martedì 9 novembre 2010

Solo il cristianesimo può offrire ’salvezza’?


“Filosofia e teologia”
2010 / 2

SALVEZZA ED ESCATOLOGIA:
FRAMMENTI PER UNA MAPPA ORIENTATIVA

Soteriologie al plurale

Salvezza ed escatologia. Sì, ma: salvezza da cosa? con quali modalità? in vista di che? L’etnocentrismo può giocare brutti scherzi anche a teologi e filosofi. Tra le possibili ricadute positive della globalizzazione (che, allo stato attuale, presenta almeno altrettanti svantaggi) va registrata certamente la relativizzazione del proprio sguardo teoretico: che non è necessariamente relativizzazione del Vero, quanto piuttosto delle modalità umane di toccarlo.
Per il tema che ci interpella in questa sede, ciò significa che esso va riformulato al plurale: salvezze ed escatologie. Pronunziato al singolare, infatti, esso si presta ad equivoci insuperabili. In Occidente, infatti, il semantema ’salvezza’ rimanda alla nozione cristiana (o, nella migliore delle ipotesi, monoteistica); come avviene esattamente per il termine ‘escatologia’. Così si dà per scontato che rifiutare il binomio ’salvezza-escatologia’ nell’accezione cristiana, o per lo meno problematizzarlo, equivalga a rifiutare, o per lo meno a problematizzare, queste due nozioni tout court. Una panoramica, per quanto sommaria, delle religioni e delle sapienze rintracciabili ancora sul pianeta ci dimostra l’infondatezza di tale presunzione.
In un saggio molto ampio, Peter Phan ha recentemente proposto dei criteri per la costruzione di una ‘mappa’ idonea ad un primo orientamento (ovviamente da approfondire analiticamente ad opera degli specialisti di settore). Allo sguardo sinottico il teologo antepone una considerazione che ritengo, metodologicamente, imprescindibile: “La sfida principale posta all’identità cristiana dalla dottrina della salvezza universale può essere definita così: se tutti possono essere salvati senza diventare esplicitamente cristiani tramite il battesimo, in cosa consiste essere cristiani? Anticipando le nostre riflessioni sulla missione cristiana, se la salvezza è possibile al di fuori della Chiesa, la missione è ancora necessaria e, in questo caso, qual è il suo scopo? E poiché altri temi teologici sono profondamente interessati da una soteriologia universalista - come le dottrine sulla rivelazione, su Cristo, sul peccato originale e la grazia, sulla Chiesa come mezzo necessario di salvezza e sulla sacramentologia - una modifica sostanziale della dottrina della salvezza produrrebbe, per così dire a cascata, una riconcettualizzazione radicale delle altre dottrine ad essa strettamente legate”.

Quanto alla griglia di catalogazione, Phan propone quattro parametri o punti di vista da cui considerare le diverse soteriologie:
* “le difficoltà umane dalle quali ci si salva (peccato, ignoranza, sofferenza, ecc.)”;
* “i mezzi di salvezza (fiducia in un salvatore trascendente o in se stessi)”;
* “la natura della salvezza stessa (limitata e terrena o assoluta e ultraterrena)”
e, infine,
* “il suo scopo (trasformazione del sé personale, del mondo, della storia o immersione nell’assoluto)”.
Sulla base di questa griglia, alcune sapienze religiose - come il confucianesimo e il taoismo - non possono essere considerate soteriche: esse infatti non si propongono di “conseguire la ’salvezza’, almeno in termini di liberazione ultramondana e sovrannaturale dal peccato e dal male e di godimento di eterna felicità” . In altre religioni, invece, la promessa della salvezza è presente, ma - appunto - intesa in maniere differenti. Qui ci si limiterà a brevi cenni che trascureranno tradizioni sapienziali come lo gnosticismo: non perché in essa manchi la problematica soteriologica strettamente legata all’escatologia (una celebre preghiera a Sofia, negli Excerpta ex Theodoto, chiede la liberazione dall’ignoranza “di chi eravamo, di che cosa siamo diventati, di dove eravamo, di dove siamo stati gettati, del luogo verso cui tendiamo, di che cosa possa liberarci, di che cosa sia davvero stata la nascita, di come possiamo riscattarla e finalmente rinascere”), ma perché si tratta di una tradizione infiltratasi - per così dire trasversalmente - in quasi tutte le religioni ’storiche’ del Mediterraneo.

