sabato 31 ottobre 2009

Intervista di Augusto su “Abc” di Madrid
del 25.10.2009


“ABC”
Madrid 25.10.09

AUGUSTO CAVADI: “LA MAFIA NON CREDE IN DIO PADRE, MA IN DIO PADRINO”

di Veronica Berrecil (Roma)

- “Beati i perseguitati perché di loro sarà il regno dei Cieli”. Questa è la insolita necrologia con cui i familiari del capo mafioso Francesco Messina Denaro omaggiarono il defunto nel 2003 e che dà l’idea di come la Mafia trasforma la devozione in ‘cosa nostra’, del suo perverso sentimento religioso, studiato dal pubblicista e filosofo italiano Augusto Cavadi nel suo libro “Il Dio dei mafiosi”.
Cavadi spiega come i mafiosi hanno distorto la percezione del Dio cattolico adattandolo alle sue necessità. Dall’inizio, riti come la cerimonia di iniziazione che fece conoscere il mafioso ‘pentito’ Leonardo Messina: “Mi diedero una stampa con la immagine della Vergine dell’Annunciaizone, la macchiarono con il mio sangue e la bruciarono, mentre io la passavo da una mano all’altra. Poi mi dissero che dovevo ripetere: “‘Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò Cosa Nostra’ “.
I mafiosi si considerano cattolici, vanno regolarmente a Messa. Non assassinano di venerdì, però il resto della settimana si concedono carta bianca. Così ce lo spiega Cavadi:
Nei muri delle strade siciliane apparve la scritta: “Dio é grande. Ma lo zio Totó non scherza”. Chi é allora il Dio dei mafiosi?

Da Senofane a Feuerbach, la filosofia ci avverte che, quando pensiamo Dio, tendiamo a proiettargli le nostre caratteristiche umane. Questa tendenza ad attribuire a Dio le nostre qualità - specie quelle che riteniamo più rilevanti - è una costante. Ecco perché non c’è nulla di strano che i mafiosi si rappresentino un Dio ‘padrino’ piuttosto che ‘padre’.
Nel libro definisce Dio come un mafioso. Non é esagerato?
Non sostengo che Dio è mafioso (anzi spiego che Dio è del tutto incompatibile con la mentalità mafiosa). E’ il peculiare ‘Dio’ a cui si rivolgono i mafiosi venerano che è un Mafioso all’ennesima potenza.
Molti mafiosi pregano prima di perpetrare i loro delitti, come Filippo Marchese, e la maggioranza sono devoti di alcuni santi, come il Padre Pio. Che tipo di devozione è questa?
I mafiosi pensano che ci siano comandamenti essenziali, principali, e comandamenti secondari. Quelli irrinunciabili sono in genere i precetti rituali della Chiesa cattolica. Quelli trascurabili sono in genere i precetti di vita del vangelo. Così per un mafioso è più importante evitare di uccidere di venerdì - giorno di lutto- che evitare di uccidere.
Possiamo asserire che esiste una teologia mafiosa?
E’ quello che ho potuto trarre da dichiarazioni e documenti. Arrivando alla imbarazzante conclusione che è una teologia lontana dal vangelo di Gesù di Nazareth, ma che prende in prestito certi riti della teologia cattolica mediterranea tradizionale.
Il mafioso recita un ‘Padre nostro’ che dice: “Padrino mio e della mia famiglia, tu meriti onore e gloria, il tuo nome va rispettato. Tutti dobbiamo obbedirti. Ciò che ordini lo dobbiamo compiere perché è legge (…). Libera dalla polizia me e tutti i miei amici”. Come dobbiamo interpretare questa preghiera?
E’ una preghiera composta da un prete di Palermo, don Pino Puglisi, che nel 1993 è stato ucciso per la sua lotta contro i boss del quartiere. Ed anche, a quanto si può intuire, per punire il papa Giovanni Paolo II, che aveva pronunciato alcuni discorsi molto duri in Sicilia di condanna della mafia. E’ una preghiera che ci illumina sulla relazione del mafioso con Dio.

venerdì 30 ottobre 2009

Elio Rindone intervista Augusto su “Il Dio dei mafiosi”


“Centonove” 30 ottobre 2009

QUEI CATTOLICI DEI MAFIOSI
di Elio Rindone

Nel 1994 aveva già pubblicato, con le Edizioni Dehoniane di Bologna, i due volumi “Il vangelo e la lupara”. Adesso, Augusto Cavadi, esce con questo nuovo volume “Il Dio dei mafiosi” con le Edizioni San Paolo di Milano. “Si tratta di due opere molto differenti per almeno due ragioni” - spiega l’autore -. Intanto i due volumi del 1994 raccoglievano antologicamente saggi, interviste e documenti di autori vari (di cui solo pochi erano firmati da me); ma la differenza principale è che allora mi occupavo dei rapporti storici fra membri di chiese cristiane (cattoliche e protestanti) ed esponenti di Cosa nostra, adesso ho cercato di mettere a fuoco il rapporto tra la visione del mondo mafiosa e la visione del mondo cattolica.
Un libro di teologia, insomma…
Certamente. Non mi risulta che sia mai stata tentata una ricostruzione della “teologia dei mafiosi”: del loro modo di intendere Dio, Gesù Cristo, i santi, la chiesa, l’etica…
E cosa ha ritenuto di scoprire?
Che la teologia mafiosa è somigliante, in maniera imbarazzante, alla teologia cattolica (specie nella sua versione mediterranea). Vi sono inquietanti analogie fra i due modi di intendere l’onnipotenza divina, la dottrina dell’inferno eterno, l’ineluttabilità della mediazione dei santi, la rigidità della struttura gerarchica…E’ in queste affinità teoriche che mi pare di rintracciare la radice di tanti comportamenti apparentemente strani di boss mafiosi che ostentano parole, credenze e simboli di tradizione cattolica.

