mercoledì 31 agosto 2011

Abolire la bocciatura non è la soluzione!


“Repubblica – Palermo”
7.8.2011

ABOLIRE LA BOCCIATURA NON MIGLIORA LA SCUOLA
E’ logico che se l’Ocse ricorda che le bocciature possono bloccare l’itinerario evolutivo di uno studente, e se la Sicilia ha il record poco invidiabile di alunni dichiarati ‘non promossi’, un insegnante sensibile come Maurizio Muraglia riapra la riflessione su queste pagine (“Repubblica-Palermo” del 31 luglio). Tuttavia ci sono tematiche che, se vanno riprese, non possono esserlo a metà. Altrimenti chi è fuori dal mondo scolastico può equivocare.
Primo possibile equivoco: quando un consiglio di docenti boccia un alunno, prende atto di una sconfitta sia dell’alunno che propria. Uso il termine ‘sconfitta’ per evitare letture morali, o moralistiche, che cercano sempre e comunque un colpevole. Quando muore un ammalato di cancro ci sono due sconfitti (il malato e il medico) e nessun colpevole. Questo lo dico perché tutte le volte che un alunno è davvero gravemente lacunoso, al punto da non poter essere ammesso alla classe successiva, ci vuole molto più coraggio ad ammettere il fallimento ‘oggettivo’ che a chiudere un occhio – sulle lacune dell’apprendimento e dunque anche dell’insegnamento – e far finta di nulla. L’opinione comune parla in casi del genere di docenti spietati, miopi e reazionari (se bocciano) o generosi, comprensivi, progressisti (se promuovono): invece di parlare, rispettivamente, di docenti onesti e di docenti mistificanti. 
Seconda precisazione: Muraglia (giustamente) auspica insegnanti capaci di contagiare la motivazione allo studio come rimedio radicale alle insufficienze sistemiche degli alunni, al posto della bocciatura che sicuramente non fa innamorare dello studio e in certi casi lo rende addirittura più odioso di prima. Benissimo. Ma innanzitutto va chiarito che il diritto allo studio è, strutturalmente, inseparabile dal diritto all’ignoranza: se non sono diventato né un fine matematico né un abile pittore può essere dipeso anche dalla mia insondabile libertà di incompetenza, quali che siano stati i miei maestri di aritmetica o di disegno. La storia insegna che Platone ha avuto un solo discepolo della statura di Aristotele e molti altri di cui non è rimasto neppure il nome: gli mancava forse l’amore per la filosofia? Dei grandi geni dell’umanità raramente ricordiamo i figli e, quando li conosciamo, non sono mai all’altezza dei genitori. E comunque, per tutti i casi in cui la responsabilità della scarsa passione per le discipline dipende da insegnanti poco appassionati e poco appassionanti, quale sarebbe il rimedio decisivo?
La risposta più frequente è: si paghino di più i professori. Una risposta esatta ma incompleta. Se non la si integra, nonostante venga solitamente etichettata come marxista, in realtà anche agli occhi di Marx risulterebbe biecamente materialistica. Infatti i soldi in quanto tali non fanno crescere nessun amore autentico: professori mal pagati l’hanno dimostrato per decenni, proprio negli stessi periodi storici in cui altri loro colleghi dimostravano esattamente il contrario. Allora la questione va riformulata integralmente: la scuola non può essere il grande ammortizzatore sociale della disoccupazione intellettuale. Si deve poter entrare solo se si dimostra - possibilmente con un corso teorico e pratico di almeno due anni – di avere le qualità culturali, etiche, psicologiche e relazionali per saper insegnare, cioè contagiare il trasporto per ciò che si è studiato e non si cessa di approfondire. Solo una rigida selezione in entrata (senza leggi e leggine condonatorie) legittima stipendi almeno doppi rispetto agli attuali; viceversa, solo stipendi almeno doppi rispetto agli attuali (dunque pari a un medico, a un funzionario della regione o a un idraulico) possono spingere ragazzi in gamba a intraprendere la carriera docente come prima opzione, non come remedium disoccupationis.
So benissimo che non è il momento storico più adatto per trovare consenso su considerazioni di questo genere, indigeste al populismo demagogico della cultura sindacale (preoccupata di sistemare precari più che di riformare il sistema scolastico) e, ancor meno, alla “ragione strumentale” della maggioranza governativa (per la quale “con la cultura non si mangia”). Ma proprio perché l’andazzo è questo, non ci dobbiamo attendere altre soluzioni al dramma segnalato da Muraglia: “tanti segnali prodotti dagli stessi adulti persuadono i nostri giovani ogni giorno che di serio in giro è rimasto ben poco”.

Augusto Cavadi

Una sfida al comune senso del pudore


“Repubblica – Palermo”
24. 8. 2011

IL DEPUTATO COLTO IN FLAGRANTE:
UNA SFIDA AL COMUNE SENSO DEL PUDORE

Quando ero ragazzo, per le vie centrali della città si aggirava il pretore Salmeri, famigerato per l’accanimento ossessivo con cui difendeva “il comune senso del pudore”. I miei coetanei ricorderanno le sue crociate - assurte agli onori delle cronache nazionali – contro le turiste tedesche in pantaloncini troppo corti e persino contro un manichino in vetrina, reo di esibire un perturbante topless (con bretelle).
Allora sorridevamo, abbastanza infastiditi per la verità, del moralizzatore a piede libero. Oggi – lo confesso – ne avverto l’assenza. Sarebbe davvero encomiabile un pretore, o un suo equivalente funzionale più adatto alla bisogna, che bloccasse le offese contro il comune senso del pudore. No, non mi riferisco né alle gambe delle ragazze (provvidenziale compensazione delle sconcezze estetiche di troppi angoli degradati della città) né alle tette dei manichini (pallido surrogato di prodotti originali non più inaccessibili agli sguardi maschili). Piuttosto a qualcosa di realmente osceno che ferisce nell’immediato la sensibilità dei singoli e, in prospettiva, distorce i criteri morali di intere generazioni: la faccia tosta di molti politici.
So di non essere perfettamente allineato con la moda del momento, ma devo ammettere che non riesco ad appassionarmi abbastanza alla polemica contro gli emolumenti mensili di un deputato regionale e dei suoi benefit. Mi pare di essere dentro un incubo onirico grottesco: c’è un villaggio in fiamme, attorniato da boschi già parzialmente incendiati, e scateniamo la caccia ai fumatori che inquinano l’aria con le sigarette accese. Voglio dire che si può pure discutere degli stipendi degli onorevoli, ma senza dimenticare che in origine miravano a due obiettivi rilevanti: permettere anche ai cittadini più poveri di fare politica attiva (evitando che essa continuasse a essere riservata, quasi come un lusso, ai benestanti); convincere anche i professionisti più qualificati (e meglio remunerati) ad abbandonare per cinque anni le proprie attività private per dedicarsi al bene pubblico. Vogliamo dircela tutta? Se un deputato non fa il suo dovere e latita, il mensile che gli viene consegnato dalle casse regionali è sproporzionato; ma se lavora sodo dodici ore al giorno (ben al di là della presenza fisica all’Ars, per esempio esaminando le proposte di legge altrui e elaborando con cura le proprie), perché cominciare a scandalizzarsi del suo stipendio senza essere sfiorati, neppure minimamente, da obiezioni verso i guadagni (dieci, cento, mille volte più consistenti) di calciatori e attrici, di giornalisti televisivi e di indossatrici? Perché accettare come ovvio che, nelle graduatorie annuali dei contribuenti, non compaiano nomi noti di notai, gioiellieri e medici? Abbiamo idea - ne conosco alcuni, ma sono una minima parte – di quanti siciliani sono diventati straricchi investendo nelle borse europee i soldi della buona borghesia nostrana (e mi riferisco ovviamente a quanti operano all’interno della legalità capitalistica, altrimenti mi renderei il gioco troppo facile)? Evasori, beneficiari di rendite parassitarie, ma anche personaggi pubblici non privi di qualità e talento: perché vanno tollerati o, in alcuni casi, corteggiati e persino idolatrati mentre un politico che faccia discretamente il suo mestiere (guadagnando molto meno) va sputtanato?
Ciò chiarito, aggiungo subito che la battaglia contro i costi della politica va fatta. Senz’altro. Subito. Ma lucidamente, non demagogicamente né emotivamente. Va fatta partendo dal numero ingiustificabile di consulenti che non devono certificare neppure con uno straccetto di carta che cosa, quando e come hanno ‘consigliato’ i loro referenti politici. O anche dal finanziamento a pioggia (a cui da decenni si oppone il Centro siciliano di documentazione “G. Impastato”) di circoli, associazioni e centri studi creati esclusivamente sulla carta per succhiare risorse pubbliche all’ombra protettiva di partiti e deputati di ogni schieramento. O ancora dagli stipendi degli alti burocrati regionali (per tacere di incentivi, liquidazioni di fine rapporto, pensioni d’oro a quarantenni) che pochi anni fa hanno indotto uno di loro, il referendario Livio Ghersi, a proporne pubblicamente la riduzione, con le reazioni corporative che si possono facilmente immaginare nel paese dei moralisti a spese degli altri.
E comunque, per quanto osceni, i costi finanziari della politica sono bazzecole rispetto ai costi etici. In questi giorni, sarebbe bene non dimenticarlo troppo in fretta, si sta consumando un obbrobrio molto più pornografico di qualsiasi altra offesa al comune senso del pudore: un deputato, colto con la mazzetta in mano e condannato ai domiciliari fuori dalla Sicilia, continuerà a ricevere il suo lauto stipendio mensile e (cosa che a me pare molto più insopportabile) continuerà a far parte del più antico parlamento d’Europa. Che guadagnasse dieci volte rispetto a me, quando ufficialmente lavorava anche per me, lo potevo capire; che oggi, sotto processo per reati palesi, debba rappresentarmi davanti al mondo, non lo posso né capire né accettare. 
Conosciamo l’obiezione: la legge consente a un deputato regionale, che esca dal carcere in attesa di processo, di far parte dell’Assemblea (anche se non si capisce bene con quali espedienti tecnici potrà ascoltare i dibattiti e far valere il proprio voto finché perdurerà il divieto di varcare lo stretto per tornare a Misilmeri). Ma la legalità è un valore assoluto o ve subordinata alla giustizia, all’equità e direi al buon senso? Ci si lamenta delle ingerenze dei magistrati, ma ogni volta che la politica può auto-correggersi perde l’occasione. Il mite, agniforme Lupo ha chiesto pubblicamente a Vitrano (nonostante sia – assai eloquentemente - il deputato PD più votato, o meglio proprio per questo) di fare con senso di responsabilità un passo indietro? Il capogruppo del PD all’Ars, in solido con gli altri colleghi, ha invocato l’intervento della segreteria nazionale e dei probiviri? Eppure non sarebbe difficile. Basterebbe coniare una di quelle frasi in bersaniese (che apparentemente non dicono nulla, ma che fanno effetto lo stesso), come ad esempio “Mica possiamo raccogliere le fragole con le mani intinte di acido urico!” (che tradotto in italiano corrente, ed eufemizzato, equivarrebbe grosso modo: “Non è che possiamo chiedere i voti delle persone oneste se ci teniamo in piena attività anche deputati colti in flagranza di reato!”).

