domenica 27 settembre 2009

Il romanzo di Marilina Graziano sul senso della vita


“Repubblica - Palermo”
27 settembre 2009

Augusto Cavadi

Marilina Graziano
COME IL SUONO DI UN VIOLINO
Umberto Polizzi Editore
pagine189
euro 15,50

Riuscite a leggere un romanzo concentrandovi sulla trama e sulle tematiche senza lasciarvi distrarre dalle sviste ortografiche e tipografiche? Se la risposta è affermativa, il romanzo di Marilina Graziano, Come il suono di un violino, è adatto a voi. Una volta attraversata la barriera stilistica, troverete contenuti interessanti che danno da riflettere: la sofferenza sorda e continua di chi non riesce a tagliare il rapporto coniugale con un partner violento; la sottile ma inossidabile complicità amicale fra persone di sesso diverso che scelgono di non coinvolgersi sentimentalmente; il travaglio di un genitore che si accorge con sgomento dell’omosessualità del figlio ed è mortificato dall’opinione comune intrisa di perbenismo cattolico-borghese; la scoperta, grazie all’incontro con un prete diverso dagli altri, che - sotto la montagna ecclesiastica di moralismi e ipocrisie - cova in tutta la sua rivoluzionarietà il messaggio originario di Gesù di Nazareth. Le vicende di Teresa, bambina di San Vito Lo Capo emigrata a Roma, sono attraversate e illuminate dalla consegna del padre liutaio: “Ci vuole amore, come in tutte le cose importanti. Il suono del violino è un po’ come la vita. E’ un suono meraviglioso, ascoltarlo è bellissimo, ma nessuno quando lo fa pensa che dietro ci sia un duro lavoro e tanti pezzi di legno messi insieme”.

Un testo delirante su “Il Giornale” di Feltri


Molto probabilmente ne avete già avuto (e magari dato) notizia, ma a scanso di omissioni vi segnalo nella “Stanza di Mario Cervi” de “Il giornale” del 15 settembre 2009 (accessibile in internet) questo testo delirante:
“Non riesco a capacitarmi del fatto che si tolleri con tanta leggerezza il proliferare di giornali nuovi, vedi quello di Marco Travaglio, l’uomo più viscido della sinistra disfattista e sempre alla ricerca di nuovi modi per indebolire il premier, vista la continua ascesa dello stesso nel consenso degli italiani. Possibile che l’avvocato Ghedini non riesca a trovare un reato plausibile per la chiusura di queste «vipere» che strisciano con il continuo intento di mordere il premier e causarne la morte politica? Un giornale che palesemente offende e denigra il capo del governo va subito chiuso. Lasciamo poi le critiche a chi è nato per criticare tutti gli avversari politici. Una volta creato l’esempio gli altri giornali di sinistra si guarderanno dal continuare ad offendere il premier e la sua coalizione. Possibile che non si riesca a trovare una norma che preveda l’attentato morale al capo del governo? Io credo che l’unica soluzione a questo continuo stillicidio di calunnie sia quello di rispondere con i sistemi usati (che io non approvo) da Putin nei confronti della Georgia, e della Cina nei confronti dei monaci tibetani: «La forza». Dopo una serie di bastonate inflitte a Franceschini, D’Alema, Travaglio, Santoro e Maurizio Mannoni, si vedrebbero subito i risultati, si vedrebbe il ritorno del rispetto nei confronti di Berlusconi”.
Quando mi è stato segnalato il testo, ho provato a mandare un mio commento, ma non è stato pubblicato (nonostante siano passate 48 ore). In sostanza sostenevo che fosse impossibile che l’autore di queste righe dicesse sul serio e che era stata una sua finissima finzione per denunziare la mancanza di libertà di stampa in Italia. Poiché non può esistere nessun coglione che pensi davvero delle tesi così allucinanti, mi complimentavo con l’autore per l’umorismo di cui aveva dato prova e che gli aveva consentito di farsi pubblicare ‘dentro’ la fortezza nemica. Che non fosse stato lo stesso Travaglio ad avere una genialità simile?

domenica 20 settembre 2009

Spinoza, la felicità e i seguaci del Senatùr


“Repubblica - Palermo”
20.9.2009

ALLA RICERCA DELLA FELICITA’

Augusto Cavadi

GIOVANNI DI BENEDETTO
L’ecologia della mente nell’Etica di Spinoza
Edizioni Mimesis
Pagine 223
Euro 18

I leghisti propongono un esame preliminare per i professori provenienti dal Sud: idea brillante, se tra loro ci fossero esaminatori in grado di leggere le carte prodotte dagli esaminandi. Per esempio in grado di capire libri lucidi, seri e profondi come questo “L’ecologia della mente nell’Etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità” pubblicato, con una suggestiva prefazione di Andrea Cozzo, dal giovane e stimato docente palermitano Giovanni Di Benedetto. Non perché si tratti di un volume ostico (anzi, può servire da ottima introduzione alla lettura diretta del molto più arduo testo originale - l’Etica dimostrata geometricamente - del filosofo ebreo olandese del Seicento), ma perché esige nel lettore un minimo di finezza intellettuale, e direi d’animo, che non sempre è dato riscontrare nei seguaci padani del Senatùr. Vi si sostiene infatti che la felicità non è frutto di soldi o di potere, bensì della capacità di uscire da un’ottica miopiamente individualistica e provinciale per entrare in relazione vivente con l’umanità, anzi con l’intero universo (concepito come divino): per sperimentare “l’equilibrio omeostatico del nostro essere come unione non alienata e non scissa di mente e corpo ed infine la gioiosa costituzione collettiva della socialità“. Chi ha orecchie - e cervello - per intendere, intenda.

“Filosofia di strada” (la conversazione a Reggio C. il 18/9/09)


“Associazione maestri di speranza”
“Centro servizi di volontariato dei due mari”
Reggio Calabria 18 settembre 2009

“Filosofia di strada: il diritto di pensare appartiene a tutti”

Conversazione con Augusto Cavadi

Un titolo un po’ spiazzante
Forse sarete rimasti un po’ sconcertati del titolo della conversazione di oggi e mi pare un miracolo che, in tanti, vi siate lasciati convocare in una sera estiva ancora così tiepida e luminosa. Lo chiarisco dunque subito per evitare equivoci: la filosofia che vorrei presentarvi non ha quasi nulla in comune con la materia scolastica che qualcuno di voi ha studiato a suo tempo. A scuola, quando va bene, si studia la storia della filosofia, dunque la filosofia degli altri prima di noi; qui vorrei parlare della filosofia che ciascuno di noi possiede, più o meno consapevolmente, e in base alla quale dirige le proprie azioni quotidiane. Vorrei parlarvi non dell’utilità di studiare libri, nomi famosi, date (anche questo, in piccole dosi, può avere un senso); bensì della necessità di attivare la vostra testa per capire la vostra vita. Vorrei parlarvi di quella modalità di intendere la filosofia che, dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, in Germania, Gerd Achenbach ha chiamato Philosophische praxis e che in Italia un certo numero di filosofi chiamiamo filosofia praticata o filosofia-in-pratica. O, come mi ha suggerito un’amica salvadoregna che vive facendo l’artista di strada, filosofia di strada.
Questa modalità del filosofare vorrebbe liberare la filosofia dalla prigione dorata in cui la stragrande maggioranza dei filosofi degli ultimi tre secoli l’ha segregata. Mentre si studia medicina per curare i non-medici o architettura per progettare le case dei non-architetti, lo studio della filosofia non ha alcuna ricaduta - almeno diretta - sul mondo dei non-filosofi. C’è qualcosa di patologico o, per lo meno, di strano: i filosofi si autoriproducono di generazione in generazione senza che mai la società intorno a loro fruisca dei prodotti del loro mestiere. Ecco perché alcuni, sin dal giorno della laurea in filosofia, abbiamo pensato che i nostri interlocutori fossero sì i maestri che ci avevano introdotto alla filosofia, i colleghi, gli alunni…ma anche le donne e gli uomini della strada, che faticano dalla mattina alla sera impegnati in attività che non hanno nulla a che fare con lo studio della storia della filosofia. Essi hanno però domande, si pongono interrogativi: perché non offrire una sponda con cui interfacciarsi? Perché non mettere la propria esperienza di riflessione e di ragionamento a servizio di quelle persone che, sia da sole sia in gruppo, vogliono riflettere criticamente sui dilemmi che incontrano nel cammino dell’esistenza?

