domenica 29 novembre 2009

Invito alla pedagogia antimafia (da martedi’ 1 dicembre)


STRAPPIAMO ALMENO UNA GENERAZIONE
ALLA MAFIA?

“Libera - Scuola” (www.libera.it)
CIDI di Palermo (www.cidipalermo.jimdo.com)

organizzano
10 seminari di formazione/aggiornamento

per insegnanti, genitori, operatori pastorali, educatori in genere
sul tema della legalità costituzionale e democratica.

Il primo incontro è fissato per
martedì 1 dicembre 2009 (ore 17 esatte)
presso la “Bottega dei sapori e dei saperi della legalità”
in Piazza Castelnuovo (accanto a Spinnato).

Ogni incontro durerà 2 ore e si chiuderà, puntualmente, alle ore 19.
Per le date successive ci si accorderà con i presenti.

La partecipazione ai seminari è gratuita e libera:
unica condizione (moralmente vincolante)
è di aver letto le pagine che il gruppo si auto-assegna
in vista dell’incontro successivo.

Per il primo appuntamento è fortemente raccomandata la lettura
delle pp. 7 - 25 del volume di Augusto Cavadi
” Strappare una generazione alla mafia.
Per una pedagogia alternativa”
(Di Girolamo editore, Trapani 2006, pp. 191, euro 15,00).
Copie del libro in vendita sia presso la “Bottega” di piazza Castelnuovo
che nelle principali librerie cittadine.

Per essere informati tempestivamente è consigliabile iscriversi trasmettendo
i propri dati essenziali a Silvana Puglisi (silvanapu@libero.it).

venerdì 27 novembre 2009

La legalità rovesciata (a proposito di crocifissi)


“Repubblica - Palermo”
27 novembre 2009

LA LEGALITA’ ROVESCIATA
Il dibattito nazionale sul crocifisso nei luoghi pubblici registra, in Sicilia, degli echi incuriosenti. Il sindaco di Enna, Rino Agnello, ha emanato un’ordinanza che “invita a mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole del comune come espressione dei fondamentali valori civili e culturali del Paese”, almeno sino a quando non si avranno notizie sull’esito del “ricorso alla Corte europea, espletato dallo Stato italiano”. Per evitare equivoci, il sindaco - in forza del recente “decreto sulla sicurezza” (!?) - commina una multa di cinquecento euro a chi, in ottemperanza alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, osi togliere il crocifisso da un luogo pubblico, soprattutto dalle aule scolastiche “di ogni ordine e grado”.
Per evitare complessi d’inferiorità, il sindaco di Chiusa Sclafani ci ha tenuto a non apparire di meno dell’illustre collega: invece di limitarsi a minacciarla, la multa l’ha davvero comminata alla preside dell’Istituto ‘comprensivo’ del Comune perché nel suo ufficio (non nelle aule scolastiche) la polizia municipale non ha trovato il sacro simbolo.
Decisioni doppiamente singolari: di solito, le amministrazioni siciliane sono tarde a recepire le direttive europee, ma - a quanto pare - sono rapidissime nel disattenderle. Inoltre è forse la prima volta, nella storia del diritto, che si prevede una pena pecuniaria non per chi contesta una sentenza, bensì per chi vi si adegua! (Spero che il sindaco di Palermo non si lasci afferrare dallo spirito di emulazione: i vigili urbani, in un eventuale blitz nei nostri licei, troverebbero in più di un’aula - al posto del crocifisso burocratico - un più funzionale pezzo di carta: “Torno subito!”).

Uno dei preti ’storici’ di Catania, il don Salvatore Resca che da decenni è animatore - dalla parrocchia di San Pietro e Paolo - dell’associazione pacifista e antimafia “Cittainsieme”, ha da sempre espresso la contrarietà sua personale e della comunità nei confronti dell’ostensione di facciata dei simboli religiosi. Come ogni persona animata da fede minimamente sincera, sa che il maestro di Nazareth è stato condannato a morte per aver voluto abbattere quei “muri di separazione” fra un’etnia e l’altra che, ancora oggi, si vorrebbero innalzare a suo nome. Di fronte alla opposta opinione di alcuni sindaci, soprattutto leghisti, - la cui formazione teologica è pari solo all’autenticità del loro attaccamento al vangelo - don Resca ha avanzato una proposta di ripiego: se proprio volete appendere questi benedetti crocifissi, perché non appendete una figura umana quanto più simile al Gesù reale della storia? Egli stesso si offre di omaggiare (o di fornire a prezzi, comunque, concorrenziali) delle croci in cui stia appeso un uomo fra i trenta e i quaranta anni, dalla pelle scura come i palestinesi di ogni epoca: un extra-comunitario nord-africano, insomma. L’offerta è stata esplicitata in una lettera aperta che il vice-parroco catanese ha inviato al sindaco e alla giunta leghista di Coccaglio, in provincia di Brescia: a quell’amministrazione comunale padana che ha avuto la brillante idea di lanciare l’operazione ‘White Christmas’ (’Bianco Natale’), consistente nel cacciare dal territorio comunale tutte le persone straniere non in regola prima del 25 dicembre prossimo. Non si conosce ancora alcuna reazione da parte dei destinatari della proposta-offerta. Speriamo che, almeno, si possa ottenere una proroga di qualche giorno, dal 25 dicembre al 6 gennaio: è infatti in questa data che, festa dell’Epifania, la chiesa cattolica celebra l’apertura universalistica del messaggio cristiano, rendendo onore ai tre saggi regali che (benché estranei alla tradizione del messianismo ebraico) sarebbero arrivati dall’Oriente per attestare che, nel bambino partorito da due profughi talmente poveri da non potersi permettere neppure una locanda (e, per loro fortuna, in anticipo rispetto all’apertura dei democratici Centri di permanenza temporanea) germinava la promessa di un mondo di fratellanza e di sororità senza barriere. Se paradosso dev’essere, perché fermarsi a metà?

Augusto Cavadi

giovedì 26 novembre 2009

Ci vediamo in quel di Bergamo
(venerdì 27 - sabato 28) novembre?


