anzi. E che, tuttavia, costituisce una realtà che non va né celata né attenuata, ma resa digeribile e assimilabile da tanta gente, la quale difficilmente - lo sappiamo - si sobbarcherebbe alla lettura di saggi ponderosi sul tema.

L’altra opera - inerente al presunto spirito mistico di tanti volgari assassini - mi sembra non meno importante della prima, per illuminare desueti aspetti di Cosa Nostra, che anche molti italiani stentano tuttora a capire, e sui quali, ancora una volta, grazie all’incisiva chiarezza e ironica bonomia, che sono doni che ti appartengono, riesci a gettare ampi sprazzi di luce che illuminano una sconcertante “fede mafiosa”, fin dall’interno di ataviche spelonche psichiche (culturali e familiari): una credenza chiaramente vuota di contenuti cristiani, un altare blasfemo, che farebbe inorridire anche il più irriducibile agnostico. Eppure i pretesi “uomini d’onore” credono di poter incredibilmente conciliare una fede bimillenaria con il loro orrido, disgustoso mestiere di spietati assassini.

Questo impadronirsi di Cristo da parte di individui spregevoli che non conoscono pietà neanche verso innocenti (come il povero bambino strangolato e disciolto nell’acido) non può non richiamare alla memoria l’inferno del sistema concentrazionario dei Lager, dove donne e bambini all’arrivo nei campi di sterminio veniva subito avviati alle camere a gas e i corpi distrutti nei forni crematori. Anche nel Terzo Reich, agli antipodi di ogni credenza religiosa, pure, come sappiamo, si faceva largo uso del nome di Dio. E’ appena il caso di ricordare la frase stampigliata a fuovo sui cinturoni militari delle SS: “Gott mit uns”.
Per concludere.
Due libri belli e utilissimi, che vedrei molto volentieri adottati nelle scuole: ma sarà possibile, nello sfacelo di questa istituzione, riuscirci? Per amore verso l’attuale generazione, incrocio le dita perché l’auspicio si avveri.
Infine - sempre in tema di auspici - mi è adesso grato esprimere, a tua moglie e a te, i migliori auguri di trascorrere una serena festività natalizia, al contempo anticipandovi i più fervidi voti per il Nuovo Anno.

E che (!) Dio ce la mandi buona!
Un abbraccio,
Gino Adamo

domenica 13 dicembre 2009

Quando il Sud può dare una mano al Nord


“Centonove”
11.12.09

ANTIMAFIA: SE NORD CHIAMA SUD

“Che cosa può fare il Nord per aiutare il Sud a liberarsi dalla mafia? Da anni, qui in Lombardia, i cittadini più sensibili si rimpallano questa domanda. Ma, alla vigilia delle grandi opere pubbliche per Milano Expo, è forse arrivato il momento di invertire l’interrogativo: che cosa può fare il Sud per aiutare il Nord a prendere coscienza del pericolo mafioso e attrezzarsi per sradicare le infiltrazioni già in atto?”. Questo passaggio di un intervento al Convegno, organizzato dall’Università di Bergamo, su “Legalità è partecipazione” può dare un’idea del clima nel quale studiosi, ragazzi di “Addiopizzo”, artisti, soci delle cooperative di “Libera” che gestiscono terre confiscate a mafiosi, si sono incontrati negli ultimi giorni di novembre: fuori dai luoghi comuni, dalla retorica d’occasione, per provare a raccontare (anche grazie ad un docu-film efficace di Paolo Maselli e Daniela Gambino) una Sicilia che resiste. E che, con gesti concreti, sta rendendo possibile un futuro migliore.
Ma davvero l’isola mediterranea, così sfregiata dalla criminalità affaristico-politica, può dare una mano ai concittadini settentrionali? La premessa, per nulla ovvia, è che ce ne sia la necessità. Un imprenditore palermitano, trasferitosi di recente a Milano proprio perchè stanco di lottare contro il racket delle estorsioni, lo ha confidato nel corso di una conversazione privata: “Tutto potevo aspettarmi, tranne che nel capoluogo lombardo il negozio di fronte al mio e quello accanto pagassero mensilmente il pizzo”. E la Lombardia risulta fra le regioni d’Italia in cui più alti sono - per numero e per valore finanziario - immobili e aziende sequestrate a mafiosi.

Per ragioni del genere, la Filca-Cisl lombarda ha firmato proprio in queste settimane un protocollo d’intesa con la federazione omologa siciliana allo scopo di monitorare i trasferimenti sospetti di uomini, mezzi e materiali sì da individuare e denunziare, sin dalle prime mosse, le operazioni più sporche. Nonché per attivare, sinergicamente, percorsi di informazione e di formazione sul tema della legalità democratica e della contrapposizione sociale ai condizionamenti criminali dell’economia.
Che Bergamo, provincia ad alta densità leghista, dia segnali di viva sensibilità su questo versante è doppiamente significativo. Intanto perché, fra i Mille che hanno seguito Giuseppe Garibaldi nell’impresa di liberare il regno di Napoli dai Borbone, centinaia erano proprio volontari provenienti da quell’area geografica: davvero opportuno, dunque, che ci siano oggi bergamaschi impegnati a neutralizzare i tentativi ruspanti di separare ciò che i loro stessi avi (non senza l’apporto di picciotti locali) hanno contribuito ad unificare.
Una seconda ragione l’ha ‘rivelata’, con tono semiserio, don Luigi Ciotti conversando con mille studenti in un momento clou dei tre giorni: i corleonesi sono i più padani dei meridionali. Quando hanno avuto luogo i Vespri Siciliani, nella seconda metà del XIII secolo, a Corleone si parlava il dialetto bergamasco-bresciano: da quelle pianure e da quelle valli, infatti, erano partiti, circa cinquanta anni prima, i contadini scelti per subentrare - come coloni e come lavoratori della terra - agli arabi che ne erano stati allontanati. E’ molto probabile che Bossi, queste cose, non le sappia e non le sospetti neppure: ma se qualcuno un giorno gliele racconterà, anche il Senatùr sarà messo in grado di capire che nel dna dei cittadini di Corleone e dintorni non c’é alcuna propensione genetica al crimine. Anzi, la maggior parte di loro vive con laboriosa fatica la quotidianità; non pochi, da Bernardino Verro a Placido Rizzotto, hanno inoltre dedicato l’esistenza a fare della capitale morale della mafia un vessillo di antimafia.