Il contesto storico-culturale
Questa sera forse possiamo provare a sperimentare una riflessione di gruppo di tipo filosofico, anche se non sarà facile per tutti superare timidezze e pudori sino al punto da esporsi con sincerità. E’ un modo per farvi vedere, in concreto, come potrebbe svolgersi una ‘pratica filosofica’ con non-filosofi di professione quali siete la stragrande maggioranza dei presenti.
Non conoscendo nessuno di voi prima di arrivare a Reggio, non ho potuto scegliere - come di solito preferisco - che sia il gruppo a individuare un tema che gli sta a cuore. Con un piccolo sforzo immaginativo, ho supposto che - trattandosi in genere di persone impegnate a vario titolo nel sociale - vi potesse interessare partire dalla fase storico-culturale che ci troviamo ad attraversare. Spero che non siate tra quelle persone che si spendono generosamente per gli altri, ma hanno paura di sostare; di fermarsi qualche volta in silenzio; di chiedersi il senso del loro agire. In fondo, sono venuto da Palermo essenzialmente per questo: mettervi una pulce nell’orecchio, farvi emergere il sospetto che pensiero e prassi devono intrecciarsi continuamente. Un pensare senza azione è sterile, lo sappiamo bene; non dobbiamo dimenticare, però, che un agire senza un pensiero progettante può essere non solo inefficace, ma addirittura controproducente. Moltiplichiamo gli impegni, le riunioni, le iniziative perché l’urgenza ce lo impone: ma qualche volta non è invece la nevrosi, la paura di scoprire che non abbiamo meditato abbastanza sulle motivazioni radicali del nostro donarci? Questa sera vogliamo regalarci una pausa: per verificare se agiamo per consapevolezza o per alienazione.

Tre paradossi
Solo come input iniziale, solo per offrire una base di partenza alla nostra discussione (che mi auguro con-divisa: per filosofare, come per fare l’amore, bisogna essere almeno in due!), proporrei di interrogarci sulla situazione spirituale della nostra epoca. E poiché una diagnosi completa, esauriente, non è neppure ipotizzabile, mi accontenterei di evidenziare tre paradossi.
Il primo paradosso l’ha espresso efficacemente ….”Siamo la prima generazione che non sa che ci sta a fare sulla terra”. Abbiamo perfezionato, con la tecnica, il come abitare il pianeta, ma abbiamo rinnegato ogni risposta riguardante il perché. Religioni, filosofie, ideologie politiche sfornavano risposte probabilmente false o inadeguate o distorte: abbiamo fatto bene a liberarcene, almeno per molti versi. Ma che cosa abbiamo in sostituzione? Quali criteri di conoscenza e quali principi di orientamento etico? Davvero riteniamo che si possa decidere di sposarsi o di militare in un sindacato o di fondare un partito politico senza una fondazione culturale, senza punti di riferimento ‘filosofici’?
Quando l’esistenzialismo ha messo in evidenza la difficoltà di trovare un senso alla vita - anche perché, secondo molti, questo senso non c’è e se mai dobbiamo inventarcelo - la società occidentale ha avuto dei sussulti, delle reazioni. Ma, in pochi decenni, è come se ci fossimo assuefatti a questa condizione inedita nella storia plurimillenaria dell’umanità. E’ in questa rassegnazione che vedrei un secondo paradosso:: accettiamo come ‘ovvio’ che l’esistenza dell’essere umano (come singolo e come specie) non abbia senso; che la felicità sia impossibile; che la giustizia e la libertà non possano caratterizzare gli assetti socio-politici del globo. Abbiamo imparato a convivere con l’assurdo.
Voglio essere chiaro: non sto dicendo che invece la vita ha senso, la felicità è possibile, la giustizia e la libertà si realizzeranno sulla terra. Non sono domande a cui si può rispondere con slogan in dieci minuti (ammesso che vi si possa rispondere…). Sto solo dicendo che mi pare grottesco accettare questa assenza di significati, questa eclissi di ‘valori’, senza battere ciglio. Su uno di noi è arrivato al nichilismo dopo aver letto qualcosa, riflettuto qualche ora, conversato con qualche amico, allora la sua posizione merita rispetto: non altrettanto se è nichilista per caso. Così come altri sono cattolici o musulmani o comunisti o fascisti per caso.
Ma chi avrebbe il dovere sociale di porre queste domande, di sollevare questi interrogativi di fondo? Tocco qui il terzo - ed ultimo - paradosso che mi è sembrato di osservare nella società attuale. Viviamo l’assenza di ‘punti fermi’, di costellazioni, di bussole come ovvia: e chi dovrebbe problematizzare l’ovvio o non lo fa o lo fa nei salotti esclusivi. Gli intellettuali (artisti, poeti, giornalisti, registi, filosofi…) siamo privilegiati, per doti di natura e per censo: abbiamo perciò dei debiti nei confronti dei concittadini che sudano otto ore al giorno, che producono, che ci mantengono materialmente. Come si giustifica questo privilegio se non perché siamo - dovremmo essere - i “funzionari dell’umanità“? Chi di noi è studente o insegnante o svolge qualche altra professione riflessiva dovrebbe avvertire la responsabilità sociale di mettere in discussione i dogmi del ‘pensiero unico’: invece ci dedichiamo, auto-referenzialmente, alla nostra carriera privata e, se mai, alla perpetuazione della casta cui apparteniamo.

Che fare?
Se ho accennato ad alcuni paradossi del nostro tempo non è per piangerci addosso né, tanto meno, per rimpiangere età dell’oro passate che, in realtà, non ci sono mai state. La diagnosi ha senso in vista di una terapia. Poiché non ho ricette né formule magiche, posso solo testimoniare alcune iniziative che - negli ultimi trent’anni - ho potuto attuare a Palermo con l’aiuto indispensabile di amiche ed amici meravigliosi. E’ una testimonianza che può servire non come ‘modello’ da copiare, ma come ipotesi di lavoro, spunto, stimolo alla vostra creatività.
Per inquadrare la serie di piccole realizzazioni cui farò cenno, è opportuno esplicitare l’idea di massima: la democrazia ‘formale’ (sulla carta) o diventa, gradualmente, anche democrazia ’sostanziale’ (nella realtà) o si espone al rischio che qualcuno la cancelli anche come pura formalità (”Vedete che le elezioni, i referendum, le manifestazioni di piazza non servono a nulla? Dunque aboliamoli!”).
Ma - e qui evoco l’insegnamento di Edgar Morin - non ci potrà mai essere democrazia ’sostanziale’, ‘compiuta’, ‘effettiva’ se non si attuerà una “democratizzare della conoscenza”. A che vale dare a uomini e donne, a giovani diciottenni, magari - come propone qualcuno a giovani sedicenni - il diritto di votare se tutti (anziani, adulti e giovani) restano nell’ignoranza della posta ogni volta in gioco?
Ho accennato sopra alla responsabilità degli intellettuali di professione che, quasi gelosi delle loro conoscenze, si guardano dal faticare per divulgarle e renderle accessibili al resto dei concittadini. Se accettano di parlare in televisione o alla radio è perché possono unilateralmente esprimersi, senza che il pubblico abbia - normalmente - diritto di replica. Ma questo (ci insegnava nei suoi seminari Danilo Dolci) rende falsa la definizione “mezzi di comunicazione di massa”: poiché non c’è reciprocità, bi-direzionalità, scambio paritetico, si dovrebbe piuttosto dire “mezzi di trasmissione di massa”.
Se gli intellettuali di mestiere non lavorano per la democratizzazione della conoscenza, non ci resta che una strada: rivalutare e valorizzare la dimensione intellettuale di ciascuno di noi. Riprendere la lezione di Antonio Gramsci là dove sosteneva che “non è l’intellettuale un tipo particolare di uomo, ma ogni uomo è un tipo particolare di intellettuale”. E’ per perseguire questo progetto - a mio parere urgentissimo, indilazionabile, preliminare rispetto a tutti gli altri progetti operativi - che dal giorno (ahimé lontano!) della mia laurea in filosofia ho cercato di promuovere “laboratori di consapevolezza” dove sia possibile esercitare sia la riflessione critica sia il confronto dialettico. La maggioranza è stata sempre alquanto passiva, ripiegata sul proprio interesse privato immediato: oggi, come in ogni epoca, tocca a quelle che Jurgen Habermas definisce “minoranze morali” il compito di auto-organizzarsi e mobilitarsi. “Molti” - è stato scritto infatti - “sono disposti a fare la rivoluzione, ma pochi a prepararsi per esserne degni”: a prepararsi mentalmente, ma anche eticamente.
Con questo spirito ho avviato già nel 1983 le “vacanze filosofiche per…non filosofi”; successivamente le “cenette filosofiche per…non filosofi”; i seminari di alfabetizzazione sulle ideologie del XX secolo e sul monitoraggio del sistema di potere mafioso con l’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ “; i corsi di avviamento al volontariato come cittadinanza consapevole e attiva con la “Università della strada” presso il Centro studi “Pedro Arrupe”; gli appuntamenti mensili delle “domeniche di spiritualità laica per chi non ha chiesa” e così via. Non mi pare il caso di soffermarmi sulle caratteristiche di ciascuna di queste iniziative (chi fosse interessato può chiedermi dettagli nel corso della discussione o leggere qualcuno dei libri che sono esposti all’ingresso in cui le racconto). Essenziale per me sarebbe mettere a fuoco il criterio di base che le illumina tutte quante: tutti abbiamo una nostra filosofia (nel senso che ciascuno di noi, se interrogato, scoprirebbe di avere una certa idea sull’uomo, sulla società, sullo Stato, sull’economia, sull’educazione, sull’etica, sulla religione…). La differenza apparente è fra chi ha una filosofia (una ‘visione-del-mondo’) e chi non ce l’ha. La differenza vera è invece fra chi ha una filosofia consapevolmente e chi inconsapevolmente. Di solito la migliore non è di chi non sa di averla.
Ma ho già parlato troppo rispetto ai propositi iniziali. E’ il momento di passare dalle parole sulla filosofia-in-pratica alla pratica della filosofia-in-pratica.