Ebraismo

Sarebbe da incompetenti presumere di ingabbiare in un’unica categoria la soteriologia secondo l’ebraismo. Sappiamo infatti che si tratta di una religione ormai plurimillenaria che ha conosciuto, e conosce, correnti anche notevolmente differenti. Hans Küng, ad esempio, propone di distinguere un giudaismo “ortodosso” (caratterizzato dalla negazione della modernità), un giudaismo “conservatore” (fautore di una coesistenza con la modernità), un giudaismo “liberale riformato” (propugnatore di un’adeguazione al moderno) e persino - sia pure in forma embrionale e ancora da determinare - un giudaismo “postmoderno” .
Tuttavia è lecito esemplificare, su suggerimento di un teologo ebreo del XIX secolo, la dottrina della salvezza in due modelli principali che si possono rintracciare entrambi nella tradizione farisaica ma che si confrontano nella storia dell’ebraismo sin dal periodo anteriore al cristianesimo. Essi hanno in comune la fede in “una palingenesi che doveva cambiare la fisionomia del mondo”: “Che cos’era la resurrezione per i Farisei? Senza dubbio, essa comprendeva non solo i corpi umani chiamati a nuova vita, dotati di un’organizzazione e di una facoltà più perfette, ma comprendeva anche tutta la natura in un rinnovamento universale”. Tuttavia questa palingenesi è stata interpretata in due maniera diverse. Secondo un primo modello - che possiamo denominare cosmico-ontologico - “l’epoca dell’era della risurrezione” e “l’era del Messia” “si confondevano in una sola”: “il Messia doveva non solo inaugurare per Israele un’èra di prosperità, di salvezza, di libertà, ma anche dare il segno del rinnovamento, della rinascita della natura, il cui fenomeno più solenne, più appariscente, sarebbe stato appunto la risurrezione dei corpi”. Secondo un altro modello - che potremmo chiamare storico-politico - la palingenesi avrebbe assunto lineamenti differenti: “l’era della risurrezione” veniva pensata come differita “fino agli estremi limiti dei tempi attuali” e “l’avvento del Messia” si sarebbe concretizzato e reso visibile mediante “una semplice trasformazione sociale, nella quale la natura avrebbe conservato sempre le sue leggi, in cui le cose sarebbero andate nel modo ordinario, in cui, per riassumere tutto con la formula testuale, nulla sarebbe cambiato se non la schiavitù in libertà (Sanhhedrin, XI, 99 ecc.)” .
Nella storia dell’ebraismo questa seconda interpretazione finirà con il prevalere (ovviamente non come mera trasformazione socio-istituzionale, bensì come risvolto tangibile degli “elementi fondamentali strettamente intrecciati con la missione religiosa del popolo ebraico”: la “conoscenza universale di Dio” e “l’amore del prossimo” ). Per essere più chiari: non è il Messia-rabbi che, arrivando, ’salva’ il popolo ma è il popolo che, ’santificandosi’ mediante l’osservanza della Torah, merita l’avvento del Messia. Autorevoli esponenti del pensiero ebraico hanno ben illustrato in che senso “la salvezza dipende quindi dalla santificazione ed è subordinata a quest’ultima”: “se Israele osserverà un solo sabato (o due consecutivi) verrà il messia. Se Israele smette di violare la Torah, verrà il messia. Se Israele agisce con arroganza e rigetta la condizione assegnatale dalla volontà divina, il messia non verrà. Ogni cosa, quindi, dipende dal ‘qui e ora’ della vita quotidiana. La categoria operativa non è la salvezza attraverso ciò che Israele fa, bensì la santificazione di ciò che Israele è” .

