domenica 21 febbraio 2010

Omaggio al cantastorie Pino Veneziano


“Repubblica-Palermo”
21.2.2010

IL CANTASTORIE DI SELINUNTE

Augusto Cavadi

Il volto è asciutto, duro, intensamente mascolino. Ma nel fondo degli occhi c’è qualcosa di tenero e di ridente, non solo quando è fotografato con la chitarra in mano e Luis Borges accanto. Così il “cuntastorie” siciliano Pino Veneziano (1933 - 1994) è raccontato dalle foto del libro Di questa terra facciamone un giardino a cura di R. Pollina e U. Leone (Coppola editore, Trapani 2009, pp. 74, euro 15,00, con CD incorporato). E così lo raccontano i versi delle sue canzoni: schietti e doloranti, talora persino violenti. Soprattutto quando gridano la rabbia dei braccianti (nativi di ieri, immigrati di oggi) contro i loro sfruttatori: “Vulemu tuttu chiddu chi facemu! /Vulemu tuttu chiddu ch’è nostru! Lu vostru?/ Vi lu lassumu:/ tantu è nenti!”. I curatori del “tributo a Pino Veneziano” si augurano che la sua indignazione al cospetto di ingiustizie antiche e di malaffari recenti possa diventare il grido di protesta della “sua” Selinunte, “offesa dal tentativo di cementificazione incombente” che “reclama di potere mantenere ciò che ha: il suo mare e la sua costa dove vengono a riprodursi le tartarughe marine, la pesca tradizionale delle sardine, la sua vegetazione, i suoi templi e le sue tradizioni agricole e marinare”.

Ma chi è stato questo conterraneo e contemporaneo di Ignazio Buttitta e di Ciccio Busacca, “picaro e gitano, dalla vita tormentata come quella di Rosa Balistreri”, che solo alle soglie dei quaranta anni poté imbracciare la sua prima chitarra? Che mette sulle labbra di straccioni in corteo per la casa parole di fuoco e di tenerezza (”Vulemu la casa! /Picchì l’omu senza casa, / l’acidduzzu senza nidu,/ lu babbaluci senza scorcia, / lu cunigghiu senza tana,/ su comu li pisci senza lu mari”)? Il ritratto emerge, quasi mosaico, da sette contributi: da Vincenzo Consolo (che, fra l’altro, nota “l’ironia del caso” per cui Pino, “autenticamente popolano”, portava lo stesso cognome del colto e grande poeta dialettale cinquecentesco Antonio Veneziano, l’autore de La Celia, dalla vita tormentata anch’egli, che ebbe la ventura di essere stato compagno di prigionia in Algeri di don Miguel de Cervantes”) a Gaetano Savatteri (a giudizio del quale la voce di Veneziano “fa affiorare l’incanto delle notti stellate, la risacca del mare, le poche case affacciate sulla spiaggia, la forza selvaggia di una natura che prendeva il sopravvento perfino sulle rovine antiche”) e ad Ascanio Celestini (secondo cui il “cantante-artista” siciliano non “fece musica”, ma volle “fare attraverso la musica”). E poi ancora le testimonianze di Rocco Pollina, anch’egli musicista e cantautore, che evoca “il suo dialetto siciliano tagliente come un coltello”; del compagno di lavoro al ristorante sul mare, Gaspare Giglio detto Jojò, che ricorda le visite di Danilo Dolci e di suoi illustri ospiti come Primo Levi; di Enrico Stassi, regista dello spettacolo teatrale dedicato alla vita di Pino Veneziano; di Piero Nissin, ‘produttore’ dell’unico disco (Lu patruni è suverchiu) inciso da Pino ed edito con una Nota di copertina firmata dal poeta Ignazio Buttitta (”Pino, alla potenza della voce, aggiunge la forza drammatica. Un catastorie che fa politica, e la sublima con la poesia. Gli argomenti sono la verità cantata da popolano a popolano, senza inganni. I padroni non sono necessari, le guerre nemmeno; le case sono necessarie: perché un coniglio senza tana, un uccello senza nido, sono come i pesci senza mare, dice”); di Umberto Leone, promotore dell’Associazione dedicata al suo amico scomparso di Selinunte, “un pezzo di colonna, una roccia di quel mare. La continuazione dell’arte e della sapienza di tanta bellezza”. Ed è proprio Leone a rievocare le esibizioni improvvisate dell’amico - dalla “faccia da gitano che sembrava scolpita dal libeccio e dallo scirocco” - davanti a “Lucio Dalla (quando cantava Itaca) e Fabrizio De André (quando cantava Amico fragile), il quale ultimo lo volle come spalla al suo primo concerto in Sicilia”.
Il libro è corredato da un cd in cui i testi e le musiche di Veneziano sono interpretati da vari artisti: Peppe Barra, Roy Pace, Umberto Leone, Palermo Art Ensemble, Etta Scelfo, Sud Sound System, Pippo e Rocco Pollina, Enrico Stassi, Officina Zoè, Moni Ovadia, Clara Salvo, Matilde Politi, Gabriele Zampigno & KSM, Mondorchestra, Michela Musolino. In una delle canzoni-poesie più note, l’autore consegna il nocciolo della sua travagliata lezione: “Chissa è ‘na terra ca nni duna aranci,/ chissa è ‘na terra ca nni duna vinu,/ si nni po’ fari un beddu jardinu,/ ma cca cu havi li guai si li chianci”. Come a dire: la natura è stata generosa con i siciliani, ma i siciliani non lo sono con sé stessi. Affrontano le difficoltà della vita con pazienza, ma individualisticamente: non sanno mettersi insieme, reagire collettivamente. Non sanno rispondere politicamente alle disgrazie inevitabili né alle malefatte evitabilissime. Certo, sarebbe storicamente scorretto attribuire questa incapacità di aggregazione politica a chi sa quale malformazione genetica dei siciliani: come ha ricordato più volte Umberto Santino, ci sono state nella storia momenti di grande mobilitazione popolare (come i Fasci siciliani di fine Ottocento o le lotte per la terra a metà Novecento). La reazione dei potenti, fiancheggiati quasi sempre dalle armi dello Stato e dei mafiosi, è stata però così dura da far marcire in galera i più attivi, costringere i più svegli a fuggire via e incidere a lungo nella memoria e nella psiche delle generazioni successive.