Ma la sua analisi è solo una constatazione di fatto?
Nei vari ambiti di cui mi sono occupato nel corso dei miei studi, ho sempre ritenuto che le diagnosi abbiano senso solo in vista delle terapie. Perciò anche in questo caso mi sono chiesto che cosa possa fare la teologia cattolica per evitare di poter servire, anche in futuro, da modello ispiratore per l’ideologia mafiosa. La mia ipotesi è che, se si spogliasse delle sovrastrutture dogmatiche e delle superfetazioni moralistiche, la teologia cattolica potrebbe ritornare all’originaria essenzialità del vangelo di Gesù di Nazareth: e, così semplificata e per così dire restituita all’autenticità aurorale, diventerebbe impermeabile alle utilizzazioni mafiose. Il messaggio di Cristo, in sé, è di una chiarezza disarmante: chi privilegia denaro e dominio sugli altri, in un’ottica individualistica e familistica, non può dirsi figlio di Dio. Anzi, neppure figlio dell’uomo. Se i cristiani si concentrassero sul tema essenziale della misericordia che si prende cura del creato, a cominciare dai viventi più deboli e maltrattati, la loro comunità non avrebbe bisogno di scomunicare nessuno: i criminali, i loro complici e i loro referenti politici capirebbero da soli di essere estranei, incompatibili.
E come sarebbe, allora, una teologia ‘oggettivamente’ alternativa ad ogni mentalità mafiosa?
Beh, vi ho dedicato le ultime ottanta pagine del mio libro e non sono sicuro che si possano sintetizzare in poche righe. Di certo è che il Dio del vangelo è un Dio senza antropomorfismi, che non assomiglia a nessun ‘padre’ terreno e meno che mai a un ‘padrino’; il Cristo del vangelo è un uomo libero e incapace di rassegnarsi alla schiavitù di qualsiasi altro essere umano; una chiesa modellata sull’annunzio evangelico sarebbe contrassegnata dalla volontà di servizio e non certo di egemonia rispetto al resto dell’umanità…
Ma se il suo è un libro di teologia, come mai le Edizioni San Paolo lo hanno diffuso nei circuiti ‘laici’?
Perché, quando il libro mi è stato commissionato, ho ricevuto proprio questa consegna: di scrivere un libro di teologia che potesse coinvolgere anche i non-teologi. Anzi, anche i non-credenti. Credo che ormai siano maturi i tempi per superare una vecchia, anacronistica, divisione dei compiti: la teologia ai preti, le scienze umane ai ‘laici’. Con questo muro di separazione, la teologia diventa sempre più un affare ‘interno’ al mondo ecclesiastico (senza agganci con la vita concreta della società) e le scienze umane diventano sempre meno capaci di leggere in profondità gli oggetti che osservano. Penso (e con questo libro ho provato a offrirne una possibile esemplificazione) che la teologia e le scienze umane, se entrano in dialogo fra loro, si espongono a critiche reciproche ma anche a reciproco arricchimento.
Questa idea generale vale anche per l’intreccio del punto di vista teologico e del punto di vista sociologico a proposito della mafia?
Sono convinto che analizzare la teologia dei mafiosi significhi conoscere meglio un segmento della più ampia visione del mondo dei mafiosi: e questa, a sua volta, è un pezzo del più complesso fenomeno mafioso. Tutto ciò che aiuta a capire il sistema mafioso può servire ad affinare le strategie di prevenzione e di contrasto apparecchiate contro di esso.

Elio Rindone

martedì 27 ottobre 2009

Ci vediamo mercoledì 28 ottobre 2009 alla RAI di Palermo?


MERCOLEDI’ 28 OTTOBRE
ALLE ORE 17,50
PRESSO l’AUDITORIUM RAI DI PALERMO
(Viale Strasburgo, 19 )

SARA’ PRESENTATO
IL VOLUME
DI
AUGUSTO CAVADI

IL DIO DEI MAFIOSI
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009

Ne discuteranno con l’autore don Cosimo Scordato (docente presso la Facoltà teologica di Sicilia) ed Enrico Bellavia (capocronista di “Repubblica - Palermo”).
Brani poetici saranno recitati e cantati da Rosalia Billeci con l’accompagnamento musicale di Nicola Marchese.

Nota bene.
Sino a esaurimento delle disponibilità, è possibile posteggiare gratuitamente entrando dal secondo cancello successivo all’ingresso principale della Rai.

Dal momento che si è ammessi solo dopo la registrazione con documento di identità, si consiglia vivamente di arrivare con anticipo.

***

“Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese? Qualcosa certamente non funziona: o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due”
(Dalla Quarta di copertina)

domenica 25 ottobre 2009

Gianni Vattimo su “Il Dio dei mafiosi”


“L’espresso” 29.10.09
COSCA E CHIESA

di Gianni Vattimo

Che la mafia sia un fenomeno profondamente radicato nella cultura italiana, specialmente della Sicilia, e anche in una parte della tradizione religiosa del nostro cattolicissimo Paese, si può vedere confermato dal bel libro di Augusto Cavadi ora pubblicato da da una grande casa editrice cattolica, la San Paolo (”Il Dio dei mafiosi”, pp. 243, euro 18).
Nel porsi il problema di spiegare come mai una associazione sanguinaria come la mafia annoveri tra i propri componenti e capi tanti, non banalmente ipocriti, credenti, Cavadi offre nel suo libro un affascinante ritratto della cultura siciliana, e più ampiamente italiana, e di una larga parte della cultura cattolica che ancora è maggioritaria nel nostro Paese (e nei risultati elettorali). Intanto, la mafia non è solo un affare di delinquenza comune, ma una sorta di ideologia complessiva che solo come tale può impegnare i suoi membri fino alla morte. E sul suo sfondo ci sta una “teologia” che l’autore identifica come specifica del “cattolicesimo mediterraneo”, e che tutti noi, meridionali o no, abbiamo almeno in parte respirato con la nostra educazione religioso-familiare.
Non c’è nessun rapporto di causalità fra teologia cattolica (autoritarismo, disprezzo per la vita terrena, familismo amorale, culto del sacrificio ecc.) e mafiosità. Ma che tanto spesso di fatto le cose vadano insieme merita una attenta riflessione, anche da parte della gerarchia ecclesiastica.