Cristianesimo

Che ne è di queste due dottrine soteriologiche nel cristianesimo, in quella ‘eresia’ ebraica (nata per la verità come ripresa attualizzante e radicale del filone profetico originario) che, a un certo momento della storia , è stata considerata una nuova religione?
Anche in questo caso la risposta non può essere monolitica ma deve tener conto dei differenti paradigmi in cui si è andato declinando il cristianesimo . Potremmo dire, se ci viene perdonata una schematizzazione eccessiva, che nel paradigma giudaico-apocalittico, si eredita il modello ebraico cosmico-ontologico: “nessuna differenza, nessun intervallo, nessuna distinzione possibile tra l’èra messianica e l’èra della resurrezione” . Come ha ricordato insistentemente Sergio Quinzio, oggi riesce difficile concepire la prospettiva evangelica originaria, intrisa di concretezza mondana ed imminenza cronologica: “se le promesse di Dio sono fatte alla carne, la carne non può che esigerne l’immediato compimento. Il desiderio della carne è per adesso, non per il futuro, la carne è mortale e non può attendere, ha bisogno adesso di pietà e consolazione, di vedere la giustizia di Dio regnare sulla terra” .
Eppure, se non si ‘realizza’ mentalmente questa prospettiva, non si può misurare adeguatamente la drammaticità della delusione in cui si infrange il paradigma giudaico-apocalittico del cristianesimo né la ragione per cui si configura il paradigma successivo: pagano-cristiano ed ellenistico. La fine del mondo, attesa come prossima da Gesù e dai discepoli, non arriva. Ciò mette seriamente in crisi la fede delle comunità: “i primi cristiani si meravigliano che qualcuno di loro continuasse a morire. Questa idea che si continuasse a morire - idea che a noi, dopo duemila anni di cristianesimo o di pseudocristianesimo, appare ovvia - non era affatto tale per le prime generazioni. Loro prendevano sul serio l’idea che Dio salvava. Da che cosa salvava Dio? Dio salvava intanto dalla morte, dalla ingiustizia, dall’oppressione, dalla vecchiaia, dalla miseria” .
La “pienezza dei tempi” non coincide dunque con la “fine del tempo”: è, almeno fenomenologicamente, il fallimento della promessa di Dio e della missione messianica. Assistiamo qui ad una metamorfosi del binomio salvezza - escatologia che, avviatasi già all’inizio del II secolo, prosegue implacabilmente sino ai nostri giorni: la salvezza si smaterializza e il suo compimento viene rimandato ad una vita ultraterrena. Sarebbe interessante, anche se dispersivo rispetto al taglio di questo breve saggio, valutare gli effetti che questa evaporazione della dimensione salvifica ha giocato nel rifiuto della religione tout court da parte di ebrei come Karl Marx o Sigmund Freud. “Come giustamente ricorda G. Sholem, l’Ebraismo in tutte le sue manifestazioni ha avuto un concetto della redenzione come quello di un vento che si verifica alla luce del sole, pubblicamente, sul teatro della storia e nell’ambito della Comunità. La categoria ebraica della redenzione non considera la comunità umana redenta misteriosamente entro un mondo irredento. Nell’ambito di tale concezione, infatti, per l’ebraismo non esiste progresso. La storia dell’Idea messianica ebraica ha sempre percorso un cammino che teneva conto di questa necessità, cioè, che lo scopo della realizzazione messianica non poteva limitarsi semplicemente a un fatto interiore, cioé ad una cosiddetta redenzione dello spirito da cui il mondo materiale rimanesse estraneo” , Tutto al contrario, dal Medioevo alla Modernità, sino al XXI secolo, la stragrande maggioranza dei cristiani interpreta “la salvezza in senso spirituale”, attenuando lo scandalo per “la sconfitta storica di Dio”: “il mondo va per la sua strada, ma dentro di noi, se noi siamo fedeli alla legge di Dio, siamo riconciliati con Dio, siamo salvi. Abbiamo trasformato la salvezza da un annuncio di redenzione piena della nostra vita umana, storica, anche corporea, nell’annuncio di una salvezza puramente spirituale. Una liberazione dal peccato, ma non una liberazione dalle conseguenze concrete del peccato che sono la sofferenza, la morte” .
Questa metamorfosi teologica non sarebbe stata possibile se gli autori e i redattori del Secondo Testamento non fossero stati tanto critici quanto assimilatori e rielaboratori dello gnosticismo. Ciò vale soprattutto per Paolo, che appartiene “alla storia della gnosi (…) e non solo come suo avversario”, e per Giovanni, vero e proprio “gnostico cristiano” (con lui è “entrato nel canone del Nuovo Testamento un ‘eretico’ in veste di testimone cristiano”) .