Augusto Cavadi

Restituire a Palermo il suo mare


“Repubblica – Palermo”
18.5.2011

COSA FARE PER RESTITUIRE IL MARE A PALERMO
Si può fare qualcosa per sciogliere uno dei tanti paradossi della nostra città, metropoli marittima senza mare? Un gruppo di “cittadini d’Europa, in quanto tali anche cittadini di Palermo, che, malgrado tutto, amano la nostra città” (si tratta dello stesso “Comitato per il centro storico” che una quindicina di anni fa ha liberato il Foro Italico) sta raccogliendo le firme per una lettera pubblica al sindaco e alle altre autorità competenti su “recupero e riqualificazione della costa cittadina”. L’iniziativa merita attenzione, e sostegno, per almeno due ragioni. La prima è di metodo: mentre i partiti litigano su tutto, tranne che sul futuro della città, dei ‘comuni’ cittadini si riuniscono per analizzare uno dei tanti aspetti della crisi sociale, elaborano una soluzione concreta, la regalano a chi ha il potere di trasformarla in realizzazione tangibile, invitano tutti i concittadini a conoscere questa proposta e a sostenerla con la loro partecipazione attiva. Un metodo democratico, insomma, non solo come etichetta inflazionata ma anche come motivazione di partenza e punto di arrivo.
La seconda ragione che rende meritoria questa iniziativa popolare è data dal merito, dai contenuti effettivi, di cui è veicolo. Non si chiede, infatti, una rivoluzione improvvisa e radicale (rispetto alla quale è sin troppo facile fare spallucce con un sorriso di sufficienza), bensì un intervento concreto e attuabile: una riqualificazione del pezzo di costa che va dal porticciolo di S. Erasmo alla foce del fiume Oreto. Si chiede un passo circoscritto, limitato, che potrebbe però diventare il primo di una lunga marcia per inserire il capoluogo di regione nel circuito delle città mediterranee (come Genova e Barcellona) che in questi decenni hanno saputo dare un colpo d’ali al proprio sviluppo urbanistico e, conseguentemente, culturale, turistico e economico. Il “sacco di Palermo” è stato consumato, grazie al patto d’acciaio fra mafiosi di provincia e borghesi di città accumunati dalla stessa sete di denaro, in anni in cui la coscienza civica - anche per ragioni di depressione economica – era anestetizzata. Ma oggi, nel XXI secolo, non abbiamo tutte gli elementi per capire che gli smodati interessi speculativi dei privati si risolvono in un disastroso danno pubblico? Non abbiamo le conoscenze per capire che non si possono continuare a riversare in mare illegalmente - come in un’immensa discarica - sfabbricidi e materiale di risulta degli sbancamenti, senza che né cittadini né forze dell’ordine né tanto meno amministratori intervengano a fermare lo scempio.
Cosa si tratterebbe di fare, più precisamente, in quella zona del litorale palermitano in cui Ciprì e Maresco ambientavano i loro surreali corti di “Cinico TV”? Liberarla dalla barriera di rifiuti, maleodoranti e tossici, che nascondono il mare a cittadini e turisti; in particolare, riattivare il porticciolo di Sant’Erasmo, senza cementificarlo e limitandosi a ripristinare la scogliera e le spiaggette (con qualche posto di ristoro in legno). Escludere, dunque, il progetto dell’attuale Autorità Portuale di creare un ampio porto – per il rimessaggio di 280 natanti – con gli alti rischi idrogeolici connessi. E’ il tentativo di replicare, da parte del “Comitato per il Centro Storico di Palermo”, il piccolo miracolo quando, sostenuto da circa 3000 aderenti tra cui i consoli di Francia e Germania, ottenne, dopo un’aspra battaglia, la rimozione di una “Luna Park” e di un mercato abusivo alla Marina. Infatti, la costa adiacente verso oriente, nonostante il piano regolatore ne preveda il recupero, giace ancora nel degrado più scoraggiante. Senza considerare le condizioni – su cui periodicamente tornano i riflettori, anche per merito della “Fiumana d’arte” di Antonio Presti – di quello che, con generoso sforzo d’immaginazione, si potrebbe continuare a chiamare fiume Oreto e della sua foce.
Potrebbe essere questa l’occasione per un sussulto di dignità della sonnolenta amministrazione comunale, in felice sinergia con pezzi responsabili dell’altrettanto sonnolenta società civile? Un’occasione preziosa per smentire la definizione dell’inferno proposta da un personaggio di Dacia Maraini: “Una specie di Palermo senza pasticcerie”.

Augusto Cavadi

Una questione (anzi, più d’una) di stile


“Repubblica – Palermo”
1 maggio 2011

Autori Vari
SINGOLARITA’ E FORMULARITA’
Ipoc
Pagine 136
Euro 16

Stile: un vocabolo usato in contesti e con significati diversi, ma non così distanti da nascondere una certa “aria di famiglia”. Proprio quel ceppo semantico comune alla cui ricerca si mette, in questo libretto poco voluminoso ma molto intenso (Autori vari, Singolarità e formularità. Saggi per una teoria generale dello stile, Ipoc 2011), un gruppetto di amici siciliani dalle professioni diverse (architetti, urbanisti, filosofi, storici) accomunati da viva curiosità intellettuale. Il dato di partenza: le nostre città, sino a pochi decenni fa caratterizzate da uno ‘stile’, sembrano oggi prive di impronta originale. Forse l’urbanista dovrebbe completare le competenze tecniche con una più acuta sensibilità per i bisogni e per i diritti degli abitanti, anche i meno abbienti. In ciò aiutato dallo storico dell’arte, in linea di principio custode della memoria visiva culturale. La ricerca indaga lo stile anche là dove di solito si cela: nell’arte della traduzione da una lingua all’altra. Non potevano mancare, infine, due contributi per tematizzare il cuore della questione: che cos’è lo stile in un filosofo? E, più radicalmente, com’è possibile - a tutti - interpretare lo stile secondo filosofia? La risposta offre una chiave di lettura dell’intero libro: riconciliando “etica ed estetica” nel proprio “stile di vita”.

martedì 16 agosto 2011

Perché, se Gesù NON battezzava i discepoli, la chiesa battezza?


Il semestrale “Viottoli” (Pinerolo) ha posto ad alcuni amici l’interrogativo sulle ragioni per cui – nonostante Gesù di Nazaret NON abbia mai amministrato il battesimo ai discepoli – dopo la sua morte (cfr. Atti degli apostoli, dal capitolo 8 al capitolo 11) i cristiani abbiano ripristinato la pratica di Giovanni il Battezzatore che battezzava con l’acqua.

Sul numero 2011/11 (anno XIV) sono state pubblicate le risposte di alcuni di noi (Giancarla Codrignani, Giovanni Franzoni, Annalisa Guida, Lidia Maggi, Walter Peruzzi, Letizia Tomassone, Marcello Vigli). Qui di seguito la mia (pp. 41 - 42).