Augusto Cavadi

mercoledì 9 dicembre 2009

“L’Eco di Bergamo” parla de “Il Dio dei mafiosi”



Intervista su “La Sicilia” per “Il Dio dei mafiosi”


Il Vangelo dell’uomo d’onore
«La Chiesa offre troppe sponde», dice Augusto Cavadi autore del libro «Il Dio dei mafiosi»

di FRANCESCO MANNONI

“Dio solo è grande. Ma lo zio Totò neppure scherza”. E’ l’incipit di un minuscolo libriccino ricavato dai pizzini con cui Provenzano gestiva nell’era dell’informatica onnipervasiva, l’impero mafioso di cui era capo.
A far luce sui presunti intrecci tra mafia e religione, arriva un libro del professor Augusto Cavadi, studioso del fenomeno mafioso e autore di numerosi saggi, che si attesta come un’indagine a 360° gradi su questo spinoso problema: “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, pp. 243, € 18,00).
L’autore, che svolge attività di insegnamento e di consulenza filosofica presso scuole, università e altre istituzioni pubbliche, ed è membro dell’associazione teologica italiana, precisa che da lungo tempo studia il rapporto fra Chiese e mafie, o almeno fra alcuni uomini di Chiesa ed alcuni uomini di mafia.
“I rapporti fra mondo cattolico e ambienti mafiosi - spiega - ci sono stati e non senza conseguenze di rilievo. In alcuni casi si è trattato di rapporti di vera e propria complicità e preti e monaci hanno comunque coltivato relazioni pericolose con parenti e amici mafiosi. A queste situazioni spesso la Chiesa ha risposto con indifferenza disincantata rispetto ad una questione considerata - a torto - di competenza dello Stato.”

- Perché i mafiosi cercano di coinvolgere la Chiesa nelle loro azioni?
“Credo nasca dal fatto che la mafia non è soltanto una qualsiasi organizzazione criminale, ma in qualche modo si vuole auto legittimare e istituzionalizzare: vuole diventare un sistema di potere. Per far questo ha bisogno di una identità culturale all’interno, sia di un consenso sociale all’esterno. Non avendo grandi patrimoni culturali a cui attingere nella sua storia, la mafia è stata parassitaria, come lo è nei confronti delle richieste economiche e dei beni culturali, della simbologia e dei codici culturali. Quindi ha preso a prestito quello che ha trovato.”
- Da chi soprattutto, e dove principalmente?
“Nel Meridione italiano le due culture egemoni sono state quella cattolica che io chiamo cattolica mediterranea, perché provvista di una serie di lezioni che mi sembrano abbastanza differenti dal cattolicesimo francese o statunitense. L’altra cultura egemone è quella liberal borghese che ha vinto in Occidente e nel Sud d’Italia dal 1860 a oggi. La mafia attinge dal codice valoriale cattolico mediterraneo, più che dal codice valoriale borghese. Il mix che si crea è qualcosa che non è il solo cattolicesimo, non è il solo liberalismo borghese, ma un prodotto in qualche misura autonomo. Ed è questa cultura mafiosa che io cerco di analizzare, mettendo a fuoco un segmento che non è certamente l’unico, ed è appunto il segmento teologico.”
- Ma com’è il Dio dei Mafiosi?
“Trovano già confezionato il Dio cattolico mediterraneo che gli suggerisce troppi spunti. Chiederei ai cattolici mediterranei, alla Chiesa cattolica italiana e soprattutto alla Chiesa cattolica del Meridione di rivedere la loro teologia. E cercare di liberarsi di tutti i tratti che possano, anche indirettamente, fornire ai mafiosi un modo sbagliato di intendere il Vangelo. Secondo me se ci fosse una maggiore coerenza fra questo cattolicesimo e il cristianesimo di Gesù, la Mafia avrebbe meno sponde, troverebbe meno modelli teologici e avrebbe più difficoltà a dire noi siamo cristiani: e invece sono cattolici.”
- Come dovrebbe essere o cambiare la teologia cattolica visto che si trova ad essere imitata troppo facilmente dalla mafia?
“Dovrebbe fare un bagno di rigenerazione alle fonti del Vangelo. La teologia cattolica è forse più fedele al Vangelo dove si parla di vita e non di morte e di fratellanza. Una chiesa che voglia, senza esagerazioni, farsi presidio dell’antimafia del territorio, a mio avviso deve essere una chiesa che già al suo interno si auto interpreti e auto organizzi in maniera diversa da come è avvenuto almeno negli ultimi mille anni e sfati i pseudo valori diffusi dalla mafia.”
- Quali sarebbero?
“La famiglia basata sulla criminalità, la ricchezza, comandare gli altri. Il ragazzo pensa che se Cosa Nostra gli garantisce tutto ciò, vale la pena che lui abdichi alla sua libertà.

domenica 6 dicembre 2009

LA LEGGE NEL CUORE


Repubblica – Palermo 6.12.2009

Autori Vari

LA SAPIENZA SULLA BOCCA
Il pozzo di Giacobbe
pagine 61
euro 5,00

Ebraismo, cristianesimo e islamismo pretendono di essere religioni attraverso cui Dio stesso parla al
l’intera umanità e indica i criteri morali di fondo: ma come possono comporsi fra loro, in una società plurale e democratica, queste diverse etiche teologiche? E come possono convivere con le etiche che si basano su visioni filosofiche completamente differenti, ad esempio atee? Non è difficile intuire che si tratta di domande cruciali anche dal punto di vista legislativo, politico e sociale. Un team di filosofi, teologi, bioetici, giuristi e storici delle religioni (siciliani di nascita o di adozione) ha provato a rispondere a queste domande con serietà scientifica ma, quasi sempre, con linguaggio accessibile anche ai non-addetti-ai-lavori. Il risultato è un bel libro a dodici firme (tra cui Cosimo Scordato, Massimo Naro, Franco Viola) - curato da Mariano Crociata e Giuseppe Bellia - dal titolo suggestivo e invitante (La sapienza sulla bocca, la legge nel cuore. Antropologia, etica e religioni ‘rivelate’) che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi voglia interpretare l’incrocio attuale delle culture, “senza scivolare in accomodamenti evanescenti o in rigidità esclusiviste”, ricercandone il comune denominatore in una concezione dell’uomo realistica e pluridimensionale. Insomma: in una prospettiva razionale, dunque ‘laica’.

venerdì 4 dicembre 2009

Venerdì 4 dicembre, alle 18, conferenza al Cesmi di Palermo


Cari soci e simpatizzanti, proseguono le conferenze organizzate dal CeSMI nell’ambito del programma dell’anno 2009 – 10. Domani, venerdì 4 dicembre, presso la sede di via Dante 153, il filosofo Augusto Cavadi condurrà il dibattito dal titolo “É meglio lo psicoterapeuta, il confessore o il consulente filosofico? Breve risposta a una domanda insensata”, che si terrà a partire dalle 18,00.
Per tutti coloro che non sono soci del CeSMI, è previsto un contributo di dieci euro. Vi ricordiamo comunque che, per ricevere informazioni sull’attività del Centro è possibile rivolgersi ai numeri 091. 9820468, 339.6479999 e 338.1621899, oppure consultare il sito web www.cesmipalermo.com.

Vi aspettiamo,
Marianna La Barbera
Ufficio stampa e pub

domenica 29 novembre 2009

Invito alla pedagogia antimafia (da martedi’ 1 dicembre)


STRAPPIAMO ALMENO UNA GENERAZIONE
ALLA MAFIA?

“Libera - Scuola” (www.libera.it)
CIDI di Palermo (www.cidipalermo.jimdo.com)

organizzano
10 seminari di formazione/aggiornamento

per insegnanti, genitori, operatori pastorali, educatori in genere
sul tema della legalità costituzionale e democratica.

