lunedì 21 giugno 2010

Lidia Bonomo intervista Augusto


“L’obiettivo”
Quindicinale siciliano del libero pensiero
Numero 8, 2010

Intellettuali impegnati
Conversazione con Augusto Cavadi

Augusto Cavadi è non solo un affabile professore di storia, filosofia e – come ci tiene a precisare – anche di educazione civica al Liceo “Garibaldi” di Palermo, dove cerca di coniugare la storia con l’opportunità data ai ragazzi di elaborare ognuno la propria filosofia, ma anche uno scrittore, pubblicista per “Repubblica”- Palermo e collaboratore di altre pubblicazioni. Nella lista dei suoi svariati scritti si riflette l’intreccio della pluralità di interessi in campo filosofico, teologico, pedagogico e politico. Oltre a scrivere (fra gli ultimi libri La mafia spiegata ai turisti, Il Dio dei mafiosi e, presentato nei giorni della Fiera del libro di Torino, Filosofia di strada), Cavadi è membro e co-fondatore di associazioni a carattere socio-politico, oltre che organizzatore di “cenette filosofiche per… non filosofi”, “per… non filosofi davvero asciutti di filosofia”, seminari di “teologia critica per… non teologi” e la “domenica di chi non ha chiesa”. Lo abbiamo incontrato per parlarci del suo impegno e del contesto in cui opera: Palermo.