Sulla problematica da voi segnalata – con toni che rivelano legittima curiosità intellettuale e più ancora sincero coinvolgimento esistenziale – cosa può dire un filosofo di professione e teologo per diletto come me, in aggiunta a quanto di più documentato e meditato diranno i teologi ‘veri’? Innanzitutto che la prassi battesimale costituisce un caso particolare della questione più generale della concezione escatologica attribuibile, con molta verosimiglianza, a Gesù di Nazaret: quella concezione, su cui ha tanto insistito fra altri Sergio Quinzio, per cui ai suoi occhi il regno di Dio fosse imminente e, con esso, la fine del mondo (almeno di ‘questo’ mondo). Se davvero il Maestro era convinto che “la fine dei tempi” fosse prossima, perché mai avrebbe dovuto creare discepoli, organizzare comunità, stabilire riti di iniziazione? Ma gli Atti degli apostoli sono redatti, come sappiamo, dopo una quarantina di anni dalla crocifissione. Nonostante la fede nella misericordia del Padre (che avrebbe accolto nella gloria il Messia), il mondo era rimasto tale e quale: stesse ingiustizie, stesse malattie, stesse catastrofi naturali. Insomma: la “sconfitta di Dio” era stata definitivamente consumata.
In questo contesto, la cerchia dei discepoli aveva solo due vie: ritirarsi in buon ordine, chiudendosi nella delusione se non addirittura nella disperazione; oppure ripensare il messaggio originario, adattarlo alle nuove circostanze e tentare di rispondere creativamente alle sfide impreviste. Secondo una celebre, forse abusata, formulazione sociologica (che, per la verità, risale alle riflessione del giovane Hegel sulle origini del cristianesimo), il ‘movimento’ è diventato ‘istituzione’. Con tutti i vantaggi, ma anche i risvolti negativi della trasformazione. I vantaggi: perché senza una qualche forma di istituzionalizzazione, quasi certamente non sarebbe rimasta traccia storica della figura e del messaggio del Cristo. I risvolti negativi: con qualsiasi forma di istituzionalizzazione, diventa inevitabile la deformazione del modello originario.
E’ comunque all’interno di questo ambiguo processo di istituzionalizzazione che può spiegarsi la differenza fra il metodo-Gesù (“invitare uomini e donne a seguirlo sui sentieri dell’amore e della cura reciproca…”) e il metodo-Chiesa (occuparsi di “numeri, regole, dottrine…”): differenza che trova nella ‘invenzione’ del battesimo sacramentale una delle sue molteplici concretizzazioni esemplificative. A ben riflettere, tale ‘invenzione’ non va né mistificata né demonizzata. Non va mistificata spacciandola per una pratica comandata personalmente da Gesù perché, per quanto se ne possa capire in sede di analisi storica, non è vero che sia stata da lui istituita e raccomandata. Non va neppure demonizzata perché ha un radicamento antropologico e una eloquenza significativa. Certo, la lettura teologica del battesimo come atto efficace ex opere operato, per così dire automaticamente, quasi magicamente, non basta a legittimarlo (e ancor meno basta a legittimare il ‘pedobattesimo’, il battesimo dei bambini incoscienti). Ma altre letture teologiche, supportate dalle acquisizioni delle scienze umane, potrebbero risultare più convincenti. Per esempio, recuperando l’archetipo ‘mare’ come simbolo del ‘male’: immergersi in esso significa lasciarsi ‘seppellire’ dalla negatività, riemergerne ‘liberarsene’ definitivamente. E recuperando l’archetipo ‘acqua’ come simbolo di pulizia, purificazione, vita nuova: in tutte le culture, come rappresentare più eloquentemente il passaggio da un’esistenza gretta e autoreferenziale, ‘macchiata’ da vizi vari, a un’esistenza aperta al divino e donata al prossimo? Tutti simboli che acquistano, o ri-acquistano, senso solo come manifestazione tangibile e sociale di una conversione che deve ‘prima’ avvenire nell’interiorità del soggetto adulto e responsabile (nelle religioni del Libro come ‘risposta’, appunto, ad una Parola che interpella e promette). D’altronde, come antecedente storico immediato del rito cristiano (cristiano-ecclesiale, non cristiano-gesuano), troviamo il battesimo degli esseni (certamente ben conosciuti e in parte frequentati da cristiani delle prime generazioni) che “segnava la felice conclusione di un processo di iniziazione” (E. Nodet – J. Taylor, Le origini del cristianesimo, Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 2000, p. 11).
Per concludere (molto provvisoriamente) queste brevi note amichevoli, direi che la questione del battesimo è una cartina di tornasole importante per capire quanto una determinata comunità, in una determinata fase storica, riesca a evitare il doppio scoglio dell’idolatria e dell’intimismo individualistico. Ogni gesto sacramentale, infatti, è segno di una dimensione più profonda: fermarsi al segno, assolutizzarlo, significa bloccare la propria esperienza di fede al livello feticistico. Scavalcarlo allegramente, però, in nome di una ulteriorità non detta e non dicibile, potrebbe rivelare una pericolosa sottovalutazione della struttura - corporea e sociale – dell’essere umano che, secondo l’avvertimento pascaliano, rischia di fare la bestia ogni volta che pretende di fare l’angelo.

Augusto Cavadi

lunedì 15 agosto 2011

IL CARABINIERE CLEMENTE BOVI


“Repubblica – Palermo” 14.8.2011

CLEMENTE BOVI, UN MARTIRE LAICO DEL SENSO CIVICO
Il titolo della breve, ma ricca, monografia non poteva essere più azzeccato: Un eroe semplice. Infatti il libro di Alfonso Lo Cascio, Giuseppe Cusmano e Vito Andrea Bovi (pubblicato dalle Edizioni Arianna di Geraci Siculo) è dedicato a un giovane carabiniere siciliano, Clemente Bovi, che da eroe è certamente morto ma dopo una vita ordinaria, pulita, semplice nell’accezione più bella dell’aggettivo. Nasce a Ciminna fra la prima e la seconda guerra mondiale e, come molti giovani siciliani di allora (e di oggi), sceglie di entrare nella Benemerita: un po’ per seguire un ideale, un po’ per guadagnarsi il pane. L’8 settembre del 1959 - ha 33 anni, è sposato ed ha un bambino di appena due mesi – viaggia, in borghese, a bordo di una Fiat 1100 guidata da un amico, alla volta di Caltabellotta. Poco dopo il bosco della Ficuzza, a circa sei chilometri da Corleone, un agguato di banditi comuni. Bovi potrebbe limitarsi ad obbedire all’ingiunzione di uscire dall’abitacolo e prostrarsi con la faccia a terra. Potrebbe: non è forse un “uomo semplice”? Ma anche le persone più normali devono fare i conti - quando non l’hanno tacitata del tutto – con un’istanza interiore enigmatica, ma insopprimibile. Qualcuno si ostinava, si ostina a chiamarla coscienza. Così reagisce sparando ai malviventi: due restano colpiti, ma altri due lo sorprendono alle spalle e lo abbattono.
Il resto appartiene a un copione che conosciamo troppo bene: funerali, fiori, omelie, pianti, medaglia d’oro alla memoria. Anche sul piano giudiziario il copione era allora abbastanza abituale (processo in primo e in secondo grado con assoluzione finale degli imputati), ma per fortuna su questo versante s’è registrata una rottura: oggi i giudici - neri, bianchi, rossi o rosei che siano – riescono a individuare molto più spesso i colpevoli e a mandarli in galera.
Perché rispolverare, a distanza di più di mezzo secolo, la vicenda? Le ragioni umane, affettive, le esplicita il figlio Vito Andrea in una toccante lettera postuma: “I genitori si augurano di lasciare in eredità ai propri figli denaro e beni materiali – certo può far comodo, perché negarlo ? – ma posso affermare che non esiste qualcosa al mondo di più grande, più meraviglioso e completo dell’amore tra un padre e un figlio. Non posso spiegare con le parole ciò che si prova a non averti accanto ogni giorno, a non poter sentire la tua voce, a non potermi confidare con te, a non poter condividere con te i progressi e le problematiche della mia vita. Se solo potessi parlarti un istante ti direi grazie per avermi dato la vita”.
Sulle ragioni storiche, oggettive, si sofferma invece Alfonso Lo Cascio nella sobria ed efficace Introduzione: “Quella di Bovi è la vicenda di una delle tante ‘vittime del dovere’ in Sicilia restate senza giustizia. Nell’attuale momento storico, in cui appare arduo suggerire persone votate semplicemente al bene della comunità, e ancora più difficile indicare eroi positivi, abbiamo voluto quasi strappare all’inesorabile oblio del tempo, la vicenda umana di un giovane rappresentante della legge degno di rimanere nella memoria collettiva di un Paese che spesso sembra aver smarrito il proprio sentiero. Abbiamo voluto proporre il profilo di uno di questi militari in cui l’eroismo si traduce nel diuturno impegno quotidiano che talora, sublimandosi, incontra la Storia”. A più di mezzo secolo di distanza non pochi gli interrogativi che rimangono senza risposta: secondo le testimonianze dei viaggiatori, i sei banditi facevano tutti parte di una banda di Gibellina, in provincia di Trapani, accusata di altre rapine e di numerosi fatti di sangue. Ma, in un periodo in cui il banditismo in Sicilia era quasi scomparso, che ci facevano a due passi da Corleone questi banditi di Gibellina? Si erano spinti «oltre confine»di propria spontanea volontà? O qualcuno li aveva «autorizzati» a «violare» il territorio di Corleone con una rapina?
Erano gli anni della guerra ‘civile’ interna a Cosa nostra fra gli uomini del dottor Navarra e gli uomini di Liggio (sappiamo che alla fine perse Navarra e fu l’inizio della carriera di Riina, Provenzano e Bagarella): erano forse troppo impegnati a liquidarsi a vicenda per controllare le scantonature di altri nel proprio territorio? Nel 1962 i giudici di Palermo emettono condanne esemplari per i sei imputati, ma solo quattro anni dopo il tribunale di Bari assolve tutti.
Augusto Cavadi

venerdì 12 agosto 2011

PAOLO GIACCONE, L’UOMO CHE DISSE NO ALLA MAFIA


“Repubblica – Palermo”
12.8.2011

PAOLO GIACCONE, L’UOMO CHE RUPPE LA REGOLA DELLA COMPLICITA’

