domenica 28 marzo 2010

Un contributo sereno, e discutibile, alla bioetica


Speranza ‘in vitro’
Augusto Cavadi

Luciano Sesta
L’ORIGINE CONTROVERSA
Phronesis 2009
pagine 620
euro 20

Tra le recenti innovazioni bio-tecnologiche, la fecondazione in vitro risulta fra le più affascinanti ed inquietanti: motivo di speranza per coppie infeconde ma anche occasione di sperimentazioni strampalate su commissione di opulenti capricciosi. Come affrontare gli interrogativi che essa comporta? Il teatrino della politica offre sguaiati conflitti a colpi di clave ideologiche, ma nel mondo della ricerca (medica ed etica) non mancano tentativi di ragionare con calma e desiderio costruttivo. Il voluminoso studio del giovane docente di bioetica Luciano Sesta (L’origine controversa. Un’indagine sulla fecondazione in vitro) costituisce una convincente esemplificazione di questa volontà di confronto serrato, ma non polemico. Con apprezzabile onestà intellettuale, egli avverte sin dalle prime pagine che la sua ricerca intende procedere al di là degli schieramenti pregiudiziali, senza però fingere di essere “neutrale”: è infatti condotta nell’ottica di un cattolico consapevolmente credente. Ma di un cattolico che, pur prendendo posizione, “evita di farlo frettolosamente e con uno spirito puramente apologetico”, accettando di “misurare la plausibilità delle proprie tesi attraverso un sincero e paziente confronto con quelle altrui”. E con l’intento di superare la barriera, troppo comoda per essere vera, fra “cattolici” e “laici”: dogmatismo e senso critico, infatti, si distribuiscono in maniera equamente trasversale.

giovedì 25 marzo 2010

LA PAROLA LAICO


Ci facciamo una bella ragionata?
“La Cittadella”
Marzo 2010

UNA BELLA RAGIONATA ?

Da bambino non sapevo di cosa si occupasse effettivamente il ragioniere Giovanni Camilleri, ma il titolo con cui veniva appellato mi spingeva (più d’una volta, a quanto poi mi raccontò negli anni successivi) a chiedergli: “Ragioniere, ce la facciamo una bella ragionata?”.
Quando gli amici della redazione de “La cittadella” mi hanno invitato ad aprire una rubrica per i lettori, il ricordo infantile mi è riemerso. Non so bene il motivo. So solo che ho pensato di trarne il titolo del nostro spazio di dialogo: che vorrebbe essere, appunto, l’angolo in cui chiunque voglia - adolescente o adulto, istruito o meno - possa provare a ragionare su fatti, eventi e personaggi.
Ma cosa intendo per “ragionare”? Semplice: preoccuparsi non solo di affermare una propria opinione, ma anche di argomentare - di portare ragioni - a sostegno della propria opinione (e, se necessario, di mostrare la fragilità delle opinioni contrarie alla propria).

Di che cosa mi piacerebbe che i lettori - in questo cantuccio del periodico di Capaci - ragionassero (con me e fra di loro)? Di tutto ciò che sta davvero a cuore a ciascuno di loro. Per uno sarà un dilemma etico (”è giusto accettare una raccomandazione se è l’unico modo per ottenere un posto?”), per un altro una questione internazionale (”continuare a spedire truppe italiane in Afghanistan o richiamarle in patria?”); per una sarà un interrogativo sentimentale (”amare una persona che non ti ricambia per nulla è vero amore?”), per un’altra una domanda suggerita dal contesto locale (”come si può contrastare l’abusivismo edilizio sulle coste del palermitano?”).
I messaggi - con i vostri interrogativi, le vostre tesi, i vostri commenti, le vostre critiche rivolte a quanto scriverò io stesso o scriveranno gli altri lettori - potranno essere spediti o via internet (acavadi@alice.it) o per posta (Augusto Cavadi, presso associazione “La Cittadella”, E.L.I.O.S - via Risorgimento 35 - Capaci: ovviamente a questo indirizzo potranno anche essere imbucati a mano direttamente).
Cercheremo di discutere, senza tabù, di qualsiasi argomento: ad una sola condizione. Che da ciascun intervento traspaia un atteggiamento di ricerca, un desiderio di confronto, uno stile di rispetto per chi la pensa diversamente: in una parola - che spero non scoraggerà nessuno - un animo filosofico. Già, perché la filosofia non è solo una materia scolastica che si studia in alcune scuole medie superiori e in alcune facoltà universitarie: anzi, quasi sempre, purtroppo, la “filosofia” come disciplina di studio si riduce a “storia della filosofia” (cioè ad imparare che cosa hanno pensato uomini illustri nei secoli precedenti). Ma la filosofia è anche e soprattutto pensiero personale, critico, aperto alla pluralità dei punti di vista. E’ pensiero curioso di sottoporre le proprie idee all’esame degli altri, senza dogmatismi e senza fanatismi. Così intesa, la filosofia può abitare nella stanza di studio di un intellettuale; ma può anche esserne scacciata e ritrovarsi a suo agio, invece, nella bottega di un ciabattino o nel salone di un barbiere. Non tutti siamo filosofi di professione, ma tutti e tutte possiamo svegliare il filosofo che dorme nel nostro animo e dargli l’opportunità di manifestarsi. Vogliamo provarci? A nuotare non si impara sui manuali di nuoto, ma nuotando; così, a filosofare, non si impara sui libri, ma filosofando. Per cominciare, non è necessaria la laurea o il diploma: necessario è solo il gusto di farsi “una bella ragionata”.

Augusto Cavadi

LA PAROLA LAICO


“Migrazioni”, dicembre 2009

La parola ‘laico’

Le parole, come ogni essere che vive, hanno lo strano destino di mutare - secondo le epoche e secondo i contesti - in maniera sorprendente. Il vocabolo ‘laico’ è un’ottima esemplificazione di questo destino generale. Nonostante oggi, nel linguaggio dei media, lo si adoperi essenzialmente in opposizione a ‘credente’, ‘religioso’, ‘confessionale’, la sua origine pare sia squisitamente cristiana. Etimologicamente, infatti, laico è colui che appartiene al popolo (in greco, laos): più esattamente, al ‘popolo di Dio’. Sarebbe bello riscoprire e custodire questo prezioso significato originario ! Tu non puoi essere suora cattolica o pope ortodosso o pastore protestante se non in quanto - prima di tutto ed essenzialmente - sei un ‘laico’: un membro del popolo di Dio in cammino nella storia, un seguace del Salvatore e un fratello degli altri condiscepoli. In questo senso, negli anni Sessanta del secolo scorso, un teologo cattolico progressista proponeva - non senza un pizzico di provocatorietà - che si abolissero tutti gli altri titoli onorifici e ci si salutasse, tra parrocchiani di un borgo di montagna come fra cardinali del Concistoro, solo con un “Eminentissimo laico!”.
Ma cosa è successo, invece, storicamente nella cristianità? Nel Medioevo si è andata configurando una dicotomia che, per il Nuovo Testamento, sarebbe risultata incomprensibile: alcuni ‘laici’ restano ‘laici’, altri ‘laici’ ritengono che il loro ‘ministero’ presbiterale (letteralmente: da membri più ‘anziani’, più autorevoli) li collochi su un piano radicalmente differente - e superiore - rispetto al resto del ‘popolo di Dio’. Assistiamo dunque ad una prima grande metamorfosi del significato originario: ‘laico’ è, nel linguaggio teologico medievale (sostanzialmente immutato all’interno della terminologia in uso nella Chiesa cattolica romana e nelle Chiese acefale ortodosse), il battezzato che non è ‘prete’ né ‘vescovo’ né ‘papa’. Essere ‘laici’ significa non essere stati ammessi alla gerarchia sacerdotale (nei suoi tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato): non aver ricevuto, mediante il sacramento dell’ordine, un ‘carattere’ che rende ‘ontologicamente’ irriducibili rispetto alla semplice base. E poiché un certo numero di preti sceglie di vivere in maniera monacale (sino al XII secolo) o in confraternite (da san Domenico e da san Francesco in poi), per una sorta di estensione vengono considerati ‘non laici’ anche gli uomini e le donne che rinunziano alla vita nel mondo e ‘professano’ i tre voti di obbedienza (ai ’superiori’), castità celibataria (intesa come rinunzia radicale ad ogni attività sessuale) e povertà (concepita come rinunzia radicale ad ogni diritto di proprietà privata).