PS: Vi ricordo che il libro sarà presentato, all’Auditorium della Rai di Palermo, mercoledì 28 ottobre alle 17,50 da don Cosimo Scordato e da Enrico Bellavia. Intervento musicale Lia Billeci e Nicola Marchese.

giovedì 22 ottobre 2009

Ci vediamo a Roma sabato 24 ottobre 2009?


Care e cari,
sarò, a Roma, sabato 24 ottobre 2009 per “Gli stati generali dell’antimafia” promossi da “Libera”.
In particolare sarò impegnato nel gruppo di lavoro per insegnanti e operatori sociali “Per un sapere di cittadinanza”, dalle 9 del mattino alle 17, presso la CGIL, Sala Di Vittorio, corso dʼItalia 25.
Ovviamente sarò lieto di incontrare chiunque di voi fosse interessato.
Cordialmente,
Augusto.

mercoledì 21 ottobre 2009

A scuola si può fare politica? Risposta al ministro Gelmini


“Centonove” 16.10.2009

SE LA POLITICA ENTRA A SCUOLA

”Chi fa politica deve farlo fuori dagli edifici scolatici. Si tratta di una minoranza che piega la scuola ai suoi interessi di parte”: così, recentemente, in una delle sue frequenti esternazioni, la ministra Gelmini. Che pensarne?
Senza nessuna sfumatura di ironia, non ho nessuna difficoltà a dichiararmi consenziente. E’ chiaro, infatti, dal contesto della frase, che per lei “fare politica” significa dedicarsi alla propaganda per un partito o per uno schieramento; tentare di condizionare il giudizio di colleghi ed alunni sull’operato del governo; organizzare manifestazioni di protesta contro leggi democraticamente stabilite dalla maggioranza dei parlamentari. Che un docente - invece di insegnare la propria disciplina e favorire il senso critico degli alunni, sino al punto da stimolarli a dissentire dalle sue stesse opinioni - dedichi tempo ed energie a mobilitare le classi, sia pure per scopi condivisibili, è deontologicamente scorretto. E, potrei aggiungere, persino autolesionistico. L’esperienza di alunno prima, e di professore dopo, mi ha attestato senza ombra di dubbio il modo più sicuro per far sì che un ragazzo rifiuti certe idee politiche: o scaricargliele addosso, a valanga, o distillargliele ogni giorno in maniera ossessiva.

Ciò che la Gelmini afferma è dunque, a mio parere, da sottoscrivere. Grave, anzi gravissimo, che ella non avverta l’esigenza di aggiungere subito dopo dell’altro: la politica come attivismo e proselitismo deve stare fuori dalle aule scolastiche, ma la cultura politica come informazione e formazione vi deve restare. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, vi deve ancora entrare. Chi se non la scuola ha il dovere di illustrare alle nuove generazioni le linee portanti della carta costituzionale? Di spiegare il funzionamento di parlamento, governo, magistratura? Di esporre le ideologie e i programmi che caratterizzano, distinguendoli fra loro, i diversi partiti politici presenti nel panorama contemporaneo? Di approfondire le ragioni ‘filosofiche’ per cui alcuni partiti sono a favore della guerra, della chiusura delle frontiere, del bavaglio alla stampa, del liberismo senza regole ed altri - al contrario - a favore della pace, dell’accoglienza anche gravosa dei perseguitati politici, del pluralismo dell’informazione, della regolazione del mercato…
Questo vale per l’intero territorio nazionale. Ma in vari istituti sparsi a macchia di leopardo nel Paese (non solo, dunque, in regioni meridionali) cultura politica è anche conoscenza della storia della mafia, delle sue articolazioni attuali (militari ed economiche, ma anche - appunto - culturali e politiche), delle diverse strategie con cui gli schieramenti parlamentari propongono di contrastarla. Astenersi (come la stragrande maggioranza dei docenti italiani) dall’affrontare queste ed altre tematiche socio-politiche con dati oggettivi, senza enfasi né apologetiche né denigratorie, in clima di autentico pluralismo ( se necessario invitando a scuola - contestualmente - esponenti preparati dei diversi schieramenti da interrogare su questioni concrete e circoscritte), non significa “non fare politica”: significa farla non facendola. Significa farla nel modo peggiore. Significa trasmettere, surrettiziamente, il messaggio che il teorema di Pitagora o la pittura del Seicento in Olanda sono essenziali alla formazione di un cittadino, mentre conoscere la differenza fra una politica conservatrice ed una progressista, o fra una reazionaria ed una rivoluzionaria, rientri fra gli optional. Se non addirittura fra le perdite di tempo che un allievo serio e diligente dovrebbe evitare. Anche il qualunquismo è un modo d’intendere e di vivere la politica: ogni insegnante, come ogni ministro, ha diritto di condividerlo e di diffonderlo. Purché abbia consapevolezza di non essere, così facendo, politicamente ‘neutro’.
In una delle lettere dei condannati a morte della resistenza italiana contro il nazi-fascismo, il diciannovenne Giacomo Ulivi individuava nel “pregiudizio della ’sporcizia’ della politica il più terribile risultato di un’opera ventennale di diseducazione”. Forse, quando anche il ventennio craxiano- berlusconiano arriverà a compimento (si spera in maniera meno tragica), l’opinione pubblica si sveglierà dal letargo e troverà dei nuovi ragazzi di Barbiana che scriveranno: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.