Se l’11 agosto del 1982 non l’avessero crivellato di colpi al Policlinico universitario che adesso è a lui intestato, probabilmente Paolo Giaccone sarebbe uno stimato pensionato di 82 anni. La sua colpa? Essere stato un cittadino talmente ‘normale’ da risultare, in questa terra difficile, un pericoloso eversore delle leggi non scritte del dominio mafioso. Come medico legale, infatti, viene incaricato di periziare un’impronta che avrebbe incastrato gli assassini - per conto di Totò Riina - di tre mafiosi e di un ignaro passante bagherese. Un premuroso avvocato penalista (che sarà per questo condannato) gli consiglia di non essere troppo preciso nella perizia dattiloscopica: ma Giaccone è un professionista serio e un cittadino onesto. L’uomo dell’impronta è condannato all’ergastolo; lui a morte.
La magistratura ha individuato, processato e condannato (anche grazie ad alcuni collaboratori di giustizia) esecutori e mandanti dell’omicidio. Ieri, per la ventinovesima volta, familiari e amici lo ricorderanno nel luogo del martirio civile, laico (ma non per questo meno sacrosanto). Si può far qualcosa per rendere l’anniversario meno rituale e più significativo? Più che qualcosa. Per esempio si può cominciare a dire, a dirsi, nell’intimo della propria coscienza ma anche nell’aperto del dibattito pubblico, chi sono i responsabili radicali (al di qua dei killer, al di qua della Commissione di Cosa nostra) di quella morte: i medici siciliani che per anni, per decenni, per più di un secolo, hanno obbedito ai diktat della mafia senza battere ciglio. Quando si crea una prassi che diventa cultura, modus vivendi ac operandi, si preparano le condizioni ‘oggettive’ perché l’eventuale eccezione diventi un trasgressore, un testardo da punire.
E’ ovvio che il ragionamento non vale esclusivamente per una categoria professionale (anche se il mondo della sanità, da Guttadauro a Cuffaro, passando per Miceli e Aiello e tanti altri nomi, pare sia singolarmente a rischio di mafiosità): lo stesso si può dire - lo stesso ho detto in tante altre occasioni - per i preti che hanno condannato a morte Puglisi e per gli imprenditori che hanno esposto al macello Libero Grassi. Ancora una volta Palermo, produttore del virus, sta fabbricando l’antivirus. Chi vuole davvero onorare Giaccone - il dottore che amava suonare il piano, scrivere poesie e allevare uccellini – può fare una cosa molto concreta: sottoscrivere il “Manifesto” e la “Dichiarazione di impegno” che (insieme a Libero Futuro e Addiopizzo) il “Comitato dei PROFESSIONISTI LIBERI Paolo Giaccone”, propone da qualche mese, su impulso, fra gli altri, dell’instancabile Enrico Colajanni (www. professionistiliberi.org). L’elenco dei sottoscrittori sarà reso pubblico: perciò chi aderirà metterà non solo la firma, ma la faccia, la responsabilità civica, il coraggio politico. Non è un’operazione del tutto esente da rischi personali, ma ciò che vale ha sempre un prezzo. E’ preferibile contribuire, col proprio minuscolo ma insostituibile tassello, a una lotta di liberazione popolare oppure (come ho appreso, strabiliato, direttamente dagli interessati) arrivare a togliere le targhe professionali dai portoni di casa per sottrarsi alle richieste di pizzo a domicilio, persino se si è avvocati? Mentre l’amministrazione comunale, con la tempestività pachidermica cui ci ha ormai assuefatto al di là di ogni ragionevole satira, lascia ancora chiuso il Parco d’Orleans intestato (un anno fa!) al commissario Ninni Cassarà, la borghesia palermitana ha la possibilità di traghettare dal suo equilibrismo paramafioso a posizioni più nette: a segnare una delle svolte storiche cui, per fortuna, la storia recente della nostra isola ci sta abituando. Non ci sono d’altronde vie alternative: sino a quando a dire ‘no’ saranno pochi eroi borghesi, la mattanza potrà continuare.

[Molto più difficilmente ciò si verificherà se in minoranza saranno i professionisti che non aderiranno all’appello. Potranno certo spiegarci i motivi del loro eventuale rifiuto (e chi discuterà apertamente sarà più stimabile di chi aderirà per conformismo e quieto vivere), ma in mancanza di spiegazioni sarà difficile continuare a stimarli e a richiederne le prestazioni]*.

Augusto Cavadi

* L’ultimo capoverso, forse opportunamente, è stato tagliato dalla redazione di “Repubblica”.

Bella ‘recensione’ (o quasi) di Giuseppe Alberto Falci

mercoledì 10 agosto 2011

Lorenzo Panepinto: chi era costui?


“Centonove”
5.8.2011

SUL CENTENARIO DI LORENZO PANEPINTO
Nonostante vengano considerati tra i più consistenti movimenti rivoluzionari del XIX secolo, i “Fasci” siciliani restano quasi del tutto ignoti alle nuove generazioni. Ed è già un gran risultato se quel gigantesco tentativo dei contadini di occupare le terre incolte, per sfamare le proprie famiglie e rilanciare l’economia complessiva, non venga identificato con la nascita del fascismo un quarto di secolo dopo.
Il 2011 è una data propizia per ricordarsene: esattamente cento anni fa, infatti, veniva assassinato Lorenzo Panepinto, storico fondatore dei “Fasci” a Santo Stefano Quisquina, ai confini fra le province di Agrigento e di Palermo. La sua città natale, dove egli ha pure tentato l’esperimento di un “socialismo municipale”, lo ha ricordato con una giornata di commemorazioni e di studi, con l’intento di esplorarne la poliedrica personalità. Egli infatti non è stato solo dirigente politico, sindacalista e imprenditore sociale, ma anche insegnante appassionato, pubblicista fecondo, pittore di discreto pennello, poeta sincero, direttore didattico attivo e pedagogista aperto alle correnti europee più progressiste della sua epoca. Nel corso del convegno sono stati presentati anche dei documenti inediti in Italia che uno studioso statunitense ha gentilmente spedito da Tampa (Florida) , la città dove Panepinto è emigrato e ha lavorato per un certo periodo della sua vita.
Ma cosa ha segnato la fine dell’eroico militante, “socialista senza aggettivi”, falciato sull’uscio di casa con due fuciltate? Come nel caso di due colleghi e amici, il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, la sua capacità di organizzare cooperative di braccianti per gestire in gabella ex-feudi a cui erano, contemporaneamente, interessati anche personaggi o mafiosi o vicini ad ambienti mafiosi. Uno di questi, il giovane campiere Anzalone, verrà indicato come l’assassino, ma il delitto resterà impunito: una testimone verrà sequestrata e eliminata; un capitano dei carabinieri si appellerà a “ragioni d’ufficio” per non testimoniare; un commissario Montalbano si appellerà – per il medesimo scopo – a “motivi di famiglia”. Forse non è stata del tutto ininfluente, sul destino dell’imputato, la condizione di “figlioccio” del ministro Camillo Finocchiaro Aprile…In assenza di verità giudiziaria, ci si deve accontentare della verità storica: secondo lo stesso Bernardino Verro, i mandanti vanno individuati nella “sollevazione della mafia gabellota e clericale contro gli organizzatori delle affittanze collettive”. Ed è un fatto di per sé eloquente che Panepinto non potè intervenire al congresso su “Delinquenza e analfabetismo” (programmato per qualche giorno dopo il suo omicidio ad Agrigento) e che il ministro di Grazia e giustizia Finocchiaro Aprile, nell’inaugurare il congresso, non abbia degnato di un accenno, il recentissimo delitto di un importante dirigente politico siciliano che aveva dedicato e la vita proprio alla lotta contro delinquenza e analfabetismo.
Sul suo periodico “La Plebe”, Panepinto denunciava i “malfattori in guanti gialli”, ministri o deputati “protettori protetti” delle “cosche”, le quali “coltivano la maffia, poiché si servono preferibilmente di essa per raggiungere scopi vergognosi, e per sopprimere qualche persona che riesce loro d’impaccio”: formule che, al di là dell’impatto emotivo immediato, restano di una lucidità analitica purtroppo attualissima. Come sciaguratamente attuale rimane il monito dell’onorevole Alessandro Tasca di Cutò, davanti alla bara del martire avvolta in una bandiera rossa, rivolto ai funzionari governativi: “È tempo di decidersi: o con la maffia padronale o con l’evoluzione economica e civile dei lavoratori siciliani”.

