domenica 25 aprile 2010

Riina si rivolge a Tettamanzi per essere “raccomandato”


www.famigliacristiana.it/Informazione/News/articolo/riina-scrive-a-tettamanzi.aspx

SE RIINA SCRIVE A TETTAMANZI
Cavadi, esperto di mafia: forse dietro la lettera del boss c’è qualcosa da decifrare.
23/04/2010

“Mi lascia perplesso il fatto che Riina si sia rivolto a un uomo come il cardinale Dionigi Tettamanzi, un arcivescovo che ha sempre mostrato un alto rispetto per le istituzioni”. Il professor Augusto Cavadi, palermitano, esperto di mafia e autore del recente volume pubblicato dalla San Paolo “Il Dio dei mafiosi”, commenta così la notizia che il boss di Cosa nostra, in carcere da 17 anni, si sia rivolto al cardinale di Milano perché sostenga la sua domanda di grazia. La lettera è giunta in curia attraverso un cappellano dell’istituto penitenziario di Opera. “Non sapevamo nulla”, sostengono i suoi avvocati.

“La mafia”, spiega a Famiglia Cristiana il professor Cavadi, “è abituata a saltare i canali istituzionali. Anche per questo, come spiego nel mio libro, ha cercato il sostegno e l’appoggio della Chiesa. In questo senso il gesto di Riina si inserisce in una sorta di continuità. La mafia ha cercato sempre un collegamento con una istituzione altra rispetto a quella statale, ha cercato di usare i simboli religiosi e ha tentato di allearsi con una certa parte di Chiesa. Quello che però mi sorprende di questa lettera, ripeto, è che questo gesto non può trovare sponda in un uomo della levatura del cardinale Tettamanzi. Sono sicuro che l’arcivescovo di Milano non potrà che dargli un conforto umano e invitarlo a seguire le vie istituzionali per la sua richiesta. Questo, un uomo come Riina, dovrebbe saperlo. Mi chiedo se non ci siano altre intenzioni o altri messaggi - e quali possano essere -, dietro a questa iniziativa”.