Islamismo

Anche sotto l’angolazione soterio-escatologica l’islamismo può considerarsi un ritorno, nel VII secolo d. C., allo spirito originario del kerigma cristiano. Certo - dopo sei secoli - non si poteva recuperare la nota dell’imminenza della fine del mondo: era ormai chiaro che la storia dell’uomo non avesse un termine certo né, tanto meno, prossimo. Si poteva, però, recuperare la dimensione ‘carnale’ della salvezza: il suo spessore ‘fisico’, ‘corporeo’, ‘materiale’. Così, nel Corano (nel quale “protologia ed escatologia” risultano “strettamente legate”: lo stesso Dio, che “ha creato il mondo e lo conserva costantemente, è anche capace di ricreare e risuscitare”), vengono scavalcate “le tarde rielaborazioni cristiane della beatitudine eterna” - giudicate “troppo spirituali e soprannaturali” - e si risale al registro realistico ebraico e proto-cristiano. Cosa ci attende subito dopo la morte? “I buoni (i credenti) vengono inclusi nella beatitudine eterna, nel paradiso; i cattivi (i miscredenti) invece entrano nella dannazione eterna, nell’inferno. O l’uno, o l’altro: uno stato intermedio non esiste. Il paradiso e l’inferno vengono descritti molto concretamente nel Corano. (…). Non mancano di certo affermazioni su di una visione beatifica di Dio, come anche sul perdono e sulla pace, ma sono comunque molto marginali, se li si paragona con le straordinarie descrizioni del paradiso pieno di beatitudine celeste. Poiché nel ‘giardino delle delizie’ (’giardino dell’Eden’), con il compiacimento di Dio, toccherà ai giusti la ‘grande felicità‘: una vita piena di serena gioia dei sensi su letti ornati di gemme, pasti squisiti, ruscelli di acqua sempre pura, latte con miele chiarificato e persino vino pregiato, offerto da fanciulli eternamente giovani. Sì, i beati possono persino godere della compagnia delle incantevoli vergini del paradiso, che prima non erano mai state toccate” .