Augusto Cavadi

Vacanze filosofiche per... non filosofi: estate 2011


“Centonove”
22.7.2011

AMORE, FELICITA’: DUE ARGOMENTI FILOSOFICI PER… GENTE COMUNE

In anni trascorsi - è ormai dal 1983 che l’iniziativa si ripete – ne abbiamo parlato anche sul nostro settimanale: chi non ha mai studiato filosofia, o l’ha studiato troppo tempo fa, ma vuole meditare su temi filosofici, ha la possibilità di partecipare a vacanze un po’ speciali: “vacanze filosofiche per non…filosofi”. Destinatari della proposta, dunque, non sono professionisti della filosofia ma tutti coloro che desiderano coniugare i propri interessi intellettuali con una rilassante permanenza in due luoghi tra i più gradevoli del Bel Paese, cogliendo l’occasione di riflettere criticamente su alcuni temi di grande rilevanza teorica ed esistenziale. Le proposte di quest’anno sono due. La prima, in Puglia sul mare, dal 22 luglio al 28, sul tema “Eros o agape? L’amore nel tempo delle ‘passioni tristi’ ”. La seconda, in Lombardia in montagna, dal 19 agosto al 25 , sul tema La felicità: sogno folle o meta perseguibile?.
La struttura delle giornate, ormai collaudata, è semplicissima: due incontri-conversazioni guidati da filosofi di professione (una al mattino dalle 9 alle 10,30 e una alla sera dalle 18 alle 19,30) e, per il resto delle ore, tempo libero. Per riflettere, fare una nuotata, visitare una località turistica, immergersi nei boschi per una passeggiata…
Sul senso dell’iniziativa (che non ha scopo di lucro) si può leggere il libro di autori vari, Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni (Di Girolamo, Trapani 2008) o consultare il sito www.vacanzefilosofiche.it curato da Salvatore Fricano (Bagheria). Nel medesimo sito web si trovano tutte le indicazioni pratiche sul costo di iscrizione e le possibilità di alloggio e di vitto nelle due località prescelte: per altri chiarimenti si può scrivere una e-mail ad acavadi@alice.it o telefonare al 338.4907853.
Qualche dettaglio in più sulle due edizioni ormai imminenti?
A luglio, in Puglia, vicino la splendida Ostuni, Elio Rindone (Roma) introdurrà i seminari evocando le linee essenziali dell’amore nel mondo greco, biblico e medievale. Augusto Cavadi (Palermo) tratterà dell’amore nel mondo moderno e contemporaneo, con particolare riferimento a Hegel, Feuerbach e Fromm. Invece Davide Miccione (Catania) proporrà, sulla base della sua esperienza di consulente filosofico dell’associazione “Phronesis”, alcuni esercizi di filosofia pratica.
Ad agosto, poi, nell’accogliente Val Brembana (non lontano dalla bellissima città di Bergamo), Elio Rindone tratterà della felicità nel mondo greco, biblico e medievale; Augusto Cavadi prenderà spunto da alcune riflessioni di Spinoza, Nietzsche e Fromm; Simona Landolfi (Roma) proporrà infine alcuni esercizi di filosofia pratica per stimolare nei partecipanti la consapevolezza di cosa ciascuno intenda per felicità.
L’esperienza delle “vacanze filosofiche per non…filosofi” conferma, insieme a molte altre iniziative di filosofia-in-pratica che si realizzano nel mondo, che la filosofia non è solo la storia del pensiero degli antichi. Non è neppure soltanto una disciplina specialistica con metodi e linguaggi tecnici. Essa è sempre stata, e oggi in particolare è chiamata a ridiventare, atteggiamento diffuso fra le persone che vogliono pensare per agire con più efficacia. Che vogliono vivere con lucidità senza lasciarsi trascinare dalle mode culturali o dai dogmi tradizionali. In questo senso, la filosofia è un diritto di ciascuno, non il privilegio di pochi intellettuali.

Augusto Cavadi

martedì 9 agosto 2011

Anna Carfora su *Il Dio dei mafiosi* in “Rassegna di teologia”


“RASSEGNA DI TEOLOGIA”
2011 – 3 (ANNO LII)
PP. 524 – 526

A. CAVADI, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 243, € 18,00.

«Come mai Filippo Marchese – prima di torturare, strangolare e sciogliere nell’acido una vittima, spesso a lui del tutto ignota sino a cinque minuti prima – invocava la benedizione di Dio, facendosi il segno della croce?» (p. 218).
Questa domanda, formulata nel post scriptum del volume, rappresenta l’interrogativo di fondo, come spiega Cavadi, da cui ha preso le mosse la scrittura del libro. È noto, infatti, che i mafiosi, salvo poche eccezioni, si dichiarano cattolici e praticanti, sostengono o gestiscono manifestazioni religiose come le processioni; si sa che nei covi dei latitanti sono state rinvenute Bibbie e altri libri religiosi. La religiosità dei mafiosi è un fenomeno che si è imposto all’attenzione del pubblico per il risalto mediatico che ad essa è stato dato - ad esempio in occasione della cattura di uomini di mafia come Bernardo Provenzano con la sua Bibbia cifrata - ma non solo. Su di essa, infatti, si è acceso anche un dibattito culturale e diverse pubblicazioni si occupano dell’argomento, sebbene lo facciano da differenti prospettive: sociologica, storica, antropologica. Tra le più recenti vanno richiamate quelle di V. CERUSO, Le sagrestie di Cosa Nostra. Inchiesta su preti e mafiosi, Newton Compton, Roma 2007; di A. DINO, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Laterza, Roma-Bari 2008 e l’ancora più recente di I. SALES, I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010. Rispetto a questi studi, il libro di Cavadi prova ad affrontare la questione da un’ulteriore prospettiva, quella teologica. Egli cerca di indagare la concezione religiosa della mafia, che considera al pari di una teologia. Il precedente a cui si richiama è un articolo, di cui riprende il titolo, del magistrato R. SCARPINATO («il Dio dei mafiosi», in Micromega [1998/1] 45-68) che, però, a giudizio di Cavadi, non mantiene ciò che promette.
Il libro si articola, grosso modo, in due sezioni. Nella prima viene presa in esame la transcultura mafiosa e i suoi legami con la teologia mafiosa, mentre nella seconda vengono discussi gli aspetti specifici di una teologia incompatibile con quella mafiosa.
Secondo Cavadi la mentalità mafiosa mostra delle contiguità con una certa mentalità cattolica o, per meglio dire, con alcuni atteggiamenti ecclesiastici verificatisi nel corso della storia. Ad esempio, il rifiuto della giustizia civile e la rivendicazione da parte della mafia di un’amministrazione in proprio della giustizia, vengono accostati al fenomeno delle storiche immunità ecclesiastiche; o ancora l’omertà mafiosa viene posta in relazione con la segretezza ecclesiastica. Tra gli aspetti comuni alle due mentalità Cavadi segnala il «dogmatismo cognitivo» e il «fondamentalismo identitario» (p. 80). La teologia mafiosa sarebbe, però, una teologia profondamente atea. Egli afferma: «l’ateismo di alcuni esplicita, svela, la “verità” nascosta dietro le menzogne, autoingannatrici, degli altri, perché la religione dei mafiosi è una delle tante versioni in cui si configura l’atteggiamento più sostanzialmente irreligioso che l’uomo possa nutrire» (p. 93). Cavadi delinea le caratteristiche di questa teologia atea dei mafiosi e in questa parte del volume sviluppa confronti con l’articolo di Scarpinato. In realtà non si tratta di «una teologia consapevole e meditata, organicamente articolata» (p. 98), ma di «una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata» (p. 99). Questa teologia enfatizza alcuni aspetti della teologia cattolica mutilandone altri. Ad esempio, propone un’immagine di Dio caratterizzata da «onnipotenza senza misericordia» (p. 101); da «trascendenza senza immanenza» (p. 105); si tratta di un Dio «garante dell’ordine cosmico e sociale» (p. 109) a cui si deve obbedienza cieca così come se ne deve ai capi di Cosa Nostra. Inoltre la mafia tiene in gran conto la mediazione dei santi, la cui funzione di intercessori li caratterizza come veri e propri “padrini” celesti, secondo un modello di religione eminentemente clientelare. Particolarmente pericolosa si è rivelata, secondo Cavadi, la teologia della soddisfazione vicaria: se Dio sacrifica il suo unico Figlio, allora è legittimata e giustificata ogni vendetta anche attraverso la morte di parenti innocenti di pentiti e traditori a vario titolo. Insomma, emerge «un’idea “tribale” di Dio» e «un’ecclesiologia altrettanto “tribale”» (p. 121). Si tratta poi di una teologia dal «registro lugubre» (p. 132) in cui è esaltata la passione e la morte e omessa la risurrezione.
Ma questa teologia, che definirei caricaturale, in che rapporto sta con la teologia cattolica? Si tratta di una deviazione e di una deformazione o in qualche modo essa dipende da una teologia cattolica che ne ha favorito lo sviluppo? Secondo Cavadi, se «la teologia cattolica non produce la mafia» (p. 142), essa però «contribuisce alla concreta configurazione di questa mafia» (p. 143). In particolare la commistione è da ricondursi a quella particolare teologia che egli definisce cattolico-mediterranea, frutto di un intreccio piuttosto complesso di componenti che non sono solo di natura religiosa. Infatti, «in Sicilia la mentalità cattolica è anche un po’ borghese e un po’ mafiosa, la mentalità mafiosa è anche un po’ borghese e un po’ cattolica» (p. 152). Ne consegue, secondo Cavadi, che non è sufficiente demistificare, da parte della teologia cattolica, la cultura mafiosa: bisogna anche demistificarne gli aspetti borghesi e capitalistici e quelli cattolico-mediterranei.
I tratti caratterizzanti una teologia incompatibile con la mentalità religiosa della mafia sono quelli di una teologia negativa e non trionfalistica, non antropomorfa, che indichi le vie della liberazione e della misericordia di Dio annunciate da Gesù; una teologia capace di animare una prassi credente, che dà vita ad una spiritualità che Cavadi delinea come incarnata, sobria, conviviale, sovversiva, non violenta e gioiosa. Figure di martiri come don Pino Puglisi – la cui testimonianza è più volte richiamata nel testo – incarnano questo modello. Si potrebbe osservare che questa teologia e la spiritualità e la prassi che la esprimono, producono martiri. Solo una testimonianza evangelica diffusa, una teologia condivisa e tradotta in pratica non da parte di singoli ma a livello ecclesiale può marcare veramente la distanza con la mafia e sottrarle terreno: come ricorda Cavadi, i martiri della mafia sono martiri anche della solitudine in cui vengono a trovarsi e della singolarità della loro testimonianza.
Complessivamente il libro di Cavadi è ricco di spunti e induce a riflettere sulla zona di confine tra la teologia speculativa e i suoi risvolti pratici; una zona magmatica in cui possono generarsi ambiguità e allignare pericolose connivenze: un rischio storicamente sottovalutato o addirittura negato anche da uomini di Chiesa e rispetto al quale si vanno finalmente delineando chiare prese di posizione, come quelle contenute nel recente documento della Conferenza Episcopale Italiana “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”.