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Dal primo contributo, di Vincenzo Consolo

“Si sono perse le voci, e per sempre, dei poeti e dei cantori popolari di Sicilia, così come d’ogni altra regione o plaga di questo nostro paese, di questo nostro mondo d’oggi, assordato dai clamori imperiosi della violenza e della stupidità. Voci, quelle, umane e melodiose che davano voce ai sentimenti e ai pensieri di un popolo, un popolo che gioiva, soffriva dell’esistenza, soffriva della storia. Una catena sonora, quella popolare della Sicilia, che affondava l’origine sua nel più remoto tempo, nel tempo greco degli aedi e dei lirici. ‘La discendenza del canto popolare siciliano dalla musica greca dell’epoca classica è una proposizione indiscutibile’ scrive il musicologo Ottavio Tiby. Greco sì, il canto popolare siciliano, su cui però è passata la nenia lenta e profonda del deserto, del canto arabo vogliamo dire. il ‘borghese’ Alessio Di Giovanni, di Cianciana, per aver sentito una notte un carrettiere cantare il malioso canto che iniziava con il distico ‘ Lu sunnu di la notti m’arrubbasti:/ ti lu purtasti a dòrmiri cu tia’, si convertì al radicalismo dialettale, a scrivere tutte le sue opere, poesie e romanzi, in siciliano. Canto arabo dunque, andaluso e gitano, che dall’Andalusia moresca passò in Sicilia e nel Napoletano, parole e suoni, quelli del canto popolare siciliano, che di generazione in generazione si tramandavano e si ricreavano, una musica popolare che fecondava e rinnovava la musica dotta “.

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