venerdì 19 novembre 2010

La gratitudine dello straniero


“Adista”
18 settembre 2010
La gratitudine dello straniero
(Luca 17, 11 – 19)

Il Gesù di Luca è in cammino. Fisicamente, corporeamente, geograficamente; ma anche esistenzialmente. Procede sulla strada della vita acquisendo esperienze, scoperte, riflessioni. Che perdita aver limitato ai suoi anni infantili e adolescenziali ciò che, invece, contrassegna l’intera sua vicenda terrena (“cresceva in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini”, 2, 52)!
In questo brano mi viene spontaneo (ma rinuncerei a questa impressione naif qualora un esegeta di professione me la dichiarasse insostenibile con le acquisizione filologiche ed ermeneutiche della comunità scientifica) riconoscere una tappa della crescita del maestro di Nazareth: il racconto di un evento che in qualche modo lo sorprende, lo ammaestra. Egli invia al Tempio dieci lebbrosi che gli avevano chiesto la guarigione: indica l’iter rituale, liturgico, tradizionale. Non è un fenomeno da baraccone che stupisce gli astanti con ‘miracoli’ clamorosi. La salvezza è prima di tutto inserimento consapevole e libero nell’alveo della tradizione (no, meglio: della Tradizione) in cui ci si è trovati a nascere. Ma, prima che i dieci malati possano iniziare il percorso standard, si accorgono di essere già risanati. L’incontro con una persona abitata dallo Spirito è stato già sufficiente a farli uscire dalla condizione di diversità maledetta in cui si trovavano. Prima scoperta da parte del Messia: l’onnipotente tenerezza di Dio Padre/Madre può agire non solo attraverso i canali istituzionali (come egli stesso riteneva), ma anche in modi e tempi inaspettati. Per esempio, come in questo caso, attraverso una relazione interpersonale fra dieci malati e un predicatore ambulante. 
Ma come Gesù apprende che, attraverso gli incontri ‘laici’ fuori dal Tempio, può passare l’energia risanatrice del Creatore? Non ne avrebbe saputo nulla se uno dei dieci non fosse tornato indietro a rivelarglielo. Qui - mi pare – una seconda scoperta operata dal Messia nella sua evoluzione mentale e più ampiamente umana: esiste la gratitudine. “Alzati e va’: la tua fede ti ha salvato” (17,19): esagero se vedo qui non tanto l’approvazione del professore rivolta all’alunno diligente che ha fatto il proprio dovere, quanto l’ammirazione del profeta davanti ad un comportamento lodevole? Che significa, in questo contesto, che la fede ha salvato il decimo lebbroso? Non erano stati tutti quanti guariti? Forse Gesù sta imparando che le piaghe della pelle sono solo sintomo di un male più profondo: che stiamo in ‘salute’ non solo (ed è importante) quando il corpo non soffre, ma anche (ed è decisivo) quando il ‘cuore’ esce dall’autoreferenzialità della propria sofferenza. Salvezza intera, completa, è guarigione dalla lebbra dell’ingratitudine. Gesù impara che inchinarsi davanti alla malattia altrui è opera grande, ma ancora più grande è saper accogliere la cura dell’altro. Dare è un gesto signorile e degno di stima, ma ancor più difficile e meritorio saper ricevere.
Tuttavia così è la dialettica della vita: impari e apprezzi la gratitudine di qualcuno contestualmente all’esperienza dell’ingratitudine di altri. Di molti altri. Del novanta per cento delle persone con cui entri in contatto e alle quali presti il tuo – per quanto imperfetto – servizio: “Non sono stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non è ritornato nessun altro a ringraziare Dio all’infuori di questo straniero?” (17, 17 – 18). Il Cristo scopre - la chiamerei la terza scoperta in questo racconto – che la norma statistica è l’ingratitudine: la nobiltà di chi ammette d’essere stato aiutato, soccorso, costituisce l’eccezione alla regola. Chi si impegna nell’azione sociale o nell’insegnamento, nel volontariato o in politica, è avvertito: se attende ‘ritorni’, di qualsiasi natura e consistenza, si condanna da solo alla delusione. Non occuparsi del mondo è egoismo, ma occuparsene aspettando riconoscimento è insipienza.
Ma chi è il lebbroso che, con il suo grazie tanto ovvio quanto raro, riesce a stupire il guaritore in nome dell’Altissimo? Luca non ne riporta né il nome né la paternità: ritiene molto più rilevante sottolineare che si tratta di uno “straniero” (versetto 18), più esattamente di un “Samaritano” (versetto 16). E’ come se avesse detto: dieci paralitici vanno a Lourdes e, per strada, incontrano un credente (né prete né monaco né frate) che li incoraggia a proseguire in carrozzella il pellegrinaggio verso il santuario; ma poco dopo si accorgono di essere in grado di camminare sulle proprie gambe. Nove (europei bianchi, cattolici osservanti, politicamente moderati) se ne vanno per i fatti propri lungo le strade del mondo, ma il decimo paralitico torna indietro per cercare l’uomo di Dio che gli ha trasmesso l’energia rinnovatrice: ed è un extracomunitario scuro, musulmano, di orientamento politico estremista. Anche questa (quarta) scoperta viene operata da Gesù il Galileo: la fede autentica, che tra mille altri aspetti è anche consapevolezza che “tutto è grazia”, la si sperimenta più spesso negli eretici, negli emarginati, che nella brava gente “tutta casa e chiesa”. Qualche secolo dopo persino Agostino di Tagaste dovrà ammetterlo: “molti di quelli che sembrano dentro la vera chiesa sono fuori, molti di quelli che sembrano fuori, sono dentro”.

Augusto Cavadi

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