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Nota bibliografica

Per approfondire questi temi si può consultare il sito web www.augustocavadi.eu . Per chi volesse consultare delle pubblicazioni:

a) per introdursi alla filosofia partendo da zero (o quasi) è consigliabile il mio libro E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze (Di Girolamo, Trapani 2008).
b) Per saperne di più sulla “consulenza filosofica” e, in generale, sulle “pratiche filosofiche” sarebbe preferibile cominciare con uno di questi tre volumetti: Davide Miccione (La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007); Neri Pollastri (Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007); Autori Vari (Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Di Girolamo, Trapani 2008).
c) Racconti di esperienze di filosofia pratica per… non filosofi sono contenuti in due miei libri: Quando ha problemi chi è sano di mente. Breve introduzione al philosophical counseling (Rubbettino, Soveria Mannelli 2002); Filosofare dal quotidiano (www.ilmiolibro.it, Roma 2008).
d) Sulla Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” e sulla “Università della strada” (cosa sono, come sono nate, che cosa offrono), nonché su alcuni ‘moduli’ di seminari effettivamente realizzati, cfr. il mio Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2003).
e) Per una prima conoscenza del fenomeno mafioso ho pubblicato La mafia spiegata ai turisti (Di Girolamo, Trapani 2007; presso lo stesso editore disponibili le versioni in spagnolo, francese, inglese, tedesco, giapponese, russo, svedese e arabo). Gli aspetti storici e pedagogici sono approfonditi sia nel mio volume Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia alternativa (Di Girolamo, Trapani 2005) sia nel volume a più mani, da me curato, A scuola di antimafia (Di Girolamo, Trapani 2006). Gli aspetti culturali - e in particolare ‘teologici’ - del sistema mafioso li ho trattati in Il Dio dei mafiosi (San Paolo, Cinisello Balsamo 2009).

giovedì 17 settembre 2009

In libreria “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Cinisello Balsamo)


E’ in libreria il mio “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Cinisello balsamo 2009, pagine 243, euro 18,00).

Dalla quarta di copertina:
“Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese?
Qualcosa certamente non funziona:
o nella loro testa o nella teologia cattolica.
O in tutte e due”.

Nei commenti a questo ‘avviso’ inserirò le varie osservazioni che mi perverranno dagli amici e dai lettori.

mercoledì 16 settembre 2009

Le vacanze filosofiche (di tre anni fa !)


“Il Rosa”
anno XLV, 3
(luglio-agosto-settembre 2006)

FILOSOFIA PER NON…FILOSOFI A MACUGNAGA

Come qualcuno forse sa, negli ultimi decenni si vanno diffondendo nel mondo occidentale varie forme di “pratica filosofica”: luoghi, iniziative, strumenti mediante i quali la filosofia si spoglia dei caratteri più paludati per diventare occasione democratica di consapevolezza critica. E’ il cammino inverso: la filosofia, nata con Socrate sulle piazze e nei mercati di Atene, salita successivamente sulle cattedre universitarie e rinchiusasi nelle accademie, prova ad uscire di nuovo dai recinti elitari per farsi compagna di strada della gente ‘comune’.
In questo clima alcuni filosofi italiani organizzano da più di venti anni delle ‘vacanze estive di filosofia per non…filosofi’: una settimana a fine agosto, un po’ per tutti i luoghi più belli d’Italia. Quest’anno è stata la volta di Macugnaga (dal 21 al 28 agosto).
Tema: “Il posto dell’uomo nel mondo e nella storia”.
Dopo l’incontro della prima sera, dedicato a rompere il ghiaccio e ad avviare la conoscenza reciproca fra i partecipanti, le prime tre relazioni sono state svolte da Elio Rindone (Roma) il quale ha delineato la concezione dell’uomo nel mondo greco, nella Bibbia e nel Medioevo. La sua tesi è che la filosofia greca abbia privilegiato il dualismo platonico fra anima e corpo, gli autori biblici una visione unitaria, mentre i teologi medievali siano ritornati - più o meno consapevolmente – su prospettive dualistiche spacciate per ‘cattoliche’. Il suggerimento che ne deriva è di mettere oggi in discussione, con molta libertà, queste prospettive rivalutando la dimensione sensibile, sessuale ed operativa dell’esperienza mondana.

Che è successo dopo il Medioevo, con la Modernità, dunque dall’Umanesimo rinascimentale all’Ottocento? Lo ha raccontato in tre puntate Maurizio Pancaldi (Bologna). Il relatore ha incisivamente mostrato come l’uomo si sia autointerpretato sempre più come padrone della natura (ridotta a un grande magazzino da cui trarre materiali per la produzione) e creatore di storia (senza alcun riferimento alla Trascendenza): insomma in maniera inesorabilmente ‘antropocentrica’. Tale visione antropocentrica, ancora mitigata in Kant dal senso della finitudine umana, si dilata con l’Ottocento idealistico (Fichte), positivistico (Comte) e marxista (Marx).
Questo trionfo dell’Uomo si capovolge nel Novecento nel suo opposto: la “filosofia della morte dell’uomo” ne proclama l’invenzione recente e la fine prossima. Perché questo avviene? E che prospettive si aprono oggi alla riflessione antropologica? Augusto Cavadi (Palermo) ha delineato alcuni tratti di una visione dell’uomo che, lasciandosi senza rimpianti i trionfalismi ottocenteschi, non ne elimini però la specificità nel contesto dei viventi.
Tra le caratteristiche antropologiche evidenziate dal pensiero contemporaneo è senza dubbio la corporeità. E su questa nota ha imperniato le sue due relazioni Alberto Biuso (Catania). A suo avviso, l’uomo è un essere corporeo non nel senso (dualistico) che ‘abbia’ un corpo, ma nel senso (unitario) che ‘è’ un corpo. L’uomo è, costitutivamente, un corpo cosciente: in quanto corpo è apparentato al resto dei viventi (più o meno coscienti), ma l’intelligenza ‘protesica’ lo specifica, lo differenzia. Siamo dunque – contestualmente ed inseparabilmente - intreccio di natura, cultura e tecnica. Una conferma di questa analisi è la ‘cyber-antropologia’: lo studio dell’uomo nella sua stretta connessione con le macchine elettroniche e, in particolare, con i computer. Il futuro vedrà incrementare l’ibridazione fra il corpo umano e le macchine calcolatrici: non tanto perché i computer potranno imparare a pensare quanto perché i corpi introietteranno sempre più le ‘protesi’ tecnologiche (gli occhiali diventano lentine a contatto, le pompe per agevolare la circolazione sanguigna diventano pace-maker e così via).
Questi seminari, di cui si è potuta qui offrire una sintesi molto sommaria, si sono svolti - secondo la tradizione delle vacanze filosofiche riferita anche nel libro di Augusto Cavadi Quando ha problemi chi è sano di mente. Introduzione al philosphical counseling, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002 – dalle 9 alle 10.30 del mattino e poi, la sera, dalle 18 alle 19.30. Ma non di rado, per così dire fuori programma, ci si è riuniti anche dopo cena per vedere qualche film del regista Giacomo Campiotti o per conversare con Francesca Rigotti (la docente dell’Università di Lugano che ha illustrato alcuni passaggi del suo ultimo volume Il pensiero pendolare, Il Mulino, Bologna 2006) o, più semplicemente, per sorseggiare nel bar un digestivo.
La generosa ospitalità della Casa alpina “De Filippi”, la cortese attenzione dell’amministrazione comunale, la complicità di un sole quasi continuo, la materna incombenza del Monte Rosa hanno contribuito a rendere davvero incisiva questa edizione delle vacanze filosofiche. Tutto lascia supporre che non saranno le ultime a Macugnaga.