venerdì 23 aprile 2010

COPPIE CONTROCORRENTI


“Centonove” 23.4.2010

COPPIE CONTROCORRENTI.
PROTESTANTI E ANTIFASCISTI: STORIA DI DONATO E MARIA, DUE VOLTE DISSIDENTI

Come viveva a Palermo, durante il ventennio fascista, una famiglia due volte dissidente (perché antifascista e perché protestante)? Una narratrice non molto conosciuta (Giosi Lippolis) lo ha raccontato in un libro (Getta il tuo pane sulle acque, Empiria, Roma 2000) che avrebbe meritato ben altra attenzione ; che sinora è circolato quasi clandestinamente di mano in mano e che, a dieci anni esatti dalla pubblicazione, va almeno ricordato. L’interesse del racconto - a parte lo stile gradevole e il tono sottilmente ironico, nonostante la drammaticità di alcuni episodi - dipende essenzialmente dall’originalità di Donato e Maria, i due genitori dell’autrice che, giovanissimi emigrati italiani negli Stati Uniti d’ America, decidono di sposarsi e di andare letteralmente contro corrente: di riattraversare l’oceano per tornare nel Paese di origine come apostoli di una chiesa evangelica ‘indipendente’. La scelta cade nell’anno sbagliato o, almeno, più impegnativo: il 1922. I due, infatti, consapevoli di venire a trovarsi minoranza religiosa (rispetto alla chiesa cattolica), si ritrovano anche - e ancor più pericolosamente - minoranza politica (rispetto all’incipiente regime fascista). Comincia dunque un doloroso vagabondaggio per il Meridione che li fa approdare, infine, nel 1927, nel capoluogo siciliano. Sanno benissimo che neppure qui avranno vita facile (” ‘In America tutti gli italiani si fanno protestanti, eccetto i mafiosi. Tra mafiosi e protestanti, voi chi preferite?’. Lui, Liborio, preferiva i mafiosi”), ma aprono una “chiesa-fondaco” e nell’ampio appartamento adiacente, in via dei Marmorai, ospitano personaggi di ogni genere in cerca di un pasto caldo, di un tetto o solo di un orecchio che li ascolti con rispetto. Il quadro della mentalità siciliana dell’epoca è dipinto con pennellate pudiche, ma realistiche. Gli ospiti maschi si adattano, in genere, alle abitudini della casa:
“colazione, pulizia delle loro camere, passeggiata, pranzo e lunghe sedute pomeridiane a confidarsi, a studiare grammatica e a leggere la Bibbia”. Non così le donne che, meno numerose, “costituivano tuttavia un problema più difficile che gli uomini. Innanzitutto non volevano sedersi, né ascoltare le letture o imparare l’alfabeto, occupazioni riservate ai maschi. Il problema più grave era procurargli l’indipendenza” perché “senza un uomo la donna non aveva consistenza. Donne sole? In un appartamento tutto per sé, senza mariti? Pazzesco, sa lei i pettegolezzi, le calunnie, e alla fine, ineluttabile, il disonore?”. Quasi che un conservatorismo atavico non fosse sufficiente, la legislazione fascista precipitava come pioggia sul bagnato: “Alle donne erano proibiti i pantaloni; gli sposi dovevano dare nomi italiani ai figli; ed era concesso un premio di lire cinquecento per ogni figlio che una donna producesse dopo il quinto”. Rievocazioni come questa di Giosi Lippolis ci ricordano che solo sessanta anni fa eravamo molto più simili agli immigrati attuali (islamici o induisti) che alle generazioni dei nostri giorni. E possono anche ammonirci su alcune scelte, personali e politiche, riguardo a chi bussa ai confini della nostra patria. Infatti, ai nostri concittadini palermitani in procinto di partire per l’America, la zia Ciccina - personaggio davvero memorabile - “pronosticava insulti morali e fisici: ‘Ci sarà gente che vi vorrà più ignoranti di quanto già siete e quello che sapete ve lo svaluterà e intanto magari se lo approprierà…’ e poi: ‘Più bruni siete e più sarete malvisti, come dei diavoli o degli sporcaccioni, e anche temuti, superstiziosamente, ma di questo non vi renderete conto giacché, essendo una minoranza, sarete voi ad avere paura, ingenuamente, e vergognosamente’; e poi: ‘Avrete delusioni innumerevoli, che qui nel vostro paese superereste alla meglio ma che lì potrebbero stroncarvi, semplicemente perché dall’America non ve lo aspettavate…’ “.

Augusto Cavadi

mercoledì 21 aprile 2010

Pure gli elicotteri della polizia sui lavavetri palermitani


“Repubblica - Palermo”
21.4.2010

SONO I LAVAVETRI IL PERICOLO PUBBLICO N°1

A tutti è capitato di perdere un ‘verde’ al semaforo a causa di un lavavetri intempestivo: ed è una vera scocciatura. Tanto più se qualcuno di questi diventa (come per la verità accade raramente) aggressivamente insistente. Il blitz dunque della polizia, su ordinanza dell’amministrazione comunale, con plateali arresti, multe e sequestro dei ‘corpi di reato’ (spugna e paletta) è senz’altro lodevole. Eppure…eppure c’è qualcosa, in un angolino del cervello, che resiste. Quasi un retrogusto di ingiustizia (sostanziale) nel bel mezzo di una decisione che parte da presupposti legali e mira a rafforzare la legalità.

