venerdì 17 luglio 2009

Intervista su www.percorsidipensiero.blogspot.com


- Professor Cavadi, Lei costituisce un’importante testimonianza di come una persona possa coniugare l’attività nell’ambito dell’insegnamento scolastico con la presenza in altri spazi che necessitano di una maggiore attenzione,: spazi in cui sa che il sapere può accedere con una certa delicatezza ed in cui è necessario intervenire anche mediante sensibilità filosofica. Cosa ci può raccontare di questa duplice esperienza? Ci parli un po’ di lei…
- * In effetti, quando a diciotto anni ho deciso di iscrivermi in filosofia, non sapevo come avrei speso la laurea: sapevo solo che avrei speso la vita a cercare di capire il mondo e a confrontarmi con chi altri avesse voluto in futuro condividere la mia ricerca. La scuola è stata dunque una delle mille occasioni per filosofare: accanto ad altri luoghi - esistenti o da me inventati - per incontrare gente e pensare insieme. Alcuni anni fa ho raccontato alcune di queste esperienze in un libro, edito dalla Rubbettino di Soveria Mannelli (Catanzaro): “Quando ha problemi chi è sano di mente”. Se qualcuno è interessato alla mia vicenda, per la verità abbastanza ‘normale’, può trovarlo facilmente ancora in commercio.

- So che si è occupato di lotta alla mafia. Ci può esprimere una sua weltanschauung in merito, cioè dirci che cosa è la mafia?
- * Vedo che non hai preparato domandine facili facili… In realtà, uno dei luoghi in cui sono stato indotto dalle circostanze storiche ad esercitare la riflessione critica è stato il movimento siciliano antimafia. Con l’apporto decisivo di Umberto Santino e del Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” , fondato da lui e dalla moglie Anna Puglisi, ho cercato di capire cosa sia la mafia al di là degli stereotipi, arrivando alla conclusione che si tratti di un’associazione di criminali che mirano al potere e al denaro mediante il bastone (la violenza fisica) e la carota (il consenso sociale). E’ ovvio che questo è possibile per loro in quanto sfruttano abilmente un codice culturale che è teologico, filosofico, etico, pedagogico, simbolico…Anche su questi argomenti ho scritto abbastanza e sarei felice se qualche lettore interessato leggesse “A scuola di antimafia” o “Strappare una generazione alla mafia”, entrambi editi da un coraggioso editore trapanese, Crispino Di Girolamo. Chi avesse solo pochi minuti da dedicare a queste tematiche potrebbe trovare, presso lo stesso editore, un agile volumetto propedeutico che ho scritto nel 2008 e che è acquistabile anche in altre sei lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco, giapponese e russo): “La mafia spiegata ai turisti”.

- Lei ha vissuto gli anni storici della mafia – anni duri - l’uccisione di Falcone e Borsellino ha costituito la fine di un periodo e allo stesso l’inizio di uno nuovo. Ci può raccontare cosa è scomparso di quegli anni e cosa è rimasto?
- * Veramente non ho l’impressione che le stragi di Capaci e di via D’Amelio abbiano segnato una linea di demarcazione così netta. Prima di loro, dagli anni Sessanta del XIX secolo, centinaia di siciliani hanno perduto la vita combattendo la mafia e Umberto Santino ha voluto raccontare nei suoi libri questa storia dimenticata (recentemente l’ha sintetizzata nel libro, edito anche questo da Di Girolamo, “Breve storia della mafia e dell’antimafia”). E’ vero che il 1992 ha accelerato certi processi legislativi e sbloccato certe pigrizie giudiziarie, ma non c’è da farsi molte illusioni. La lotta continua, ma siamo a metà del guado: ci sono tante possibilità di arrivare all’altra riva quante di tornare, ignominosamente e disastrosamente, indietro.

- La mafia in termini di comportamento, di mentalità, di modo d’essere, è sempre la stessa o nel tempo ha cambiato volto, habitus mentale e quindi modi di porsi nei confronti del cittadino, società e Stato?
- * Il segreto della sua forza è di mantenere una identità sostanziale pur nella continua trasformazione delle modalità concrete in cui si manifesta. E’ un fenomeno incistato nel tessuto socio-storico: e dunque sottoposto alle stesse evoluzioni - o involuzioni, secondo i casi - della società siciliana.

- Cosa può fare la filosofia per queste realtà così lontane dalle Università?
- * Quello che ha sempre fatto quando è stata davvero filosofia e non esclusivamente erudizione storiografica o gusto dell’inventiva paradossale: risvegliare il piacere - e più radicalmente l’esigenza - di pensare con la propria testa, senza lasciarsi omologare dalle maggioranze di turno. Che assai raramente hanno ragione.

- Lei è inoltre uno dei promotori della Consulenza filosofica. Ci può dire di cosa si tratta?
- * Vedo la consulenza filosofica come una delle ‘pratiche filosofiche’: tutte quante, poi, le interpreto come modi analogici di attuare la filosofia-in-pratica o, come ama esprimersi in tedesco Gerd Achenbach, la philosophische praxis. Chi vuole avere un’idea di ciò che stiamo provando a sperimentare in Italia può leggere con profitto Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni (Di Girolamo, Trapani 2008), testo che abbiamo scritto in dieci autori e che l’editore ha pubblicato anche in lingua inglese per consentirgli una più vasta diffusione planetaria.