Come è noto, Lutero e gli altri riformatori hanno contestato questa suddivisione ‘ontologica’ fra battezzati-laici e battezzati-chierici, ripristinando una figura di pastore puramente ‘funzionale’. Ma, intanto, almeno in Italia e in altri Paesi a maggioranza (ufficialmente) cattolica, avveniva una seconda metamorfosi del vocabolo. Per una serie di ragioni storiche che sarebbe complicato richiamare, ‘laico’ inizia a significare non più solo ‘non-chierico’ (né consacrato mediante ‘voti’) ma, tout court, ‘non-cattolico’ e (poiché non si tiene conto della presenza, sia pur minoritaria, delle altre chiese diverse dalla cattolica romana) ‘non-cristiano’. Questa, grosso modo, la situazione attuale a cui ho fatto riferimento all’inizio. Ma ci possiamo accontentare del linguaggio dominante? Dobbiamo rassegnarci a intendere per ‘laicità‘ una sorta di neutralismo delle idee e di indifferentismo etico? O non dobbiamo provare a rivisitare il vocabolo, e a modificarne il significato, per evitare che le imprecisioni linguistiche fomentino la confusione delle idee e dei comportamenti pratici?
La proposta che comincia a circolare negli ultimi decenni, e con la quale concordo, è di intendere la ‘laicità‘ non in antitesi a qualche altra dimensione antropologica bensì in sé stessa: come costellazione di atteggiamenti quali la curiosità intellettuale, la ricerca senza pregiudizi, il confronto sincero con le posizioni altrui, la tolleranza ed anzi la valorizzazione delle tradizioni diverse dalla propria…Così intesa, la laicità è compatibile con ogni convinzione religiosa: cattolica, ortodossa, protestante, ebraica, islamica, buddhista, induista, taoista, confuciana, animista, agnostica, atea.
L’unica incompatibilità che può oscurare, o addirittura azzerare, la laicità è costituita dunque da un complesso di atteggiamenti mentali e comportamentali quali la chiusura verso il diverso, la diffidenza verso il nuovo, la rigidità fondamentalistica, la banalità conformistica, il dogmatismo atterrito dalle obiezioni che lo possono mettere in crisi…E’ del tutto evidente che, se si accetta questa interpretazione, è possibile trovare non solo veri laici fra credenti ma anche perfetti bigotti fra i non-credenti. Da quello che ne possiamo sapere, Socrate o Gesù di Nazareth sono stati dei ‘laici’ indomabili; Erode o Stalin dei bigotti a tutto tondo. E, se è lecito azzardare un accenno ai nostri giorni, cattolici come Ignazio Marino o valdesi come Paolo Ferrero danno prova di laicità di gran lunga più limpida di “atei devoti” come Silvio Berlusconi o Marcello Pera.

Augusto Cavadi

LA POLITICA REMA CONTRO


“Le voci del villaggio”
Febbraio 2010 - anno 3 - n° 5

LA POLITICA REMA CONTRO
Nello scorso numero abbiamo inaugurato una nuova rubrica per chi ami entrare nel cerchio dei Vip (”Vivere in pienezza”). Il titolo dello spazio che abbiamo a disposizione per dialogare (non so se qualche lettore lo ricorda) è “Alla ricerca della felicità“. In attesa che qualcuno di voi si faccia avanti - con una lettera, con una e.mail, con un sms, con una telefonata o con un piccione viaggiatore - riprenderò la conversazione avviata e aggiungerò un piccolo mattoncino.
Il tema della prima puntata riguardava la felicità: uno stato complessivo della persona e della società in cui è inserita che nessun Pil può illudersi di misurare. Oggi ci chiediamo: da chi dipende la nostra felicità? Ci sono molte risposte errate. Per esempio dire che dipende dai politici, dai giudici, dai poliziotti, dai sindacalisti…Non è vero: nessun contesto sociale, istituzionale, può darmi la felicità. Bisogna allora dire che le condizioni economiche, giuridiche e culturali in cui ci capita di trascorrere il breve segmento della nostra esistenza sul pianeta sono irrilevanti per la felicità di ciascuno di noi? Anche questa opinione, a mio avviso, sarebbe errata. Non si può essere felici in un contesto di ingiustizie, censure, inquinamento. Neanche se, per un caso o un privilegio della sorte, fossimo personalmente indenni dalle conseguenze brutali dell’ingiustizia, delle limitazioni alla libertà e della brutalizzazione dell’ambiente naturale.

Insomma: i politici possono impedirci di essere felici, ma non possono darci la felicità. Guai se un governo si mette in testa di creare il paradiso in terra! Come è stato osservato già da qualche altro, di solito riesce solo a preparare un poco invidiabile inferno. Il compito degli amministratori pubblici è ben preciso: niente di meno - ma anche niente di più - che creare le condizioni oggettive perché ciascuno di noi possa perseguire la propria felicità soggettiva.
Come costruire, allora, la nostra felicità personale (nei limiti in cui ce lo consente la situazione sociale, collettiva, storica)? Non ci sono ricette, ma - se ce ne fosse una - gli ingredienti sarebbero davvero numerosi. Per oggi ne accenno solo ad uno (probabilmente condizione indispensabile per poter aggiungere tutti gli altri): il gusto della consapevolezza. Per essere felici bisogna sapere ciò che si vive: ciò che si fa, ciò che ci accade, ciò che siamo e ciò che diventiamo. La maggior parte della gente vive evitando di pensare proprio a ciò che significa la parola - semplice e terribile, affascinante e impegnativa - vivere. Ma così si preclude ogni possibilità, anche solo improbabile, di godere a pieno dell’esistenza: delle sue sorprese, delle sue avventure. Come ha scritto una pedagogista di Bruxelles, Helene Schidlowsky, non dobbiamo privare né noi stessi né i nostri bambini della “felicità di pensare”. Lo so bene: non è tutto. Lo so bene: non si può essere felici se a trent’anni si è alla ricerca della prima occupazione; se a quaranta si è in cassa integrazione; se a cinquanta si rischia giorno per giorno il pensionamento forzato; se a sessanta non si hanno i soldi per fronteggiare i primi acciacchi della vecchiaia…Lo so bene: la felicità di pensare non è tutto. Ma sono convinto che tutto il resto ha senso, ha valore, se si basa su questa nostra capacità di silenzio, di ascolto di noi stessi e del mondo. Sono convinto che una vita senza riflessione, senza lettura, senza meditazione è una vita sprecata: ma voi siete d’accordo?