Se ci riflettiamo anche solo pochi momenti, infatti, ci chiediamo se in una città impregnata di totale indifferenza alle regole sia opportuno strategicamente, e prima ancora condivisibile eticamente, iniziare a far pulizia dalle trasgressioni minime operate da soggetti estremamente deboli. Ci chiediamo se non sarebbe logicamente e moralmente prioritario liberare la città dai posteggiatori abusivi che impongono un pizzo inesorabile (ogni volta che ho provato a evitarlo, ho pagato la micro-ribellione a fior di euro per le spese di carrozzeria). Ma, quanto a prevaricazione, le decine di migliaia di automobilisti che - del tutto impunemente - intasano le corsie riservate ai bus e ai taxi, o posteggiano in seconda fila e sulle poche piste ciclabili, sono forse meno dannose per la viabilità urbana? Chi si reca nei giorni festivi in uno dei due grandi cimiteri di Palermo precipita in un gorgo di illegalità (dai negozi dei fiorai che invadono marciapiedi e carreggiate alle auto posteggiate a tappeto rendendo impossibile procedere a piedi, tanto meno se si è disabili in carrozzella): tutto senza l’ombra di un solo vigile. Chi paga un regolare ’scarrozzo’ per entrare e uscire dal proprio garage ha fatto tante volte l’esperienza frustrante di vedersi bloccare il passaggio da automobili posteggiate da proprietari irreperibili: ed ancora più frustrante è restare prigionieri in casa propria perché il centralino dei vigili urbani risponde che non è previsto questo genere di intervento occasionale. Dopo un primo periodo di rigore, ormai usare le cinture in città ed evitare di parlare al cellulare sono diventati optional per secchioni. In più di cinquanta anni non ho mai visto multare un solo automobilista che passi col rosso o che non si fermi a uno stop o che invada in sorpasso la carreggiata opposta nonostante la linea continua: ma non sono trasgressioni che mettono in pericolo l’incolumità altrui, oltre che la propria?
Sarebbe troppo facile estendere la lista delle infrazioni e dei soprusi al di là dell’ambito ristretto della mobilità cittadina: e potrebbe riuscire fuorviante rispetto all’interrogativo di partenza sull’operazione lavavetri. Che è oggettivamente lecita, ma concretamente - nel contesto urbano di Palermo - appare la patetica esibizione muscolare di un pugile suonato, remissivo con i più forti ma spaccone con chi costeggia il baratro della miseria. Unica possibile giustificazione: che sia l’inizio di una escalation che, partendo dai piani bassi, abbia il coraggio di disturbare anche i piani medi ed alti.

Augusto Cavadi

martedì 20 aprile 2010

Ci vediamo sabato 24 aprile a Terracina (Latina)?


Sabato 24 aprile 2010 alle ore 19,30
presso la Libreria “Bookcart”
di Terracina (Latina), in via Roma 68,
Antonio Turri e Giancarlo Loffarelli
presenteranno il volume di Augusto Cavadi
“Il Dio dei mafiosi” (San Paolo, 2009).
Alla discussione con il pubblico parteciperà l’autore.

Per ulteriori informazioni:
Franco Marzullo 07.73700277
oppure bookcart@libero.it

domenica 18 aprile 2010

LIBERALISMO E OLTRE


“Repubblica - Palermo”
18.4.2010

P.L. Barrotta - S. Bavetta
IL LIBERALISMO NELL’ETA’ DEI CONFLITTI
Edizioni Liberilibri
pagine 164
euro 15,00

Il liberalismo, dottrina politica, è intrecciato - pur restandone distinguibile - con il liberismo, dottrina economica. Opportunamente, dunque, Il filosofo Pierluigi Barrotta e l’economista palermitano Sebastiano Bavetta hanno sintetizzato le rispettive competenze disciplinari per spiegare - in modo chiaro, serio e a tratti gradevole - alcuni nodi del liberalismo attuale. Il libro, agile ma non superficiale, frutto della sinergia intellettuale dei due autori (Il liberalismo nell’età dei conflitti) può riuscire interessante sia a chi pensa di essere liberale sia a chi pensa di non esserlo. Ai sedicenti liberali (che spesso brandiscono il valore della libertà come clava per difendere interessi privati e corporativi) , infatti, esso propone “una riforma del liberalismo che può giocare nella costruzione di una grande forza popolare di orientamento moderato e conservatore”; agli avversari del liberalismo (che spesso ne hanno l’immagine caricaturale offerta dal teatrino della cronaca politica), poi, pone la sfida di elaborare una serie di contro-proposte rispetto alle soluzioni elencate nel volume. Tra le possibili conclusioni che il lettore potrà trarre: il liberalismo costituisce una tappa dell’evoluzione umana oltre la quale è possibile, anzi necessario, procedere; ma solo dopo averne condiviso alcuni principi irreversibili e universali.

mercoledì 14 aprile 2010

Ci vediamo a Tunisi giovedì 15 aprile alle 16?