- Spesso si dice che dal Consulente ci va una persona sana, mentre da uno psicanalista uno malato. Ciò costituirebbe una delle differenze essenziali che scaturiscono da un modo di intendere le due pratiche. Spesso però, dagli psicoanalisti ci vanno persone che svolgono una vita normale, hanno lavoro, famiglia, o magari praticano ottimi studi universitari. E ancor più spesso non c’è una medicalizzazione, un categorizzare i pazienti attraverso le classiche impostazioni psicopatologiche. Ma allora mi chiedo: dove è la vera differenza tra le due discipline? E ancora: perché una persona dovrebbe recarsi dal consulente filosofico e non dallo psicoanalista? Quale novità, quale alternativa offre alla persona?
- * Ho dedicato, dal 2006 al 2009, tre anni di riflessione su questi argomenti, approfittando di un dottorato di ricerca in filosofia presso la stessa facoltà universitaria da cui ero uscito quasi trenta anni prima. A breve la tesi finale uscirà come volume - sempre con il mio amico Di Girolamo - e sarà intitolata Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche. Qui cerco di stemperare più che posso la tensione polemica fra psicoterapie e consulenza filosofica, ma non al punto da cancellare la differenza radicale: dallo psicoterapeuta vado per sentirmi meglio, dal filosofo per pensare meglio. Se pensare meglio mi fa stare meglio, bene; ma non posso escludere, a priori, che ciò non avvenga. O, addirittura, che avvenga il contrario. Hegel ci ha avvertito una volta e per sempre: la filosofia non deve essere consolatrice a tutti i costi. Per questo - se uno ha tempo e soldi - farebbe bene a frequentare un buon psicoterapeuta e un buon filosofo; se non ha a portata di mano né uno né l’altro, fa meglio a dedicare un po’ di cura a sé stesso con l’aiuto di qualche buon libro (di psicologia e di filosofia) e con qualche persona di buon senso disposta a dialogare con sincerità.

- Nietzsche intitolò uno dei testi principali “Come si diventa ciò che si è” e scrisse anche “Diventa ciò che sei”. È questo uno dei compiti del consulente filosofico? Glielo chiedo perché, se così fosse, vedrei una contraddizione: da una parte il consulente filosofico dovrebbe aiutare la persona a seguire le proprie inclinazioni; ma dall’altra dovrebbe trasmettere una propria visione della vita buona. Come conciliare, se vanno conciliati, questi due compiti? Oppure, per dirla con Rawls, un filosofo dovrebbe astenersi dal valutare e consigliare un modello, ad esempio, di virtù a cui può il consultante possa aderire? Per dirla in altri termini: la filosofia coltiva valori che poi tramanda a chi si accosta ad essa (ad esempio, in questo caso, mediante un consulente al consultante) o è relativista e si astiene dal consigliare ed indagare cosa sia la vita buona?
- * Anche questa è una domanda enorme, imbarazzante. Provo a rispondere in poche battute: il filosofo consulente non è un educatore, un pedagogo, del suo ospite. E’ un compagno di ricerca. Può presentargli un ventaglio di scenari, di possibili prospettive etiche; ma, in ultima analisi, è il visitatore che deve meditare, confrontarsi, scegliere. La riuscita di una consulenza filosofica non si misura - mi pare - dai contenuti, dal merito delle conclusioni; bensì dalla loro qualità, dal metodo con cui si raggiungono. Come filosofo credo di sapere cosa sia giusto e cosa sbagliato, ma quando apro la porta del mio studio ad un cliente devo essere disposto a rimettere in discussione le mie convinzioni e a ricominciare tutto da zero. A conclusione della conversazione - o della serie di conversazioni - è importante non ciò che ognuno di noi penserà, ma che ognuno di noi pensi con autenticità ciò che pensa. Questo è relativismo? Non ne sono convinto. E’ senso della propria non-assolutezza. E non mi pare il peggiore dei difetti possibili.

- Ci può dire qualcosa sui “caffè filosofici”? Cosa si fa ? Come si dirige? Chi partecipa? Qual è il fine?
- * Di tutte le pratiche filosofiche che racconto nei libri sopra evocati - dalle cenette filosofiche per…non filosofi alle “domeniche di chi non ha chiesa”, dalle vacanze filosofiche estive alle sessioni di pratica filosofica per piccole comunità di ricerca -, i café-philò sono quelli che pratico di meno perché ho avuto esperienze non molto entusiasmanti. Se non si spiega bene che si tratta di uno spazio per filosofare, il rischio che si riduca ad un luogo di chiacchiera è molto alto. I discorsi di filosofia in un ‘caffé’ devono avere certo una dimensione di spontaneità, di rilassatezza, di accessibilità refrattaria ai tecnicismi del linguaggio e agli esibizionismi delle citazioni dotte: ma devono essere qualcosa di più che “discorsi da… caffé”.

Andrea Cati

1 commento:

Karen ha detto...

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