Augusto Cavadi

lunedì 22 marzo 2010

Le regole del duello (per fortuna ormai tramontate)


22 Marzo 2010
“Repubblica - Palermo”
21.3.2010

Augusto Cavadi

C. La Carrubba - V. Timmonieri

IL TEMPO DEI DUELLI

Bonanno
pagine 123
euro 12

Il tempo dei duelli di Carmelo La Carrubba e della moglie Vittoria Rimmonieri, è un libro di difficile catalogazione (saggio storico, raccolta di interviste e anche brandello di memoria familiare) che scorre sul filo di un crinale: tra il merito di riscattare dall’oblio una pratica secolare come il duello e il rischio di farlo con un occhio troppo benevolo e poco critico. Dall’Iliade di Omero e dal “giudizio di Dio” degli Unni nel Medioevo, sino agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, passando per la novella Cavalleria rusticana di Girolamo Rovetta, l’istituzione ‘duello’ cambia modalità, regole, motivazioni culturali…ma resiste.
Lo stesso Vitaliano Brancati - apprendiamo non senza sorpresa - “scese sul terreno due volte a Roma per motivi giornalistici e una volta a Catania con un ufficiale con cui aveva avuto un diverbio al Caffé Lorenti, sembra per un apprezzamento non benevolo sulla gracilità del suo fisico”. Per fortuna, però, un personaggio-chiave della storia recente, il maestro di scherma Pasquale Timmonieri (deceduto agli inizi degli anni Ottanta, di cui gli autori sono rispettivamente genero e figlia), dopo aver combattuto egli stesso diversi duelli, arrivò alla decisione di rifiutarsi di preparare gli sfidanti dei duelli, cercando di differenziare in maniera più netta “la cultura cavalleresca dei duelli, il senso dell’onore e il risentimento della vendetta” rispetto alla “pratica sportiva e l’agonismo della scherma”.

venerdì 19 marzo 2010

La versione integrale della lettera del sen. Capodicasa


Il mio secondo articolo su “Repubblica” era basato su due lettere indirizzate al Redattore capo di Palermo e trasmessemi in via confidenziale dallo stesso Redattore per consentirmi di elaborare una risposta sintetica e conclusiva della polemica.
Il senatore Angelo Capodicasa ha adesso fatto pervenire al mio indirizzo personale copia della sua lettera chiedendomi di pubblicarla integralmente nel mio blog: cosa che faccio volentieri (una volta che sono direttamente in possesso del suo testo) per dare anche ai miei “venticinque lettori” la possibilità di farsi un’idea più completa.
Ringrazio intanto Capodicasa di aver accettato di interloquire sulle accuse rivoltegli da Arnone. A differenza di altri lettori del mio blog (che hanno preferito commentare anonimamente - diciamo pure vigliaccamente - il mio primo intervento su “Repubblica”), l’ex presidente della Regione siciliana preferisce il confronto pubblico, a carte scoperte. Forse, a chi non mi conosce personalmente, potrà sembrare strano; ma sarei felice, come elettore del centro-sinistra, scoprire che almeno Capodicasa sia differente dall’immagine che ne dà Arnone sul suo libro.
***
Caro Augusto Cavadi,
nell’articolo di venerdì cinque marzo, nel tentativo di decifrare il mio atteggiamento rispetto al contenuto di un libercolo pubblicato da Arnone, il cui titolo, chissà perché, la inquieta tanto, sciorina dotte nozioni di storia della democrazia che forse sarebbe stato meglio riservarsi per cose più importanti.
Secondo lei, che evidentemente non conosce bene i trascorsi dell’autore, egli con questo libro ci avrebbe fatto compiere un balzo avanti nel progresso democratico “provando ad attraversare il confine tra la barbarie e la civiltà” (sic!).
Sempre secondo lei sui contenuti del libro possono esprimersi solo dei magistrati per gli aspetti penali (ma quali?) e gli storici ( addirittura!) per gli aspetti etici.
Ora, a parte il fatto che non si comprende cosa c’entrino gli storici con gli eventuali aspetti etici (semmai gli storici dovrebbero, penso, accertare la veridicità dei fatti), mi pare che le faccia difetto una certa lucidità nel porsi di fronte a cotanto problema, sia pure, da “semplice cittadino” com’ egli afferma di essere.

“Come cittadino - afferma infatti– che osserva e cerca di capire, posso solo avanzare il sospetto che Arnone quando elenca fatti e nomi (…) non stia inventando nulla”.
Ho apprezzato la finezza: lei non dice che le cose scritte da Arnone la convincono e le sembrano vere. No, lei “avanza il sospetto” che possano essere vere. E ci risiamo di nuovo: il “sospetto come anticamera della verità” (… la storia non insegna mai nulla ).
Lei afferma, però, che può ammettere che Arnone “dica menzogne o esageri nel raccontare verità storiche” ma, in nome della democrazia, ritiene che gli accusati dovrebbero, in ogni caso, rispondere dando una propria versione dei fatti.
Noi abbiamo una concezione un tantino diversa della democrazia. L’esercizio della democrazia credo non contempli piazzate, risse, com’è nello stile di Arnone. Non contempla quella sorta di inversione dell’onere della prova – questa sì sarebbe barbarie - a cui lei si richiama, finendo per dare dignità ad un cumulo di menzogne, ricostruzioni di comodo, manipolazione dei fatti.
Altra cosa è il dibattito ed il confronto, anche aspro, che richiede lealtà e buona fede.
Lei ritiene che vi siano aspetti che mi riguardano meritevoli di chiarimenti da parte mia? Me li indichi, riceverà risposte puntuali.
Mi indichi la sede e le modalità, se vuole anche private, in cui questo possa avvenire. Come, del resto, ho già fatto con quanti me l’hanno richiesto e nelle sedi in cui mi è stato possibile farlo; come la Commissione Nazionale di Garanzia de PD, dalla quale sono stato audito, su mia richiesta, qualche settimana fa.
Come si vede, nessun muro eretto a difesa di non so quale inconfessabile verità. Solo un po’ di compostezza e di dignità che, di questi tempi, in politica non guasta.
In ultimo, non posso fare a meno di sottolineare l’improponibilità dell’accostamento con la vicenda che oppose L’Ora all’on. Lima, fatto nell’intento di rafforzare il suo ragionamento.
Questo richiamo costituisce, a mio avviso, prima ancora che un infortunio, un insulto al glorioso giornale L’Ora.
Infatti, in quel caso a fare domande ad un politico che veniva considerato il perno del sistema mafioso, era un “Signor Giornale” diretto da un “Signor Direttore” che rispondeva al nome di Vittorio Nisticò.
Qui a chi ci si chiede di rispondere? A un pluricondannato per diffamazione, che ha già collezionato ben oltre di una mezza dozzina di condanne, di cui un paio già definitive?
Dovremmo rispondere ad un soggetto che come accertò la DDA di Palermo, in un atto giudiziario, nell’ambito di un’inchiesta a suo carico per concorso esterno in associazione mafiosa, essere stato a “libro-paga” di imprenditori all’epoca indagati e poi effettivamente condannati per mafia?
Oppure di chi ha sostenuto, con pubblici comizi, contro il candidato del centrosinistra, candidati del centrodestra strettamente imparentati con riconosciuti boss mafiosi, condizione personale questa solitamente considerata gravissima dall’Arnone per i suoi avversari del momento?
Del resto a chi dovremmo rispondere? Ad uno che, ad oggi, non è come dice lei un “noto dirigente Regionale del Pd” ma uno che è stato messo fuori dal partito con un provvedimento della Commissione Regionale di Garanzia, per aver violato lo Statuto ed il Codice Etico del Pd? Provvedimento, tra l’altro, confermato di recente dalla Commissione Nazionale di Garanzia.
Un soggetto in evidente debito di credibilità, che cerca di rifarsi una verginità ed alla disperata ricerca di accreditamenti e di visibilità.
Mi fermo qui per carenza di spazio. Ma se poi lei preso dal dubbio volesse approfondire di più, siamo a sua totale disposizione ed ho motivo di ritenere che alla fine cambierà opinione sia sul libro che sul suo autore.
Grato per l’ospitalità.
Angelo Capodicasa