Anna Carfora

domenica 7 agosto 2011

Quando si è liberi solo sulla carta, non effettivamente


“Repubblica – Palermo”
3.8.2011

Diritti astratti, libertà condizionata
Passeggiare il sabato sera, all’ora del tramonto, per il centro storico di Cefalù è una delle esperienze capaci di riconciliarti con la vita. Ma questa libertà è teorica, formale: in pratica non puoi. Perché, nonostante i divieti, scooter e altre diavolerie ti sfrecciano accanto, ti piombano di fronte, ti rombano di dietro. Cerchi con lo sguardo un vigile urbano, un poliziotto, un carabiniere: ma per più di un’ora - il tempo del tuo aborto di passeggiata – non c’è l’ombra di una divisa.
A Palermo questi problemi non si pongono: le zone perennemente chiuse al traffico (se si esclude qualche metro quadrato) non esistono neppure sulla carta. Ma ciò non significa che la libertà dei cittadini sia meno vigilata. Un’amica, trasferitasi in altra regione italiana, dopo la morte del padre è tornata in questi giorni per vendere alcuni terreni coltivati prevalentemente ad agrumi. Potrebbe vendere al miglior acquirente, ma questa libertà è teorica, formale: in pratica non può. I vicini glielo hanno spiegato con poche, ma persuasive espressioni: o vende a noi (al prezzo che stabiliamo noi) o non vende a nessun altro estraneo alla borgata.
Dopo la mezzanotte si avrebbe diritto di andare a dormire: ma se c’è un pub o una discoteca nel raggio di cento metri da casa, non si può. Puoi chiamare tutti i 112, i 113 e i 117 che vuoi: se proprio va bene, una volta ogni tanto, qualche agente interviene per convincere il trasgressore ad abbassare il volume. Ma, la notte dopo, tutto - frastuono di clienti incivili compreso – ritorna con puntualità ciclica, a conferma della teoria nietzschiana dell’eterno ritorno dell’uguale.
Nelle poche zone che il Comune lascia libere dalle famigerate strisce blue (tanto poche che è corso di attivazione una class action contro di esso), si potrebbe posteggiare gratuitamente: ma questo diritto formale, astratto, è azzerato dalla presenza di cortesissimi posteggiatori abusivi che, se indigeni, ti garantiscono la protezione da ogni danno che…essi stessi potrebbero apportare alla tua auto.
La mattina dei giorni festivi si avrebbe il diritto di andare a meditare, in silenzio, sulla tomba dei propri cari: ma i cimiteri sono solo formalmente luoghi pubblici di pertinenza comunale. In pratica, tu devi essere assordato - per esempio nel cimitero dei Rotoli a Vergine Maria – dagli altoparlanti che diffondono, a tutto volume, tre celebrazioni eucaristiche. Sei protestante, musulmano, ebreo, induista, buddhista, agnostico o ateo? Sei cattolico fervente e praticante, ma in quell’ora hai bisogno di raccoglimento per dialogare con i tuoi morti (e parteciperai a una santa messa in altra ora della giornata) ? Non ha importanza. Nessuna autorità civile garantirà la tua libertà di vita interiore: il volere di un cappellano vale più di ogni legge scritta e di ogni buon senso.
I consiglieri comunali avrebbero il diritto, anzi il dovere, di votare secondo coscienza. Ma anche questa libertà è una libertà condizionata: come mi hanno raccontato alcuni di loro, avendo recentemente votato contro il rifinanziamento di una società partecipata dal Comune, sono stati pubblicamente oggetto d’improperi, di offese e di minacce esplicite (sino all’inquietante: “Pezzo di cornuto, sappiamo dove abiti!”).
La lista sarebbe lunga, quasi infinita. Più importante è dirsi che così non si può andare avanti. Spetta a noi cittadini ‘qualsiasi’ moltiplicare i comitati spontanei, le associazioni civiche, i movimenti che già sono sorti - in alcuni casi risorti – negli ultimi anni; prendere di mira uno ad uno questi attentati alle libertà costituzionali e non passare al successivo sino a quando il precedente non è stato risolto da chi ne ha i poteri e il dovere. Sarebbe da miopi preoccuparsi del baratro finanziario e dimenticarsi del baratro politico in cui rischiamo di precipitare, forse irreversibilmente. Tra meno di un anno Palermo tornerà a votare per le amministrative: sarà importante per gli elettori poter scegliere, fra i candidati a sindaco, qualcuno che questi problemi di libertà effettiva li abbia riconosciuti. Ma molto più importante sarà se gli elettori, intanto, avranno capito che la democrazia non la si ottiene per graziosa concessione e non la si difende per delega quinquennale.
Augusto Cavadi

Ci vediamo martedì 9 agosto a Corleone?



martedì 2 agosto 2011

Educare alla politica: alcune esperienze extra-istituzionali


Dal volume Paideia. Pratiche filosofiche come pratiche educative, a cura di M. L. Martini e A. Mignone, Liguori, Napoli 2011, pp. 99 – 109.