Il primo incontro è fissato per
martedì 1 dicembre 2009 (ore 17 esatte)
presso la “Bottega dei sapori e dei saperi della legalità”
in Piazza Castelnuovo (accanto a Spinnato).

Ogni incontro durerà 2 ore e si chiuderà, puntualmente, alle ore 19.
Per le date successive ci si accorderà con i presenti.

La partecipazione ai seminari è gratuita e libera:
unica condizione (moralmente vincolante)
è di aver letto le pagine che il gruppo si auto-assegna
in vista dell’incontro successivo.

Per il primo appuntamento è fortemente raccomandata la lettura
delle pp. 7 - 25 del volume di Augusto Cavadi
” Strappare una generazione alla mafia.
Per una pedagogia alternativa”
(Di Girolamo editore, Trapani 2006, pp. 191, euro 15,00).
Copie del libro in vendita sia presso la “Bottega” di piazza Castelnuovo
che nelle principali librerie cittadine.

Per essere informati tempestivamente è consigliabile iscriversi trasmettendo
i propri dati essenziali a Silvana Puglisi (silvanapu@libero.it).

venerdì 27 novembre 2009

La legalità rovesciata (a proposito di crocifissi)


“Repubblica - Palermo”
27 novembre 2009

LA LEGALITA’ ROVESCIATA
Il dibattito nazionale sul crocifisso nei luoghi pubblici registra, in Sicilia, degli echi incuriosenti. Il sindaco di Enna, Rino Agnello, ha emanato un’ordinanza che “invita a mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole del comune come espressione dei fondamentali valori civili e culturali del Paese”, almeno sino a quando non si avranno notizie sull’esito del “ricorso alla Corte europea, espletato dallo Stato italiano”. Per evitare equivoci, il sindaco - in forza del recente “decreto sulla sicurezza” (!?) - commina una multa di cinquecento euro a chi, in ottemperanza alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, osi togliere il crocifisso da un luogo pubblico, soprattutto dalle aule scolastiche “di ogni ordine e grado”.
Per evitare complessi d’inferiorità, il sindaco di Chiusa Sclafani ci ha tenuto a non apparire di meno dell’illustre collega: invece di limitarsi a minacciarla, la multa l’ha davvero comminata alla preside dell’Istituto ‘comprensivo’ del Comune perché nel suo ufficio (non nelle aule scolastiche) la polizia municipale non ha trovato il sacro simbolo.
Decisioni doppiamente singolari: di solito, le amministrazioni siciliane sono tarde a recepire le direttive europee, ma - a quanto pare - sono rapidissime nel disattenderle. Inoltre è forse la prima volta, nella storia del diritto, che si prevede una pena pecuniaria non per chi contesta una sentenza, bensì per chi vi si adegua! (Spero che il sindaco di Palermo non si lasci afferrare dallo spirito di emulazione: i vigili urbani, in un eventuale blitz nei nostri licei, troverebbero in più di un’aula - al posto del crocifisso burocratico - un più funzionale pezzo di carta: “Torno subito!”).

Uno dei preti ’storici’ di Catania, il don Salvatore Resca che da decenni è animatore - dalla parrocchia di San Pietro e Paolo - dell’associazione pacifista e antimafia “Cittainsieme”, ha da sempre espresso la contrarietà sua personale e della comunità nei confronti dell’ostensione di facciata dei simboli religiosi. Come ogni persona animata da fede minimamente sincera, sa che il maestro di Nazareth è stato condannato a morte per aver voluto abbattere quei “muri di separazione” fra un’etnia e l’altra che, ancora oggi, si vorrebbero innalzare a suo nome. Di fronte alla opposta opinione di alcuni sindaci, soprattutto leghisti, - la cui formazione teologica è pari solo all’autenticità del loro attaccamento al vangelo - don Resca ha avanzato una proposta di ripiego: se proprio volete appendere questi benedetti crocifissi, perché non appendete una figura umana quanto più simile al Gesù reale della storia? Egli stesso si offre di omaggiare (o di fornire a prezzi, comunque, concorrenziali) delle croci in cui stia appeso un uomo fra i trenta e i quaranta anni, dalla pelle scura come i palestinesi di ogni epoca: un extra-comunitario nord-africano, insomma. L’offerta è stata esplicitata in una lettera aperta che il vice-parroco catanese ha inviato al sindaco e alla giunta leghista di Coccaglio, in provincia di Brescia: a quell’amministrazione comunale padana che ha avuto la brillante idea di lanciare l’operazione ‘White Christmas’ (’Bianco Natale’), consistente nel cacciare dal territorio comunale tutte le persone straniere non in regola prima del 25 dicembre prossimo. Non si conosce ancora alcuna reazione da parte dei destinatari della proposta-offerta. Speriamo che, almeno, si possa ottenere una proroga di qualche giorno, dal 25 dicembre al 6 gennaio: è infatti in questa data che, festa dell’Epifania, la chiesa cattolica celebra l’apertura universalistica del messaggio cristiano, rendendo onore ai tre saggi regali che (benché estranei alla tradizione del messianismo ebraico) sarebbero arrivati dall’Oriente per attestare che, nel bambino partorito da due profughi talmente poveri da non potersi permettere neppure una locanda (e, per loro fortuna, in anticipo rispetto all’apertura dei democratici Centri di permanenza temporanea) germinava la promessa di un mondo di fratellanza e di sororità senza barriere. Se paradosso dev’essere, perché fermarsi a metà?

Augusto Cavadi

giovedì 26 novembre 2009

Ci vediamo in quel di Bergamo
(venerdì 27 - sabato 28) novembre?


Venerdì sera, alle 21, presso la Comunità Nazareth di Torre de’ Roveri (Bergamo), presenterò il mio “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Milano 2009) conversando con Mario Ghidoni (formatore presso la Filca- Cisl).
Il giorno dopo, a Bergamo città (Spazio Polaresco), alle ore 17 modererò una tavola rotonda su “Testimoni della legalità” nell’ambito del convegno nazionale “Legalità è partecipazione” organizzato dall’università di Bergamo.

PRATICA FILOSOFICA


Quaderni di pratica filosofica
Novembre 2009

LA FILOSOFIA PUO’ FARE BENE SOLO
QUANDO NON SE LO PROPONE.
Idee ed agiti.

in AA.VV., FilosoFare, cura e orientamento al valore, a cura di Alessandro Volpone, Liguori, Napoli 2009, pp. 137 - 143.