Augusto Cavadi
(acavadi@alice.it)

In un riquadro vicino l’articolo potrebbe pubblicarsi questa nota:
• I relatori di quest’anno hanno ripreso alcune tematiche affrontate in libri recenti che sono in commercio, a disposizione di chi volesse approfondire queste brevi note:
• Elio Rindone, Ma è possibile essere felici? Interrogare il passato senza farsene prigionieri, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004
• Maurizio Pancaldi (in collaborazione con Mario Trombino), Storia del pensiero occidentale, Marietti, Casale Monferrato 2006
• Augusto Cavadi, E per passione la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Di Girolamo, Trapani 2006
• Alberto Biuso, Cibersofia. Introduzione alla filosofia del computer, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004

Breve sulle vacanze filosofiche di quest’anno (2009)


“Panorama” 27.8.2009

Lisa Pizzighella

FILOSOFI SULL’AMACA

Un tempo si chiamavano vacanze intelligenti. Oggi sono diventate vacanze filosofiche. Dalla settimana post-ferragostana all’autunno i vacanzieri meno legati alle abitudini possono realizzare un sogno: trascorrere qualche giorno in una località di villeggiatura con la possibilità di ascoltare e e dialogare quotidianamente con i filosofi.
Primo incontro le “Vacanze filosofiche per …non filosofi”, dal 18 al 24 agosto a Macugnaga (Verbania), ai piedi del monte Rosa, dove sono in programma due seminari al giorno. I temi? la libertà di pensiero, il significato e l’uso del potere. I seminari (www.ilgiardinodeipensieri.eu) sono introdottti a turno da docenti universitari e filosofi come Alberto Giovanni Biuso (Milano), Augusto Cavadi (Palermo), Giorgio Giacometti (Udine), Elio Rindone (Palermo).
(…)

martedì 15 settembre 2009

Intervista su “Avvenire” di oggi (15 settembre 2009)


“Avvenire”
(15.9.09)

“Ma non è cristiano il ‘dio’dei mafiosi”

ALESSANDRA TURRISI
PALERMO.

Un Dio onnipotente ma non misericordioso, trascendente ma lontano dall’uomo, inaccessibile se non grazie all’intercessione di dubbie figure di mediatori qualificati: più un ‘padrino’ che un Padre. Ecco il volto di Dio disegnato dai boss, capaci di sostituirsi a lui senza mai negarlo formalmente, e di proclamarsi cattolici continuando a spargere spietatamente sangue. Una contraddizione che viene analizzata nel libro “Il Dio dei mafiosi” (edizioni San Paolo, 256 pagine, 18 euro), scritto dal giornalista, sociologo e teologo palermitano Augusto Cavadi. Un volume che affronta gli aspetti culturali di un fenomeno complesso come la mafia, capace di strumentalizzare i principi fondamentali della teologia cattolica, e suggerisce anche alcune strategie di prevenzione e di contrasto.
Boss che si fanno il segno della croce prima di uccidere, altri trovati con la Bibbia sul comodino. Cosa cercano i mafiosi nella religione cristiana?
“Il cristianesimo è stato declinato, nella storia, in maniere differenti. I mafiosi di Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, Sacra corona unita e stidda conoscono solo la versione che io chiamo ‘mediterranea’. A questo universo simbolico attingono per autolegittimarsi: vi cercano un’anima, una identità culturale, che li giustifichi agli occhi della propria coscienza e dell’opinione pubblica. Non è un caso che tra i riti di iniziazione per un ‘uomo d’onore’ vi sia la cosiddetta punciuta, che comporta di bruciare un’immagine sacra su cui è stata versata qualche goccia di sangue del dito del candidato all’ingresso in Cosa Nostra”.

La mafia cerca di attingere dalla tradizione cattolica credenze e valori per identificarsi: ma li trova?
“Questo è il punto più delicato. Se i mafiosi cercassero di strumentalizzare il vangelo, troverebbero poco o nulla per i loro fini. Nella versione mediterranea trovano invece spunti per confermarsi nella loro ideologia: una visione gerarchica dei rapporti sociali, una morale conformista, un’antropologia maschilista…”.
Ma lei sta delineando addirittura una “teologia mafiosa”?
“E’ esattamente questo il cuore del libro. I rapporti fra cosche mafiose ed esponenti del mondo cattolico sono stati già abbastanza indagati sul piano storico. Mancava, invece, un tentativo di enucleare la teologia mafiosa”.
Un concetto che dà i brividi. Quali sono i risultati del suo tentativo?
“Un po’ inquietanti. Ho trovato imbarazzanti analogie. A volte accade che anche tra i credenti ci sia chi non prende abbastanza le distanze dalla cultura mafiosa. Non appare sempre irriducibile, inassimilabile, rispetto alle strumentalizzazioni operate dalla cultura mafiosa”.
Ma è sicuro che anche le nuove generazioni mafiose cerchino di strumentalizzare l’universo simbolico della fede? Ci sono segnali di segno del tutto diverso.
“In effetti si registrano sempre più frequentemente casi di boss, come Sandro Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, che mostrano i condizionamenti della secolarizzazione nella loro mentalità e nel loro linguaggio. Ma non sono sicuro che questo porterà tanto presto a un divorzio fra codice culturale mafioso e quella che essi ritengono essere espressione della cultura cristiana”.
Eppure è un fatto che l’ “anatema” di Giovanni Paolo II e l’uccisione di don Puglisi hanno segnato un salto di intensità nell’impegno della Chiesa siciliana. Era il 1993…
“Da allora, a mio giudizio, è cambiato molto, ma non ancora abbastanza. E’ cambiato molto perché anche alcuni credenti addormentati sono stati costretti a svegliarsi da quella che a volte era una illusoria equidistanza fra Stato e mafie. Ma la mafia da cui si prendono le distanze è la mafia che spara, che uccide cristiani integerrimi come Borsellino o Livatino. Temo che con la mafia dei colletti bianchi ci sia, da parte di qualcuno, ancora troppo indulgenza”.
Nel suo libro sostiene che la Chiesa deve fare di più per scardinare la transcultura mafiosa.Eppure la Chiesa siciliana è in primissima linea…
“E’ necessario seguire modelli come quello di don Pino Puglisi. E’ morto perché non si limitava alle fiaccolate contro le stragi di mafia, ma prendeva posizione pubblica verso politici filo-mafiosi”.

sabato 12 settembre 2009

15 settembre 2009: a sedici anni dalla morte di don Puglisi


“Repubblica-Palermo” 11.11.09

LA SCOMODA EREDITA’
DI DON PINO PUGLISI

Nell’Agenda dell’antimafia curata dal Centro “G. Impastato” è difficile trovare una data che non sia l’anniversario di un omicidio di mafia. Sindacalisti, poliziotti, magistrati, giornalisti, politici: meno frequentemente, preti. Il 15 settembre segnerà il sedicesimo anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi, parroco di san Gaetano a Brancaccio e promotore del Centro sociale autogestito “Padre nostro”. Sono previste varie manifestazioni commemorative, fra cui, alle 19 di giorno 14, presso la Chiesa dei “Sacri cuori”, la presentazione di un’accurata ricostruzione storico-teologica (Il martirio di don Giuseppe Puglisi, Editrice Monti, Saronno 2009) di don Mario Torcivia.
Sono almeno due le domande che si impongono in proposito: si tratta di ricorrenza esclusivamente interna al mondo cattolico? E soprattutto: a che condizioni queste celebrazioni possono diventare “memoria sovversiva”?