La “decrescita felice” sbarca a Palermo


LA SCHIAVITU’ DEL CONSUMISMO

“Repubblica - Palermo”
19.3.2010

E’ possibile vivere felici? Non è raro trovare un guru che - dietro compenso di qualche centinaio di euro - è disposto a confidarti la ricetta giusta. Qualche sera fa il salone del Centro studi della chiesa valdese di Palermo era gremito di pubblico convocato - gratuitamente - per discutere dell’interrogativo: ma, a proporre la risposta, nessun santone né profeta. C’era Maurizio Pallante, economista e sociologo, il più noto e impegnato teorico della “decrescita” in Italia.
Sulla scia della sua ultima pubblicazione (La felicità possibile, Rizzoli, Milano 2009), ha riflettuto criticamente sull’identificazione - dogmaticamente condivisa - fra “beni” (prodotti e servizi) e “merci” (oggetti di scambio monetario), sostenendo che ci sono beni che non sono merci (un mare pulito, un’aria respirabile, un clima di fiducia reciproca in una comunità, dei gesti di solidarietà gratuita, i doni…) e merci che non sono beni (tabacco, cocaina, eroina, auto di cilindrata eccessiva rispetto ai limiti massimi di velocità…). La sua tesi è di una semplicità disarmante: come individui e come società saremo più felici, o meno infelici, se (in barba al PIL, prodotto interno lordo) sapremo tagliare le merci che non sono beni e incrementare i beni che non sono merci.
Pallante (che - a dire di Beppe Grillo - “ha il gusto della provocazione, ma anche il pallino della concretezza. Non si limita a criticare, propone anche”) ha offerto una serie dettagliata di esemplificazioni: tra processo di trasformazione e uso finale, una lampadina a incandescenza disperde il 95% dell’energia; per ricavare una bistecca di manzo da un etto, occorrono tremila litri di acqua; se rimaniamo ogni giorno imbottigliati nel traffico, perché non usare i mezzi pubblici? Se una famiglia — anziché acquistare frutta e verdura costosa perché proveniente dalla parte opposta del pianeta — coltiva un orto, mangia alimenti più freschi e risparmia.
Non sono mancati i riferimenti al nostro territorio. Per esempio la chiusura della Fiat a Termini Imerese. Già nel 1972 (un anno prima della crisi petrolifera mondiale) a Torino sono stati ideati e realizzati i “microrigeneratori”: dei piccoli motori domestici che producono energia e calore e che potrebbero risolvere il problema dell’esaurimento delle scorte petrolifere (oltre che dell’inquinamento ambientale). Ebbene, oggi non è la Fiat in Italia ma la Volkswagen in Germania a decidere di convertire molti stabilimenti dalla produzione di automobili (il cui mercato è saturo) alla produzione di microrigeneratori (la cui diffusione potrebbe rendere del tutto superflua la costruzione di pericolose centrali nucleari). Nel dibattito fra imprenditori privati, sindacati e governo questa ipotesi di riconversione industriale non circola minimamente: a riprova dell’ignoranza che caratterizza il livello medio dei ceti dirigenti attuali.
Le associazioni che hanno invitato Pallante a Palermo non intendevano avere soltanto idee-guida generali né si sono accontentate di indicazioni tecniche più in dettaglio: hanno deciso, inoltre, di aprire anche in città un “circolo della decrescita felice” che possa servire da agente permanente di traduzione delle acquisizioni teoriche in stile di vita personale e in provvedimenti legislativi e amministrativi efficaci. In una fase di rassegnazione alla banalità delle idee e allo squallore dei comportamenti privati e pubblici, non è certo da sottovalutare la preziosità di una prospettiva utopica (o, per lo meno, ideale) che si basa - come tutte le rivoluzioni che hanno avuto un qualche impatto nella storia - su un’idea semplice: i consumi compulsivi sino allo spreco (senza i quali il sistema capitalistico attuale si incepperebbe) non danno un grammo della gratificazione ricavabile da relazioni umane significative, fondate sulla sobrietà e sulla reciprocità anziché sull’ostentazione del benessere e la competitività.

Augusto Cavadi

lunedì 15 marzo 2010

Le risposte del deputato Capodicasa e del senatore Crisafulli


“Repubblica - Palermo”
12. 3. 2010

LE RISPOSTE CHE ASPETTAVAMO A QUEL PAMPHLET INFUOCATO

In un intervento di alcuni giorni fa (Quel pamphlet infuocato e lo strano silenzio del PD) mi chiedevo come mai due leader del maggiore partito di opposizione in Sicilia, apertamente accusati - in un libro dell’avvocato Giuseppe Arnone - di metodi clientelari e di relazioni spericolate con ambienti mafiosi, mantenessero un’assordante afasia. Sia il senatore Vladimiro Crisafulli che l’onorevole Angelo Capodicasa hanno scritto a “Repubblica” per rappresentare la ragione del loro atteggiamento, almeno apparentemente, indecifrabile: le accuse verrebbero - per riprendere le parole dell’ex presidente della Regione - da “un ex iscritto messo fuori dal partito dalla Commissione regionale di garanzia per aver violato lo Statuto e il codice etico del Pd”; anzi da “un soggetto in evidente debito di credibilità, che cerca di rifarsi una verginità e alla disperata ricerca di accreditamenti e di visibilità“;.
Francamente non saprei dire se questo giudizio su Arnone (del quale l’esponente del PD si assume in esclusiva la responsabilità) legittimi il loro sdegnato silenzio o, al contrario, ne renda ancor meno comprensibile la mancata reazione, in sede sia politica che giudiziaria. Se qualcuno (a maggior ragione se da me poco stimato) mi contestasse apertamente dei comportamenti illeciti, o immorali, non esiterei a scegliere fra la risposta documentata o la denunzia per diffamazione. Ma forse ha ragione l’onorevole deputato agrigentino quando scrive: “mi pare che a Cavadi faccia difetto una certa lucidità nell’interpretare il mio silenzio” e “temo che abbia una concezione originale della democrazia, sicuramente diversa dalla mia”.
Divergenze a parte (di cui non sono del tutto sicuro di dovermi rammaricare), preferisco in positivo registrare, comunque, un dato incoraggiante: la dichiarazione di Capodicasa di mettersi “a totale disposizione di chi - preso dal dubbio o dalla curiosità - voglia approfondire di più″ (così come ha già fatto “nelle sedi in cui gli è stato possibile farlo - come la Commissione Nazionale di Garanzia del Pd, dalla quale, su sua richiesta, è stato audito”). Una buona notizia, direi: da oggi anche i potenziali, comuni elettori del centro-sinistra sanno che a ogni loro domanda (purché avanzata senza il minimo riferimento al “libercolo” di Arnone, falsato da “cumulo di menzogne, ricostruzioni di comodo, manipolazione dei fatti”) sarà data, democraticamente, una risposta articolata (con “lealtà e buona fede”, a debita distanza da “teppismo politico, bullismo, piazzate e metodi da rissa”).