Venerdì sera, alle 21, presso la Comunità Nazareth di Torre de’ Roveri (Bergamo), presenterò il mio “Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, Milano 2009) conversando con Mario Ghidoni (formatore presso la Filca- Cisl).
Il giorno dopo, a Bergamo città (Spazio Polaresco), alle ore 17 modererò una tavola rotonda su “Testimoni della legalità” nell’ambito del convegno nazionale “Legalità è partecipazione” organizzato dall’università di Bergamo.

PRATICA FILOSOFICA


Quaderni di pratica filosofica
Novembre 2009

LA FILOSOFIA PUO’ FARE BENE SOLO
QUANDO NON SE LO PROPONE.
Idee ed agiti.

in AA.VV., FilosoFare, cura e orientamento al valore, a cura di Alessandro Volpone, Liguori, Napoli 2009, pp. 137 - 143.

La paradossale preziosa inutilità del filosofare

La filosofia-in-pratica (tentativo di traduzione dell’achenbachiana Philosophische praxis), come ogni possibile declinazione della filosofia, non può sottrarsi ad una tensione intrinseca fra due poli irrinunciabili : da una parte è un’attività libera, gratuita, insubordinabile a nessun fine ‘utile’; dall’altra, però, chi la esercita non può fare a meno di prevedere - o, per lo meno, di sperare - che essa non lascerà intatti uomini e cose . La filosofia inutile e preziosa, dunque: una contraddizione? Forse no: è preziosa solo in quanto inutile . E’ inutile e preziosa nello stesso tempo, ma non dallo stesso punto di vista: non funzionale all’utile se considerata in sé stessa come attività intellettuale , trasformativa se considerata come attività intellettuale esercitata da soggettività (a vario titolo coinvolte nel suo esercizio). A ben riflettere, è un po’ la paradossalità costitutiva di molte espressioni della vita umana: non ascolti musica né ti innamori della ragazza della porta accanto per superare una fase di depressione, ma ciò non esclude che l’abbonamento ai concerti di musica classica o l’innamoramento possano risultare terapeutici. A patto che non li affronti con attese terapeutiche. Infatti in sé stessi non sono terapie e possono mostrare risvolti rigenerativi solo se, e quando, non sono ricercati in vista di ricadute edificanti. Cerchi la bellezza per stare meglio o Platone al posto del Prozac? E’ la ricetta infallibile per non trovare né la bellezza né il benessere psichico, per non gustare Platone e per rimpiangere l’efficacia (per quanto relativa) degli psicofarmaci.

Di fronte al paradosso, bisogna imparare ad apprezzare il silenzio intuitivo: o, se si preferisce, l’intuizione che, non trovando argomentazioni adeguate, accetta di riposare nell’afasia. Il paradosso si lascia formulare solo in perifrasi inadeguate e allusive, quale potrebbe essere: la filosofia non mira al benessere psichico o alla formazione morale o alla autenticità religiosa o alla proattività politica, che infatti accadono a titolo di effetti collaterali desiderabili.

Ci inoltriamo in un sentiero di collina, fra campi appena fioriti, per respirare aria pulita e lasciarci incantare dai colori primaverili: solo dopo, qualche ora o qualche giorno dopo, ci accorgiamo che questa passeggiata ci ha reso più sopportabile l’esistenza. E, riflettendoci a posteriori, scopriamo che non ce l’avrebbe resa più leggera e piacevole se fossimo usciti da casa col chiodo fisso di voler evadere dalla grigia tristezza in cui eravamo immersi. Ecco perché, con tutto il rispetto per chi pensa diversamente e diversamente si esprime , ho imparato a dissociare nettamente il semantema “filosofare” da ogni altro vocabolo imparentato con “cura”, “formazione”, “educazione”, “pedagogia” : solo se la filosofia è filosofia (dunque viene coltivata per puro amore della sapienza e della saggezza) può, poi, essere ‘adoperata’ - addirittura anche programmaticamente -, da non-filosofi o da filosofi che si spogliano provvisoriamente dell’habitus filosofico, per dare sostanza a relazione psicoterapeutiche o per motivare all’impegno sociale degli aspiranti sindacalisti o per attrezzare dottrinariamente dei missionari in partenza per l’Africa centrale. Mi spiego meglio che posso: il filosofare come attività è per costituzione imprevedibile e non ‘applicabile’ a nessun obiettivo. Esso è anche l’insieme di prodotti di tale attività: teorie, metodi, ipotesi di spiegazione, asserzioni sull’uomo etc. Come pensiero pensante, essa è assolutamente ribelle ad ogni finalizzazione: se decidi di filosofare con un ragazzo per impartirgli la buona educazione o con un aspirante suicida per distoglierlo dal portare a compimento il suo proposito, non puoi escludere a priori che sia il ragazzo a convincerti della vacuità del galateo di Monsignor Della Casa o l’aspirante suicida della vacuità della vita terrena. Se inizi a filosofare sapendo già che non arriverai a determinati esiti, il tuo filosofare è una finzione miserevole e ridicola. Solo a posteriori potrai constatare se il confronto dialettico è risultato ‘educativo’ o ‘terapeutico’ e, soprattutto, per chi dei due interlocutori ciò si sia verificato. Quanto ai pensieri pensati, una volta prodotti, essi possono essere benissimo ‘utilizzati’ da un ideologo per costruire il programma di un partito politico o da uno psicoterapeuta per raffinare il suo sguardo sul mondo interiore del paziente: l’importante è che non si scambi l’uso del filosofato (possibile e talora utile anche da parte dei non-filosofi) con il filosofare (prerogativa esclusiva dei filosofi, con o senza laurea in tasca).
Non c’è niente di più bello di un rapporto sessuale che fiorisca in fiducia, reciprocità e alleanza: ma niente di più triste di un rapporto sessuale prima, durante e dopo il quale ci si chieda, senza smarrire neppure un attimo la coscienza di sé, quanto esso stia favorendo la nostra autorealizzazione e il nostro equilibrio psico- fisico. I mistici dicono che la preghiera più elevata e ricreatrice viene praticata dall’orante che non sa di pregare: analogamente, la filosofia più sconvolgente dal punto di vista esistenziale e più rivoluzionaria dal punto di vista politico non viene attuata da chi si prefigge l’obiettivo di stupire i borghesi o di scardinare il sistema socio-economico, quanto da coloro che sono troppo tesi a cercare significato e senso di enti ed eventi per potersi permettere di misurare col metro in mano, passo dopo passo, l’efficacia operativa della propria riflessione razionale.