La paradossale preziosa inutilità del filosofare

La filosofia-in-pratica (tentativo di traduzione dell’achenbachiana Philosophische praxis), come ogni possibile declinazione della filosofia, non può sottrarsi ad una tensione intrinseca fra due poli irrinunciabili : da una parte è un’attività libera, gratuita, insubordinabile a nessun fine ‘utile’; dall’altra, però, chi la esercita non può fare a meno di prevedere - o, per lo meno, di sperare - che essa non lascerà intatti uomini e cose . La filosofia inutile e preziosa, dunque: una contraddizione? Forse no: è preziosa solo in quanto inutile . E’ inutile e preziosa nello stesso tempo, ma non dallo stesso punto di vista: non funzionale all’utile se considerata in sé stessa come attività intellettuale , trasformativa se considerata come attività intellettuale esercitata da soggettività (a vario titolo coinvolte nel suo esercizio). A ben riflettere, è un po’ la paradossalità costitutiva di molte espressioni della vita umana: non ascolti musica né ti innamori della ragazza della porta accanto per superare una fase di depressione, ma ciò non esclude che l’abbonamento ai concerti di musica classica o l’innamoramento possano risultare terapeutici. A patto che non li affronti con attese terapeutiche. Infatti in sé stessi non sono terapie e possono mostrare risvolti rigenerativi solo se, e quando, non sono ricercati in vista di ricadute edificanti. Cerchi la bellezza per stare meglio o Platone al posto del Prozac? E’ la ricetta infallibile per non trovare né la bellezza né il benessere psichico, per non gustare Platone e per rimpiangere l’efficacia (per quanto relativa) degli psicofarmaci.

Di fronte al paradosso, bisogna imparare ad apprezzare il silenzio intuitivo: o, se si preferisce, l’intuizione che, non trovando argomentazioni adeguate, accetta di riposare nell’afasia. Il paradosso si lascia formulare solo in perifrasi inadeguate e allusive, quale potrebbe essere: la filosofia non mira al benessere psichico o alla formazione morale o alla autenticità religiosa o alla proattività politica, che infatti accadono a titolo di effetti collaterali desiderabili.

Ci inoltriamo in un sentiero di collina, fra campi appena fioriti, per respirare aria pulita e lasciarci incantare dai colori primaverili: solo dopo, qualche ora o qualche giorno dopo, ci accorgiamo che questa passeggiata ci ha reso più sopportabile l’esistenza. E, riflettendoci a posteriori, scopriamo che non ce l’avrebbe resa più leggera e piacevole se fossimo usciti da casa col chiodo fisso di voler evadere dalla grigia tristezza in cui eravamo immersi. Ecco perché, con tutto il rispetto per chi pensa diversamente e diversamente si esprime , ho imparato a dissociare nettamente il semantema “filosofare” da ogni altro vocabolo imparentato con “cura”, “formazione”, “educazione”, “pedagogia” : solo se la filosofia è filosofia (dunque viene coltivata per puro amore della sapienza e della saggezza) può, poi, essere ‘adoperata’ - addirittura anche programmaticamente -, da non-filosofi o da filosofi che si spogliano provvisoriamente dell’habitus filosofico, per dare sostanza a relazione psicoterapeutiche o per motivare all’impegno sociale degli aspiranti sindacalisti o per attrezzare dottrinariamente dei missionari in partenza per l’Africa centrale. Mi spiego meglio che posso: il filosofare come attività è per costituzione imprevedibile e non ‘applicabile’ a nessun obiettivo. Esso è anche l’insieme di prodotti di tale attività: teorie, metodi, ipotesi di spiegazione, asserzioni sull’uomo etc. Come pensiero pensante, essa è assolutamente ribelle ad ogni finalizzazione: se decidi di filosofare con un ragazzo per impartirgli la buona educazione o con un aspirante suicida per distoglierlo dal portare a compimento il suo proposito, non puoi escludere a priori che sia il ragazzo a convincerti della vacuità del galateo di Monsignor Della Casa o l’aspirante suicida della vacuità della vita terrena. Se inizi a filosofare sapendo già che non arriverai a determinati esiti, il tuo filosofare è una finzione miserevole e ridicola. Solo a posteriori potrai constatare se il confronto dialettico è risultato ‘educativo’ o ‘terapeutico’ e, soprattutto, per chi dei due interlocutori ciò si sia verificato. Quanto ai pensieri pensati, una volta prodotti, essi possono essere benissimo ‘utilizzati’ da un ideologo per costruire il programma di un partito politico o da uno psicoterapeuta per raffinare il suo sguardo sul mondo interiore del paziente: l’importante è che non si scambi l’uso del filosofato (possibile e talora utile anche da parte dei non-filosofi) con il filosofare (prerogativa esclusiva dei filosofi, con o senza laurea in tasca).
Non c’è niente di più bello di un rapporto sessuale che fiorisca in fiducia, reciprocità e alleanza: ma niente di più triste di un rapporto sessuale prima, durante e dopo il quale ci si chieda, senza smarrire neppure un attimo la coscienza di sé, quanto esso stia favorendo la nostra autorealizzazione e il nostro equilibrio psico- fisico. I mistici dicono che la preghiera più elevata e ricreatrice viene praticata dall’orante che non sa di pregare: analogamente, la filosofia più sconvolgente dal punto di vista esistenziale e più rivoluzionaria dal punto di vista politico non viene attuata da chi si prefigge l’obiettivo di stupire i borghesi o di scardinare il sistema socio-economico, quanto da coloro che sono troppo tesi a cercare significato e senso di enti ed eventi per potersi permettere di misurare col metro in mano, passo dopo passo, l’efficacia operativa della propria riflessione razionale.