SAVEURS et SAVOIRS du SUD, rendez-vous avec la SICILE
6ème Edition
Tunis, Dar Bach Hamba (medina de Tunis), 10/17 avril 2010
Manifestation conçue et organisée par Mediservices sous le patronage et avec le soutien de la Région Sicilie et l’IICT- Section Culturelle de l’Ambassade d’Italie, en collaboration avec l’Institut d’Haute Culture Fondation Orestiadi

Jeudi 15
16h00 MAFIA, une parole à effacer : la voix de la société civile.
Rencontre avec:
Umberto Di Maggio, LIBERA siège de Palerme
Antonio Osnato magistrat
Augusto Cavadi philosophe et
auteur du best seller « la Mafia expliquée aux touristes ».
En ouverture le court de Alessangro Trigona pour Libera, à
la présence de l’auteur
Dégustation des produits nés dans les terres confisquées à la mafia

lunedì 12 aprile 2010

Chiese e mafia. C’è la critica, manca l’autocritica


“Adista - Segni nuovi”
17.4.2010

CHIESE E MAFIA. C’E’ LA CRITICA, MANCA L’AUTOCRITICA

Il Documento della CEI Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno si presta a diverse considerazioni. Mi limito a quattro. La prima è di metodo: quando i vescovi affermano di non pretendere di offrire “un profilo risolutore e definitivo”, ma di “dare un contributo alla comune fatica del pensare”, mostrano maturità teologica e civile. Mostrano il volto di una Chiesa che, nelle questioni sociali e politiche, non si arroga monopoli ma accetta di affiancarsi agli uomini e alle donne in cammino nella storia. Anche la seconda considerazione - questa volta di merito, di contenuto - depone a favore del Documento: esso condensa alcuni dei punti principali di un programma di governo riformatore e progressista, anti-razzista e anti-mafioso, incentrato sulla legalità formale e sulla giustizia sostanziale. Ma - e qui siamo ad una terza considerazione - questa serietà progettuale viene resa poco credibile da una stupefacente assenza di autocritica. In passaggi cruciali (”Nelle comunità cristiane si sperimentano relazioni significative e fraterne, caratterizzate dall’attenzione all’altro, da un impegno educativo condiviso, dall’ascolto della Parola e dalla frequenza ai sacramenti”) si usa l’indicativo presente (”si sperimentano”) al posto del condizionale (”si dovrebbero sperimentare”): si spaccia per fotografia del reale un sogno molto parzialmente realizzato. Così si impedisce qualsiasi “esame di coscienza” personale e collettivo: da dove provengono generazioni di amministratori, politici, imprenditori, intellettuali, commercianti, magistrati che, da una parte, si sono proclamati cristiani e cattolici e, dall’altra, hanno alimentato ogni forma di illegalità, di furbizia, di compromesso, di silenzi o addirittura connivenze? Da quale navicella spaziale (esterna ed estranea al corso effettivo della storia e della cronaca italiane) stanno parlando i vescovi? A quale organismo ecclesiale appartenevano cardinali come Ernesto Ruffini o Michele Giordano, arcivescovi come Salvatore Cassisa?
Ma le perplessità che emergono dalle righe del documento si fanno ancora più consistenti se, dal testo, si passa al contesto (come suggerito - anzi, imposto - dal testo stesso). Leggiamo infatti una formulazione efficace tratta dalla Centesimus annus : “Per la Chiesa il messaggio sociale del Vangelo non deve essere considerato una teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per l’azione”. Benissimo. Ma come conciliare questa attenzione ai frutti dell’albero, alla prassi, con messaggi attualissimi quali l’invito del cardinal Bagnasco, presidente della CEI, a privilegiare col voto quei partiti che affermano di voler difendere alcuni principi dell’etica cattolica (quali la condanna dell’aborto); che ne trascurano altri non meno rilevanti (tutti quelli ricordati in questo stesso documento: dall’accoglienza degli immigrati alla solidarietà nazionale) e, in pratica, li calpestano tutti quanti, anche quei pochi che proclamano in teoria (per esempio la morale sessuale)? Come conciliare l’invito a lottare per “la libertà nel e del Mezzogiorno” (inquinato da “omertà, favori illegali consolidati, gruppi di pressione criminale, territori controllati, paure diffuse, itinerari privilegiati e protetti”) con la quotidiana connivenza con singoli politici e con intere formazioni partitiche che, nello stesso Mezzogiorno, con una mano sbandierano la militanza cattolica per chiedere voti e, con l’altra, impastano raccomandazioni, tessono complicità, operano truffe? La lista dei politici dell’UDC processati e condannati per reati di mafia (tra i quali un presidente della regione condannato a sei anni e cinque mesi per favoreggiamento di mafiosi, in primo grado, e a sette anni in secondo grado) è forse la più lunga dall’inizio della Seconda Repubblica (non parliamo, per carità di Patria e di Andreotti, della Prima): è logico che né in questo documento né in altre sedi ci sia stata una sola parola di riprovazione da parte dei vescovi?