Il senatore Crisafulli va ancora oltre: non solo evoca chiarimenti rilasciati nel passato e ne promette per il futuro, ma li riassume già nel presente. Spiega infatti, a proposito dell’episodio più inquietante dell’indagine giudiziaria a suo carico, di aver accettato e non chiesto il colloquio con l’avvocato Bevilacqua, da lui conosciuto “per essere stato consigliere provinciale nello stesso Consiglio di cui anch’io facevo parte”, e di averlo accettato pur sapendo che, “come è capitato a tanti altri politici tutt’ora in attività“, “era coinvolto in una vicenda giudiziaria per Mafia”; che, nonostante tali disavventure, “nessuno avesse consapevolezza del ruolo di cui, anni dopo, la magistratura accuserà Bevilacqua” (il quale dunque restava una personalità “con cui tutti parlano”); che comunque, dalle intercettazioni ambientali, risulta che lo stesso Crisafulli non solo non ha “acceduto alle richieste del Bevilacqua”, ma lo ha anche apostrofato con il suo “consueto linguaggio colorito”; che, alla fine, il PM ha ritenuto queste risposte “talmente esaustive da chiudere le indagini” in soli “sei mesi” (”l’archiviazione più veloce della Repubblica in materia di Mafia”). Conclude il senatore: “Per questa vicenda ho pagato politicamente, poiché alle elezioni del 2004, in cui intendevo concorrere, si decise di non candidarmi. Cos’altro dovrei rispondere ad Arnone?”.
Come ho sostenuto con chiarezza nel mio pezzo, non mi riconosco il compito di entrare nel merito delle dispute: mi sembra rilevante, però, dal punto di vista del metodo, che anche i due illustri esponenti del centro-sinistra si dichiarino convinti che, in democrazia, ci si parla. E che, soprattutto Crisafullli, abbia accettato di iniziare a farlo. Ognuno può scegliersi i luoghi, i modi, gli strumenti e i tempi che preferisce: ma non gli interlocutori. Se dovessimo fare “l’analisi del sangue” a chi ci critica pubblicamente prima di decidere se rispondere, rischieremmo di dover rispondere assai raramente. Né, in quei rari casi, saremmo sicuri di aver scelto le persone giuste.

Augusto Cavadi

venerdì 12 marzo 2010

GADAMER SENZA SEGRETI


”Centonove”, 12.3.2010

GADAMER SENZA SEGRETI

Una studiosa di Piazza Armerina esplora uno dei pensatori più originali e potenti del XX secolo

Hans Georg Gadamer è uno dei più noti pensatori del XX secolo: secolo che egli - nato nel 1900 e morto nel 2002 - ha attraversato interamente. Ha scritto molto e i suoi scritti - soprattutto il capolavoro “Verità e metodo” - danno da pensare non solo ai filosofi di professione ma anche ai lettori ‘comuni’. La pubblicazione di un recentissimo saggio (”Autobiografia e tradizione in Hans Georg Gadamer. La questione dell’esserci nella postmodernità“, Sciascia, Caltanissetta 2009) dedicatogli di un’attenta studiosa siciliana, Alessandra Tigano, offre l’occasione per evidenziare qualcuna delle idee nuove di cui possono giovarsi anche quanti non sono del mestiere e si avvicinano alla filosofia per la motivazione più adatta: la passione personale.
Cominciamo da una prima tesi cruciale di Gadamer: “L’appartenenza del soggetto alle tradizioni non è più un limite che pregiudica e ostacola la conoscenza storica. Anzi, è una delle condizioni della comprensione”. E’ una tesi di rilievo che, a mio parere, comporta qualche luce e qualche ombra. Luce: non nasciamo al mondo come se fossimo ogni volta il primo scimmione o la prima scimmia. Senza una tradizione (che significa una lingua, un insieme di categorie concettuali, di credenze, di abitudini, di rapporti, di istituzioni…) non sapremmo neppure comunicare fra noi. Ma questo significa che un testo di tremila o di duemila anni fa non lo posso comprendere se non inserendomi nell’alveo interpretativo che promana da lui e giunge sino ai miei giorni? L’ermeneutica, prima di interessare i testi letterari e i codici giuridici, si è occupata di Bibbia. Oggi sappiamo che molte espressioni bibliche sono state clamorosamente fraintese dalla tradizione ecclesiastica che le ha interpretate in maniera insostenibile con il loro significato etimologico originario. Possiamo - in forza delle nuove competenze esegetiche - rimettere in discussione la lettura tradizionale o ne dobbiamo restare prigionieri? Possiamo rifondare, anche su punti cruciali, la nostra lettura della Bibbia o, siccome da duemila anni la comunità cattolica l’ha letta in un certo modo, non mi è concessa altra interpretazione se non quella diventata ‘canonica’? Onestamente, con tutto il rispetto per Gadamer e per i gadameriani, ritengo che abbiamo il diritto, anzi il dovere, di rinnovare le nostre interpretazioni per sintonizzarci con ciò che veramente ci dice la Bibbia (a prescindere, poi, se siamo credenti o meno; dunque a prescindere dalla nostra adesione o dal nostro dissenso rispetto a ciò che davvero intendevano proporre gli autori dei libri ’sacri’). Utilizzando in altro contesto una formula del teologo latino-americano Gutierrez, direi che non possiamo sottrarci ad una “memoria sovversiva”. “Memoria”: dunque legame con la storia, ascolto del passato, riconoscenza verso le radici; ma “sovversiva” perché aperta al futuro, al novum, alla libertà e alla creatività. Alessandra Tigano fa dunque bene, dunque, a sottolineare che “al soggetto è consentito oltrepassare la tradizione”, che egli ha “l’opportunità di rielaborare e, quindi, anche di negare, attraverso la logica interpretativa, la sua appartenenza identitaria”: “il soggetto non resta irretito nella tradizione, anzi vi si contrappone, vi agisce decostruendola e ricostruendola, sempre però in modo aperto, senza arroccamenti e integralismi”.