Uno sguardo all’ esperienza: i colloqui privati di consulenza filosofica

Se la filosofia ‘funziona’ con efficacia trasformatrice in misura proporzionalmente inversa rispetto alle attese terapeutiche/educative/formative, possiamo aspettarci a priori che essa sia particolarmente adatta a chi si sente ‘in forma’, a chi non attraversa momenti di difficoltà umorali o di avversità oggettive: ed è precisamente ciò che ho constatato sinora nella mia esperienza di filosofo ‘praticante’. Questo dato di fatto disorienta, solitamente, chi si accosta dall’esterno al mondo delle pratiche filosofiche e, in particolare, della consulenza filosofica. La pre-comprensione generalizzata, infatti, suppone che se il filosofo vuole presentarsi come ‘professionista’ nel mercato del lavoro, può farlo solo se promette ciò che psicoterapeuti, preti, insegnanti e assistenti sociali non riescono ad assicurare. Quando qualcuno scopre che il filosofo consulenziale non è - non sa essere e non vuole essere - né un pronto soccorso né un muro del pianto, inevitabilmente le labbra si conformano a mo’ di punto interrogativo: e perché mai allora qualcuno dovrebbe bussare alla porta del vostro studio e chiedere, a pagamento, le vostre prestazioni professionali?
La risposta non è possibile o, forse, sono troppe le risposte possibili. Da caso a caso. Più che argomenti ipotetici preferirei, dunque, narrare fatti: se è ancora vero, come sostenevano i nostri medievali, che contra factum non valet argumentum. Per attenuare il disorientamento, diciamo subito che un colloquio privato è, solitamente, richiesto da chi sta male o è stato male e vuole evitare di ricascare. Se si tratta di malessere psichico in senso clinico, l’aiuto del filosofo consiste nel consigliare all’ospite di contattare un terapeuta qualificato e di precisare che il proprio servizio intellettuale - svolgendosi sul registro mentale e, per così dire, a fianco della relazione di cura - non avrà sul suo stato psichico che conseguenze indirette.
Con l’espressione generica ’stare male’ non si intende, comunque, solo la sofferenza psicopatologica: una donna in conflitto con un anziano parente; un figlio che non riesce a comunicare con uno dei due genitori separati; una studentessa alla ricerca di nuove motivazioni interiori alla fatica dello studio quotidiano; un anziano signore all’inizio del suo periodo di quiescenza dal lavoro di una vita…sono soggetti che avvertono disagi e si pongono domande esistenziali, ma non sono ‘malati’. Sono persone ‘normali’, nella misura in cui l’aggettivo ha un senso accettabile: persone qualificabili, con tutte le approssimazioni del caso, ’sane di mente’ . Esse vanno aiutate non con fantomatiche “terapie filosofiche”, bensì suggerendo come ipotesi di lavoro ciò che per noi potrebbe essere una tesi ben assodata: suggerendo di liberarsi dall’ossessione del paradigma terapeutico; dalla patologizzazione di ogni disagio e dalla conseguente invadenza della medicalizzazione. ‘Malato’ non è chi non riesce a dormire se vede franare la relazione coniugale o se non riesce a lavorare da quando il figlio ventenne è morto in un incidente stradale: se mai, lo è chi dorme tranquillo dopo una giornata di lite furibonde con la moglie o chi riesce a lavorare inappuntabilmente anche il giorno successivo al funerale del figlio. E, corrispondentemente, non c’è nessuna ragione seria per accoppiare al termine terapia ogni attività gratificante e tonificante che ci capiti di sperimentare: “danzaterapia, cristalloterapia, teatroterapia, aromaterapia, cristoterapia, ippoterapia, cromoterapia. Il mondo si è reduplicato. Una prima volta esiste per sé, una seconda come lenimento, balsamo, terapia” . Anzi: è proprio se non vengono esercitate come terapia che la danza, il teatro o la filosofia possono rivelare - per sovrappiù - effetti terapeutici. (Senza con ciò escludere che, almeno nel caso della filosofia, possa risultare ininfluente o addirittura deprimente: Hegel ha già avvertito che la filosofia non deve essere consolatrice a tutti i costi).