Il libro di Torcivia fornisce, sia pur indirettamente, preziosi elementi di risposta. Intanto perché evidenzia come don Puglisi intendesse la sua missione presbiteriale: non solo come annunzio del vangelo e catechesi, ma anche come promozione sociale del territorio in sinergia con cittadini attivi (anche esterni alla parrocchia). E - precisazione importante - per lui la preoccupazione concreta per l’apertura di una scuola statale o per il recupero di magazzini abbandonati in mano alla malavita non era un optional, un accessorio facoltativo, bensì l’unico modo per veicolare l’annunzio cristiano senza ridurlo a retorica verbale o, peggio, a ideologia conservatrice. Un documento sinodale del 1985, che Puglisi conosceva e citava, lo aveva affermato con la massima chiarezza: “La missione della Chiesa, sebbene sia spirituale, implica la promozione anche sotto l’aspetto temporale. Bisogna quindi mettere da parte e superare le false ed inutili opposizioni per esempio tra missione spirituale e la diaconia per il mondo”. Per questo, fra l’altro, quando al momento del processo contro i mandanti del delitto la Diocesi si rifiutò di costituirsi parte civile, alcune associazioni ‘laiche’ di volontariato abbiamo avanzato richiesta: don Pino non era solo un membro della comunità cattolica, ma un cittadino della comunità civile.
Questo primo aspetto si intreccia con la seconda questione: come evitare che le commemorazioni risultino innocue. E anche qui la risposta la si può trovare nei vari passi dello studio di don Torcivia che sottolineano un dato tanto evidente quanto - oggi - oscurato dalle cronache quotidiane: ancora nel 1992 Giovanni Paolo II ricordava che ogni credente (e, dunque, se lo è davvero, anche ogni prete e ogni vescovo) è “chiamato ad intessere rapporti di fraternità, di servizio, di comune ricerca della verità, di promozione della giustizia e della pace, con tutti gli uomini, in special modo con i più poveri e i più deboli”. E allora bisogna proclamarlo in maniera forte e chiara: non si può, contemporaneamente, esaltare figure come don Puglisi (per il quale è in corso la causa canonica di ‘beatificazione’) e assecondare politiche di esclusione etnica, sociale, religiosa. Non si può celebrare il “martirio” di un prete che ha giocato la vita per schierarsi dalla parte della sobrietà, della legalità democratica, del servizio al “bene comune” e, senza avvertire la minima contraddizione, sostenere governi nazionali e locali che spudoratamente difendono i privilegi dei popoli benestanti a danno degli impoveriti del pianeta; gli interessi delle fasce sociali più ricche a danno dei cittadini meno abbienti; la cultura dello spreco, del lusso e dello sfruttamento anche sessuale a danno di un’etica del lavoro, della solidarietà fra onesti e del rispetto affettuoso della femminilità.
Che poi tutto questo, in Sicilia, significhi anche netta condanna dei mafiosi e dei loro amici, soprattutto se inseriti nelle istituzioni, risulta persino pleonastico aggiungerlo. Due anni prima di andare incontro alla morte, don Puglisi aveva letto e commentato ai suoi giovani un documento magisteriale che - alla luce dei comportamenti di tanti politici siciliani sedicenti cattolici, sanzionati anche da sentenze giudiziarie - risulta quasi grottesco: “Ancor più preoccupante è la presenza di una forte criminalità organizzata, fornita di ingenti mezzi finanziari e di collusive protezioni, che spadroneggia in varie zone del Paese, imponendo la sua ‘legge’ e il suo potere, attenta alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l’economia del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi, talvolta, come Stato di fatto alternativo a quello di diritto. La Chiesa italiana intende continuare questo servizio alla società civile affinché i cristiani considerino lo Stato democratico non come una realtà estranea, ma come il luogo sociale e politico al quale appartengono a pieno titolo di cittadini e nel quale si impegnano a migliorare la convivenza di tutti testimoniando e proponendo i grandi valori umani ed evangelici”. Forse si tratta di idee e propositi anacronistici, legati a una fase storica condizionata dall’emozione per i delitti eccellenti e le stragi eclatanti. Ma, se è così, non resta che un gesto autentico di rispetto per il piccolo prete di Brancaccio: dimenticarlo in silenzio.

Augusto Cavadi

mercoledì 9 settembre 2009

Ci vediamo venerdì 11 settembre alle 19 a Palermo?


Venerdì 11 settembre
alle ore 19,00
presso la Trattoria “Al Vicolo”
(piazza S. Francesco Saverio all’Albergheria)
la teologa Annalisa Margarino
(www.sognandoemmaus.ilcannocchiale.it)
discuterà con l’autore e i presenti
il volume di Augusto Cavadi
“In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani”
(Falzea editore, Reggio Calabria 2009, pp. 244, euro 15,00).

Esclusivamente per chi si prenoti entro le ore 22,00 della sera precedente è possibile proseguire la conversazione dalle 20,30 in poi partecipando alla cena sociale (menù tutto incluso - antipasti, primi, frutta e bevande - euro 15 a persona).

Ortensio da Spinetoli su “Chiedete e non vi sarà dato”


Recanati 25.8.09

Caro Augusto,
sono contento che mi fai inviare dalle tue editrici i tuoi libri, l’ultimo sull’agape, la philia, l’eros, tra di loro inscindibili, al contrario di quanto la comune predicazione ci ha fatto sentire, per non dire ci ha inculcato, creando nei più sensi di colpa, inquietudini, incubi.
La preoccupazione dei confessori potrebbe con questo libro ridursi o scomparire, ma forse bisognerà attendere perché si riduca o si dilegui del tutto. Le deformazioni culturali riescono a volte a ingenerare una nuova natura!
Ho visto quasi per caso che hai fatto menzione del mio “commento” alla “Deus caritas est”. Fu davvero una “sorpresa”; si ebbe l’impressione che qualcosa potesse cambiare, ma fu un’illusione. Il miracolo della “conversione” della gerarchia era stato rinviato.
Il tuo ultimo volume (”In verità ci disse altro”), dacché è arrivato, è rimasto sul mio tavolo, davanti ai miei occhi e ogni tanto lo prendo in mano. Vi si può imparare e sono contento di verificare i progressi che l’esegesi, la filosofia, la teologia e la cristologia continuano a fare.
Complimenti, ancora buon lavoro e tanti auguri.
Ortensio

Su “Riforma”, a proposito di “Chiedete e non vi sarà dato”


“Riforma”
28.8.09

Ines Pontet

FARE FILOSOFIA DISCUTENDO INSIEME IL TEMA DELL’AMORE

Quel che si dice “una bella serata”. Al termine visi distesi e sorridenti, consapevoli di aver vissuto due ore di riflessione appassionata, perché scaturita dalla propria esperienza personale, da parte delle quattro persone sedute al tavolo delle relazioni: il pastore di Villar Pellice Bruno Gabrielli, Monica Natali, la sindaca Lilia Garnier e infine l’autore del libro presentato, Augusto Cavadi, filosofo palermitano, autore di numerose altre pubblicazioni, fra cui il piccolo best seller “La mafia spiegata ai turisti” (Ed. Di Girolamo, Trapani 2008). Il tema era l’amore: chi può dire di non essere interessato/a? Il titolo del libro è “Chiedete e NON vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore” e qualcuno dal pubblico lo ha subito definito “intrigante”. A sentirsi intrigati vi erano forse un centinaio di persone, che hanno potuto anche godere dei numerosi e corposi interventi musicali di Maurizio Volpe, conosciuto cantautore valligiano, che interpretava egregiamente brani di Fabrizio De Andrè e di Francesco Guccini. Da subito si è voluto sfatare il mito dei filosofi “fuori dal mondo”, che immaginano realtà teoriche senza incarnarle. E’ possibile (anzi, la passione per la filosofia nasce proprio dalla passione per la vita e dalle grandi domande sull’esistenza) che invece la filosofia parli proprio ad ognuna e ognuno di noi e dia delle possibilità sempre nuove di lettura della nostra realtà quotidiana. E’ ciò che ha fatto e che fa da molti anni Augusto Cavadi, viso aperto, espressione solare, sicuro che verità assolute e ultime non esistano per gli esseri umani, che se sono onesti con loro stessi devono ammettere di non poter far altro che spostare ogni volta i loro confini di comprensione, nelle relazioni con gli altri, e ridefinire metri di giudizio e spazi di libertà. Non appartiene a confessioni religiose, Augusto, e dichiara di sentirsi sempre un po’ stretto in ogni ambiente che sia definito, sia esso protestante, cattolico, comunista o altro ancora.