Augusto Cavadi

domenica 18 ottobre 2009

La passione di Perpetua e Felicita


“Repubblica - Palermo”
18.10.09

Augusto Cavadi
UNA FEMMINISTA A CARTAGINE

Anna Carfora
La Passione di Perpetua e Felicita
L’epos
pagine 218
euro 19,80

Prima di diventare intolleranti persecutori, i cristiani - nei primi tre secoli - furono oggetto di discriminazione da parte dell’Impero. Di quell’epoca eroica restano pochi documenti, tra cui il racconto, in parte autobiografico, del martirio di una giovane signora nordafricana (Perpetua) e di altri suoi compagni. Le vicende risalgono alla Cartagine del 203 d. C. Anna Carfora ha tradotto e pubblicato - con una dettagliata introduzione (Donne e martirio nel cristianesimo delle origini) e un acuto commento - La passione di Perpetua e Felicia perché convinta che si tratti di un testo d’interesse molto ampio: “Innanzitutto una scrittura femminile assai rara per l’epoca e, dunque, d’interesse che travalica l’ambito della storia religiosa e della storia delle donne nella chiesa per investire la storia di genere e l’intera storia antica. In secondo luogo lo scritto consegna alla storia la voce di una vittima”, a differenza di quanto avviene di solito a favore del punto di vista dei vincitori. Dall’insieme della preziosa fonte storica si evincono elementi di conoscenza sul rapporto di Perpetua con la figura del padre, del marito, del figlioletto, delle autorità politiche e con l’opinione pubblica del tempo. Infatti essa si mostra consapevole di poter “usare la spettacolarità del martirio in una maniera fortemente comunicativa, mediatica”.

Ci vediamo, al Cesmi di Palermo, alle 20.50 di mercoledì 21/10?


Che cosa è la Philosophy for children? Quali le ricadute sulle abilità cognitive nel processo di apprendimento? In che modo si inserisce nel contesto delle pratiche filosofiche? Come può la Philosophy for Children “evolversi” in Philosophy for community?

Augusto Cavadi intervista Antonio Cosentino autore del libro
Filosofia come pratica sociale.
Comunità di ricerca, formazione e cura di sé

Apogeo, Milano 2008, pp.173, euro 13,00

L’incontro avverrà presso la sede del Cesmi in via Dante, 153 – Palermo
Mercoledì 21 Ottobre 2009
Ore 20:45

mercoledì 14 ottobre 2009

Le mie scuse al sindaco Cammarata


“Repubblica - Palermo”
14.10.09

QUANTO E’ COOL QUESTA PALERMO
SOMMERSA DALL’IMMONDIZIA

Che ci fa Attilio Romita, noto conduttore di TG 1 Rai, in diverse TV private siciliane? Intervista il sindaco Cammarata. Gratis? Non propriamente. Si tratta di un servizio all’interno di uno spazio autogestito (e autofinanziato) dal Comune di Palermo che rientra nel piano di comunicazione promozionale per il 2009. Il costo del progetto pubblicitario ammonta a 323 mila euro - equamente distribuiti fra 9 emittenti - ed è stato determinato senza passare né dalla giunta né tanto meno dal consiglio comunale. La notizia evoca alla memoria i pannelli (un po’ costosi, ma eleganti) con cui Cammarata proclamava, qualche anno fa, Palermo una città “cool”. Allora in tanti ironizzammo (scettici sulla possibilità che Palermo diventasse “alla moda”); ma oggi non ce la sentiamo di rifare lo stesso errore. Dobbiamo ammettere, con lealtà, che avevamo torto. Lo slogan non era la registrazione di un dato di fatto, bensì un programma per il futuro: e, finalmente, il sogno si è realizzato. Siamo una città à la page, trendy.

Qualcuno si lamenta dei cumuli di immondizia sparsi per le strade della città, soprattutto nei quartieri periferici e nelle borgate marinare: ma lo fa perché ignaro del fatto che l’Associazione nazionale per la protezione degli animali randagi organizza visite guidate a Palermo per studiare questa modalità, davvero rivoluzionaria, di soccorrere i nostri fratelli minori. Dappertutto un cane o un gattino senza padroni deve faticare molto, vagabondare per chilometri, prima di trovare una pattumiera aperta (in qualche regione, come il Trentino-Alto Adige non ne trova neppure una): dalle nostre parti il pranzo è apparecchiato dappertutto. E con lauta generosità nel menù. Per non parlare delle gite d’istruzione a Palermo organizzate dalle scuole e dalle università brasiliane: ormai, nell’America Latina, si era persa memoria della genesi delle enormi discariche a cielo aperto dove centinaia, migliaia di sottoproletari scavano, giorno e notte, a mani nude per recuperare e riciclare i rifiuti utilizzabili. Grazie a ciò che accade nel capoluogo dell’isola privilegiata dagli dei (un po’ meno dalla saggezza degli elettori), i giovani brasiliani possono venire ad osservare le loro montagne di immondizia allo stato nascente, imparando come si sono formate allora e come si sono potute accumulare nei decenni.
I club, lombardi e veneti, degli amanti di “giochi di sopravvivenza” non sono più costretti a volare verso la giungla africana per le loro simulazioni: con notevole risparmio per le loro tasche, ed altrettanto guadagno degli operatori turistici siciliani, preferiscono puntare su Palermo. Altro che sabbie mobili e liane! Riuscire a sopravvivere tre giorni di seguito fra colline di immondizia, pozzanghere di fango e crolli di edifici storici è molto più arduo. E, in caso di successo, gratificante.
Ma Palermo non è “cool” solo per animalisti, studiosi di archeologia urbana e amanti di sport estremi: lo sta diventando sempre più per politici di ogni colore. Comitive di amministratori campani del centro-sinistra sbarcano ogni settimana dalla nave che parte la sera dal porto di Napoli per ammirare, con sollievo, ciò che sta diventando la città sorella: presto si smetterà di citare la metropoli partenopea come esempio insuperabilmente vergognoso di cattiva gestione dei rifiuti. Che diamine! Concentrarsi sul caso Campania e dimenticare emuli più bravi degli stessi precursori è davvero un’ingiustizia che sfiora il razzismo.
Ma non è solo lo schieramento progressista a rallegrarsi per la novità palermitana. Altrettanto, ancor di più, lo è il governo nazionale di centro-destra. Grazie alla (non)gestione della raccolta dei rifiuti, Palermo tornerà al centro dell’attenzione dei media: Berlusconi potrà organizzarvi un consiglio di ministri straordinario (merito di questa giunta municipale: persino Bossi e Maroni dovranno trascorrere qualche ora di vacanza nell’odiato Meridione!), proclamare lo stato d’assedio, riportare la città in quattro settimane a livelli accettabili di pulizia e aggiungere l’ennesimo “miracolo” al suo medagliere. Gesù si limitava a trasformare l’acqua in vino: una bazzecola. Lui farà certo di meglio: pur dopo anni di amministrazione di esponenti del suo partito, trasformerà la sporcizia in voti.