Uno sguardo all’ esperienza: i colloqui privati di consulenza filosofica

Se la filosofia ‘funziona’ con efficacia trasformatrice in misura proporzionalmente inversa rispetto alle attese terapeutiche/educative/formative, possiamo aspettarci a priori che essa sia particolarmente adatta a chi si sente ‘in forma’, a chi non attraversa momenti di difficoltà umorali o di avversità oggettive: ed è precisamente ciò che ho constatato sinora nella mia esperienza di filosofo ‘praticante’. Questo dato di fatto disorienta, solitamente, chi si accosta dall’esterno al mondo delle pratiche filosofiche e, in particolare, della consulenza filosofica. La pre-comprensione generalizzata, infatti, suppone che se il filosofo vuole presentarsi come ‘professionista’ nel mercato del lavoro, può farlo solo se promette ciò che psicoterapeuti, preti, insegnanti e assistenti sociali non riescono ad assicurare. Quando qualcuno scopre che il filosofo consulenziale non è - non sa essere e non vuole essere - né un pronto soccorso né un muro del pianto, inevitabilmente le labbra si conformano a mo’ di punto interrogativo: e perché mai allora qualcuno dovrebbe bussare alla porta del vostro studio e chiedere, a pagamento, le vostre prestazioni professionali?
La risposta non è possibile o, forse, sono troppe le risposte possibili. Da caso a caso. Più che argomenti ipotetici preferirei, dunque, narrare fatti: se è ancora vero, come sostenevano i nostri medievali, che contra factum non valet argumentum. Per attenuare il disorientamento, diciamo subito che un colloquio privato è, solitamente, richiesto da chi sta male o è stato male e vuole evitare di ricascare. Se si tratta di malessere psichico in senso clinico, l’aiuto del filosofo consiste nel consigliare all’ospite di contattare un terapeuta qualificato e di precisare che il proprio servizio intellettuale - svolgendosi sul registro mentale e, per così dire, a fianco della relazione di cura - non avrà sul suo stato psichico che conseguenze indirette.
Con l’espressione generica ’stare male’ non si intende, comunque, solo la sofferenza psicopatologica: una donna in conflitto con un anziano parente; un figlio che non riesce a comunicare con uno dei due genitori separati; una studentessa alla ricerca di nuove motivazioni interiori alla fatica dello studio quotidiano; un anziano signore all’inizio del suo periodo di quiescenza dal lavoro di una vita…sono soggetti che avvertono disagi e si pongono domande esistenziali, ma non sono ‘malati’. Sono persone ‘normali’, nella misura in cui l’aggettivo ha un senso accettabile: persone qualificabili, con tutte le approssimazioni del caso, ’sane di mente’ . Esse vanno aiutate non con fantomatiche “terapie filosofiche”, bensì suggerendo come ipotesi di lavoro ciò che per noi potrebbe essere una tesi ben assodata: suggerendo di liberarsi dall’ossessione del paradigma terapeutico; dalla patologizzazione di ogni disagio e dalla conseguente invadenza della medicalizzazione. ‘Malato’ non è chi non riesce a dormire se vede franare la relazione coniugale o se non riesce a lavorare da quando il figlio ventenne è morto in un incidente stradale: se mai, lo è chi dorme tranquillo dopo una giornata di lite furibonde con la moglie o chi riesce a lavorare inappuntabilmente anche il giorno successivo al funerale del figlio. E, corrispondentemente, non c’è nessuna ragione seria per accoppiare al termine terapia ogni attività gratificante e tonificante che ci capiti di sperimentare: “danzaterapia, cristalloterapia, teatroterapia, aromaterapia, cristoterapia, ippoterapia, cromoterapia. Il mondo si è reduplicato. Una prima volta esiste per sé, una seconda come lenimento, balsamo, terapia” . Anzi: è proprio se non vengono esercitate come terapia che la danza, il teatro o la filosofia possono rivelare - per sovrappiù - effetti terapeutici. (Senza con ciò escludere che, almeno nel caso della filosofia, possa risultare ininfluente o addirittura deprimente: Hegel ha già avvertito che la filosofia non deve essere consolatrice a tutti i costi).

Uno sguardo all’esperienza: consulenza di gruppo e altre pratiche filosofiche

Sinora ho evocato alla memoria delle conversazioni in assetto duale: se esse costituissero l’unica modalità in cui si può esercitare la filosofia-in-pratica, avrebbero decisamente ragione quanti suppongono che si va da un filosofo consulente solo se si sta male (psichicamente) o se si avvertono seri problemi (esistenziali). Ma - come ha egregiamente evidenziato Davide Miccione - nell’ottica della Philosophische Praxis il dialogo uno-a-uno fra un filosofo e un suo visitatore è soltanto il terzo passo di un processo che ne presuppone altri due. Tralasciamo qui il primo (riscoprire il gusto di “pensare a partire dalla propria esistenza per tornare alla propria esistenza” ): non perché sia scarsamente rilevante, bensì proprio perché troppo radicale e decisivo da potersi solo sfiorare di passaggio. Concentriamoci, invece, sul secondo passo: “provare a pensare con gli altri, coinvolti nella ‘pratica’ del filosofare sui problemi non solo dell’ Uomo, giusta eredità di una millenaria tradizione, ma anche dei singoli uomini, attraverso incontri pubblici di conversazione filosofica che fossero il più possibile diversi dall’abituale solipsismo delle conferenze” . Ebbene, chi sono questi altri? Perché si lasciano convocare, sia a titolo gratuito sia più spesso a pagamento, dal filosofo che gli rivolge l’invito ad incontrarli? Sono necessariamente persone in sofferenza o, preferibilmente, pregne di entusiasmo vitale? Come si può etichettare quello che avviene in questi incontri pubblici?
Cominciamo a rispondere sull’identikit degli ospiti: sono persone che (a prescindere dal livello di istruzione e dall’indirizzo di studi eventualmente seguito) hanno voglia di pensare a voce alta e di esporre i loro pensieri al vaglio del pensare di altri. Si possono chiamare filosofanti o con - filosofanti? Per qualcuno sarebbe eccessivo. Allora, più sommessamente, dialoganti? Conversatori? Ragionatori? L’essenziale, mi pare, è che si mettano in gioco in quanto animali consapevoli in grado di dare ragione di ciò che asseriscono: senza, dunque, proteggersi dietro lo scudo delle (eventuali) competenze specialistiche e delle citazioni dotte. Meno che mai se, per caso, fossero laureati in storia della filosofia.
Gli “incontri pubblici” in cui un filosofo professionista incontra altri interlocutori (che non devono necessariamente essere filosofi di mestiere, anzi neppure conoscitori del lessico filosofico tecnico) sono denominabili genericamente - secondo la più volte ribadita proposta di Alessandro Volpone - pratiche filosofiche. Alcune di queste pratiche sono state battezzate sin dalla nascita ., altre rimangono prive di una denominazione più specifica . La mia opinione è che siano denominate “consulenze di gruppo” quando gli interlocutori formulano esplicitamente e programmaticamente un tema da discutere a partire da interrogativi esperienziali effettivamente avvertiti da tutti i membri della “comunità di ricerca”, o per lo meno da alcuni di loro: per esempio quando un gruppetto di medici che lavora con malati terminali chiede di confrontarsi con un filosofo sulla loro idea di morte o un gruppo di psicoterapeuti chiede di riflettere su differenze e affinità tra la psicoterapia e la consulenza filosofica o un gruppo di cittadini chiede di riflettere sulle possibili ragioni etiche di un loro maggiore impegno socio-politico o un gruppo di operai sindacalizzati chiede di riflettere su come sia stato possibile lo sterminio degli ebrei da parte di uno dei popoli più ‘civili’ del pianeta . In altri casi, però, i partecipanti ad una “pratica filosofica” non sanno, in anticipo, di cosa si tratta: sono bambini o adulti che iniziano un percorso formativo al volontariato e incontrano il filosofo perché inserito in calendario dagli organizzatori o ragazzi che esprimono, vagamente, l’esigenza di una alfabetizzazione, imparziale e corretta, sulle diverse proposte ideologico-politiche contemporanee . In tutti questi casi, nella misura in cui si fa filosofia, si è dentro una ‘pratica filosofica’: ma mi sembrerebbe fuorviante chiamarle “consulenza di gruppo”. Così come non considero “consulenze filosofiche” i numerosi appuntamenti (cenette filosofiche per…non filosofi; week-end filosofici per…non filosofi; vacanze filosofiche per…non filosofi) in cui si parte da un testo o dalla relazione di un filosofo di mestiere, i partecipanti al gruppo sanno prima di cosa si discuterà, ma non determinano l’argomento dell’incontro - o del ciclo di incontri - a partire da loro esigenze contingenti.
Ebbene, perché nell’ultimo quarto di secolo, da quando promuovo questo genere di “pratiche filosofiche” (più o meno esplicitamente ‘consulenziali’) ho riscontrato largo interesse e soddisfacente rispondenza non solo (raramente) fra persone che attraversano fasi problematiche ma anche (più spesso) che vogliono “fiorire” ? Perché la filosofia - che può anche occasionalmente essere ricercata come “consolazione” degli affanni e delle contrarietà - di per sé è il lusso della vita: è il segno della pienezza, della gioia, o per lo meno della serena allegria dell’esistere. E’ una delle poche cifre che rivelano la non-assurdità dell’essere-al-mondo. Ed è per questo che non ci sarà società giusta sino a quando non sarà data a tutti i cittadini l’opportunità di decidere se ospitare o meno la riflessività critica nella propria coscienza.