domenica 11 aprile 2010

Ci vediamo lunedì 12 alle 18 presso “Libera” di Palermo?


Lunedì 12 - dalle 18 alle 19,30 - si terrà il solito seminario di pedagogia alternativa sulla base del mio libro “Strappare una generazione alla mafia” (Di Girolamo, Trapani 2007).
La nostra riflessione critica di gruppo riguarderà le pp. 107-113 su “Idee per un piano d’interventi didattici”.

lunedì 5 aprile 2010

Su un libro di poesie


“Repubblica - Palermo”
4.4.2010

“Il filosofo dell’amore”

S. Battaglia
ARMONIE
La Zisa
pagine 122
euro 9,90

Ci sono componimenti letterari in cui la raffinatezza stilistica e l’accuratezza della tecnica tentano di celare una certa aridità sentimentale. Le poesie di Salvatore Battaglia, raccolte in Armonia, non corrono questo genere di rischio; anzi, al contrario, rivelano un’effervescenza emotiva e una sincerità spirituale così prepotenti da non apparire abbastanza distillate nell’alambicco dell’arte più smaliziata. Lo nota, con cautela diplomatica, Roberto Deidier nella sua dotta Prefazione: “la passione amorosa rappresenta qualcosa di pericoloso nella vita di un uomo, ma ancor più se quest’uomo fa ricorso, per parlarne, alle armi della poesia. Ecco, l’amore rischia di annoiare, così come la poesia rischia, a sua volta, di deprimerlo, di ridurlo ad altro, di stilizzarlo “. Lo nota pure, con lucidità solo apparentemente folle, Alda Merini in una pagina che suggella il florilegio: si rivolgano a Battaglia, “un buon filosofo dell’amore”, quanti vogliano - più che esplorare “la forza ossessiva della parola” (che è l’ambito proprio del poeta)- imparare che “ragionar d’amore apre la porta del Paradiso”. Insomma, ancora una volta ha ragione Stefania La Via: quanti siamo punti da vaghezza di mettere versi su una pagina dovremmo dedicare almeno altrettanto tempo a educarci l’orecchio con la grande lirica di ogni tempo. Non escluso il nostro.
Augusto Cavadi

domenica 4 aprile 2010

RIDERE DI DIO ? Un libro della Di Girolamo (Trapani)