Ma passiamo ad un’altra tesi fondamentale di Gadamer. Egli, come sintetizza ancora l’autrice di questo saggio, ha voluto contestare l’identificazione, operata dal “pensiero filosofico moderno”, della “verità con l’oggettività assicurata dal metodo scientifico perdendo di vista l’esistenza di esperienze extrametodiche di verità che si danno nell’arte, nella storia e nel linguaggio”. Qui si impone un interrogativo: Gadamer sostiene che la scienza è necessaria ma insufficiente oppure che la scienza, oltre ad essere parziale, è anche dannosa? Se sostenesse la prima tesi, sarei del tutto d’accordo con lui: non si può vivere di solo pane scientifico-tecnico. Ci vuole anche ogni altra parola che esce dalla bocca dell’uomo: fuor di metafora, abbiamo bisogno di altre esperienze di verità (l’intuizione del poeta o del mistico o dello stesso buon senso comune…). Shakespeare parafraserebbe: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quanto ne contenga la nostra metodologia scientifica”. Qualora, al contrario, Gadamer sostenesse la seconda tesi, dissentirei nettamente: la conoscenza scientifica non è un pericolo da cui tutelarmi. Lo è lo “scientismo”, cioè la filosofia (spesso implicita, irriflessa) di chi pensa che la scienza sia assoluta: la scienza in sé è innocente, anzi proficua. Chi vuole procedere ‘oltre’ la scienza mi avrà per compagno, ma non sarò mai disposto a lottare ‘contro’ la scienza. La Tigano fa dunque bene a non fermarsi a Gadamer, a lasciarsi guidare da un altro grande pensatore del Novecento: Paul Ricoeur. Egli “non interrompe il dialogo filosofia-scienza”, “va ‘oltre’ la vecchia diatriba tra scienze dello spirito e scienze della natura”. La scienza (e la tecnica) hanno un ambito di indagine e di intervento; la filosofia (e le arti umanistiche) hanno altri territori. Entrambi servono, entrambi sono imperfetti. Ricoeur lo ha mostrato anche a proposito della “cura” per chi soffre. Chiunque ha avuto, o mantiene, contatti con malati terminali lo sperimenta: serve la scienza, serve l’approccio dialogico; ma entrambi si rivelano inadeguati di fronte all’enigma. Lo “spirito di geometria” e lo “spirito di finezza” non possono che arrendersi di fronte alla fragilità dell’uomo, alla sua finitezza: sia i nostri metodi analitici che il nostro intuito umanistico vanno mobilitati al cospetto dei morienti, ma senza dimenticare che sono comunque risorse di mortali.

Augusto Cavadi

giovedì 11 marzo 2010

Ci vediamo a Palermo sabato 13 marzo alle ore 20?


La Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo
in collaborazione con il Cesmi (Centro studi di medicina integrata)
organizza
un incontro di riflessione e di discussione
con ALBERTO GIOVANNI BIUSO
sul tema

“Mente e corpo nell’epoca dell’intelligenza artificiale:
un intreccio inestricabile”

L’iniziativa è suggerita dalla pubblicazione dell’ultimo volume di A. G. Biuso:

“La mente temporale. Corpo Mondo Artificio”, Carocci, Roma 2009, pp. 271, euro 27,50.

L’appuntamento è per le ore 20,00 di sabato 13 marzo 2010
presso la nuova sede
della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”
in via Principe Belmonte 47
(all’altezza della statua di Ignazio Florio).

PS: L’incontro inizierà puntualmente alle ore 20 e si concluderà alle 21,30.

Se qualcuno volesse prolungare la conversazione in trattoria dovrebbe prenotarsi
non più tardi di 48 ore prima
presso Augusto Cavadi (acavadi@alice.it oppure 338.4907853).

martedì 9 marzo 2010

Il “re della Kalsa” si laurea in filosofia. Tesi su Gandhi


“Centonove”
5 . 3. 2010

QUEL FILOSOFO DI UN BOSS

La notizia può risuonare sorprendente, ma solo per chi ha un’idea erronea della mafia: Masino Spadaro, ex “re della Kalsa” di Palermo, ergastolano di 72 anni, si è laureato al carcere di Spoleto. Non solo: si è laureato in filosofia. Non solo: si è laureato in filosofia con una tesi su “La nonviolenza e i fondamenti della religione in Gandhi”.
Se valutata con i parametri abituali - che prevedono l’immagine folcloristica del mafioso come pecoraio corredato da coppola storta e lupara - la notizia si presta a battute ironiche più o meno divertenti: dopo decenni di filosofi che si comportano da mafiosi (qualsiasi studente di un ateneo meridionale può redigere una lunga lista di nomi !), finalmente qualche mafioso che si atteggia a filosofo…Per non sottolineare una nota di attualità: dopo la fine esternazione di Berlusconi (”Strangolerei tutti quelli che scrivono di mafia”), che ha forse dissuaso qualche intellettuale a occuparsi di mafia, non ci resta che rallegrarci se qualche mafioso si occupa di filosofia. Così, almeno, abbiamo qualche speranza che non si spezzi definitivamente ogni dialogo fra mondo della cultura e mondo della criminalità organizzata…