Augusto Cavadi

martedì 13 ottobre 2009

Una ragione del declino delle Università siciliane


“Centonove” 9.10.2009

“Meritiamo di essere ultimi”

La notizia che le quattro università siciliane (Palermo, Catania, Messina ed Enna) sono state collocate nella parte bassa della graduatoria recentemente stilata dal Ministero ha suscitato, nei diversi quotidiani diffusi nell’Isola, un vivace dibattito. Per franchezza di accenti davvero apprezzabile ha colpito, in particolare, l’intervento, sull’edizione palermitana di “Repubblica”, del direttore del Dipartimento di filosofia e critica dei saperi dell’Ateneo del capoluogo di regione, Franco Lo Piparo: in controtendenza rispetto ai cori apologetici dei ’sicilianisti’, ha opportunamente ricordato che le università siciliane meritano davvero di trovarsi nella fascia infima E i politici meridionali farebbero bene a non riciclare il meridionalismo lamentoso e vittimistico che attribuisce sempre al Nord brutto e cattivo le deficienze del Sud.
La diagnosi è realistica ma la terapia, anche per ovvie ragioni di spazio, non mi è sembrata completa. Non c’è dubbio che le università siciliane siano penalizzate dall’incompetenza, equamente distribuita fra vari organi responsabili, ad intercettare i finanziamenti comunitari e che, più ampiamente, soffrano di un contesto strutturale e infra-strutturale atavicamente deficitario. Ma non dimenticherei di esplicitare che l’università è - prima di tutto ed essenzialmente - un laboratorio di ricerca e di produzione culturale; è (se il vocabolo fosse inteso nella sua accezione più bella) una scuola. Se si (ri)partisse da questa convinzione fondamentale, non si potrebbe non riconoscere che un ateneo funziona in primis se ha insegnanti adeguati: tutto il resto, per quanto rilevante, è logicamente e praticamente secondario. La domanda cruciale che non trovo nell’intervento di Lo Piparo è allora: le università siciliane hanno docenti all’altezza del loro incarico?

E’ chiaro che ogni generalizzazione sarebbe stupida più ancora che ingenerosa, ma nessuna persona informata dei fatti ha mai negato - almeno negli ultimi cinquanta anni - che il reclutamento dei professori universitari avviene secondo una congerie di criteri (nepotismo, clientelismo partitico, solidarietà massonica, favoritismi sindacali, disinvoltura sessuale, pressioni mafiose, propensione caratteriale alla sudditanza servile…) tra i quali si trovano, non necessariamente fra i primi posti, la preparazione scientifica, la capacità di comunicare, l’equilibrio psico-fisico. Questo non significa - lo dico subito per evitare chiacchiere pleonastiche - che essere moglie/marito/figlio/figlia/amante… di un barone sia condizione sufficiente per entrare nei ranghi accademici: diciamo che in alcuni contesti è condizione necessaria e, in altri, fa la differenza a parità di meriti.
Potrei evocare situazioni davvero parossistiche (come il contesto dell’Ateneo di Messina a cui, ad esempio, Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli hanno potuto dedicare il volume Matteo Bottari. L’omicidio che sconvolse verminopoli), ma sarebbe rendermi troppo facile l’argomentazione. Potrei riportare celebri dichiarazioni pubbliche di un Armando Plebe, docente di storia della filosofia della Facoltà di Lettere di Palermo, ancora dopo il ‘68 (”Un barone è potente se dimostra di saper portare in cattedra i suoi alunni migliori; ma è onnipotente se, come me, riesce a portare anche i peggiori”), ma mi si obietterebbe che si trattava di un personaggio provocatorio che amava “stupire i borghesi”. Ancora più eloquente e tragica è invece la ‘normalità‘ statistica: se sei un bravo laureato ma non ‘conosci’ nessuno, puoi continuare la tua carriera universitaria o professionale solo navigando su internet e facendo la valigia. La regola vale in quasi tutto il Paese: ma da Napoli in giù è un po’ più valida che altrove. Con un’immagine un po’ sopra le righe si potrebbe dire che le nostre università, novelli conti ugolini, divorano i propri figli. Ma è più efficace la storiella che gira per i corridoi sulla tendenza di ogni cattedratico a scegliere, come collaboratore e successore, qualcuno un po’ meno intelligente di lui che non gli faccia ombra; questi, una volta in cattedra, opererà secondo lo stesso criterio, privilegiando uno ancor meno intelligente. Come mai, dopo otto secoli di università, non si è arrivati all’estinzione intellettuale? Perché dopo quattro o cinque generazioni di solito si arriva a un barone così poco intelligente da non rendersi conto che il suo assistente è un genio: e così il ciclo ricomincia.
Probabilmente i nostri Atenei inizieranno a risalire nella graduatoria nazionale quando certe storielle sopravvivranno solo a titolo di goliardate.