Augusto Cavadi

mercoledì 25 novembre 2009

Sulla giornata internazionale della violenza sulle donne


“Repubblica - Palermo”
25 - 11 - 09

LE NOSTRE RADICI E LA VIOLENZA SULLE DONNE

Alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza dei maschi sulle donne, le agenzie battono la notizia della morte della donna di Giarre bruciata dal marito. Ma, per fortuna, la data non passerà inosservata anche per eventi di segni opposto: a Palermo, ad esempio, dalle 16 in poi, un gruppo di associazioni animerà un gazebo al Politeama con poesie e musiche, mentre a Giurisprudenza sarà presentato alle 18 un videoteatro di Margò Cacioppo, “Contro la mattanza”, dedicato al “femminicidio”.
Che le donne si mobilitino, è ammirevole; meno apprezzabile, l’eventuale silenzio dei maschi.
Sia per motivi generali che legati al contesto meridionale. In generale, infatti, nessuna strategia culturale potrà davvero incidere nel tessuto sociale sino a quando i maschi non riusciremo a capire almeno alcune delle ragioni radicali che possono indurci alla violenza nei confronti dell’altro sesso: a cominciare dalla paura del femminile che è in noi. Se - in ascolto della mitologia antica e della psicoanalisi contemporanea - accettassimo la dimensione femminea che è parte costitutiva della nostra personalità (proprio come in ogni psiche femminile è presente una valenza maschile), ci rapporteremmo con le donne in maniera meno aggressiva, più rilassata. Non avvertiremmo l’esigenza prepotente di affermarci differenti in tutto e per tutto, anzi superiori. Proprio come facciamo, ricorrendo all’ironia anche più volgare, nei confronti dei gay e dei transessuali.

Questa riconciliazione - per dirla con Jung - del nostro animus con la nostra anima avrebbe, nel contesto meridionale, il pregio non trascurabile di intaccare la versione mafiosa del maschilismo planetario. Infatti, come ha spiegato il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino nel corso di un’intervista televisiva, <> non può essere ammesso in Cosa Nostra perché considerato <>. La cronaca registra casi sempre più frequenti di donne che occupano ruoli di responsabilità nell’ambito delle attività delle cosche: tuttavia – a parte il fatto che non si ha ancora notizia di un loro inserimento organico e definitivo – il titolo di merito che consente la loro promozione sul campo (in qualità di ‘reggenti’) è, comunque, il rapporto di parentela con un maschio (ucciso o, più spesso, incarcerato). Se perde totalmente il riferimento ad un uomo, ammesso che non venga ‘posata’, non le resta che una possibilità: dimostrare virtù ‘virili’ . Ovviamente l’aspetto duro del maschilismo è solo l’altra faccia del paternalismo che protegge – perfino da sé stessa e dai rischi della propria autodeterminazione! – la madre, la sorella, la moglie, la figlia. Forse i due secoli di dominazione araba non sono trascorsi invano: nella mentalità mafiosa c’è una strana analogia con la tesi diffusa in molti Paesi islamici, secondo la quale la donna deve vivere all’interno delle mura domestiche – o, se proprio necessario, andar fuori velata più che possibile – come effetto non di oppressione, bensì di riguardo. Ma non c’è bisogno di scavare tanto lontano nel tempo: gli ordini religiosi femminili non hanno ottenuto solo a fatica, e in secoli a noi più vicini, l’autorizzazione ecclesiastica (cioè: da parte delle gerarchie maschili) di poter uscire dalla clausura conventuale per espletare nel mondo (ospedali, carceri, scuole…) la loro missione? Le motivazioni sono sorprendentemente monotone: solo le grate ferree di uno spazio di reclusione possono salvaguardare il <> dalle minacce fisiche e dalle tentazioni morali.
Né la tanto sbandierata fedeltà coniugale, a cui il mafioso sarebbe obbligato nel doppio senso di non tradire la propria moglie e di non indurre al tradimento la moglie di un altro mafioso deve trarre in inganno. Intanto, perché si tratta di divieti ampiamente, e in certi casi persino comicamente, trasgrediti; poi perché, al di là dei casi statistici di incoerenza, è più grave che alla base dei divieti morali riguardanti il ‘rispetto’ per le mogli non ci sia neppure l’ombra di un riconoscimento convinto della dignità femminile. Se con le mogli bisogna evitare comportamenti sessuali anomali (anomali, ovviamente, rispetto a clichè di perbenismo clerico-borghese), con le amanti occasionali e con le prostitute ci si può scatenare senza remore: ma non sarebbero donne anche loro? Non molto tempo fa Gaspare Spatuzza (l’ex sicario di Filippo e Giuseppe Graviano, mandanti dell’assassinio di don Pino Puglisi) si è auto-accusato di aver fatto irruzione nella casa di una studentessa e – dopo aver legato e imbavagliato la collega con cui divideva l’appartamento – di averle praticato delle iniezioni allo scopo di procurarle un aborto: era rimasta incinta dopo rapporti sessuali con un boss.

Augusto Cavadi

domenica 22 novembre 2009

“Il foglio” parla de “Il Dio dei mafiosi”


“IL FOGLIO” 18 novembre 2009

Che faccia ha il Dio dei mafiosi
Il saggio di Cavadi spiega la teologia di Cosa nostra

di Maurizio Crippa

Fu il 9 maggio 1993 che Giovanni Paolo II scagliò nella Valle dei templi il suo anatema: “Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere!’. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio”. Ci fu chi come Salvatore Grigoli, il sicario che quattro mesi dopo avrebbe ucciso don Pino Puglisi, si accorse che “da allora in Cosa nostra si cominciò a vociferare che la chiesa cominciava a essere diversa”. Ci fu chi, come il filosofo e attivista antimafia Augusto Cavadi, colse l’occasione per rivolgere al Papa un appello “sulla necessità di sciogliere gli equivoci e le connivenze fra realtà ecclesiale e sistema mafioso”. Punti di vista sul bicchiere mezzo vuoto o pieno. Sedici anni dopo, la Conferenza episcopale che si è appena riunita ad Assisi, da dove monsignor Mariano Crociata ha tuonato: “Non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche, perché chi fa parte delle organizzazioni criminali già automaticamente è fuori dalla comunione ecclesiale”, sembra propendere per il bicchiere mezzo vuoto.

Tanto che nel documento “Risorse e dignità del Mezzogiorno” che verrà pubblicato a inizio 2010, i vescovi scrivono: “Nel Mezzogiorno la chiesa ha mostrato di recepire in maniera disomogenea la lezione profetica di Giovanni Paolo II”. Ci sono i “martiri per la giustizia”, ma anche tanti che “sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile”. E invece il 2010 vuole essere l’anno della grande offensiva contro la mafia (le mafie).