Educare alla politica. Esperienze (extra moenia) e riflessioni

Una possibile rappresentazione dello scenario contemporaneo
La democrazia senza un minimo di alfabetizzazione politica dei cittadini non è mera finzione: peggio, è la premessa di una catastrofe. Una nave, in cui - eccitati dall’aver detronizzato il capitano tirannico – i passeggeri navighino alla deriva, ha davanti a sé un bivio: o il colpo di mano di un passeggero (anche pochissimo esperto) che decida comunque di afferrare il timone o il naufragio. Ma quali sarebbero le agenzie educative che dovrebbero assumersi la responsabilità di una tale alfabetizzazione necessaria a evitare una democrazia senza demos?
Mi pare, almeno nell’attuale contesto storico italiano, in ordine di successione cronologica secondo le tappe evolutive del soggetto: la famiglia, la scuola, le chiese, le organizzazioni sindacali e partitiche.
Quanto all’ambito familiare, non c’è dubbio che si tratti di una risorsa fondamentale: chi ha il privilegio di essere inserito in qualcosa che assomigli a un assetto familiare, in cui almeno un genitore sia in grado di interloquire su questioni politiche con i figliuoli senza dogmatismi e insofferenze (e, essendone in grado, sia anche disponibile a investire del tempo in queste conversazioni); in cui non manchi nel corso della settimana qualche quotidiano o qualche periodico con articoli dei quali discutere; in cui la gestione del televisore di casa non sia del tutto random o mirata a scegliere metodicamente i programmi di evasione dalle questioni cruciali della storia; in cui talora ci si rechi insieme al cinematografo per aggiornarsi su una problematica di attualità sociale; in cui ogni tanto si organizzino dei viaggi estivi per conoscere da vicino sistemi socio-politici differenti dal nostro…chi ha questo privilegio – dicevo – parte già con una predisposizione preziosa a interessarsi di politica. Ma, appunto, di privilegio (o di un combinato disposto di privilegi) si tratta: di un’eccezione statistica che non compensa la quantità di situazioni di gran lunga più numerose.
Dove la famiglia non incide, solitamente, quando si tratta di altre dimensioni dell’esistenza, supplisce la scuola. Cosa che non avviene, però, per la formazione politica a causa di motivi strutturali e, soprattutto, culturali. I motivi strutturali sono a tutti noti: l’organizzazione disciplinare riserva all’educazione civica un’ora settimanale che, spesso e volentieri, viene fagocitata dall’invadente disciplina abbinata (la storia). Ma le ragioni più pesanti sono, a mio parere, di ordine culturale. Qualora, infatti, tutti i docenti assumessero la formazione politica degli alunni come obiettivo trasversale, essa non soffrirebbe più l’angustia dei confini dell’ora settimanale e potrebbe spaziare – in cerca di alimento - tra le più svariate discipline scolastiche: dalla letteratura italiana (romanzi storici e poesia civile) alle scienze naturali (ecologia, bioetica, cicli alimentari), dalla letteratura straniera alla geografia, dalla filosofia alle discipline tecniche (relative a costruzioni edili, a sistemi informatici, a trattamenti di sostanze stupefacenti). Invece la politica è considerata nelle aule scolastiche una sorta di tabù: s’identificano, a torto, attività politico-elettorale (che è bene resti fuori dal portone della scuola per evitare che crei contrapposizioni fra docenti e docenti, alunni e alunni, docenti e alunni) e cultura politica (che non solo può, ma deve entrare all’interno delle aule, pena l’irrilevanza di tutto il sistema scolastico ai fini della formazione integrale del soggetto). Licenziare con un diploma di Stato (di “maturità” !) un diciottenne che non abbia mai visto con i propri occhi la Carta costituzionale; che non sia stato mai informato sulla differenza fra programmi di ‘destra’ e programmi di ‘sinistra’; che non abbia mai ascoltato una sola lezione sulla struttura di Cosa nostra o della ‘Ndrangheta…dovrebbe essere inconcepibile. E, invece, è la norma statistica. Giovanni Falcone raccontava che, nonostante fosse nato e avesse studiato a Palermo, una volta entrato in magistratura aveva dovuto farsi una preparazione sul sistema mafioso da autodidatta perché non gli era stata fornita alcuna informazione sull’argomento né al liceo né all’università.
Il vuoto formativo addebitabile a carenze pedagogiche della famiglia e della scuola non è certo colmato da iniziative delle chiese cristiane (la chiesa cattolica in primis). Anche in questo settore s’intrecciano ragioni ‘oggettive’ e ragioni ‘intenzionali’. Oggettivamente, infatti, le nuove generazioni sono sempre più restie a frequentare ambienti religiosi di stampo confessionale, preferendo altri luoghi d’incontro generazionale e di socializzazione. A quanti, poi, si avvicinano, parrocchie e associazioni cattoliche offrono - solitamente - strumenti di evangelizzazione e di catechesi: al di fuori del recinto biblico-teologico, ci si occupa se mai di iniziative sociali (come assistenza ai barboni o raccolta di fondi per ospedali in Africa). Intenzionalmente estraneo, in misura più o meno radicale, resta il piano politico-istituzionale: quasi fosse il regno del diavolo o, comunque, dell’irrilevanza. Anche come effetto del Concilio Vaticano II e del papato di Paolo VI (dal quale la politica veniva considerata “la più alta forma di carità”), non sono mancate, in varie città italiane, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, delle scuole di formazione politica attivate da diocesi (come la Milano del cardinal Martini) e ordini religiosi (come il centro “Pedro Arrupe” di Palermo dei padri Gesuiti); ma, a parte il fatto che si vanno progressivamente chiudendo, si è trattato di iniziative fortemente caratterizzate dalla “dottrina sociale cattolica” e, dunque, non adatte a una alfabetizzazione più ampia in funzione di opzioni pluralistiche. In questo panorama, non è infrequente il caso di comunità cattoliche in cui convive, insieme al disinteresse ‘formale’ per l’impegno politico-istituzionale, la sponsorizzazione ‘informale’ di liste e candidati che promettono di garantire (più o meno attendibilmente) la difesa dei ‘valori cattolici’ nelle assemblee rappresentative di livello comunale, provinciale, regionale o nazionale: fenomeni di segno integralistico che non sono certo più desiderabili della neutralità, distante e indifferente, di chi snobba il dibattito politico.
Sino agli anni Ottanta del XX secolo, chi non trovava né in famiglia né a scuola né nell’associazione cattolica di appartenenza una formazione politica poteva – comunque – bussare alle porte di un sindacato o di un partito politico. Non vanno mitizzati né quei centri studio fondati da confederazioni sindacali né quelle scuole di partito, orientati - gli uni e, ancor più, le altre – monodirezionalmente in senso ideologico: ma, almeno, chi militava in un sindacato o in un partito veniva messo in grado di decifrare un testo, un documento, un progetto di legge. Veniva aiutato a uscire dall’analfabetismo totale in questioni politiche, legislative e amministrative. E non pochi, iniziati a un universo concettuale e linguistico ‘di parte’, prendevano gusto alla lettura e alla ricerca; spulciavano le carte dei ‘nemici’; allargavano gli orizzonti e la gamma delle opzioni; potevano finire magari con il mutare schieramento non perché ‘acquistati’ come calciatori di football da una società più danarosa, ma perché ‘convertiti’ ad una visione dell’uomo, della società e dell’economia diversa dall’originaria. Per quel che mi consta, oggi anche questi ‘luoghi’ della formazione politica sono stati chiusi e, con il tramonto delle ideologie (vero o presunto, apprezzabile o preoccupante), la battaglia politica si è andata trasformando da competizione d’idee a concorrenza fra slogan , formule ad effetto.

Il ruolo del volontariato culturale
E’ in questo scenario che nel 1988 ho ritenuto necessario attingere alla filosofia-in-pratica (così come l’avevo intuita, prima, e gradualmente focalizzata, dall’incontro con la philosophische praxis in poi) per inventare uno spazio nuovo di formazione politica che avesse i caratteri della laicità e della polifonicità. L’idea di partenza è sintetizzabile in termini elementari: chi fa della filosofia la propria professione, remunerata dallo Stato o da enti privati o da privati cittadini, può farne anche un servizio di volontariato culturale. Ho quindi proposto, ad amici e alunni, di attivare un Laboratorio di cultura politica apartitico, pluralistico e itinerante : un appuntamento mensile, ospitato a turno da associazioni cattoliche o aconfessionali sparse nella città di Palermo e nei comuni della provincia, intorno a un tema di teoria della politica (cos’è il potere? Cos’è lo Stato? Che significa democrazia? La legalità formale coincide con la giustizia sostanziale? …). Semplicissima la metodologia: si sceglieva un testo-base di riferimento comune (Introduzione alla politica di Michael Laver piuttosto che Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica di Norberto Bobbio) che ogni partecipante s’impegnava a studiare a casa e, quando il mese successivo ci s’incontrava, a turno un volontario si assumeva il compito di riferire al gruppo di lavoro le linee essenziali del testo adottato e di avviare la discussione con alcune sue osservazioni personali. Il ruolo del filosofo-in-pratica si dispiegava in varie modalità: progettare un itinerario di fondo, suggerire al gruppo temi e testi, introdurre e moderare i seminari, fornire eventuali chiarimenti tecnici su concetti e vocaboli che non risultassero di immediata comprensione…Più in generale, egli - in quanto “specialista del non speciale” – aveva la regia complessiva dell’iniziativa. La formazione politica è infatti incrocio di saperi specialistici svariati (diritto, economia, storia, filosofia, sociologia, antropologia, politologia, psicologia sociale…): senza un ‘traduttore simultaneo’, che decodifichi i linguaggi specifici e favorisca l’interlocuzione reciproca, non è facile pervenire a uno sguardo sinottico. Che è poi lo sguardo della sapienza/saggezza che, attraversati gli ambiti delle ‘scienze’, pervenga a un punto di vista globale: aristotelicamente, ‘politico’. Inoltre, poiché l’educazione alla politica non può essere mera istruzione cognitiva, il compito del filosofo-in-pratica in questi contesti non si limita alla consulenza ‘culturale’: egli investe la propria autorevolezza anche nella gestione tecnica della discussione, assicurando il diritto democratico di parola a ciascuno e il corrispondente dovere di ascolto (o, per lo meno, di silenzio) degli altri. In questo modo la democrazia la si apprende anche sperimentandola (“l’operazione decisiva è […] di sostenere iniziative di sviluppo di micro-democrazie locali come luoghi adatti alla coltura di etiche della responsabilità e di pratiche di dialogo” ) e, sperimentandola in sede di discussione filosofica, la si rinforza: “soltanto la filosofia come pratica riflessiva contestualizzata, in ultima analisi, può fare da fondamento/ inizio per la democrazia e può tenerla in vita successivamente” .
I risultati di questa sperimentazione pedagogico-didattica (rivolta a cittadini di ogni età, non esclusivamente a giovani) sono stati così incoraggianti da indurre i promotori a trasformare, dopo alcuni anni, l’iniziativa in una struttura più stabile e con un’offerta formativa più articolata. Quando, fra il maggio e il luglio del 1992, Palermo e l’intero Paese furono sconvolti dalle stragi di mafia, che costarono la vita a tre magistrati (Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino) e a numerosi poliziotti delle loro scorte, gli alunni mi chiesero che cosa potessimo fare come società civile per frenare la deriva del sistema democratico. Proposi, maieuticamente, di cercare insieme le risposte e, dopo alcune discussioni in aula, arrivammo a stilare un dossier di poche decine di pagine (pubblicato, in cinquemila copie, con un finanziamento da parte di uno sponsor privato di Roma; poi ripubblicato come volumetto - Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito - a Bologna nel 1993 dalle Edizioni Dehoniane che lo hanno ristampato nel 1994 e, in seconda edizione, nel 2003): il cittadino ‘comune’ può opporsi al dilagare del sistema di potere mafioso usando le armi della conoscenza, della politica, dell’economia, della pedagogia sociale e soprattutto della resistenza etica ai compromessi e ai carrierismi. Il messaggio centrale era netto: un assetto democratico funziona se ogni cittadino s’impegna, con il massimo di responsabilità e di competenza, nell’ambito della propria sfera. Che comportava - in concreto - per intellettuali, docenti e studenti l’attuazione di questo criterio? Che ci si dedicasse a monitorare la fenomenologia mafiosa con analisi quanto più scientifiche e aggiornate; che se ne ricercassero i presupposti storici e culturali nonché gli effetti devastanti sul piano della quotidianità; che si divulgassero i risultati di questi studi in strati sociali quanto più ampi possibile in modo da non continuare a regalare ai mafiosi la copertura del silenzio. Forte dell’esperienza del Laboratorio di cultura politica operante dal 1988, ho dunque proposto nel 1992 la costituzione della Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ : una struttura permanente di incontro, di studio, di dibattito per consentire l’interscambio sia fra competenti di discipline differenti (mettere intorno allo stesso tavolo lo storico con il sociologo, il criminologo con il teologo, il romanziere con l’economista, lo psicologo con l’antropologo…) sia fra la ristretta cerchia dei competenti e la più vasta dei cittadini attivi (insegnanti, avvocati, magistrati, assistenti sociali, operatori volontari…) . Come verificato nei 4 anni del Laboratorio, anche in questi 18 anni di Scuola il ruolo del filosofo-in-pratica è risultato molto funzionale, per certi versi insostituibile. Lo è stato dal punto di vista contenutistico perché la piattaforma delle idee indispensabili per una cittadinanza adulta non è appannaggio di una disciplina in particolare e, dunque, solo se ogni specialista impara a parlare una sorta di koiné (che attinge da ciascun ambito disciplinare senza identificarsi con nessuno) può contribuire costruttivamente alla creazione del puzzle complessivo: e chi meglio del filosofo (anche grazie alla sua conoscenza della storia del pensiero occidentale nelle diverse articolazioni che nel corso dei secoli si sono staccate dal tronco dell’albero metafisico per diventare approcci epistemologicamente autonomi: il diritto, la politica, la psicologia, la sociologia, l’economia, l’antropologia culturale…) può offrirsi come interprete dei dialetti specialistici e propositore della koiné transdisciplinare? Inoltre, man mano che questa sorta di mosaico - in cui s’incastrano tessere di colore diverso e di matrice diversa – va prendendo forma in sede di ricerca e di elaborazione, è necessario che qualcuno si occupi di socializzare i risultati (sia pure in progress) non solo per spirito di servizio nei confronti dei ‘non addetti ai lavori’ ma anche per sottoporre quei risultati maturati a tavolino alla verifica pratica di chi vive nel quotidiano il rapporto con le istituzioni, con le dinamiche sociali, con i gruppi di pressione legittimi e con le organizzazioni criminali. Anche su questo secondo versante, per così dire essoterico, l’agilità mentale e l’abilità comunicativa del filosofo-in-pratica si sono dimostrate difficilmente sostituibili.
Sin qui il registro contenutistico: il piano dei concetti, delle argomentazioni, delle tecniche comunicative. Ma va registrata la necessità di un filosofo-in-pratica anche sul piano metodologico. Senza entrare in dettagli dispersivi, mi pare di poter notare un equivoco ormai diffuso, almeno in Italia: l’uso del termine ‘formazione’ per indicare un processo quasi esclusivamente di ‘istruzione’. Formare (almeno nel campo, che qui ci interessa, della formazione alla cittadinanza matura) è sì offrire gli strumenti cognitivi per un’alfabetizzazione essenziale, ma è solo questo? O non è anche necessario coinvolgere altri strati della personalità, là dove maturano le opzioni etiche di fondo? E a tale scopo non è imprescindibile attivare il senso critico degli interlocutori, una volta che si siano trasmesse delle informazioni ‘oggettive’? E che cosa sarebbe un esercizio critico che non partisse dal confronto dialogico fra esistenti in carne ed ossa e non soltanto fra cervelli? Non so se esista una figura professionale in grado di gestire la complessità di tutte queste dinamiche, ma so che il filosofo-in-pratica costituisce l’esperto meno lontano da queste aspettative. Egli, infatti, pur possedendo alcune qualità dello psicologo e altre del didatta, può essere portatore di una competenza specifica che riguarda la conoscenza sapienziale e la sua traduzione ‘prudenziale’ in atteggiamenti, gesti, comportamenti.