Augusto Cavadi

lunedì 12 ottobre 2009

“Filosofia e politica: che fare?”


In questi giorni è in libreria (oppure da richiedere direttamente all’editore: info@petiteplaisance.it) il volume collettaneo “Filosofia e politica: che fare?” (Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 320, euro 30,00).
Tra gli interventi: Politica e speranza (Carmelo Vigna), Per una nuova società politica (Enrico Berti), La filosofia e la città: processi e assoluzioni (Mario Vegetti), Oltre liberalismo e socialismo (Alberto Giovanni Biuso), La filosofia-in-pratica. Una discussione lacustre (Augusto Cavadi).

V. Gigante (”Adista”, 17 ott. 2009, 102) intervista A. Cavadi


Su “Adista” (102, 17 - 10 09) è apparsa una intervista che ho rilasciato al bravo Valerio Gigante:

AUGUSTO CAVADI: CHIESE E TEOLOGIE SI RENDANO
IMPERMEABILI AL SISTEMA MAFIOSO

35233. ROMA-ADISTA. “Come è possibile che una società cristiana, a stragrande maggioranza cattolica, partorisca Cosa nostra e Stidde, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita? E le partorisca non come aborti mostruosi irriconoscibili, ma come associazioni in cui tutti hanno una Bibbia. E tutti pregano”. Questo il quesito da cui prende avvio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2009, pp. 256, 18 euro: il volume è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adista.it), l’ultimo libro del giornalista, sociologo e teologo palermitano Augusto Cavadi. Cavadi, tra i maggiori esperti del rapporto fra cattolicesimo e associazioni criminali (già nel 1994 aveva pubblicato, in due volumi, Il vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia), nell’introduzione che precede il suo lavoro afferma, che “gli studi dedicati al rapporto fra Chiese e mafie o, per lo meno, fra alcuni uomini di Chiesa ed alcuni uomini di mafia”, pur non essendo “per nulla da sottovalutare”, non affrontano quasi mai la questione della “teologia mafiosa”, cioè di quel sistema di credenze, riferimenti simbolici e pratiche devozionali che caratterizzano la religiosità delle cosche mafiose e che non sempre appare non riducibile, o inassimilabile, ad una certa visione di Chiesa. Un terreno finora poco indagato perché “chi ha quel tanto di preparazione teologica per aprire certi ‘fascicoli’, raramente si ritrova nelle condizioni ecclesiali adatte”; mentre “chi ha tutta la libertà di parlare quasi mai possiede gli strumenti culturali specifici per imbarcarsi nell’impresa”.

Cavadi, invece, nell’impresa ci si è buttato con passione e competenza, rilevando che i rapporti fra mondo cattolico e ambienti mafiosi ci sono stati, eccome. “E non senza conseguenze di rilievo”: “In alcuni casi - scrive Cavadi - si è trattato di rapporti di vera e propria complicità”. In qualche altro caso, al contrario, ci sono stati preti che, “schierandosi dalla parte dei braccianti agricoli o comunque facendo azione sociale in contesti depressi, sono andati incontro alla vendetta mafiosa”. Ma “i preti-boss e i preti-martiri costituiscono comunque, nella loro atipicità, un’eccezione. La norma è stata invece una sorta di indifferenza disincantata delle Chiese cristiane - e in particolare della Chiesa cattolica - rispetto ad una questione considerata, a torto, di competenza dello Stato. E, per giunta, di uno Stato ‘liberale’: vissuto, per molti decenni dall’unificazione nazionale, come esterno ed estraneo”. Indifferenza che spesso ha significato oggettiva connivenza.

Ad Augusto Cavadi Adista ha rivolto alcune domande sulla vicenda della benedizione papale ai rampolli della cosca Condello (v. notizia precedente) e, più in generale, sui rapporti tra sistema-Chiesa e sistema-mafia.

“Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese?”, chiedi sulla quarta di copertina del tuo libro…

…e subito dopo aggiungo: “Evidentemente qualcosa non funziona o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due”…

Verrebbe allora da ribaltare la domanda: come fa una parte della gerarchia ecclesiastica, in passato come oggi, a frequentare il potere mafioso, nonostante la mafia sia stata condannata dalla Chiesa ai suoi più alti livelli? C’è forse una religione delle parole e una religione dei fatti? E poi: quale “relativismo etico” più devastante di quello che ‘benedice’ indifferentemente vittime e carnefici?

Se la mafia fosse - come si ritiene superficialmente - una gang di delinquenti, vescovi e preti se ne terrebbero senz’altro distanti. Ma poiché è un sistema di dominio pluridimensionale, può mostrare facce diverse a seconda degli interlocutori. Al mondo ecclesiastico si presenta come garante dell’ordine, come custode dei valori tradizionali, come baluardo contro il comunismo e il laicismo in genere, nascondendo la valenza violenta, intimidatoria e se indispensabile omicida.