Cosa pensi Dio della mafia, sembrerebbe chiaro. Cosa pensino i mafiosi di Dio è invece una questione antica, complicata. Cui si sono applicati in molti, pure il pm Roberto Scarpinato, che scrisse per MicroMega un saggio dal titolo “Il Dio dei mafiosi”. Anche perché è propedeutica a un’altra domanda chiave: cosa debba pensare la chiesa dell’antimafia (nel senso dei “professionisti dell’antimafia” di Sciascia). E’ questo il cuore pulsante del libro scritto da Augusto Cavadi – insegnante palermitano, attivista, collaboratore di Repubblica – appena uscito dalle edizioni San Paolo: “Il Dio dei mafiosi”. Una vera lettura teologica di Cosa nostra: “Questo libro vuole rispondere, essenzialmente, a una questione: come è possibile che una società cristiana – a stragrande maggioranza cattolica – partorisca Cosa nostra, ’Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita? E le partorisca non come aborti mostruosi irriconoscibili, ma come associazioni in cui tutti hanno una Bibbia. E tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino. O un’immagine di un Cristo, di una Madonna. Sono religiosissimi. E ostentano la loro devozione’?”.

Un libro interessante, a tratti divulgativo e a tratti pedante, documentato e ideologico, illuminante e un po’ deformante. Un libro in cui Scarpinato è citato il triplo di Wojtyla. Che pone però una domanda intrigante: non tanto quale “patto di non belligeranza” sussista (e certo è sussistito) tra chiesa e mafia; ma quale sia la “teologia dei mafiosi”, come organizzino il loro rapporto con il divino, il bene e il male. Insomma l’aspetto profondo, che è storico e culturale, antropologico se non (forse) teologico. Dunque non solo questione giudiziaria e politica, malaffare e procure. Ciò che davvero rende complesso e duro il fenomeno. Si inizia da constatazioni: “Tutti noi uomini d’onore pensiamo di essere cattolici, Cosa nostra si vuole farla risalire all’apostolo Pietro”, spiega il pentito Leonardo Messina. Michele Greco di sé disse: “Mi chiamano il Papa, ma io non posso paragonarmi ai papi per intelligenza, cultura e dottrina. Ma per la mia coscienza serena, e per la profondità della mia fede, posso anche sentirmi pari a loro”. Pietro Aglieri fu arrestato con tomi di teologia e un libro di Edith Stein sul comodino. Poi la questione della politica: la Dc dimentica “di quanto aveva scritto Luigi Sturzo nel lontano 1900: ‘La mafia oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma atterra anche a Roma’”. Ma sempre da lì si deve partire: dal “Festino di Santa Rosalia”, dall’antropologia del sud, dalla disamina della “religione mediterranea”.

Dal familismo amorale e dall’omertà, il feudalesimo come orizzonte giuridico, il linguaggio, “il nesso inquietante fra ‘sacro’ e ‘violenza’… Niente di strano, dunque, se dovessimo scoprire in funzione meccanismi ‘religiosi’ di controllo della violenza”. La parte più originale è proprio il capitolo “Teologia della mafia”. Non certo “una teologia consapevole e meditata”, ma certo “per un fenomeno come la mafia, privo di giustificazione intellettuale, la religione può essere considerata ‘l’unico apparato ideologico cui fare riferimento’”. Un capitolo fatto di lemmi forti: onnipotenza senza tenerezza (“Un Dio, per dirla con i mafiosi, masculiddu”, dice Scarpinato). Fino a leggere la mafia nel suo “registro lugubre” e in un approdo di “ateismo nichilista” della Weltanshauung e della Gottanschauung mafiose. Dove in causa però, curiosamente, è chiamato il cattolicesimo in quanto tale: perché è questa “la versione del cristianesimo che i mafiosi hanno conosciuto da vicino”, in cui “Dio è essenzialmente il garante dell’ordine cosmico e dell’ordine sociale”. Un cristianesimo “municipale e tribale” che, certo, è un tratto decisivo della storia del Meridione. Ma oltre la fenomenologia, ci sono nel libro un altro paio di questioni. E non riguardano più la mafia, ma la chiesa. Da un lato c’è qui l’ideologia compiuta del cattolicesimo antimafia, da Centro Padre Arrupe, potremmo dire.

La scissione della “religione borghese” dalla chiesa dei poveri, la scissione della chiesa collusa da quella purificata. Dunque l’elaborazione della colpa della chiesa-istituzione. Dall’altro lato c’è un aspetto anche più profondo. Seguendo una teologia importante – ma che certo non è quella di riferimento del documento della Cei, né quella in base alla quale Wojtyla lanciò il suo possente anatema – Cavadi sembra ritenere che sia il cattolicesimo – in sé – l’aborto di una fede tradita. La teologia nichilista della mafia non è tale in quanto “corruzione” del cristianesimo, ma in quanto, per così dire, insita nella corruzione che il cristianesimo ha subito trasformandosi da “un messaggio religioso di origine provinciale (una delle tante sette eretiche scaturite dalla tradizione ebraica) in sistema culturale organico (con una sua filosofia, una sua etica, un suo codice giuridico) affascinante, ma al prezzo di rendere quasi irriconoscibile proprio quel messaggio religioso originale”. A tutto questo si oppone, nell’ultimo capitolo, “Per una teologia ‘oggettivamente’ antimafiosa”, un’idea di fede e chiesa diversa: “Non sto ribadendo la tesi ovvia che la teologia debba demistificare la transcultura mafiosa… sto affermando la tesi, un po’ meno ovvia, che non può operare tale demistificazione, se non la tenta anche nei confronti di quelle transculture (principalmente la borghese-capitalistica e la cattolico-mediterranea) che sono così perniciosamente ingarbugliate con la transcultura mafiosa”. E allora si capisce un po’ anche cosa c’è che a volte non convince, in un certo tipo di chiesa antimafia: è che non solo vuole combattere la mafia, vuol combattere anche la chiesa. Per una Sicilia senza mafia, serve un Dio “senza antropomorfismi”. Ditelo a Scarpinato. Ma anche a Papa Ratzinger.

© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO

Maurizio Crippa

lunedì 16 novembre 2009

A Palermo giovedì 19 per l’amore
e a Bagheria venerdì 20 per...