Uno sguardo all’esperienza: consulenza di gruppo e altre pratiche filosofiche

Sinora ho evocato alla memoria delle conversazioni in assetto duale: se esse costituissero l’unica modalità in cui si può esercitare la filosofia-in-pratica, avrebbero decisamente ragione quanti suppongono che si va da un filosofo consulente solo se si sta male (psichicamente) o se si avvertono seri problemi (esistenziali). Ma - come ha egregiamente evidenziato Davide Miccione - nell’ottica della Philosophische Praxis il dialogo uno-a-uno fra un filosofo e un suo visitatore è soltanto il terzo passo di un processo che ne presuppone altri due. Tralasciamo qui il primo (riscoprire il gusto di “pensare a partire dalla propria esistenza per tornare alla propria esistenza” ): non perché sia scarsamente rilevante, bensì proprio perché troppo radicale e decisivo da potersi solo sfiorare di passaggio. Concentriamoci, invece, sul secondo passo: “provare a pensare con gli altri, coinvolti nella ‘pratica’ del filosofare sui problemi non solo dell’ Uomo, giusta eredità di una millenaria tradizione, ma anche dei singoli uomini, attraverso incontri pubblici di conversazione filosofica che fossero il più possibile diversi dall’abituale solipsismo delle conferenze” . Ebbene, chi sono questi altri? Perché si lasciano convocare, sia a titolo gratuito sia più spesso a pagamento, dal filosofo che gli rivolge l’invito ad incontrarli? Sono necessariamente persone in sofferenza o, preferibilmente, pregne di entusiasmo vitale? Come si può etichettare quello che avviene in questi incontri pubblici?
Cominciamo a rispondere sull’identikit degli ospiti: sono persone che (a prescindere dal livello di istruzione e dall’indirizzo di studi eventualmente seguito) hanno voglia di pensare a voce alta e di esporre i loro pensieri al vaglio del pensare di altri. Si possono chiamare filosofanti o con - filosofanti? Per qualcuno sarebbe eccessivo. Allora, più sommessamente, dialoganti? Conversatori? Ragionatori? L’essenziale, mi pare, è che si mettano in gioco in quanto animali consapevoli in grado di dare ragione di ciò che asseriscono: senza, dunque, proteggersi dietro lo scudo delle (eventuali) competenze specialistiche e delle citazioni dotte. Meno che mai se, per caso, fossero laureati in storia della filosofia.
Gli “incontri pubblici” in cui un filosofo professionista incontra altri interlocutori (che non devono necessariamente essere filosofi di mestiere, anzi neppure conoscitori del lessico filosofico tecnico) sono denominabili genericamente - secondo la più volte ribadita proposta di Alessandro Volpone - pratiche filosofiche. Alcune di queste pratiche sono state battezzate sin dalla nascita ., altre rimangono prive di una denominazione più specifica . La mia opinione è che siano denominate “consulenze di gruppo” quando gli interlocutori formulano esplicitamente e programmaticamente un tema da discutere a partire da interrogativi esperienziali effettivamente avvertiti da tutti i membri della “comunità di ricerca”, o per lo meno da alcuni di loro: per esempio quando un gruppetto di medici che lavora con malati terminali chiede di confrontarsi con un filosofo sulla loro idea di morte o un gruppo di psicoterapeuti chiede di riflettere su differenze e affinità tra la psicoterapia e la consulenza filosofica o un gruppo di cittadini chiede di riflettere sulle possibili ragioni etiche di un loro maggiore impegno socio-politico o un gruppo di operai sindacalizzati chiede di riflettere su come sia stato possibile lo sterminio degli ebrei da parte di uno dei popoli più ‘civili’ del pianeta . In altri casi, però, i partecipanti ad una “pratica filosofica” non sanno, in anticipo, di cosa si tratta: sono bambini o adulti che iniziano un percorso formativo al volontariato e incontrano il filosofo perché inserito in calendario dagli organizzatori o ragazzi che esprimono, vagamente, l’esigenza di una alfabetizzazione, imparziale e corretta, sulle diverse proposte ideologico-politiche contemporanee . In tutti questi casi, nella misura in cui si fa filosofia, si è dentro una ‘pratica filosofica’: ma mi sembrerebbe fuorviante chiamarle “consulenza di gruppo”. Così come non considero “consulenze filosofiche” i numerosi appuntamenti (cenette filosofiche per…non filosofi; week-end filosofici per…non filosofi; vacanze filosofiche per…non filosofi) in cui si parte da un testo o dalla relazione di un filosofo di mestiere, i partecipanti al gruppo sanno prima di cosa si discuterà, ma non determinano l’argomento dell’incontro - o del ciclo di incontri - a partire da loro esigenze contingenti.
Ebbene, perché nell’ultimo quarto di secolo, da quando promuovo questo genere di “pratiche filosofiche” (più o meno esplicitamente ‘consulenziali’) ho riscontrato largo interesse e soddisfacente rispondenza non solo (raramente) fra persone che attraversano fasi problematiche ma anche (più spesso) che vogliono “fiorire” ? Perché la filosofia - che può anche occasionalmente essere ricercata come “consolazione” degli affanni e delle contrarietà - di per sé è il lusso della vita: è il segno della pienezza, della gioia, o per lo meno della serena allegria dell’esistere. E’ una delle poche cifre che rivelano la non-assurdità dell’essere-al-mondo. Ed è per questo che non ci sarà società giusta sino a quando non sarà data a tutti i cittadini l’opportunità di decidere se ospitare o meno la riflessività critica nella propria coscienza.

Augusto Cavadi

mercoledì 25 novembre 2009

Sulla giornata internazionale della violenza sulle donne


“Repubblica - Palermo”
25 - 11 - 09

LE NOSTRE RADICI E LA VIOLENZA SULLE DONNE

Alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza dei maschi sulle donne, le agenzie battono la notizia della morte della donna di Giarre bruciata dal marito. Ma, per fortuna, la data non passerà inosservata anche per eventi di segni opposto: a Palermo, ad esempio, dalle 16 in poi, un gruppo di associazioni animerà un gazebo al Politeama con poesie e musiche, mentre a Giurisprudenza sarà presentato alle 18 un videoteatro di Margò Cacioppo, “Contro la mattanza”, dedicato al “femminicidio”.
Che le donne si mobilitino, è ammirevole; meno apprezzabile, l’eventuale silenzio dei maschi.
Sia per motivi generali che legati al contesto meridionale. In generale, infatti, nessuna strategia culturale potrà davvero incidere nel tessuto sociale sino a quando i maschi non riusciremo a capire almeno alcune delle ragioni radicali che possono indurci alla violenza nei confronti dell’altro sesso: a cominciare dalla paura del femminile che è in noi. Se - in ascolto della mitologia antica e della psicoanalisi contemporanea - accettassimo la dimensione femminea che è parte costitutiva della nostra personalità (proprio come in ogni psiche femminile è presente una valenza maschile), ci rapporteremmo con le donne in maniera meno aggressiva, più rilassata. Non avvertiremmo l’esigenza prepotente di affermarci differenti in tutto e per tutto, anzi superiori. Proprio come facciamo, ricorrendo all’ironia anche più volgare, nei confronti dei gay e dei transessuali.

