sabato 12 settembre 2009

15 settembre 2009: a sedici anni dalla morte di don Puglisi


“Repubblica-Palermo” 11.11.09

LA SCOMODA EREDITA’
DI DON PINO PUGLISI

Nell’Agenda dell’antimafia curata dal Centro “G. Impastato” è difficile trovare una data che non sia l’anniversario di un omicidio di mafia. Sindacalisti, poliziotti, magistrati, giornalisti, politici: meno frequentemente, preti. Il 15 settembre segnerà il sedicesimo anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi, parroco di san Gaetano a Brancaccio e promotore del Centro sociale autogestito “Padre nostro”. Sono previste varie manifestazioni commemorative, fra cui, alle 19 di giorno 14, presso la Chiesa dei “Sacri cuori”, la presentazione di un’accurata ricostruzione storico-teologica (Il martirio di don Giuseppe Puglisi, Editrice Monti, Saronno 2009) di don Mario Torcivia.
Sono almeno due le domande che si impongono in proposito: si tratta di ricorrenza esclusivamente interna al mondo cattolico? E soprattutto: a che condizioni queste celebrazioni possono diventare “memoria sovversiva”?

Il libro di Torcivia fornisce, sia pur indirettamente, preziosi elementi di risposta. Intanto perché evidenzia come don Puglisi intendesse la sua missione presbiteriale: non solo come annunzio del vangelo e catechesi, ma anche come promozione sociale del territorio in sinergia con cittadini attivi (anche esterni alla parrocchia). E - precisazione importante - per lui la preoccupazione concreta per l’apertura di una scuola statale o per il recupero di magazzini abbandonati in mano alla malavita non era un optional, un accessorio facoltativo, bensì l’unico modo per veicolare l’annunzio cristiano senza ridurlo a retorica verbale o, peggio, a ideologia conservatrice. Un documento sinodale del 1985, che Puglisi conosceva e citava, lo aveva affermato con la massima chiarezza: “La missione della Chiesa, sebbene sia spirituale, implica la promozione anche sotto l’aspetto temporale. Bisogna quindi mettere da parte e superare le false ed inutili opposizioni per esempio tra missione spirituale e la diaconia per il mondo”. Per questo, fra l’altro, quando al momento del processo contro i mandanti del delitto la Diocesi si rifiutò di costituirsi parte civile, alcune associazioni ‘laiche’ di volontariato abbiamo avanzato richiesta: don Pino non era solo un membro della comunità cattolica, ma un cittadino della comunità civile.
Questo primo aspetto si intreccia con la seconda questione: come evitare che le commemorazioni risultino innocue. E anche qui la risposta la si può trovare nei vari passi dello studio di don Torcivia che sottolineano un dato tanto evidente quanto - oggi - oscurato dalle cronache quotidiane: ancora nel 1992 Giovanni Paolo II ricordava che ogni credente (e, dunque, se lo è davvero, anche ogni prete e ogni vescovo) è “chiamato ad intessere rapporti di fraternità, di servizio, di comune ricerca della verità, di promozione della giustizia e della pace, con tutti gli uomini, in special modo con i più poveri e i più deboli”. E allora bisogna proclamarlo in maniera forte e chiara: non si può, contemporaneamente, esaltare figure come don Puglisi (per il quale è in corso la causa canonica di ‘beatificazione’) e assecondare politiche di esclusione etnica, sociale, religiosa. Non si può celebrare il “martirio” di un prete che ha giocato la vita per schierarsi dalla parte della sobrietà, della legalità democratica, del servizio al “bene comune” e, senza avvertire la minima contraddizione, sostenere governi nazionali e locali che spudoratamente difendono i privilegi dei popoli benestanti a danno degli impoveriti del pianeta; gli interessi delle fasce sociali più ricche a danno dei cittadini meno abbienti; la cultura dello spreco, del lusso e dello sfruttamento anche sessuale a danno di un’etica del lavoro, della solidarietà fra onesti e del rispetto affettuoso della femminilità.
Che poi tutto questo, in Sicilia, significhi anche netta condanna dei mafiosi e dei loro amici, soprattutto se inseriti nelle istituzioni, risulta persino pleonastico aggiungerlo. Due anni prima di andare incontro alla morte, don Puglisi aveva letto e commentato ai suoi giovani un documento magisteriale che - alla luce dei comportamenti di tanti politici siciliani sedicenti cattolici, sanzionati anche da sentenze giudiziarie - risulta quasi grottesco: “Ancor più preoccupante è la presenza di una forte criminalità organizzata, fornita di ingenti mezzi finanziari e di collusive protezioni, che spadroneggia in varie zone del Paese, imponendo la sua ‘legge’ e il suo potere, attenta alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l’economia del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi, talvolta, come Stato di fatto alternativo a quello di diritto. La Chiesa italiana intende continuare questo servizio alla società civile affinché i cristiani considerino lo Stato democratico non come una realtà estranea, ma come il luogo sociale e politico al quale appartengono a pieno titolo di cittadini e nel quale si impegnano a migliorare la convivenza di tutti testimoniando e proponendo i grandi valori umani ed evangelici”. Forse si tratta di idee e propositi anacronistici, legati a una fase storica condizionata dall’emozione per i delitti eccellenti e le stragi eclatanti. Ma, se è così, non resta che un gesto autentico di rispetto per il piccolo prete di Brancaccio: dimenticarlo in silenzio.

Augusto Cavadi

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