Sogna un futuro senza religione, che lasci spazio ad un “mosaico” (da siciliano ha ben presente come siano fatti i mosaici) di concezioni filosofiche e di credo che solo insieme possono comporre qualche cosa di somigliante ad una “Verità”. Cavadi individua quattro tipi di amore, e auspica che ognuno e ognuna possa sperimentarli nella propria vita tutti e quattro, magari in momenti diversi, intrecciati oppure no: l’amore erotico, l’amore agapico, l’amore amicale e l’amore passionale di chi si dedica appunto con amore ad un progetto, al proprio lavoro, ad una forma d’arte… I primi tre sono sperimentabili nell’ambito delle relazioni e il quarto riguarda e nutre la sfera della propria interiorità. Secondo Cavadi è impoverito chiunque non sperimenti nella propria vita tutte e quattro queste forme di amore. L’autore ha analizzato molti testi prima di scrivere sull’amore, primo fra tutti in ordine di importanza “Eros e Agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni” (1930-1936) di Anders Nygren, dal quale secondo lui non si può prescindere, malgrado la necessità di confutare alcune sue parti. Due quesiti sono emersi in modo più evidente durante l’intervento dell’altro relatore e delle relatrici. La prima: è proprio vero che la Caritas, ovvero la convinzione che compiere gesti di benevolenza con l’aspettativa di ricavarne la salvezza da Dio sia prerogativa del cattolicesimo? Non è invece vero che l’impostazione teologica Agostiniana è arrivata fino a noi e permea ancora molta della nostra quotidianità, anche di protestanti? E l’altra riguarda l’amore verso i figli. E’ stato chiesto all’autore dove può essere collocato questo tipo di amore all’interno delle quattro categorie individuate. Una risposta non è venuta, anche perché l’autore dichiara di non essere genitore e di non instaurare rapporti di tipo genitoriale, così come non è venuto dalla serata il fraintendimento che si possano dire parole definitive sull’amore. Ci mancherebbe. Come dice l’autore stesso nella sua “avvertenza preliminare” alla lettura del libro “l’amore – in qualsiasi senso lo si intenda – è sempre eccedente, trasgressivo rispetto alle misure razionali”. L’effetto che voleva sortire la serata invece è stato pienamente assolto. Creare curiosità e rinnovare la “passione” per la riflessione sul senso della vita e sulle relazioni nel proprio quotidiano.
Magari si uscisse sempre dai culti con la stessa energia rivitalizzante e gli stessi sguardi distesi… Lo Spirito soffia ancora e sempre dove vuole, anche attraverso le parole apparentemente irriverenti di certi cantautori.

INES PONTET

martedì 8 settembre 2009

Ci vediamo a Reggio Calabria venerdì 18 settembre 2009?


Alle ore 17 di venerdì 18 settembre 2009, presso la sala conferenza del Palazzo Provinciale (Piazza Italia) di Reggio Calabria, terrò una conversazione pubblica sul tema “Filosofia di strada: il diritto di pensare appartiene a tutti”.
L’incontro è organizzato dall’associazione “Maestri di speranza” insieme al “Centro servizi al Volontariato dei due mari”.

Le vittime del lavoro in Sicilia


“Repubblica - Palermo”
8.9.09

LE MORTI BIANCHE IN SICILIA, UNA BATTAGLIA DI LEGALITA’

Cominciamo dalla notizia: ieri, in Sicilia, non è morto nessuno mentre era intento a lavorare. Almeno ufficialmente. Passiamo al commento: perché un non-fatto può essere una notizia? Perché quando un fatto si ripete ossessivamente ogni giorno, per quanto in sé rilevante, cessa di risultare interessante. Se un asino volasse una volta soltanto nella storia del mondo, sarebbe una notizia sensazionale; ma se volasse una volta a settimana, o addirittura quotidianamente, nessuno più vi farebbe caso. Se accadesse una volta ogni cento anni che un giovane ventenne o un padre di famiglia sessantenne - usciti da casa al mattino per manovrare un trattore in campagna o per scaricare container al porto - non vi facessero ritorno perché vittime di incidenti sul lavoro, l’opinione pubblica se ne scandalizzerebbe; si chiederebbe come ciò sia stato possibile; esigerebbe dalle autorità pubbliche misure preventive rigorosissime. Purtroppo, però, i morti sul posto di lavoro nella sola Italia non sono uno o due ogni cento anni, ma - come recita il titolo di un recente libro di Pagliarini e Ripetto, edito dalla Datanews di Roma - “uno ogni sette ore”. Tre - quattro al giorno (se non consideriamo le casalinghe). Novanta-cento al mese. Mille e trecento circa l’anno.

E in Sicilia? In questi giorni l’Inail ha diffuso il rapporto relativo al 2008 da cui si ricava che la situazione è stabilmente grave: 76 casi sono stati denunciati nel 2008 a fronte dei 77 nel 2007. In particolare, 11 casi mortali sono stati registrati in agricoltura, 64 nell’industria e servizi e uno per i dipendenti in conto Stato. Dei 76 infortuni mortali, 65 sono avvenuti nel lavoro e 11 in itinere. Nel settore industria e servizi, più colpite le “costruzioni” con 18 casi, 11 nelle industrie manifatturiere a cui seguono 5 morti bianche nel commercio e 9 morti nel settore dei trasporti e comunicazioni. La provincia siciliana più colpita è Catania con 23 infortuni mortali, seguono Messina e Ragusa con 11 morti, Palermo con 9, Trapani e Agrigento con 7, Caltanissetta con 4, Siracusa con 3 ed Enna con un solo caso. Questi dati sono però, a mio avviso, molto al di sotto della realtà effettiva: non tengono in conto, infatti, né le vittime che vengono occultate perché totalmente in nero; né le vittime di incidenti che sul momento sono registrati come non-mortali, ma le cui conseguenze successive sono invece letali; né le vittime di malattie (dell’apparato respiratorio o di altre cavità sierose del corpo), contratte in ambienti di lavoro, che portano al decesso lentamente, come alcune neoplasie con periodi di latenza lunghi sino a trenta o quaranta anni. “Dalla consapevolezza dell’importanza del fenomeno infortunistico nasce l’esigenza di creare una cultura della sicurezza” - ha dichiarato per l’occasione il direttore dell’Inail Sicilia Carlo D’Amato - “che non sia solo presenza di dati sui mass-media ma approfondimento ed intervento sulle cause dei vari eventi infortunistici”.
La dichiarazione d’intenti è nobile, ma se non vogliamo prenderci in giro - e soprattutto prendere in giro quei nostri concittadini che si sottopongono alle incombenze più pesanti e logoranti - dobbiamo esplicitare con chiarezza le deficienze oggettive e soggettive, le responsabilità istituzionali e individuali, che sino ad oggi rendono possibile questa strage silenziosa. Dobbiamo chiederci se la nostra legislazione (sulla carta tra le più avanzate del mondo) viene effettivamente fatta rispettare; se gli ispettori del lavoro e i funzionari della sanità preposti ai controlli sono numericamente sufficienti; se quelli che sono addetti alle ispezioni le operano davvero senza preavvisi né diretti né indiretti; se i sindacati di categoria sono davvero in condizione di verificare, senza rischiare la ritorsione anche sanguinosa, il rispetto delle normative; se gli operai stessi sono debitamente informati e formati sulla gravità dei rischi a cui si espongono quando accettano condizioni, tempi e modalità di lavoro fuori dagli standard legali.
Che dalle nostre parti si tenga alto il livello di opposizione al sistema di dominio mafioso è comprensibile ed è anche apprezzabile: ma bisogna affinare le armi e imparare a colpirlo nelle sue diverse radicazioni. Concentrare l’attenzione esclusivamente su chi cade lottando a viso aperto i mafiosi, ma dimenticare le vittime quotidiane di un meccanismo di illegalità che nel Meridione assume connotati di particolare spietatezza, sarebbe grave errore strategico. La liberazione dalla mafia non sarà possibile sino a quando tutti gli strati sociali - anche i meno abbienti - non si saranno convinti che la legalità democratica conviene: significa un po’ di vita in più. E di migliore qualità.
Augusto Cavadi