Il fatto che i boss mafiosi si sposino in chiesa, che chiedano benedizioni papali, che ricevano la comunione, che si facciano celebrare messe e riti religiosi anche nei covi dove sono latitanti serve solo a legittimarli di fronte alla propria coscienza, alla “famiglia”, all’opinione pubblica ed al contesto sociale in cui vivono o tutto ciò accade anche perché nella religione i mafiosi trovano un universo simbolico affine a quello in cui vivono?

Questo è il punto più delicato della mia ricerca. Che la mafia abbia bisogno di darsi una ideologia è comprensibile; che, povera di strumenti intellettuali, rubi a man bassa arraffando dai patrimoni ideali che incontra nel suo contesto territoriale, è altrettanto comprensibile. Quello che è strano - anzi francamente inaccettabile - è che la teologia cattolica si sia strutturata nei secoli in maniera tale da costituire per i mafiosi un modello ‘esemplare’ ed una miniera di credenze e di norme. Per questo nel libro tento non solo di evidenziare le inquietanti somiglianze fra la visione cattolica e la visione mafiosa del mondo, ma anche di abbozzare una teologia critica diversa: un a teologia che (riscoprendo il messaggio evangelico originario) sia, ‘oggettivamente’, inutilizzabile come armamentario ideologico delle cosche mafiose.

Nel caso del telegramma inviato a Caterina Condello e Daniele Ionetti si è parlato di una svista: possibile che il parroco del quartiere di Archi non conosca la figlia del boss che da 25 anni domina incontrastato sul quartiere e sulla città? E che il vescovo non sappia chi si sposa in cattedrale? Per quale ragione una Chiesa che difende la vita “dal concepimento alla morte naturale” tollera chi della vita mostra un così scarso rispetto?

Non so con quali intenzioni - e perciò con quale responsabilità morale - il vescovo di Reggio Calabria e il parroco del quartiere Archi abbiano acconsentito a benedire solennemente le nozze fra una Condello e il suo compagno. Non posso escludere che abbiano distinto, come mi sembra sacrosanto, la mentalità e le colpe del padre di lei dalla mentalità e dal progetto di vita dei due coniugi. Ho conosciuto in quasi sessant’anni figli e figlie di mafiosi molto diversi dai genitori: talora, pur senza il coraggio eclatante di un Peppino Impastato, ragazzi di orientamento opposto rispetto alle famiglie anagrafiche d’appartenenza. Mi sento di affermare solo questo: se, per caso, vescovo e parroco non si sono neppure posti il problema di approfondire la questione, la loro responsabilità sarebbe enorme. A Palermo, in un secolo e mezzo, sono stati centinaia i vescovi e i parroci che non si sono posti domande imbarazzanti e che hanno evitato accertamenti puntuali: quando preti, come il parroco di Brancaccio don Pino Puglisi, hanno cominciato a voler capire chi frequentava chiese e sagrestie, sono stati considerati dai mafiosi degli impertinenti e pericolosi innovatori. E come tali sono stati giustiziati.

C’è qualcosa nell’universo mafioso, nella sua cultura, nei suoi modi di esercitare il potere che serve anche gli interessi di una parte della gerarchia?

Non so quanto per cinismo e quanto per ignoranza dei dati oggettivi (ma per chi ha responsabilità di guida la seconda ipotesi non è molto più favorevole della prima…), spesso il clero - nelle sue diverse articolazioni gerarchiche - si lascia abbagliare dai vantaggi immediati delle frequentazioni mafiose e non considera i contraccolpi negativi di lungo periodo. Nei giorni scorsi i giornali hanno diffuso la notizia di una informativa delle forze dell’ordine alla Procura della Repubblica di Agrigento su un’omelia del nuovo arciprete di Cattolica Eraclea (la città d’origine dei Cuntrera e dei Caruana). Don Nino Giarraputo, infatti, che nella sua prima omelia si è appellato a due imprese notoriamente in odor di mafia: “Le nostre chiese hanno bisogno di tante attenzioni e noi l’attenzione gliela daremo in tutti i modi. Le imprese di Favara non mancheranno, la ditta Athena e i Pitruzzella, ne sono convinto, ci daranno una mano”. Capisco che pecunia non olet per i banchieri e i commercianti; lo capirei molto meno se ragionasse così il sindaco di una cittadina terremotata; non lo capisco per nulla se ragiona così un discepolo di quel Gesù che ha raccomandato di non portare con sé neppure bastone e bisaccia. Perché costruire cattedrali meravigliose se è per riempirle di “greggi” senza senso critico, senza senso civico e senza fede nel Regno di Dio che non è di questo mondo? (valerio gigante)

“Il Dio dei mafiosi” come “libro del mese”


Il Gruppo Solidarietà, Via Fornace, 23 - 60030 Moie di Maiolati S. (ANCONA) - Tel. e Fax 0731 703327 - e-mail: grusol@grusol.it - www.grusol.it, che pubblica la rivista “Appunti”, ha prescelto il mio libro “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, 2009) come libro del mese di ottobre 2009.
Non posso che essere grato per la scelta ai valorosi operatori sociali marchigiani di cui da anni seguo con stima il lavoro, soprattutto a favore dei disabili.

domenica 11 ottobre 2009

Silvio Salanitri commenta il mio “In verità ci disse altro”


Dal Foglio culturale “Pequod”
dell’Associazione “teAtroZeta
(Termini Imerese - Palermo)
numero 0
maggio 2009

“In verità ci disse altro”
Grumi di pensiero, riflessioni sul libro di Augusto Cavadi (Falzea editore)