Induismo e buddhismo

Per le tre religioni monoteistiche del Libro, il protagonista della salvezza dell’uomo è Dio (al quale si rivolgono vari appellativi - JHWH/Adonai, Abbà, Allah - nella profonda convinzione che la sua identità resta comunque irrimediabilmente segreta): ma l’iniziativa divina resterebbe vana senza una qualche disponibilità da parte dell’essere umano, deuteragonista e non mera comparsa nel dramma della storia.
A prima vista - e secondo una vulgata diffusa nella storiografia delle religioni - la prospettiva induista e buddhista sarebbe esattamente opposta: la salvezza non come dono dall’alto ma come conquista dal basso. Come lenta, faticosa, progressiva acquisizione dell’esercizio ascetico. In effetti, per l’Induismo, “la verità religiosa non deve, anzi non può essere diffusa per via missionaria. Ogni individuo raggiungerà da sé quel punto in cui avvertirà il bisogno di andare in cerca di un maestro. La condizione di non-redenzione non emerge nella coscienza grazie all’offerta di una qualche salvezza, al contrario prima o poi l’uomo anela spontaneamente ad un di più, ad un compimento che egli non riesce a trovare nella sua situazione presente” . Nel variegato arcipelago del Buddhismo, poi, si possono rintracciare versioni che insistono in maniera ancor più netta sul ruolo dell’iniziativa umana nel cammino della liberazione (vedi la via “esoterica e sessuale nel cosiddetto tantrismo di sinistra” ). Ma, considerando Induismo e Buddhismo complessivamente, si può rappresentare in maniera polare la differenza fra “una via ‘profetica’ di accesso a Dio” (”un Dio che prende Lui l’iniziativa di farsi incontro all’uomo”) e una via ‘mistica’ (che “si qualifica invece come esperienza di una scoperta progressiva del ‘divino’ attraverso processi dove sembra primaria l’iniziativa dell’uomo che va in cerca del ‘trascendimento di sé’”)? Si può insomma contrapporre la prospettiva biblica di un ‘trascendente’ che “entra nella storia e si fa immanente (culmine l’Incarnazione)” e la prospettiva delle filosofie religiose orientali di un ‘immanente’ che “cerca di diventare trascendente” ? O questo schema funziona solo se consideriamo, da una parte, certe interpretazioni ‘quietiste’ dell’azione della grazia divina e, dall’altra, certe tecniche di ginnastica psico-fisica quasi prometeiche?
Se risaliamo alle fonti vetero-testamentarie del monoteismo biblico, la contrapposizione sfuma notevolmente. E’ vero che, secondo la tradizione jahvista (sin dai primi versetti del capitolo 12 della Genesi), “per l’umanità peccatrice c’è la benedizione di Dio, c’è la promessa”: ma come avviene questa redenzione salvifica? “Anche nel mondo circostante si parlava di riscatto dell’umanità o di liberazione dal male oscuro (male oscuro che i popoli vicini ritenevano essere l’effetto di un mito, cioè di avvenimenti primordiali di cui gli uomini erano soltanto vittime). Ma si pensava come unica possibilità di togliere gli uomini da questo mondo. Perché proprio la sua caduta in questo mondo era il male oscuro secondo queste culture. La liberazione dell’uomo è liberazione dal mondo, è uscita dalla storia. Per lo jahvista invece, secondo cui il male oscuro ha una causa storica, appunto le scelte dell’uomo, il riscatto dell’uomo avviene sul piano storico. Il male oscuro è effetto della storia e la salvezza di Dio è effetto della storia. Nel senso che la salvezza viene attraverso il ribaltamento delle scelte dell’uomo. Se sono le scelte storiche dell’uomo che hanno introdotto il male oscuro, solo attraverso un loro ribaltamento ci sarà la salvezza. Come non c’è un male oscuro che piove tra capo e collo, così non c’è una salvezza che piova tra capo e collo. Si tratta di ribaltare il rifiuto di Dio, la divinizzazione del mondo, il rifiuto dell’altro, accogliendo Dio come l’unico Signore proprio, il mondo come cosa e l’altro come fratello: questa è la salvezza. Una salvezza donata da Dio nel senso che Dio è con l’uomo a dargli la capacità di ribaltamento. (…) La storia è drammatica perché ogni uomo, dentro il grande corso dell’umanità, è chiamato ad operare queste scelte nuove, dicendo di no alle tentazioni radicali che sono in lui e attorno a lui di rifiuto del Dio creatore, di divinizzazione del mondo (l’idolatria) e di rifiuto dell’altro come fratello” .