domenica 6 settembre 2009

LA BIBLIOTECA DEL DIALOGO


Repubblica - Palermo 6.9.09

QUADERNI BIBLIOTECA BALESTRIERI
www.quadernibalestrieri.it
pagine 165 - euro 18

Ispica è un grazioso comune d’impronta barocca, abbarbicato su una ‘cava’ del ragusano, che ospita il Convento di Francescani presso il quale è attivo un centro di studi e ricerche: la Biblioteca intestata a p. Giuseppe Balestrieri (un frate deceduto nel 1955 che ha lasciato concrete tracce della sua operosità anche in Sicilia orientale) . Da otto anni la Biblioteca affida ad una rivista quadrimestrale, “Quaderni Biblioteca Balistreri” appunto, i risultati più significativi delle analisi storiche, sociologiche, letterarie, filosofiche e teologiche che si vanno realizzando da frequentatori e simpatizzanti. Alcuni contributi interessano quasi esclusivamente chi condivide l’ottica di fede e l’appartenenza alla chiesa cattolica (soprattutto nell’alveo della spiritualità del santo di Assisi e della sua compagna Chiara), ma molti altri (per esempio sulla vita di Giorgio La Pira o sul dialogo con l’Islamismo o sui rapporti fra il vaticano e la Cina contemporanea) possono incuriosire e aggiornare anche il lettore non-cattolico. Le schede bibliografiche confermano il taglio della rivista: concernono infatti sia libri di scavo e di memoria delle tradizioni locali (quali ad esempio le preghiere dialettali recitate nelle Madonie) sia volumi di respiro planetario (come gli studi di Hanna Arendt sulla menzogna in politica o le indagini sul Mediterraneo).

giovedì 3 settembre 2009

Su alcune idee pedagogiche di Andrea Cozzo


“Amica Sofia”
Perugia, giugno 2009
(www.amicasofia.it)

Insegnanti meno violenti: è possibile?

Ci sono tanti modi per fare memoria dei pionieri che ci sono stati maestri, ma una sola è la maniera davvero efficace: proseguire la loro opera con fedeltà creatrice. Tra quanti hanno saputo ripercorrere la strada di Aldo Capitini, con la docilità di chi vuole imparare e il coraggio di chi osa andare oltre sperimentando nuove piste, il caso - o la provvidenza - mi hanno regalato la possibilità di conoscere Andrea Cozzo e di fruire, a tutt ‘oggi, della sua preziosa amicizia. In poche righe non è pensabile dare conto della sua ampia riflessione né, tanto meno, delle sue disparate pratiche generose: ma poiché è, anche, un educatore (sia pur…preterintenzionale) posso provare ad evocare alcune sue indicazioni essenziali per chiunque voglia dare alla propria pratica pedagogico-didattica una valenza squisitamente nonviolenta.
Nel suo trattato più organico (Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Mimesis, Milano 2004) il mio amico Andrea - che all’Università di Palermo insegna non solo lingua e civiltà greca, ma anche teoria e pratica della nonviolenza - dedica al nostro tema una sezione più teorica (la nonviolenza culturale) ed una più esperienziale (la mediazione scolastica). Vediamo, in sintesi, alcuni passaggi della sezione relativamente più teorica.

Il presupposto, che l’autore chiarisce abbondantemente nei capitoli iniziali, è che “nonviolenza è conflittualità e buona comunicazione”: il nonviolento non glissa i conflitti, ma li affronta e li gestisce in maniera costruttivamente dialogica. Che significa ciò nel campo dell’educazione e dell’istruzione? Innanzitutto problematizzare l’ovvio: che “il rapporto con l’altro va impostato in termini di gioco a somma zero per cui educare ed insegnare sono atti che qualcuno deve effettuare su coloro a cui sono diretti, mentre se non vi riesce, risulta sconfitto”. L’alternativa proposta da Cozzo non è, evidentemente, il mero rovesciamento del rapporto: “comportarsi in modo nonviolento nella relazione con i bambini non vuol dire essere passivi rispetto alle loro azioni o volontà, instaurando una gerarchia inversa in cui noi saremo i minori e loro i Maggiori”. Vuol dire piuttosto, per riprendere una felice formulazione di P. Patfoort (Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti, La Meridiana, Molfetta 1995), “trattarli sulla base dell’equivalenza specialmente quando è in gioco una diversità di opinioni, punti di vista, valori, ecc. Se non abbiamo mai adottato o tentato di adottare un simile modo con gli altri, non crederemo che sia possibile”. Conosciamo bene l’obiezione, che soprattutto negli ultimi anni, si leva immediatamente, soprattutto da parte degli ‘adulti’ insicuri delle proprie idee e, perciò, indisposti a metterle in discussione anche con persone più giovani che - solitamente - non dovrebbero essere così ferrati dialetticamente da gettare in confusione gli interlocutori: no, questo è relativismo! Con i ragazzi non bisogna farsi vedere minimamente incerti: altrimenti come si potrà essere un punto di riferimento per loro? Ma questo significa sottovalutare il senso critico dei nostri figli, dei nostri alunni: essi hanno un fiuto pressoché infallibile nel riconoscere le certezze maturate autenticamente negli adulti (e proprio per questo offerte con serenità come ipotesi di lavoro) e le certezze tanto più urlate quanto meno radicate (e proprio per questo imposte con aggressività come dogmi). “In realtà” - spiega l’autore - “questa educazione non è né autoritaria né lassista, ma mira a dare potere a tutte le parti, che non sono da supporre a priori in contrapposizione competitiva bensì semplicemente all’interno di una relazione che può essere strutturale in modo cooperativo: si ottiene l’ascolto del bambino dando a propria volta ascolto - ascolto attivo - al bambino”. Danilo Dolci, in proposito ricordato dallo stesso Cozzo, l’aveva notato con lucida amarezza: “In poche istituzioni la violenza è implicita come nella scuola” (Nessi fra esperienza etica e politica, Lacaita, Roma 1993). Per sradicarla, o per lo meno per ridurne la portata devastatrice, c’è una sola strada maestra: che l’insegnante rinunzi al potere ricattatorio di chi esige obbedienza e che si comporti come uno che non solo “ne sappia di più, ma anche, e senza che ciò sia requisito soltanto accessorio, che l’altro persuada per il suo modo di vivere (e lasci effettivamente libero di accettare o no sia il suo sapere sia il suo modo di vivere)”.
Questo spazio fra la propria testimonianza (Kierkegaard direbbe: la propria ‘comunicazione indiretta’) e la decisione del giovane di accoglierla o meno è davvero essenziale. Il ‘68 ha messo in crisi - opportunamente - il modello del docente che trasmette unidirezionalmente il proprio sapere: il docente “medium che serve a raccogliere e sintetizzare un gran numero di informazioni da ‘dare’, appunto, agli alunni”. Come nota acutamente l’autore, dopo la stagione della contestazione giovanile, “il razionale ‘dare’ si è spostato più sul ‘darsi’ (…), un’operazione che gli insegnanti fanno con grande passione e trasporto”, ma con effetti non meno deleteri: “questo trasporto e questa passione hanno a che fare molte volte con il desiderio e la possibilità di riversamento di sé: il quale certo , da un lato suggerisce una pienezza e uno strabordare, un espandersi e un darsi, appunto, un donarsi; ma dall’altra parte, esso può essere anche un riempire qualcuno”. Sul piano delle intenzioni soggettive, tanto di cappello; ma, oggettivamente considerato, “questo atteggiamento, non diversamente da quello del ‘dare’, finisce con l’essere una affermazione di sé, quasi una inconsapevole rivalsa: come se, dopo anni di apprendimento obbediente e sottomesso nei confronti di coloro che vantavano un sapere superiore (i nostri insegnanti), divenuti finalmente come loro, non riuscissimo a rinunciare all’occasione per mostrare il raggiungimento della nostra autonomia a spese altrui, continuando in tal modo la catena della violenza”.

Augusto Cavadi

martedì 1 settembre 2009

Filosofia con malati terminali


Dal sito del “Gruppo solidarietà” marchigiano (www.grusol.it/informazioni.asp):

La consulenza filosofica e la cura dei malati gravi

Credo che ormai - dopo quasi dieci anni di rodaggio, equivoci e pasticci - sia maturata anche in Italia la stagione della chiarezza su chi sia davvero un filosofo-consulente. Se non si ha voglia di capire, si può continuare a scambiare questa nuova figura professionale con un surrogato dello psicoterapeuta o con un concorrente del prete: ma, se si vogliono aprire gli occhi, basta poco più di un’ora per informarsi correttamente. Si può leggere un tascabile di Davide Miccione (La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007) o un altro pocket di Neri Pollastri (Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007); se si ha qualche decina di minuti in più si può passare ad un libro non certo voluminoso, anche se firmato da dieci persone che raccontano qualcosa della loro esperienza di filosofi-consulenti, che l’editore Di Girolamo di Trapani ha edito nel 2008: Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni.