Questa riconciliazione - per dirla con Jung - del nostro animus con la nostra anima avrebbe, nel contesto meridionale, il pregio non trascurabile di intaccare la versione mafiosa del maschilismo planetario. Infatti, come ha spiegato il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino nel corso di un’intervista televisiva, <> non può essere ammesso in Cosa Nostra perché considerato <>. La cronaca registra casi sempre più frequenti di donne che occupano ruoli di responsabilità nell’ambito delle attività delle cosche: tuttavia – a parte il fatto che non si ha ancora notizia di un loro inserimento organico e definitivo – il titolo di merito che consente la loro promozione sul campo (in qualità di ‘reggenti’) è, comunque, il rapporto di parentela con un maschio (ucciso o, più spesso, incarcerato). Se perde totalmente il riferimento ad un uomo, ammesso che non venga ‘posata’, non le resta che una possibilità: dimostrare virtù ‘virili’ . Ovviamente l’aspetto duro del maschilismo è solo l’altra faccia del paternalismo che protegge – perfino da sé stessa e dai rischi della propria autodeterminazione! – la madre, la sorella, la moglie, la figlia. Forse i due secoli di dominazione araba non sono trascorsi invano: nella mentalità mafiosa c’è una strana analogia con la tesi diffusa in molti Paesi islamici, secondo la quale la donna deve vivere all’interno delle mura domestiche – o, se proprio necessario, andar fuori velata più che possibile – come effetto non di oppressione, bensì di riguardo. Ma non c’è bisogno di scavare tanto lontano nel tempo: gli ordini religiosi femminili non hanno ottenuto solo a fatica, e in secoli a noi più vicini, l’autorizzazione ecclesiastica (cioè: da parte delle gerarchie maschili) di poter uscire dalla clausura conventuale per espletare nel mondo (ospedali, carceri, scuole…) la loro missione? Le motivazioni sono sorprendentemente monotone: solo le grate ferree di uno spazio di reclusione possono salvaguardare il <> dalle minacce fisiche e dalle tentazioni morali.
Né la tanto sbandierata fedeltà coniugale, a cui il mafioso sarebbe obbligato nel doppio senso di non tradire la propria moglie e di non indurre al tradimento la moglie di un altro mafioso deve trarre in inganno. Intanto, perché si tratta di divieti ampiamente, e in certi casi persino comicamente, trasgrediti; poi perché, al di là dei casi statistici di incoerenza, è più grave che alla base dei divieti morali riguardanti il ‘rispetto’ per le mogli non ci sia neppure l’ombra di un riconoscimento convinto della dignità femminile. Se con le mogli bisogna evitare comportamenti sessuali anomali (anomali, ovviamente, rispetto a clichè di perbenismo clerico-borghese), con le amanti occasionali e con le prostitute ci si può scatenare senza remore: ma non sarebbero donne anche loro? Non molto tempo fa Gaspare Spatuzza (l’ex sicario di Filippo e Giuseppe Graviano, mandanti dell’assassinio di don Pino Puglisi) si è auto-accusato di aver fatto irruzione nella casa di una studentessa e – dopo aver legato e imbavagliato la collega con cui divideva l’appartamento – di averle praticato delle iniezioni allo scopo di procurarle un aborto: era rimasta incinta dopo rapporti sessuali con un boss.

Augusto Cavadi

domenica 22 novembre 2009

“Il foglio” parla de “Il Dio dei mafiosi”


“IL FOGLIO” 18 novembre 2009

Che faccia ha il Dio dei mafiosi
Il saggio di Cavadi spiega la teologia di Cosa nostra

di Maurizio Crippa

Fu il 9 maggio 1993 che Giovanni Paolo II scagliò nella Valle dei templi il suo anatema: “Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere!’. Nessun uomo, nessuna associazione umana, nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio”. Ci fu chi come Salvatore Grigoli, il sicario che quattro mesi dopo avrebbe ucciso don Pino Puglisi, si accorse che “da allora in Cosa nostra si cominciò a vociferare che la chiesa cominciava a essere diversa”. Ci fu chi, come il filosofo e attivista antimafia Augusto Cavadi, colse l’occasione per rivolgere al Papa un appello “sulla necessità di sciogliere gli equivoci e le connivenze fra realtà ecclesiale e sistema mafioso”. Punti di vista sul bicchiere mezzo vuoto o pieno. Sedici anni dopo, la Conferenza episcopale che si è appena riunita ad Assisi, da dove monsignor Mariano Crociata ha tuonato: “Non c’è bisogno di comminare esplicite scomuniche, perché chi fa parte delle organizzazioni criminali già automaticamente è fuori dalla comunione ecclesiale”, sembra propendere per il bicchiere mezzo vuoto.

Tanto che nel documento “Risorse e dignità del Mezzogiorno” che verrà pubblicato a inizio 2010, i vescovi scrivono: “Nel Mezzogiorno la chiesa ha mostrato di recepire in maniera disomogenea la lezione profetica di Giovanni Paolo II”. Ci sono i “martiri per la giustizia”, ma anche tanti che “sembrano cedere alla tentazione di non parlare più del problema o di limitarsi a parlarne come di un male antico e invincibile”. E invece il 2010 vuole essere l’anno della grande offensiva contro la mafia (le mafie).

Cosa pensi Dio della mafia, sembrerebbe chiaro. Cosa pensino i mafiosi di Dio è invece una questione antica, complicata. Cui si sono applicati in molti, pure il pm Roberto Scarpinato, che scrisse per MicroMega un saggio dal titolo “Il Dio dei mafiosi”. Anche perché è propedeutica a un’altra domanda chiave: cosa debba pensare la chiesa dell’antimafia (nel senso dei “professionisti dell’antimafia” di Sciascia). E’ questo il cuore pulsante del libro scritto da Augusto Cavadi – insegnante palermitano, attivista, collaboratore di Repubblica – appena uscito dalle edizioni San Paolo: “Il Dio dei mafiosi”. Una vera lettura teologica di Cosa nostra: “Questo libro vuole rispondere, essenzialmente, a una questione: come è possibile che una società cristiana – a stragrande maggioranza cattolica – partorisca Cosa nostra, ’Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita? E le partorisca non come aborti mostruosi irriconoscibili, ma come associazioni in cui tutti hanno una Bibbia. E tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino. O un’immagine di un Cristo, di una Madonna. Sono religiosissimi. E ostentano la loro devozione’?”.