“Centonove” 2.4.2010

RIDERE DI DIO

Anche se a conclusione - e non in esordio - del libro, l’autore si presenta brevemente: “Sebbene meridionale, ebbi a nascere in una famiglia convertita al valdismo dalla fine dell’Ottocento”. Infatti, dopo l’editto di tolleranza emesso da Carlo Alberto nel 1848, la piccola chiesa protestante (sino allora relegata quasi esclusivamente in tre valli piemontesi) poté avviare una “intensa attività di proselitismo che portò alla nascita di alcune chiese valdesi nel resto d’Italia”. Non immemore di queste origini familiari, “all’alba dei vent’anni, invece di dedicarmi alla lotta armata o all’uso di sostanze stupefacenti, partivo con altri otto fanatici alla volta della Sicilia per fondarvi una ‘comune protestante’. La scelta della Sicilia era un chiaro rimando alla Questione Meridionale che ancora infarciva il linguaggio politico di quegli anni, prima di venire offuscata da altre questioni legate ai generi, all’ambiente, alle globalizzazioni. E così, anche noi che non avevamo fatto il sessantotto perché troppo giovani e che non avremmo fatto gli yuppies perché troppo poveri e sfigati, affascinati dai modelli dei compagni più grandi, iniziammo una faticosa esperienza di vita comunitaria. Abitavamo in otto in una casa che avrebbe contenuto al massimo tre persone…Non erano più i tempi della militanza politica e non ancora quelli del fanatismo religioso, ma nel nostro modo di comportarci si potevano scorgere aspetti dell’una e dell’altro”.
Ritornato a Torino - e ad una vita un po’ più normale - Velluto si concede qualche trasgressione episodica: il volume appena edito, dal titolo lunghissimo alla Lina Wertmueller (Perché non possiamo fare a meno di ridere…e meno che mai della religione) e per giunta abbinato ad un sottotitolo (Appunti di teologia pratica), lascia solo in parte immaginare il contenuto. Che è difficile non solo da immaginare prima della lettura, ma anche di raccontare dopo. E’ infatti una sorta di conversazione a briglie sciolte, intessuta di citazioni dotte e di storielle divertenti, che segue - molto disordinatamente - un filo rosso: si può ridere delle cose che si ritengono serie, per esempio (per un credente, sia pur anomalo) di Dio e della religione? La risposta è nettamente affermativa: solo un ateo veramente convinto dell’inesistenza di Dio può essere talmente ‘distaccato’ dal mondo della fede da non avere nulla da criticare in proposito. Chi, invece, ha una qualche forma di fede, non può non trovare molte cose da rimproverare al suo Dio: con accenti dolorosi e talora disperati, ma anche qualche volta ironici se non addirittura sarcastici. E’ nota l’amarezza sardonica con cui un rabbino confessava: “E’ vero, anche noi sopravvissuti ai lager nazisti avremo da rendere conto a Dio di nostre colpe; ma più ancora è Lui che dovrà scusarsi con noi per quanto ci ha combinato”. Solo chi ha saputo, come Giobbe, ridere di Dio può sperimentare il piacere di ridere con Dio. La fede autentica è infatti una sorta di distanza ironica da quel groviglio di contraddizioni inesplicabili che siamo noi stessi, l’umanità, l’intero universo.

Ma se possiamo ridere di Dio e dell’uomo, perché non dovremmo farlo anche della religione (che, oggettivamente considerata, è un’invenzione dell’uomo alla ricerca di Dio)? Ad una sola condizione: che prima di ridere delle religioni altrui, si abbia l’intelligenza critica di ridere della propria. Velluto lo sa bene: infatti quasi tutto il libro deride, prima dei buddisti o degli islamici, i cristiani. Tutti: non solo i cattolici (ché per un protestante sarebbe uno scherzo da bambini), ma anche gli stessi protestanti. Come quando spiega che i suoi correligionari valdesi, a differenza dei cattolici, sono soli con la propria coscienza di fronte a Dio e non possono contare né sull’intercessione dei santi né sull’assoluzione dei preti: e questo “responsabilizza di molto il comportamento del credente generando solitamente degli enormi sensi di colpa. E’ questo il motivo perché per un valdese è molto più difficile che per un cattolico comportarsi male mentre gli risulta molto più facile ricorrere alle cure di uno psicanalista”.

Augusto Cavadi