Chi abbia a che fare con il mondo delicato e complesso della malattia - specie nelle sue modalità croniche e nelle sue fasi terminali - potrà trovare proprio in quest’ultimo testo una testimonianza particolarmente significativa, eloquente: Luisa Sesino, filosofa operante a Pinerolo (Torino), nel suo La consulenza filosofica nell’ambito delle cure di fine vita (pp. 107 - 122), evoca infatti volti e storie di malati a cui, per anni, ha offerto la possibilità di co-filosofare liberamente. Erano pazienti eccezionali, con due o tre lauree in materie umanistiche? Niente affatto! Erano uomini e donne ‘comuni’ che, proprio in quanto soggetti personali, hanno interrogativi esistenziali e non vogliono essere né ingannati né abbandonati. Cercano - talora esplicitamente, talaltra tacitamente - un interlocutore che li prenda sul serio, fuori dagli schemi pietistici o assistenzialistici. Un interlocutore con cui scambiarsi non citazioni dotte di grandi intellettuali del passato o del presente, bensì - più semplicemente e più coinvolgentemente - le proprie riflessioni, le proprie ipotesi, le proprie intuizioni e i propri dubbi. Antonio, un uomo settantenne ormai in fase terminale che nella vita si era occupato di ben altro, lo seppe dire con parole efficaci: “Quando sei alla fine t’interessa il senso. Ho un grande bisogno di verità che le persone che ho vicino non possono soddisfare. Li capisco: anch’io preferivo un bel bicchiere piuttosto che pensare a certe cose. Bisogna crescerci assieme. Imaparare a farlo da vecchi e malati, quando resta poco tempo, è più difficile. Ma sbagliavo credendo che fosse tardi: basta iniziare. Faccio fatica, perché non c’ero abituato, ma sto scoprendo delle cose davvero interessanti” (p. 107).
Che un filosofo si metta a disposizione di non-filosofi per affrontare questo o quel problema concreto, circoscritto, attuale è un valore aggiunto, per nulla incompatibile con l’eventuale decisione da parte dello stesso soggetto di chiedere (in altri momenti, con altri metodi e per altri fini) l’interlocuzione di uno psicoterapeuta o di un pastore d’anime. Proprio per le stesse ragioni per le quali una relazione psicoterapeutica o teologico-religiosa non può essere vissuta come un’alternativa alla relazione terapeutica del medico clinico.
Devo aggiungere, sia pur nel breve spazio di questo intervento che vorrebbe essere di avvio ad un dialogo più ampio e più duraturo (da svolgersi sia in queste pagine sia attraverso il mio blog personale: www-augustocavadi.eu), che a noi filosofi- consulenti è capitato anche di ricevere l’invito a conversare anche con persone che, pur non essendo ammalate, gravitano intorno a persone colpite duramente: o in quanto parenti o in quanto operatori sanitari. Nel corso del 2007 - 2008, ad esempio, ho potuto lavorare in sessioni di filosofia pratica con medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali di una Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale) di Palermo - che assiste a domicilio pazienti in fase terminale - su una tematica scelta proprio dai miei ‘committenti’: la visione di ‘morte’ che ciascuno di noi, di fatto, elabora. Ci siamo confrontati con alcune prospettive da cui è stata letta, lungo i secoli, la dimensione antropologica della ‘mortalità‘, seguendo come traccia il capitolo quinto (Interpretare la morte) del mio Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosphical counseling (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 31 - 55).
Sono solo degli spunti, degli accenni: sufficienti, spero, a far cadere certi pregiudizi e ad evitare che si finisca in mano (ci sono certamente pure questi!) a cialtroni che spacciano per consulenza filosofica la loro improntitudine. Un sito web dell’associazione professionale nazionale più autorevole (www.phronesis.info) può fornire, insieme a ulteriori informazioni, anche l’elenco dei consulenti ‘riconosciuti’ che operano in varie regioni del Paese.

Augusto Cavadi
acavadi@alice.it

Le spiagge siciliane sfregiate dai siciliani


“Repubblica - Palermo”
1 settembre 2009

EGOISMI E PIGRIZIE CHE SFREGIANO LE SPIAGGE

Lo si è notato in diversi angoli e in diverse date: il mare della provincia palermitana quest’anno è stato davvero invitante. A Terrasini come a Santa Flavia, a Mondello come a Finale di Pollina, acque trasparenti e mai troppo fredde: senza nessuna esagerazione sciovinistica, nulla da invidiare a spiagge e coste rocciose della Grecia, del Brasile o di Cuba.
Eppure. Eppure questi privilegi della Natura vengono puntualmente sfregiati, o almeno incrinati, da una mistura - difficilmente definibile - di egoismo asociale e di pigrizia istituzionale. Solo due esempi, tragicomici, fra innumerevoli possibili.
A Vergine Maria, accanto ad un tonnara recuperata, una deliziosa spiaggetta viene invasa nei mesi estivi non solo da bagnanti talmente affezionati che la trasformano in campeggio abusivo (ovviamente senza servizi igienici né attrezzature per cucinare), ma anche da abitanti del borgo che non mostrano il minimo senso di protezione verso questo gioiello. E se una signora, svuotata una bottiglia di acqua fresca, la getta a un metro dal suo ombrellone e si sente chiedere da una ‘vicina’, con gentilezza ma anche sottile ironia, se intenda disfarsene, risponde - con candore disarmante: “No, signora, non mi serve più. La prende Lei, senza problemi…”.

Il litorale di Cefalù, con vista sull’agglomerato urbano dominato dal duomo arabo-normanno, è un altro luogo magico. Provate a percorrerlo a piedi nudi, lasciandovi lambire dalle onde che si allungano sulla battigia: un’esperienza incantevole. Tuttavia noterete degli scarti abissali fra i tratti corrispondenti a lidi privati e i tratti totalmente accessibili: limpidi i primi, indecorosi gli altri. L’aggettivo mi esonera, spero, dal precisare che generi di rifiuti umani ed animali insozzano questi segmenti demaniali che tra gente civile sarebbero considerati di “tutti”, da noi di “nessuno”. Mentre percorrevo il bagna-asciuga alternando sensazioni e pensieri opposti (”Costerebbe tanto incaricare nei tre mesi estivi quattro ‘lavoratori socialmente utili’ - due al mattino e due alla sera - di tener pulita la spiaggia?”) mi sono imbattuto in una disputa fra bagnanti di elevato interesse filosofico-giuridico. Un tubo che porta l’acqua delle docce nella zona ‘pubblica’ è perforato da giorni e - dicono in più d’uno - che le segnalazioni al Comune sono rimaste inevase. Un signore pensa allora di chiudere un passante manifestando a voce alta la propria opinione: “Sono un cittadino di Cefalù, pago le tasse e dunque pago anche quest’acqua che si spreca”. Gli ribatte un altro signore con toni non meno vivaci: “Anch’io sono un cittadino di Cefalù, pago le tasse e dunque ho diritto a una doccia fresca dopo il bagno a mare. Per questo aprirò il passante non appena Lei girerà l’angolo”. Nella mia ingenuità ho supposto di tagliare con un colpo di spada il nodo gordiano e mi sono spostato alla ricerca di due ausiliari del traffico che operavano lì vicino, ma la risposta mi ha gelato: “L’abbiamo già segnalato da giorni, ma a quanto pare non si riesce a riparare il guasto”. Un tubo, dal diametro di due o tre centimetri, bucato in un solo punto non si può riparare: ci può essere definizione più efficace di ’sottosviluppo’? Forse un giorno anche noi cittadini siciliani considereremo fatti del genere con l’appropriata severità con cui, in Finlandia o in Austria, vengono già considerati dal comune senso del pudore: barbarie civica.
Proprio il giorno prima avevo letto sui quotidiani che la regione siciliana non riesce a collocare 150 dipendenti del disciolto Ente Acquedotti Siciliani, stipendiati dunque per non far nulla: non è che magari qualcuno di loro sarebbe idraulico e potrebbe restituire a migliaia di turisti il piacere di una doccia in uno dei posti più belli del mondo? Quando leggo le interviste agli albergatori e agli operatori turistici siciliani sul calo di presenze degli ospiti, mi viene facile condividere il loro amareggiato stupore: solo che mi stupisco - per motivi esattamente inversi - di quanto numericamente contenuto risulti questo calo nonostante l’accoglienza che riserviamo agli ospiti.

Augusto Cavadi