Un libro interessante, a tratti divulgativo e a tratti pedante, documentato e ideologico, illuminante e un po’ deformante. Un libro in cui Scarpinato è citato il triplo di Wojtyla. Che pone però una domanda intrigante: non tanto quale “patto di non belligeranza” sussista (e certo è sussistito) tra chiesa e mafia; ma quale sia la “teologia dei mafiosi”, come organizzino il loro rapporto con il divino, il bene e il male. Insomma l’aspetto profondo, che è storico e culturale, antropologico se non (forse) teologico. Dunque non solo questione giudiziaria e politica, malaffare e procure. Ciò che davvero rende complesso e duro il fenomeno. Si inizia da constatazioni: “Tutti noi uomini d’onore pensiamo di essere cattolici, Cosa nostra si vuole farla risalire all’apostolo Pietro”, spiega il pentito Leonardo Messina. Michele Greco di sé disse: “Mi chiamano il Papa, ma io non posso paragonarmi ai papi per intelligenza, cultura e dottrina. Ma per la mia coscienza serena, e per la profondità della mia fede, posso anche sentirmi pari a loro”. Pietro Aglieri fu arrestato con tomi di teologia e un libro di Edith Stein sul comodino. Poi la questione della politica: la Dc dimentica “di quanto aveva scritto Luigi Sturzo nel lontano 1900: ‘La mafia oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma atterra anche a Roma’”. Ma sempre da lì si deve partire: dal “Festino di Santa Rosalia”, dall’antropologia del sud, dalla disamina della “religione mediterranea”.

Dal familismo amorale e dall’omertà, il feudalesimo come orizzonte giuridico, il linguaggio, “il nesso inquietante fra ‘sacro’ e ‘violenza’… Niente di strano, dunque, se dovessimo scoprire in funzione meccanismi ‘religiosi’ di controllo della violenza”. La parte più originale è proprio il capitolo “Teologia della mafia”. Non certo “una teologia consapevole e meditata”, ma certo “per un fenomeno come la mafia, privo di giustificazione intellettuale, la religione può essere considerata ‘l’unico apparato ideologico cui fare riferimento’”. Un capitolo fatto di lemmi forti: onnipotenza senza tenerezza (“Un Dio, per dirla con i mafiosi, masculiddu”, dice Scarpinato). Fino a leggere la mafia nel suo “registro lugubre” e in un approdo di “ateismo nichilista” della Weltanshauung e della Gottanschauung mafiose. Dove in causa però, curiosamente, è chiamato il cattolicesimo in quanto tale: perché è questa “la versione del cristianesimo che i mafiosi hanno conosciuto da vicino”, in cui “Dio è essenzialmente il garante dell’ordine cosmico e dell’ordine sociale”. Un cristianesimo “municipale e tribale” che, certo, è un tratto decisivo della storia del Meridione. Ma oltre la fenomenologia, ci sono nel libro un altro paio di questioni. E non riguardano più la mafia, ma la chiesa. Da un lato c’è qui l’ideologia compiuta del cattolicesimo antimafia, da Centro Padre Arrupe, potremmo dire.

La scissione della “religione borghese” dalla chiesa dei poveri, la scissione della chiesa collusa da quella purificata. Dunque l’elaborazione della colpa della chiesa-istituzione. Dall’altro lato c’è un aspetto anche più profondo. Seguendo una teologia importante – ma che certo non è quella di riferimento del documento della Cei, né quella in base alla quale Wojtyla lanciò il suo possente anatema – Cavadi sembra ritenere che sia il cattolicesimo – in sé – l’aborto di una fede tradita. La teologia nichilista della mafia non è tale in quanto “corruzione” del cristianesimo, ma in quanto, per così dire, insita nella corruzione che il cristianesimo ha subito trasformandosi da “un messaggio religioso di origine provinciale (una delle tante sette eretiche scaturite dalla tradizione ebraica) in sistema culturale organico (con una sua filosofia, una sua etica, un suo codice giuridico) affascinante, ma al prezzo di rendere quasi irriconoscibile proprio quel messaggio religioso originale”. A tutto questo si oppone, nell’ultimo capitolo, “Per una teologia ‘oggettivamente’ antimafiosa”, un’idea di fede e chiesa diversa: “Non sto ribadendo la tesi ovvia che la teologia debba demistificare la transcultura mafiosa… sto affermando la tesi, un po’ meno ovvia, che non può operare tale demistificazione, se non la tenta anche nei confronti di quelle transculture (principalmente la borghese-capitalistica e la cattolico-mediterranea) che sono così perniciosamente ingarbugliate con la transcultura mafiosa”. E allora si capisce un po’ anche cosa c’è che a volte non convince, in un certo tipo di chiesa antimafia: è che non solo vuole combattere la mafia, vuol combattere anche la chiesa. Per una Sicilia senza mafia, serve un Dio “senza antropomorfismi”. Ditelo a Scarpinato. Ma anche a Papa Ratzinger.

© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO

Maurizio Crippa

lunedì 16 novembre 2009

A Palermo giovedì 19 per l’amore
e a Bagheria venerdì 20 per...


Come già comunicatovi precedentemente, giovedì 19 novembre alle 17,45 - presso il salone della Chiesa valdese di via Spezio (alle spalle del teatro Politeama) - Alessandro Esposito e Stefania La Via presenteranno il mio “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore” (edizioni Petite Plaisance, Pistoia 2009). La cantattrice Rosalia Billeci, accompagnata dal musicista Nicola Marchese, inserirà degli intermezzi recitativi e cantati.
Il giorno dopo, venerdì 20 novembre alle ore 17.30 - a Villa Cattolica, Bagheria - si terrà la presentazione del mio libro “Il Dio dei mafiosi” (edizioni San Paolo, Milano 2009). Ne discuteranno Francesco M. Stabile (storico della Chiesa) e Maurizio Padovano (docente al Liceo Classico F. Scaduto di Bagheria).

domenica 15 novembre 2009

IL DISPREZZO DEL PROFESSORE


Repubblica – Palermo 15.11.2009

Elio Giunta
IL DIRITTO AL DISPREZZO
Edizioni Ila-Palma
pagine 75
euro 10

Senza dubbio intrigante l’idea di partenza: un anziano professore scrive una sorta di lettera aperta, sui grandi temi attuali, ai suoi “illustri ex allievi” (come il magistrato Ignazio De Francisci, l’onorevole Leoluca Orlando o il senatore Marcello dell’Utri). E la scrive dal punto di vista di un “intellettuale” convinto che suo compito non è principalmente di schierarsi con questo o quel partito, ma di promuovere ogni iniziativa, da qualsiasi organizzazione sociale provenga, mirata “all’integrità della persona umana e alla evoluzione del suo benessere e della sua libertà“. Intrigante l’idea, dicevo; ma, tutto sommato, un po’ deludente l’effettiva realizzazione. Quando Elio Giunta in questo suo Il diritto al disprezzo. Cosa pensa la gente della politica parla di tecnologia ed economia di mercato, di partitocrazia o di disoccupazione giovanile, le sue considerazioni scivolano senza graffiare.
Il discorso si modula su un registro più stimolante là dove parla del potere culturale - reale o presunto - in Sicilia. Ne ha per tutti (dai defunti come Sciascia e Guttuso ai viventi come Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, Elvira Sellerio e compagnia varia), ma il tono delle denunce è troppo acceso (a tratti livoroso) per non sollevare qualche dubbio su possibili risentimenti soggettivi. Che non aiutano certo l’oggettività delle analisi.