Ma allora, se andiamo all’essenziale, prospettiva biblica e prospettiva sapienziale orientale non differiscono tanto sul ruolo dell’uomo (in entrambe le prospettive è enorme la sua responsabilità in ordine alla salvezza), quanto sulla configurazione di tale salvezza: che nel caso del monoteismo dovrebbe, prima di tutto e fondamentalmente, giocarsi nel mondo e nella storia ( e solo a titolo di effetto, di conseguenza, nell’eternità) e nel caso delle sapienze orientali appare, prima di tutto e fondamentalmente, misurata dalla distanza che si riesce a guadagnare rispetto ai vincoli del mondo e alle contraddizioni della storia.
Tuttavia questa diversità di interpretazione teorica (che va rispettata senza cedere a nessuna amalgama qualunquistica: la ricchezza plurale delle religioni esige che ciascuna mantenga la propria identità essenziale) non pregiudica a mio avviso una splendida, confortante, convergenza pratica: dunque su un piano che - trattandosi di religioni più che di filosofie nel senso greco-occidentale del termine - va considerato preminente rispetto alle questioni intellettuali. In linguaggio biblico “la salvezza” si lascia condensare in una formula sintetica: “la riconciliazione degli uomini tra di loro, degli uomini con Dio, degli uomini con la terra” . Sulla solidarietà fra gli uomini e sul rispetto del cosmo non si possono certo registrare divergenze né con i linguaggi extra-biblici né, tanto meno, con i contenuti veicolati: se mai, si può notare una più spiccata sensibilità orientale verso quei fratelli minori, gli animali, che popolano l’ampio spazio fra umanità e mondo vegetale. Più problematica resta la tematica prettamente teologica: che significa - nei due distinti universi di pensiero - “riconciliazione degli uomini con Dio”? Non permane una irriducibile alternativa fra “il Dio ‘personale’ e il Dio ‘impersonale’ “? Ma anche su questo tema, davvero centrale, assistiamo all’abbattimento di mura - ritenute per secoli insormontabili - a causa del “più grande terremoto culturale, forse, della storia!”: “i continenti religiosi ormai sono ‘alla deriva’, e si urtano a vicenda per intrecciarsi e mutuamente modificarsi” . Infatti - continua uno dei maggiori teologi cattolici italiani del XX secolo - “oggi siamo indotti a misurare anche i limiti della nostra interpretazione classica della ‘personalità‘ di Dio, e siamo costretti a denunciare gli equivoci nei quali è sempre possibile cadere quando si pretende di giudicare dall’esterno il cosiddetto carattere ‘impersonale’ del concetto di Dio e dell’Assoluto, che sarebbe proprio delle religioni orientali. La nostra attribuzione di ‘personalità‘ a Dio non è forse troppo spesso inficiata di individualismo privatistico? E l’ ‘impersonalità‘ di cui noi accusiamo il pensiero religioso orientale non potrebbe, forse, nascondere invece soltanto un acuto senso della trascendenza, una istanza critica rivolta al nostro modo di pensare la personalità di Dio?” .
Al di là delle contaminazioni teoretico-teologiche, poi, andrebbe rivisitato il livello delle contaminazioni mistico-spirituali: le vicende umane ed intellettuali di Thomas Merton, di Bede Griffiths, di Raimundo Panikkar e di tantissimi altri giganti della nostra epoca stanno a testimoniare che, quando ci si avvicina al Mistero della vita, al Cuore della realtà, gli atteggiamenti dell’uomo tendono ad assomigliarsi. Il discorso su Dio tende a diventare, dapprima, discorso con Dio e - infine - “inno di silenzio” . Un silenzio trepidante, adorante, che si estende alle diverse ipotesi teologiche riguardanti la salvezza e l’escatologia perché preferisce affidarsi ad una Saggezza ineffabile che ci precede, ci avvolge, ci accompagna e ci attende.