Come già comunicatovi precedentemente, giovedì 19 novembre alle 17,45 - presso il salone della Chiesa valdese di via Spezio (alle spalle del teatro Politeama) - Alessandro Esposito e Stefania La Via presenteranno il mio “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore” (edizioni Petite Plaisance, Pistoia 2009). La cantattrice Rosalia Billeci, accompagnata dal musicista Nicola Marchese, inserirà degli intermezzi recitativi e cantati.
Il giorno dopo, venerdì 20 novembre alle ore 17.30 - a Villa Cattolica, Bagheria - si terrà la presentazione del mio libro “Il Dio dei mafiosi” (edizioni San Paolo, Milano 2009). Ne discuteranno Francesco M. Stabile (storico della Chiesa) e Maurizio Padovano (docente al Liceo Classico F. Scaduto di Bagheria).

domenica 15 novembre 2009

IL DISPREZZO DEL PROFESSORE


Repubblica – Palermo 15.11.2009

Elio Giunta
IL DIRITTO AL DISPREZZO
Edizioni Ila-Palma
pagine 75
euro 10

Senza dubbio intrigante l’idea di partenza: un anziano professore scrive una sorta di lettera aperta, sui grandi temi attuali, ai suoi “illustri ex allievi” (come il magistrato Ignazio De Francisci, l’onorevole Leoluca Orlando o il senatore Marcello dell’Utri). E la scrive dal punto di vista di un “intellettuale” convinto che suo compito non è principalmente di schierarsi con questo o quel partito, ma di promuovere ogni iniziativa, da qualsiasi organizzazione sociale provenga, mirata “all’integrità della persona umana e alla evoluzione del suo benessere e della sua libertà“. Intrigante l’idea, dicevo; ma, tutto sommato, un po’ deludente l’effettiva realizzazione. Quando Elio Giunta in questo suo Il diritto al disprezzo. Cosa pensa la gente della politica parla di tecnologia ed economia di mercato, di partitocrazia o di disoccupazione giovanile, le sue considerazioni scivolano senza graffiare.
Il discorso si modula su un registro più stimolante là dove parla del potere culturale - reale o presunto - in Sicilia. Ne ha per tutti (dai defunti come Sciascia e Guttuso ai viventi come Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, Elvira Sellerio e compagnia varia), ma il tono delle denunce è troppo acceso (a tratti livoroso) per non sollevare qualche dubbio su possibili risentimenti soggettivi. Che non aiutano certo l’oggettività delle analisi.

venerdì 13 novembre 2009

PER PROMUOVERE DAVVERO COOPERAZIONE INTERNAZIONALE


“Centonove” 13.11.09

LA COOPERAZIONE POSSIBILE

Nel 1977 il cancelliere tedesco Brandt ha lanciato - con un suo celebre “Rapporto” - l’idea di un Nord del mondo che, trasferendo nel Sud capitali finanziari e competenze tecniche, riducesse gradualmente la distanza fra le due parti del pianeta. Come osserva Tonino Perna nella sua efficace prefazione al bel volume di Mauro Cereghini e Michele Nardelli (Darsi il tempo. Idee e pratiche per un’altra cooperazione internazionale, EMI, Bologna 2008), si trattava di un’idea che “aveva una sua forza e un suo senso”, ma anche “un suo limite profondo: un’idea di sviluppo globale che partiva dall’Occidente per diffondersi nel resto del mondo, esportando modelli di consumo e sistemi produttivi che - come è stato dimostrato - hanno più impoverito che portato beneficio alle comunità locali”. Che fare a questo punto? Sbaraccare le numerose Ong (Organizzazioni non governative) che, negli ultimi quarant’anni sono sorte come funghi per attuare la politica della cooperazione internazionale? Oppure mantenerle in piedi come “progettifici”, privi delle originarie motivazioni etiche e politiche, tanto per tamponare - sia pur minimamente - la disoccupazione dei giovani occidentali?

La proposta di Cereghini e Nardelli va in una terza direzione: una cooperazione di comunità che non sia “qualcosa di altro e aggiuntivo rispetto alle attuali forme di solidarietà internazionale, ma un modo di rivederle radicalmente”. Più esattamente e più concretamente: “In un mondo interdipendente non può esserci più cooperazione unilaterale: o si cambia insieme o non si cambia. Dunque i cooperanti devono ritornare anche animatori del proprio territorio, oltre che esploratori e facilitatori in quello altrui. E riscoprire il valore della parola e dello sguardo, per una conoscenza approfondita che preceda e accompagni qualsiasi azione sul campo”. In altri termini, più sintetici, i due autori - che scrivono a partire da una ricca esperienza operativa, soprattutto nella ex-Jugoslavia martoriata dalla guerra - propongono una “cooperazione come relazione, cambiamento reciproco”.
Ma che c’entra questo progetto con il titolo del libro, intelligente nei contenuti quanto gradevolmente raffinato nello stile? E’ presto detto: per realizzare questa inversione ad U, questa ‘con-versione’, bisogna imparare a “darsi il tempo…Fermarsi a riflettere, non farsi travolgere dal rincorrere gli eventi, le emergenze, le scadenze; capire ciò che accade ma anche il senso dell’agire dentro gli avvenimenti. E’ un tempo difficile da ritagliare, immersi come siamo nel delirio del fare. Così, mentre cresce il disprezzo verso la parola, abbiamo deciso di darci il tempo per ragionare. E a raccontare il valore della relazione, la gioia e l’incertezza dell’incontro, la bellezza del sedersi e parlare”. Solo così si potrà sperimentare “un altro approccio alla solidarietà internazionale, troppo ferita da fretta e superficialità”.

martedì 10 novembre 2009

Per conoscere il fondatore della Croce Rossa internazionale



Recensione di “L’Italia a pezzi” di Antonio Roccuzzo


“Repubblica - Palermo” 8.11.09

Le virtù di Reggio Emilia, i vizi di Catania

Antonio Roccuzzo
L’ITALIA A PEZZI (Edizioni Laterza, pagine 154, euro 15,00)

Il progetto risorgimentale - “L’Italia è fatta, bisogna adesso fare gli italiani” - si è realizzato? Antonio Rocccuzzo, in L’Italia a pezzi. Cosa unisce Catania e Reggio Emilia, dà una risposta spiazzante: la unificazione culturale, etico-sociale, degli italiani è ancora da venire. E quella sinora realizzata - sul piano dei profitti - è avvenuta in nome del peggio. Due città-simbolo (Reggio Emilia e Catania) vengono analizzate da otto punti di vista: lo stato dell’informazione, la condizione degli immigrati, il dominio mafioso, le attività imprenditoriali, il volto dello Stato, la memoria storica dei cittadini, la vita politica. Punto per punto, con vivacità di linguaggio e precisione di dati, Roccuzzo dimostra che in Italia la differenza di redditi e della qualità dei servizi risulti fra le più gravi e preoccupanti fra le nazioni del mondo industrializzato: il Nord importa manodopera, burocrazia e professori dal Sud, ma non vi esporta civiltà e sviluppo reale”. E’ anche vero che “sotto le cifre delle ‘due Italie’ vive una nazione fondata sull’evasione fiscale al Nord e sul lavoro nero al Sud, ma soprattutto si agita un’economia criminale che già costruisce un solo paese sommerso, brutto, sporco e cattivo”. Insomma, i due mondi diversi e distanti rischiano di unificarsi proprio grazie alle energie peggiori del Paese: grazie a quel “flusso enorme di denaro sporco che è l’unica vera liquidità circolante, e non più solo nel Sud, soprattutto in tempo di recessione economica. Un fiume di euro illegali che rischia di ‘meridionalizzare’ l’Italia”.
Augusto Cavadi