Ma se abbiamo un’idea un po’ più corretta della mafia - quale forma associativa di cui alcuni criminali si servono per acquisire e mantenere ruoli sociali di preminenza - la notizia non può stupirci. Anzi, essa conferma tre o quattro tesi che da molti anni fanno parte del patrimonio comune di quanti studiano il fenomeno con oggettività scientifica.
La prima tesi che mi pare confermata è che il mafioso non è necessariamente di estrazione proletaria né, tanto meno, di intelligenza mediocre. Il sociologo Franchetti, già nell’Ottocento, aveva descritto i mafiosi siciliani come “facinorosi della classe media”: dunque, come tradurranno ai nostri giorni Mario Mineo e Umberto Santino, come criminali o appartenenti alla borghesia o desiderosi di appartenervi. Ma per raggiungere e difendere questa collocazione sociale privilegiata il mafioso deve possedere un discreto grado di istruzione o, almeno, di intelligenza che gli consenta di valutare la competenza dei professionisti, tecnici, consulenti…di cui si circonda. Non è un caso che un erede del patriarca di Riesi, Di Cristina, fosse laureato in legge o che i figli di Riina studiassero, anche durante la latitanza, in scuole di prestigio. Lo stesso don Masino Spadaro ha dato altre volte prove di arguto senso dell’umorismo: per esempio quando, cercando di sfuggire dalla barca strapiena di sigarette di contrabbando ad una retata della Finanza, fu raggiunto ad un tavolino del bar di Villa Igea ancora inzuppato d’acqua (”Sto prendendo un aperitivo. E’ forse vietato dalla legge?”) o quando ebbe a dichiarare ai giudici di essere “l’avvocato Agnelli della Kalsa: do da lavorare ai miei concittadini come la Fiat a Torino”). Ecco perché, quando nel corso di un’intervista radiofonica mi fu chiesto come vestissero i mafiosi e soprattutto che faccia avessero, mi fu spontaneo rispondere con una frase che risultò paradossale: “Vestono come tutti gli altri cittadini, solo un po’ più ricercatamente. Se poi si vuole avere un’idea del loro volto, basta assistere ad una seduta qualsiasi dell’Assemblea regionale siciliana…”.
C’è modo e modo di studiare. Si può usare lo studio come mero strumento di elevazione sociale e di operatività professionale; oppure come risposta a un’esigenza interiore di chiarezza mentale e di orientamento esistenziale. Ci si aspetterebbe che mafiosi e persone del loro giro studiassero solo discipline ‘utili’ (come l’economia aziendale o le tecniche militari o il diritto penale); invece neppure il mafioso rinunzia a coltivare una propria consapevolezza e a ricercare il senso di ciò che vive. Così, gratuitamente: solo perché ha voglia di capire. Ci si dimentica troppo spesso - e qui siamo ad una seconda tesi - che il mafioso, esattamente come il magistrato impegnato in prima linea contro la mafia o come il cittadino ‘medio’ un po’ qualunquista che si illude di poter tenersi equidistante da mafia e antimafia, è prima di tutto una persona umana: nessun reato, nessun merito professionale, nessuna vigliaccheria morale ci definiscono esaurientemente. Ognuno di noi è una donna o un uomo: punto. Poi è anche una donna o un uomo che persegue progetti di predominio o di liberazione, di morte o di cura, di pace o di guerra. Questa la ragione radicale per cui non riesco a stupirmi quando leggo che nel covo di Pietro Aglieri si trovano testi della filosofa tedesca Edith Stein e in quello di Giuseppe Falsone traduzioni dal greco di dialoghi platonici.
Ma quando si comincia a leggere si entra in un mare senza piste prefissate e senza barriere rigide. Ecco perché sarebbe davvero da inesperti supporre che un prete non debba mai leggere Marx o un marxista non debba mai leggere Nietzsche o un mafioso non debba mai leggere Gandhi. In questo caso l’avvocato Carlo Catuogno spiega il titolo della tesi di laurea alla facoltà di Lettere e filosofia di Perugia, prescelto dal suo assistito, come segno di un ravvedimento morale (”Spadaro ha iniziato un percorso che ne ha fatto una persona diversa”); ma anche se questa conversione etica non avesse avuto luogo, perché meravigliarsi? Forse che, se fosse rimasto un protagonista della “industria della violenza”, non avrebbe avuto motivo di studiare la teoria della nonviolenza (esattamente per le stesse ragioni per cui anche quelli che non sono convinti che ogni uomo sia lupo per l’altro uomo possono decidere di approfondire le idee di Hobbes)? Qui mi pare che trovi conferma una terza tesi (non proprio scontata nell’immaginario collettivo): il mondo dei mafiosi è uno spicchio del mondo sociale e, come questo, non si lascia ridurre a letture univoche. E’ un mondo plurimo dove c’è un po’ di tutto: esattamente come nel resto della società. Quando parla un politico o un imprenditore di successo si può separare, con un colpo di spada netto, ciò che viene affermato con convinzione da ciò che si dichiara per secondi fini? Ritengo di no. Per questo anche nelle scelte di un mafioso nessuno - forse neppure lui - sa veramente cosa ci sia di autentico o cosa di falso. Quanto sinceramente è interessato Don Masino a Gandhi? Esattamente quanto Luciano Liggio a Socrate: “Penso che dobbiamo cercare l’equilibrio fra la materialità e la spiritualità che c’è in ognuno di noi. Vivere tutti i momenti in forma integrale, non rinnegando mai il male che c’è in noi e non esaltando mai il bene che c’è in noi. Ho letto Socrate., uno che ammiro perché come me non ha scritto niente. Ho letto i classici. E poi storia, filosofia, pedagogia. Ho letto Dickens, Dostoevskij, Croce. Mi sono occupato per due anni di sociologia. Ma mi ha deluso. Dà la diagnosi dei mali sociali ma non li cura”.

Augusto Cavadi

venerdì 5 marzo 2010

Crisafulli e Capodicasa, Bersani e Bindi: nulla da dichiarare?


“Repubblica - Palermo”
5.3.2010

QUEL PAMPHLET INFUOCATO E LO STRANO SILENZIO DEL PD

Una differenza decisiva fra i conflitti tribali e le battaglie politiche è l’uso della parola pubblica: nella preistoria della democrazia si cerca di eliminare tacitamente l’avversario, nei regimi civili lo si sfida ad argomentare razionalmente le sue scelte. Neppure in Sicilia il confronto aperto, con dati e deduzioni alla mano, costituisce la regola: tranne rare eccezioni, siamo ancora al tempo in cui il quotidiano “L’Ora” elencava accuse gravissime a Salvo Lima e questi opponeva, imperturbabile, il suo muro di silenzio. In questi giorni un noto esponente del PD siciliano, Giuseppe Arnone, sta provando ad attraversare il confine tra la barbarie e la civiltà. Ha infatti pubblicato un libro dal titolo inquietante (Chi ha tradito Pio La Torre?) e dal sottotitolo ancor meno equivoco (Relazione per Bersani e Rosy Bindi sulla questione morale nel PD in Sicilia).
Diciamolo subito: pamphlet come questo possono essere valutati o nel merito o nel metodo. Dal punto di vista del merito, dei contenuti, ritengo che solo i magistrati (per gli aspetti penali) e gli storici (per gli aspetti etici) abbiano le competenze necessarie ad esprimersi. Come cittadino, che osserva e cerca di capire, posso solo avanzare il sospetto che Arnone, quando elenca fatti e nomi, soprattutto a proposito di Mirello Crisafulli e di Angelo Capodicasa, non stia inventando nulla né stia calcando la mano per rappresentare vicende e personaggi a tinte più fosche della realtà.

Ma, ammesso che Arnone dica menzogne o esageri nel raccontare verità storiche, non sarebbe il caso che gli interessati (accusati di gravi scorrettezze “sotto il profilo politico e morale”) rispondessero punto per punto con una propria versione? Al di là del merito di questo libro di denuncia, è il metodo che va attentamente valutato: la scelta di combattere a viso aperto, senza ricorrere a sussurri e pettegolezzi, a congiure di palazzo e colpi di mano. La scelta di appellarsi all’opinione pubblica - in particolare agli elettori di centro-sinistra - trattata non come gregge che deve fidarsi di questo o di quel capopopolo, bensì come pluralità di soggetti pensanti in grado di comportarsi conseguentemente.
L’autore sa benissimo che operazioni così trasparenti, a cui non siamo ancora abituati, sono soggette a critiche di ogni genere (che hanno il pregio di esonerare chi dissente dall’onere della confutazione dettagliata…): soprattutto alla obiezione che “possa danneggiarsi il Partito e che sia necessario, piuttosto, concentrarsi sulla battaglia contro il centrodestra”. Ma sa pure che la strategia di far finta di non vedere può andare bene solo per qualche caso isolato e poco preoccupante: non quando la corruzione in una organizzazione partitica rischia di diventare sistemica (per estensione) e letale (per gravità). “Se il gruppo dirigente nazionale e regionale del PD ritiene di non intervenire per mettere in discussione logiche e presenze come quelle di Crisafulli ad Enna”, o di Capodicasa ad Agrigento, “la gente perbene, la gente libera, tendenzialmente si tiene a distanza di sicurezza e magari, se e quando decide di avvicinarsi, viene prontamente scacciata via. Purtroppo, in politica, la moneta cattiva scaccia via costantemente quella buona”: così Arnone. Se ha torto, Crisafulli e Capodicasa hanno il dovere, oltre che il diritto, di difendersi e di contrattaccare. E la loro reazione sarebbe un contributo ad innalzare il livello di democrazia in Sicilia. Se questa reazione non dovesse registrarsi - e con la stessa dovizia di documenti e di ragionamenti - né la dirigenza nazionale del PD dovesse assumersi le responsabilità conseguenti, la previsione di Arnone troverebbe amara conferma: “non vi sarà nessuno che vorrà avvicinarsi a quel partito con la seria intenzione di rinnovarlo”.