“In verità ci disse altro”, più che un titolo una estrema sintesi. Più che un titolo un monito, un avvertimento.
Potrebbe bastare questo. Si potrebbe finire già con questo: “In verità ci disse altro”. Potremmo accontentarci. In fondo non sarebbe già abbastanza per decidere di volerci mettere al riparo? Per non andare oltre? Non sarebbe già sufficiente per decidere di risparmiarci chissà quali ardite congetture, chissà quali funanboliche e vertiginose acrobazie del pensiero per tirare in ballo e sollecitare rimeditazioni sulle nostre rassicuranti convinzioni?
Raramente il titolo di un libro riesce così azzeccato e di effetto. Raramente il titolo di un libro è così pertinente e rappresentativo del contenuto, posto a rivelarne l’essenza: la gemma incastonata nella trama del pensiero, la ’summa’ di cìò che si aveva da dire. Raramente il titolo di un libro risuona così tragico e gravido di conseguenze.
Chi è il grande frainteso non occorre precisarlo, o forse sì? E’ necessario per rassicurare che si tratti di Lui? Ebbene sì, il grande frainteso è proprio Lui, o, forse, è meglio dire ciò che si è detto di Lui dopo di Lui.
Chi ha l’abitudine di frequentare le librerie al pari delle vetrine dei negozi che suggeriscono la moda del momento, per il piacere di lasciare scorrere sotto la punta delle dita i titoli e curiosare, lasciandosi affascinare dalle copertine multicolori, avrà notato che negli ultimi anni hanno conquistato gli onori delle posizioni in cima alle classifiche alcuni libri che hanno voluto mettere in profonda discussione le posizioni e l’autorevolezza della Chiesa cattolica e del Cristianesimo in senso più ampio. Scrittori come Piergiorgio Odifreddi, Vito Mancuso, Luigi Lombardi Vallauri, hanno dato alle stampe anche più di un volume dal titolo inequivocabilmente provocatorio e contestatario. Ma quello che sbalordisce non è solo il fatto che questi libri hanno raggiunto gli scaffali delle librerie, ma soprattutto l’aver trovato lettori disposti a leggerli sino al punto di farne successi editoriali.

Stupisce ma anche incuriosisce sapere che un libro che si colloca in questa scia è stato scritto a pochi passi da noi, da un filosofo palermitano.
“Secondo l’opinione comune puoi credere solo se rinunzi a pensare” è questo l’esordio della prefazione, per poi proseguire qualche riga più giù: “che succede a chi ritiene insoddisfacente questa alternativa fra credere e pensare?” E la mente dei più a questo punto farà appello all’enciclica “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II, ma sarà bene avvertire che la questione non si risolve così semplicemente.
Il libro non è facile, ma è sincero. Traspare quella sincerità che contraddistingue le opere che vogliono fare il riepilogo delle proprie ricerche, dei propri studi, delle proprie riflessioni, della propria esistenza, per sé e al servizio degli altri, così: disinteressatamente.
Il libro è colto e non mancano accostamenti arditi e insoliti, come con la storia del marxismo, il pensiero di Loewith, l’opera di Drewermann, gli approdi più moderni della esegesi biblica, la concezione dell’evoluzione del cristianesimo secondo i paradigmi di Hans Kueng, certe tendenze ecologiste: “che è possibile avere la Terra per madre senza avere Dio per padre; che, anzi, il non avere Dio per padre è una ragione in più per avere la Terra come madre” (cit. p. 57). Non si tratta di pure congetture, di un procedere del pensiero per convinzioni astratte. E non mancano ironia e poeticità, modernità e desiderio di risalire alle origini: “non manca il coraggio di andare avanti: manca il coraggio di andare indietro, ritornare dove deviato: per avanzare davvero” (P. Jahier) si legge sulla soglia della prima parte. Tutto rendendo testimonianza di quello “scisma sommerso” già evidenziato da Pietro Prini, per approdare ad un “oltrecristianesimo” che non sia un post-cristianesimo. Quello che è passato in revisione è l’asse Dio-Cristo-Chiesa-Magistero-Dogmi-Sacramenti-Etica cattolica, senza dimenticare di confrontarsi con il nichilismo di Nietzsche o lo “allora tutto è lecito” di dostoevskijana memoria. L’approdo è coerente con le premesse e tutt’altro che banale.
Il libro è stato presentato in diverse occasioni e di recente all’auditorium della Rai di Palermo da Vito Mancuso (l’autore di “L’anima e il suo destino”), tra gli altri. L’incontro è ben riuscito ed è stato intriso di pensieri, emozioni, belle sensazioni, ed in conclusione ha lasciato la convinzione di non aver per nulla sprecato le due ore che ha occupato il 12 marzo scorso tra le 18 e le 20. Al di là del merito, Vito Mancuso ha voluto evidenziare i rischi di un’operazione qual è quella contenuta nel libro di Augusto Cavadi : una solitudine soggettiva e una solitudine oggettiva. La prima non è legata soltanto al vuoto che si crea attorno a idee così originali e rivoluzionarie, vuoto di consenso se vogliamo, ma al vuoto che circonda l’autore per aver voluto rinunciare a confortevoli convinzioni assai più accoglienti del vuoto che lascia la loro assenza. La seconda deve fare i conti con il rischio, non voluto, di favorire un approdo nichilista. Ma pur dinanzi a questi rischi e disagi si tratta di volere e dovere servire la verità sempre e comunque, anche attraverso voci dissonanti ma non per questo prevaricatrici, disposte a cambiare registro se sarà il frutto di un’attenta opera di convincimento logico-argomentativa.

Silvio Salanitri

giovedì 8 ottobre 2009

“L’amore è cieco, ma la mafia ci vede benissimo”


Da oggi in libreria il mio secondo “pizzino della legalità” edito da Salvatore Coppola (Trapani, 2009, pp. 30, euro 2,00).

Questa volta sono io stesso che scrivo a un ipotetico don Carmelo, mafioso incarcerato, per raccontargli la storia (vera) di una ragazza tradita dal suo uomo per obbedienza ai mafiosi.