venerdì 13 novembre 2009

PER PROMUOVERE DAVVERO COOPERAZIONE INTERNAZIONALE


“Centonove” 13.11.09

LA COOPERAZIONE POSSIBILE

Nel 1977 il cancelliere tedesco Brandt ha lanciato - con un suo celebre “Rapporto” - l’idea di un Nord del mondo che, trasferendo nel Sud capitali finanziari e competenze tecniche, riducesse gradualmente la distanza fra le due parti del pianeta. Come osserva Tonino Perna nella sua efficace prefazione al bel volume di Mauro Cereghini e Michele Nardelli (Darsi il tempo. Idee e pratiche per un’altra cooperazione internazionale, EMI, Bologna 2008), si trattava di un’idea che “aveva una sua forza e un suo senso”, ma anche “un suo limite profondo: un’idea di sviluppo globale che partiva dall’Occidente per diffondersi nel resto del mondo, esportando modelli di consumo e sistemi produttivi che - come è stato dimostrato - hanno più impoverito che portato beneficio alle comunità locali”. Che fare a questo punto? Sbaraccare le numerose Ong (Organizzazioni non governative) che, negli ultimi quarant’anni sono sorte come funghi per attuare la politica della cooperazione internazionale? Oppure mantenerle in piedi come “progettifici”, privi delle originarie motivazioni etiche e politiche, tanto per tamponare - sia pur minimamente - la disoccupazione dei giovani occidentali?

La proposta di Cereghini e Nardelli va in una terza direzione: una cooperazione di comunità che non sia “qualcosa di altro e aggiuntivo rispetto alle attuali forme di solidarietà internazionale, ma un modo di rivederle radicalmente”. Più esattamente e più concretamente: “In un mondo interdipendente non può esserci più cooperazione unilaterale: o si cambia insieme o non si cambia. Dunque i cooperanti devono ritornare anche animatori del proprio territorio, oltre che esploratori e facilitatori in quello altrui. E riscoprire il valore della parola e dello sguardo, per una conoscenza approfondita che preceda e accompagni qualsiasi azione sul campo”. In altri termini, più sintetici, i due autori - che scrivono a partire da una ricca esperienza operativa, soprattutto nella ex-Jugoslavia martoriata dalla guerra - propongono una “cooperazione come relazione, cambiamento reciproco”.
Ma che c’entra questo progetto con il titolo del libro, intelligente nei contenuti quanto gradevolmente raffinato nello stile? E’ presto detto: per realizzare questa inversione ad U, questa ‘con-versione’, bisogna imparare a “darsi il tempo…Fermarsi a riflettere, non farsi travolgere dal rincorrere gli eventi, le emergenze, le scadenze; capire ciò che accade ma anche il senso dell’agire dentro gli avvenimenti. E’ un tempo difficile da ritagliare, immersi come siamo nel delirio del fare. Così, mentre cresce il disprezzo verso la parola, abbiamo deciso di darci il tempo per ragionare. E a raccontare il valore della relazione, la gioia e l’incertezza dell’incontro, la bellezza del sedersi e parlare”. Solo così si potrà sperimentare “un altro approccio alla solidarietà internazionale, troppo ferita da fretta e superficialità”.

martedì 10 novembre 2009

Per conoscere il fondatore della Croce Rossa internazionale



Recensione di “L’Italia a pezzi” di Antonio Roccuzzo


“Repubblica - Palermo” 8.11.09

Le virtù di Reggio Emilia, i vizi di Catania

Antonio Roccuzzo
L’ITALIA A PEZZI (Edizioni Laterza, pagine 154, euro 15,00)

Il progetto risorgimentale - “L’Italia è fatta, bisogna adesso fare gli italiani” - si è realizzato? Antonio Rocccuzzo, in L’Italia a pezzi. Cosa unisce Catania e Reggio Emilia, dà una risposta spiazzante: la unificazione culturale, etico-sociale, degli italiani è ancora da venire. E quella sinora realizzata - sul piano dei profitti - è avvenuta in nome del peggio. Due città-simbolo (Reggio Emilia e Catania) vengono analizzate da otto punti di vista: lo stato dell’informazione, la condizione degli immigrati, il dominio mafioso, le attività imprenditoriali, il volto dello Stato, la memoria storica dei cittadini, la vita politica. Punto per punto, con vivacità di linguaggio e precisione di dati, Roccuzzo dimostra che in Italia la differenza di redditi e della qualità dei servizi risulti fra le più gravi e preoccupanti fra le nazioni del mondo industrializzato: il Nord importa manodopera, burocrazia e professori dal Sud, ma non vi esporta civiltà e sviluppo reale”. E’ anche vero che “sotto le cifre delle ‘due Italie’ vive una nazione fondata sull’evasione fiscale al Nord e sul lavoro nero al Sud, ma soprattutto si agita un’economia criminale che già costruisce un solo paese sommerso, brutto, sporco e cattivo”. Insomma, i due mondi diversi e distanti rischiano di unificarsi proprio grazie alle energie peggiori del Paese: grazie a quel “flusso enorme di denaro sporco che è l’unica vera liquidità circolante, e non più solo nel Sud, soprattutto in tempo di recessione economica. Un fiume di euro illegali che rischia di ‘meridionalizzare’ l’Italia”.
Augusto Cavadi

lunedì 9 novembre 2009

Per un volontariato critico: seminario da giovedì 12 novembre


Care cari,
gli amici di “Siciliantica” mi hanno invitato a tenere il primo seminario di una serie di incontri formativi.
Vi riporto qui di seguito il programma con le note tecniche per l’iscrizione.
Cordialmente
Augusto

