martedì 13 ottobre 2009

Una ragione del declino delle Università siciliane


“Centonove” 9.10.2009

“Meritiamo di essere ultimi”

La notizia che le quattro università siciliane (Palermo, Catania, Messina ed Enna) sono state collocate nella parte bassa della graduatoria recentemente stilata dal Ministero ha suscitato, nei diversi quotidiani diffusi nell’Isola, un vivace dibattito. Per franchezza di accenti davvero apprezzabile ha colpito, in particolare, l’intervento, sull’edizione palermitana di “Repubblica”, del direttore del Dipartimento di filosofia e critica dei saperi dell’Ateneo del capoluogo di regione, Franco Lo Piparo: in controtendenza rispetto ai cori apologetici dei ’sicilianisti’, ha opportunamente ricordato che le università siciliane meritano davvero di trovarsi nella fascia infima E i politici meridionali farebbero bene a non riciclare il meridionalismo lamentoso e vittimistico che attribuisce sempre al Nord brutto e cattivo le deficienze del Sud.
La diagnosi è realistica ma la terapia, anche per ovvie ragioni di spazio, non mi è sembrata completa. Non c’è dubbio che le università siciliane siano penalizzate dall’incompetenza, equamente distribuita fra vari organi responsabili, ad intercettare i finanziamenti comunitari e che, più ampiamente, soffrano di un contesto strutturale e infra-strutturale atavicamente deficitario. Ma non dimenticherei di esplicitare che l’università è - prima di tutto ed essenzialmente - un laboratorio di ricerca e di produzione culturale; è (se il vocabolo fosse inteso nella sua accezione più bella) una scuola. Se si (ri)partisse da questa convinzione fondamentale, non si potrebbe non riconoscere che un ateneo funziona in primis se ha insegnanti adeguati: tutto il resto, per quanto rilevante, è logicamente e praticamente secondario. La domanda cruciale che non trovo nell’intervento di Lo Piparo è allora: le università siciliane hanno docenti all’altezza del loro incarico?

E’ chiaro che ogni generalizzazione sarebbe stupida più ancora che ingenerosa, ma nessuna persona informata dei fatti ha mai negato - almeno negli ultimi cinquanta anni - che il reclutamento dei professori universitari avviene secondo una congerie di criteri (nepotismo, clientelismo partitico, solidarietà massonica, favoritismi sindacali, disinvoltura sessuale, pressioni mafiose, propensione caratteriale alla sudditanza servile…) tra i quali si trovano, non necessariamente fra i primi posti, la preparazione scientifica, la capacità di comunicare, l’equilibrio psico-fisico. Questo non significa - lo dico subito per evitare chiacchiere pleonastiche - che essere moglie/marito/figlio/figlia/amante… di un barone sia condizione sufficiente per entrare nei ranghi accademici: diciamo che in alcuni contesti è condizione necessaria e, in altri, fa la differenza a parità di meriti.
Potrei evocare situazioni davvero parossistiche (come il contesto dell’Ateneo di Messina a cui, ad esempio, Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli hanno potuto dedicare il volume Matteo Bottari. L’omicidio che sconvolse verminopoli), ma sarebbe rendermi troppo facile l’argomentazione. Potrei riportare celebri dichiarazioni pubbliche di un Armando Plebe, docente di storia della filosofia della Facoltà di Lettere di Palermo, ancora dopo il ‘68 (”Un barone è potente se dimostra di saper portare in cattedra i suoi alunni migliori; ma è onnipotente se, come me, riesce a portare anche i peggiori”), ma mi si obietterebbe che si trattava di un personaggio provocatorio che amava “stupire i borghesi”. Ancora più eloquente e tragica è invece la ‘normalità‘ statistica: se sei un bravo laureato ma non ‘conosci’ nessuno, puoi continuare la tua carriera universitaria o professionale solo navigando su internet e facendo la valigia. La regola vale in quasi tutto il Paese: ma da Napoli in giù è un po’ più valida che altrove. Con un’immagine un po’ sopra le righe si potrebbe dire che le nostre università, novelli conti ugolini, divorano i propri figli. Ma è più efficace la storiella che gira per i corridoi sulla tendenza di ogni cattedratico a scegliere, come collaboratore e successore, qualcuno un po’ meno intelligente di lui che non gli faccia ombra; questi, una volta in cattedra, opererà secondo lo stesso criterio, privilegiando uno ancor meno intelligente. Come mai, dopo otto secoli di università, non si è arrivati all’estinzione intellettuale? Perché dopo quattro o cinque generazioni di solito si arriva a un barone così poco intelligente da non rendersi conto che il suo assistente è un genio: e così il ciclo ricomincia.
Probabilmente i nostri Atenei inizieranno a risalire nella graduatoria nazionale quando certe storielle sopravvivranno solo a titolo di goliardate.

Augusto Cavadi

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