Professore, come si esplica e si declina la sua attività nel volontariato?
«Il filo rosso che attraversa e anima tutte le mie attività è la “filosofia in pratica”, così l’ho chiamata: una filosofia intesa sia in chiave esistenziale e personale sia in chiave socio-politica perché, a mio avviso, è uno strano filosofo quello che non cambia né se stesso né il quadratino di mondo in cui vive. Nell’85 ho fondato, con alcuni amici, il Centro San Francesco Saverio all’Albergheria, nel cui ambito mi sono occupato della formazione dei volontari. Nel ’92 ho fondato la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” per dar vita a un laboratorio permanente di analisi del fenomeno mafioso inserito nel contesto dell’Italia meridionale e del Mediterraneo. Lavoriamo in tutti i centri sociali e nelle scuole che richiedono il nostro intervento, fornendo strumenti critici di lettura delle istituzioni, delle dinamiche sociali, della questione meridionale, delle ideologie del Novecento. Ho fondato, intorno al ’96 -’97, insieme ad altre associazioni e presso i padri gesuiti, l’Università della strada, anche questo un luogo per far riflettere coloro che desiderano operare nel sociale. Più di recente, il campo cui – a parte l’insegnamento – mi sto dedicando maggiormente è quello delle pratiche filosofiche».
Cosa sono le “cenette filosofiche”?
«Le cenette filosofiche e i seminari di teologia sono occasioni di promozione della consapevolezza critica nel campo politico-sociale, filosofico e religioso. Colgo tra l’altro tutte le occasioni per professionalizzare questa mia disponibilità, così da aprire una strada agli amici più giovani che stanno intraprendendo il percorso della consulenza filosofica e che sono disoccupati».
C’è un bisogno di filosofia? Nel sottotitolo di un suo libro lei la definisce “la più inutile di tutte le scienze”…
«Ce n’è bisogno nella misura in cui c’è bisogno sia di ciò che è utile sia di ciò che è superfluo: l’uomo è un essere strano che vive soprattutto di superfluo. Quel sottotitolo vuole stuzzicare il lettore, in verità. È “utile”, in senso etimologico, qualcosa di funzionale a qualcos’altro, il contrario di ciò che è gratuito. Io ritengo che le attività più significative dell’esistenza personale e sociale siano caratterizzate dalla gratuità (la musica, la danza, l’amore, la preghiera, etc.): si fanno per il gusto di farle, che poi abbiano gli effetti collaterali desiderati, desiderabili e prevedibili, è un altro paio di maniche».
Uno dei suoi libri si intitola Naufragio della politica ed etiche contemporanee. Quali le possibili soluzioni per far riemergere una politica pulita in tempi di individualismo, egoismo, opportunismo?
«Essendo le cause di diverso ordine, anche i rimedi dovrebbero essere sinergici. In questo libro prendo in esame cinque proposte etiche contemporanee e mostro come ognuna di esse può comportare conseguenze apolitiche o, addirittura, antipolitiche, oppure conseguenze politicamente fruttuose. Fernando Savater ritiene che il mondo sia fondato sugli egoismi, ma l’egoista può essere un egoista cretino o un egoista intelligente. Il primo si occupa dei propri affari e, se una stanza della casa brucia, rimane in un’altra, infischiandosene; il secondo, invece, sceglie di occuparsi della casa non tanto per amore degli altri, bensì di se stesso. L’individualismo liberale, dunque, può avere una traduzione stupida, apolitica, e nella storia c’è stata, del resto, e tuttora c’è. Il cristianesimo, se interpretato in un certo modo, può portare alla dimensione privatistica e al conservatorismo più sfacciato o, viceversa, può rappresentare una sveglia critica per il cambiamento. Il cristiano, tuttavia, non dovrebbe andare a braccetto con alcun potere costituito, ma mantenere una distanza critica di libertà».
Lei è considerato tra i maggiori esperti del rapporto fra cattolicesimo e associazioni criminali. La Chiesa cattolica, avendo un’influenza notevole nella nostra società e sulla nostra cultura, ha una grossa responsabilità. Come si pone la Chiesa siciliana di oggi nei confronti della mafia?
«La Chiesa dovrebbe fare un bel bagno di riconversione evangelica per spogliarsi di tutti gli aspetti mafiogeni della sua teologia, e uno di questi è l’omertà. Si è acuita la sensibilità verso il volto criminale e militare della mafia ma, purtroppo, non ugualmente è cresciuta la lucidità dell’analisi e la forza operativa nei confronti della sua dimensione politico-culturale. Basti pensare alla solidarietà sfacciata di cui ha goduto Cuffaro in tutta la sua carriera e alla mancata presa di distanza da lui dopo la condanna di due tribunali in primo e in secondo grado. Sulla prima pagina di “Repubblica” ho chiesto, allora, quali fossero i valori cattolici che persone come lui possono aver difeso o dovessero difendere. La risposta: sono stato citato per danni».
Palermo sembra andare verso un maggiore degrado. Qual è la sua visione a riguardo? Come si alfabetizza e si educa la gente dei quartieri difficili e delle periferie, che spesso sono serbatoio di voti mafiosi e fonte di manovalanza?
«Se cambiano gli elettori, cambierà la classe politica. Io sono convinto che sia necessaria un’alfabetizzazione elementare per spingere a votare non sulla base di simpatie emotive o clientelari, ma secondo delle proposte di progetto di società. Dobbiamo distinguere tra l’alfabetizzazione intesa in senso letterale (questo è un fattore preliminare. Occorre perciò lavorare perché nei quartieri le scuole ci siano e siano aperte il pomeriggio) e quella etico-politica».
Come è impostata la pedagogia alternativa antimafiosa?
«È una pedagogia che copia, invertendone il segno, quella mafiosa che, secondo me, è molto efficiente ed efficace. La pedagogia mafiosa è molto basata sulla testimonianza collettiva, sull’azione sociale, sulla testimonianza dei boss. Un’educazione alternativa deve essere più basata sulla testimonianza. Ritengo assurdo cercare di fare educazione alla legalità in scuole dove non c’è nulla di legale, dall’assunzione del bidello, alla palestra coi fili che pendono, al preside che non viene. Il linguaggio della mafia risulta efficace perché è fatto di cose, di azioni, di simboli. Da noi la cosiddetta “legalità organizzata” (che poi non è tanto organizzata né tanto legalità) è perdente. La scuola, nella pluralità delle figure che vi lavorano, deve essere nel suo complesso una comunità educante. Quando si è soli o in pochi, all’interno di un massa diseducante, il lavoro viene assolutamente neutralizzato».
Lei ha analizzato anche il tema del volontariato, facendo una diagnosi e individuando una terapia. A Palermo, il volontariato gode di buona salute?
«È abbastanza frequentato ma, purtroppo, manca di una consapevolezza della differenza tra beneficienza e azione di volontariato vera e propria. Quando, dodici anni fa, abbiamo creato l’Università della strada, molta gente frequentava per imparare che cosa significasse fare volontariato, per acquisire un’attrezzatura critica, ma dopo i primi anni abbiamo registrato un calo di richieste nella formazione: si intende spesso il volontariato in maniera molto emotiva e non progettuale. Manca la sensibilità politica, anche se c’è un apprezzabile slancio etico. Io ritengo che il volontariato sia in crisi. Peraltro, è per così dire “stretto al collo” tra l’esigenza di istituzionalizzarsi e quella di mantenere la purezza del suo spirito».
Palermo dà l’impressione di essere una città abbastanza viva dal punto di vista culturale, eppure le energie dei suoi intellettuali non riescono, se non in minima parte, a effondere effetti positivi sul tessuto socio-culturale nel suo complesso. Come mai?
«Palermo non è viva come lo sono la stessa Napoli o Roma, Firenze, Bologna, Torino. Abbiamo delle belle individualità dal punto di vista intellettuale totalmente incapaci, però, di sinergie. Da qui la mancanza di ricadute sociali. C’è, ovviamente, chi non vuole neppure averne, ma, fra coloro che invece vorrebbero produrle, vi sono figure incapaci di mediazioni con gli altri gruppi intellettuali. Invece l’efficacia si raggiunge col lavoro di squadra. Il limite, a Palermo, sta anche, quindi, nella schizofrenica separazione tra dimensione intellettuale e impegno sociale, per cui, pur di scrivere un articolo o un libro in più, c’è chi si astiene dal “perdere tempo”».
Lei, invece, spende molto tempo con gli altri e per gli altri. Perché lo fa?
«Mah, forse perché sono un egoista intelligente… La strutturazione della mia vita, non avendo figli, me lo consente. E poi mi dà molta gioia e mi riempie la vita».

Lidia Bonomo

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