SICILIANTICA SEDE DI PALERMO
SOPRINTENDENZA DEL MARE

Seminario: VOLONTARIATO ASSOCIAZIONISMO BENI CULTURALI

PROGRAMMA

Giovedì 12 Novembre 2009 - ore 16,30
Presentazione:
Sebastiano Tusa, Soprintendente del mare
Alfonso Lo Cascio, Presidenza Regionale SiciliAntica
Volontariato: le ragioni dell’impegno
Augusto Cavadi, Scuola di formazione etico-politica
‘Giovanni Falcone’

Giovedì 19 Novembre 2009 - ore 16,30
Associazionismo e Beni Culturali
Assunta Lupo, Dirigente Assessorato regionale Beni Culturali

Giovedì 26 Novembre 2009 - ore 16,30
Il ruolo delle Associazioni nella gestione dei Beni
Culturali
Claudio Paterna, Dirigente Assessorato regionale Beni
Culturali

Giovedì 3 Dicembre 2009 - ore 16,30
La tutela dei Beni Culturali: l’esperienza dei Trusts
inglesi
Ciro Cardinale, Facoltà di Scienze Politiche -
Università di Palermo

Giovedì 10 Dicembre 2009 - ore 16,30
Tavola rotonda: Associazionismo e futuro dei Beni Culturali
Umberto Balistreri, Presidente nazionale G.R.E.
Giuseppe Costa, Rappresentante Archeoclub d’Italia
Leandro Janni, Presidente regionale Italia Nostra
Giuseppe Lo Porto, Presidente regionale SiciliAntica
Giulia Miloro, Presidente Regionale FAI
Gianfranco Zanna, Responsabile regionale Beni Culturali
Legambiente

Note tecniche
- Le lezioni si terranno presso la Soprintendenza del mare,
Via Lungarini - Palermo.
- Alla fine del Corso verrà rilasciato un attestato di
partecipazione.
- Per iscrizioni: SiciliAntica, Vicolo Palagonia
all’Alloro, 12 - Palazzo Palagonia
(traversa di Piazza Marina) Palermo. (Martedì e
Giovedì dalle 16,30 alle 19)
Tel. 346.8241076. E-mail: palermo@siciliantica.it
Contributo segreteria euro 20 (comprende il volume di Augusto
Cavadi: ‘Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia’).

giovedì 5 novembre 2009

Mercoledì 11 novembre alle ore 21,00 riprendono...


...le serate teologiche per non teologi.
La partecipazione è gratuita.
Unica condizione: prenotarsi presso di me, anche telefonicamente (3338.4907853) e procurarsi una copia del mio volume in lettura “In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani” (editore Falzea, Reggio Calabria 2008).

Vi aspetto giovedì 19 novembre 2009,
ore 18, a Palermo...


...nel Salone della Chiesa Valdese di Palermo (via Spezio, alle spalle del Teatro Politeama) per la presentazione del mio libro *Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore* (edizioni Petite Plaisance, Pistoia 2009).
Ne discuteranno con me un amico (il pastore valdese Alessandro Esposito) e un’amica (la docente di letteratura italiana Stefania La Via).

martedì 3 novembre 2009

Da giovedì 5 novembre 2009 “filosofia per non filosofi”


INCONTRI DI FILOSOFIA PRATICA
PER … NON FILOSOFI

Giovedì 5 novembre 2009 “Non è meglio evitare di cercare il senso della vita?” conduce Augusto Cavadi filosofo consulente riconosciuto “Phronesis”

Luogo: Cesmi (Centro studi di medicina integrata), via Dante 153
(091-9820468).

Data: Ordinariamente il primo ed il terzo giovedì di ogni mese
(tranne eccezioni che si comunicano alla fine dell’incontro
precedente e sul sito del Cesmi: www.cesmipalermo.it).

Orario: La sessione di pratica filosofica inizia puntualmente
alle 21,00 e termina alle 22,30.
Se non per motivi gravi ed eccezionali, si prega di arrivare
fra le 20,45 e le 20,55 in modo da non disturbare.

Condizioni di partecipazione: La partecipazione è aperta a tutti i soci del Cesmi (quota associativa annuale euro 100,00) e comporta un contributo di euro 5,00 per ogni sessione (da versare di volta in volta all’ingresso del Cesmi).
E’ possibile la partecipazione anche a persone interessate non iscritte al Cesmi: in questo caso la quota per ogni incontro è di euro 8,00.

Metodologia: Al termine di ogni sessione, la “comunità di ricerca” individua un interrogativo filosofico che la intriga (cos’è la coerenza etica? Sino a che punto si può rispettare la legalità? Che atteggiamento assumere nei confronti degli stranieri? …) che sarà affrontato nell’incontro successivo. Il filosofo professionista non ha alcun ruolo ‘magisteriale’: deve solo moderare, o stimolare (secondo i casi), la riflessione personale e la interazione fra i partecipanti (preferenzialmente: cittadini che non si occupano per mestiere di filosofia).
Chiunque può chiedere, e ottenere, la parola. Purché intervenga con stile filosofico. Dunque con stile:
* spregiudicato. In filosofia non si può dare nulla per scontato: non si può presupporre che gli altri diano per ovvia qualche credenza (religiosa, morale, politica, scientifica o d’altro genere);
* dialettico. In filosofia si può sostenere qualsiasi tesi, purché non ci si limiti ad esternare stati d’animo soggettivi o slogan: occorre argomentare la propria opinione, “rendere ragione” di ciò che si sostiene;
* sincero. In filosofia la motivazione essenziale dovrebbe essere la passione per la verità: dialogando con gli altri si dovrebbe evitare di sostenere ciò di cui non si è intimamente convinti;
* amichevole. In filosofia non ci sono avversari, ma compagni di strada: non ha senso intervenire polemicamente, per difendere animatamente una propria ‘posizione’ o per imporla ad altri a scopi di proselitismo o di propaganda.

Augusto Cavadi svolge attività di consulenza filosofica individuale su appuntamento. Inviare la richiesta all’indirizzo di posta elettronica info@cesmipalermo.com