Una nota teologica

Mi dispiacerebbe se la sinteticità di questi appunti dovesse dare adito a obiezioni teologiche infondate (in aggiunta alle già numerose, fondatissime, che si possono invece legittimamente avanzare). Soprattutto nelle righe conclusive potrei suggerire l’idea che, nella mia prospettiva, sarebbe prevedibile - o, per lo meno, auspicabile - che le diverse soteriologie (e, quando è possibile collegarle, le rispettive escatologie) annegassero in un blob indistinto in cui tutti i cigni sono bianchi. Ciò che penso in proposito lo ha invece espresso, con tutta la chiarezza desiderabile, il teologo vietnamita da cui ho preso le mosse. Nel rimandare al suo saggio sopra citato, mi limito a riportare un passo cruciale (e illuminante) in cui si esplicitano alcune implicazioni di una teologia “multisalvifica”: “essa comporta che non si possa dire 1) che vi è un solo cammino verso un’unica vetta (’esclusivismo’); 2) che vi sono percorsi diversi ma in definitiva ugualmente validi verso un’unica vetta (’pluralismo’); 3) che vi è un’unica vetta e, a fronte dei diversi cammini che affermano di condurre ad essa, solo uno è vero, e ad esso conducono gli altri percorsi, che alla fine si fondono in esso (’inclusivismo’). Di conseguenza, una teologia della religione ‘multisalvifica’ non adotta il fondamentalismo (opzione 1), non cade vittima della ‘dittatura del relativismo’ (opzione 2) e non fa della cooptazione trionfalistica (opzione 3)” . Poiché essa afferma, invece, che ” 1) differenti religioni parlano di ’salvezza’, ammesso che lo facciano, in modi marcatamente differenti, e forse anche inconciliabili; 2) i mezzi (come le dottrine, le pratiche morali, i rituali e le spiritualità) che prescrivono per raggiungere quell’obiettivo sono vari e davvero diversi tra loro, a volte persino all’interno della stessa tradizione religiosa (…); 3) è pertanto logicamente impossibile dichiarare in astratto che una particolare religione nel suo insieme sia falsa o che una particolare tradizione religiosa sia come tale l’unica vera”, l’unica opzione resta “esaminare una particolare e specifica dottrina o una pratica morale o un rituale, caso per caso, e concludere, più spesso per tentativi, che sia vera, o falsa, o molto spesso tutte e due le cose a seconda della sua coerenza e ragionevolezza intrinseca, del suo contesto, delle circostanze e conseguenze, e non che sia falsa o imperfetta o inferiore semplicemente perché non ebraica, non cristiana, non islamica o non buddhista o qualsiasi altra cosa” .
Coerenza logica, ragionevolezza intrinseca del messaggio, adeguatezza al contesto storico-sociale e alle circostanze contingenti, conseguenze pratiche: forse si tratta di criteri che possono risultare troppo ‘deboli’ per misurare la verità/falsità di una religione. Che ne è - si potrebbe chiedere - del criterio più propriamente epistemico-gnoseologico della corrispondenza di un messaggio religioso a come-stanno-effettivamente-le-cose (alla realtà ‘assoluta’, all’essere)? Domanda legittima ma che, a mio avviso, sposta la tematica dal tutto (una religione) ad una parte (la teologia): ad una teologia sistematica o speculativa o ‘dogmatica’ si possono chiedere molte più credenziali veritative che ad una religione, intesa come atteggiamento esistenziale di un soggetto (individuale o comunitario o sociale) nei confronti del Mistero.
Mi rendo conto che la teologia esposta da Peter Phan alle Journéès Romaines Dominicaines del 2009 resta perfettibile: il che implica l’impegno non soltanto di evidenziarne i punti deboli ma anche di emendarla mantenendone almeno il medesimo standard di equilibrio e la medesima capacità di misurarsi con la sfida contemporanea della globalizzazione.

Augusto Cavadi

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