Augusto Cavadi

Ci vediamo a Palermo sabato 6 marzo alle 9,30?


Care amiche e cari amici,
come alcuni di voi già sanno è in atto un processo di bilancio critico (e di rilancio progettuale) dell’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica ‘ G. Falcone’ ” di Palermo.
Dopo un primo incontro informale abbiamo pensato di convocare una riunione più ampia di tutti coloro che, a qualsiasi titolo, abbiano voglia e tempo da dedicare alla ripresa delle iniziative di ricerca, di discussione e di divulgazione pubblica che in questi 18 anni la Scuola di formazione etico-politica ha svolto in centinaia di occasioni e mediante tutti gli strumenti di diffusione del pensiero cui ha avuto accesso.
Oltre le adesioni individuali che abbiamo sinora raccolto ce n’è una (di Gabriella Pravatà) a nome un’associazione con cui da qualche anno alcuni di noi collaborano fattivamente (il Cesmi: Centro studi di medicina integrale): ovviamente speriamo che sia solo la prima di una lunga serie di cooperazioni sinergiche con altre realtà associative cittadine e siciliane, dal momento che è tipico della nostra storia intrecciare rapporti di collaborazione con chiunque voglia far crescere la democrazia e la partecipazione civile.
La riunione è convocata in via Principe di Belmonte 47 (all’altezza della piazzetta dove domina la statua di Ignazio Florio), primo ammezzato a destra. Già questa notazione tecnica è una buona notizia: infatti la generosità di Daniela e Luigi Salomone ci ha consentito di avere a disposizione (per la prima volta in 18 anni!) una sede tutta nostra.
Pensiamo di dedicare ad una prima bozza di programmazione delle attività (che saranno modulate secondo varie metodologie in modo da sperimentare più possibilità di comunicare con il grande pubblico, soprattutto ma non esclusivamente giovanile) quattro ore di sabato 6 marzo 2010: dalle 9.30 alle 13.30 (cercheremo, come nel nostro stile, di essere puntuali per rispetto dei tempi degli altri).
Molto probabilmente alcuni di noi, con chi lo desidererà, consumeranno un breve pasto in uno dei locali della zona in modo da poter continuare a conversare (se sarà opportuno) anche qualche ora in più nel dopo-pranzo.
Insieme a Francesco Palazzo (attuale presidente dell’associazione) vi aspettiamo numerosi e, soprattutto, motivati!
Augusto

PS: Genesi, spirito informatore e breve storia della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” sono raccontati in un mio libretto di cui vi raccomanderei (se possibile e se gradita) la lettura: “Volontariato in crisi? Diagnosi e terapia” (Di Girolamo, Trapani 2002).

NB: Questo invito è estensibile: ci affidiamo al buon senso di chi lo riceve nel selezionare le persone da coinvolgere (per evitare tromboni, perditempo e narcisisti in cerca di platee).

martedì 2 marzo 2010

Ci pensiamo su? I puntata


Su “Il bandolo” (novembre/dicembre 2009, nn. 14/15) ho avviato, a richiesta del Direttore, una “Rubrica” fissa di filosofia pratica per …non filosofi:
Vi riporto la prima puntata qui di seguito.
Sarei felice se qualcuno dei lettori del blog volesse attivare una discussione di ‘filosofia pratica’ con me.
Sono graditi anche gli interventi dei filosofi di professione, ma ancor più di interlocutori professionalmente impegnati in altri settori. O in cerca di prima occupazione…

“IL BANDOLO”
Novembre - Dicembre 2009
nn. 14 / 15

CI PENSIAMO SU
(E ANCHE DA DIETRO)?
rubrica a cura di Augusto Cavadi

Quanta vita avrà questa nuova rubrica che fa oggi capolino in un angolo del “Bandolo”? La risposta è appesa a due incognite. La prima è la longevità del curatore; la seconda - altrettanto imprevedibile - la reattività dei lettori. Infatti il curatore è un “filosofo consulente” e (poiché per fare filosofia - come per fare l’amore - è necessario essere almeno in due) le prossime puntate dipenderanno dalle interlocuzioni critiche di qualche lettore (filosofo di mestiere pure lui o, meglio ancora, non-filosofo).
Ma a che può servire in un periodico una spazio di riflessione? E’ un tocco in più di intellettualismo, di aristocraticità snobistica? Se la “filosofia-in-pratica” fosse la filosofia che si impara a scuola e all’università, sarebbe inevitabilmente così. Ma, dagli inizi degli anni Ottanta, alcuni filosofi europei abbiamo pensato (all’inizio indipendentemente, poi collegandoci in varie maniere tra di noi) che la filosofia scolastica ed accademica non esauriva lo spettro delle possibili modalità di filosofare; che c’era necessità di una filosofia per i non-filosofi; che andava riscoperta la funzione sociale della filosofia (per la verità antica almeno quanto Socrate).

Se avremo pazienza e voglia, puntata dopo puntata scopriremo insieme che cosa possa significare in pratica fare filosofia non ad uso dei futuri professori di filosofia (che, a loro volta, perpetueranno la casta), bensì ad uso delle donne e degli uomini ‘comuni’. E’ infatti molto strano che si studi chimica per inventare nuove medicine (e non certo per creare nuovi chimici) o giurisprudenza per diventare operatori di diritto a servizio della gente (e non certo per creare nuovi giureconsulti), mentre i filosofi non si preoccupano quasi per nulla delle ricadute pubbliche delle loro speculazioni teoretiche (preferendo parlarsi, in filosofese, tra di loro).
Con una battuta, si potrebbe dire che questa rubrica serve per capire la matassa di cui riteniamo di avere il bandolo: fuor di metafora, per capire quali sono le domande dell’uomo della strada a cui l’intellighentia dà - o si illude di dare - risposte. Ma dovremo spiegarci con più agio, e con più chiarezza, man mano che cammineremo insieme. Se qualcuno vuole anticipare un po’ i prossimi passaggi, può intanto cercare in libreria uno di questi tre testi introduttivi alla “Pratica filosofica” : La consulenza filosofica (Xenia, Milano 2007) di Davide Miccione; Consulente filosofico cercasi (Apogeo, Milano 2007) di Neri Pollastri; Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni (Di Girolamo, Trapani 2008) a cura di dieci soci dell’associazione nazionale “Phronesis”. Chi li avrà in mano, ma anche chi preferirà rimandarne ad altri giorni la lettura, potrà anche cominciare ad inviare le sue considerazioni critiche, le sue obiezioni, le sue richieste di chiarimento mediante il blog.