Alcuni strumenti operativi
In quasi venti anni di attività ‘formativa’ ho avuto modo di elaborare e diffondere alcuni strumenti operativi che sono stati utilizzati da altri formatori, ovviamente adattandoli liberamente secondo gli stili personali, i contesti sociali e i destinatari delle iniziative. Evocare, sinteticamente, alcuni di questi strumenti bibliografici potrà forse riuscire di qualche utilità a chi vorrà sperimentare in prima persona le risorse della filosofia-in-pratica e, comunque, sarà un modo per dare un’idea meno approssimativa di alcuni percorsi che ho raccontato nelle righe precedenti.
Un primo orientamento ho ritenuto di offrirlo mettendo a disposizione della conoscenza e della riflessione critica dei partecipanti a seminari di educazione politica un quadro sinottico comparativo delle principali “ideologie” del XX secolo. So bene che il vocabolo è sotto processo e non ho difficoltà a che si sostituisca con “dottrine politiche” o “teorie politiche” o con altre denominazioni meno contestate: ma, al di là delle dispute nominalistiche, sono convinto che per capire i programmi dei partiti, dei sindacati, dei movimenti attuali, non si possono ignorare le grandi “narrazioni” del XIX e del XX secolo né nel caso che se ne condivida qualcuna né nel caso che si pretenda di superarle, sostituirle o inverarle. Ritengo dunque che, per decifrare le proclamazioni ufficiali degli attori politici (e ancor più le normative che emanano quando ne hanno facoltà istituzionale), sia indispensabile un’informazione completa ed onesta - ancorché sommaria – di quali siano i principali progetti di civiltà in lizza nel panorama contemporaneo. Così, nel volumetto Le ideologie del Novecento. Cosa sono state, come possono rifondarsi (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001), ho provato a fissare (con il ricorso continuo alle ‘fonti’) quali siano la concezione di uomo, di società, di Stato, di economia, di educazione e di religione…rispettivamente nella prospettiva liberale, comunista, socialdemocratica, fascista, cattolica, conservatrice, ambientalista e anarchica. Spero che, anche da questi cenni telegrafici, s’intuisca come un ‘manuale’ del genere attraversi molte discipline (la filosofia, la storia, il diritto, la politologia, l’economia, la pedagogia, la teologia…) e come sia possibile prepararlo e proporlo solo se, dopo aver esercitato il docile ascolto di molti specialisti, si ha l’intraprendenza di creare un mix che infrange le recinzioni accademiche e sfida i possibili rilievi dei pedanti che sanno quasi tutto su un frammento microscopico del sapere. Sarebbe troppo lungo, rispetto allo spazio a disposizione, riferire le gratificazioni pedagogiche raccolte nei decenni in cui ho girovagato per scuole, centri sociali, parrocchie, sedi di sindacato e (più raramente !) di partito a presentare questa sorta di rosa di ipotesi teorico-politiche in cui ognuno può rispecchiarsi e riconoscere ciò che già da prima, in maniera irriflessa, pensava sul destino dell’uomo, sulla natura del potere politico, sul mercato o sul sistema dell’istruzione scolastica. Mi limito a due soli ricordi. Il primo riguarda un ragazzo, militante di un’organizzazione giovanile di estrema destra, che, avendo appreso da me alcune tesi mussoliniane sulla vocazione imperialistica dello Stato e sulla ineluttabilità della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, si è dichiarato sinceramente stupito dal momento che, personalmente, nutriva convinzioni ben diverse sulla politica ideale; il secondo riguarda uno dei più noti intellettuali anarchici italiani che, avendo assistito alla mia esposizione dei punti capitali dell’anarchismo e conoscendo le mie forti riserve su di essi, ha pubblicamente dichiarato di augurarsi che tutti gli anarchici potessero partecipare a occasioni formative del genere.
Operazioni del genere non sono esenti, comunque, da rischi. Ne segnalo uno per tutti: cancellare la differenza fra il filosofo e l’ideologo. Per questo, ogni volta che mi sembra possibile e opportuno, accompagno questa ‘consulenza filosofica di gruppo’ con una meta-riflessione epistemologica: “Studiare psicologia può servire per curare gli psicopatici come studiare fisica atomica può servire per preparare ordigni bellici: perciò si può benissimo fare dell’ottima psicologia o dell’ottima fisica atomica mossi più dal desiderio di curare malati o di sterminare popoli che dal desiderio di conoscere, ‘disinteressatamente’, la psiche umana o la struttura della materia. Ma studiare filosofia significa imparare a sperimentare il gusto della problematizzazione radicale, la libertà di non dare nulla per scontato, la gioia di intraprendere un cammino verso ‘spessori’ sempre più significativi della realtà senza scadenze predeterminate né ordini dall’alto: come si potrebbe allora stabilire prima, e una volta e per sempre, ‘a che cosa serva’ simile avventura? Dopo, a posteriori, e caso per caso, si potrà dire se una ricerca filosofica è servita a molto o a poco; ma a priori, se vuole essere una ricerca davvero spregiudicata e illuminante, non deve ‘servire a nulla’. E ‘a nessuno’. Dopo Tommaso d’Aquino posso dire quanto la sua speculazione metafisica sia servita alla diffusione della religione cattolica, come dopo Nietzsche posso dire quanto la sua riflessione critica sia servita al consolidarsi dei movimenti ateistici contemporanei: ma le loro filosofie, in quanto ‘filosofie’, valgono nella misura in cui intendevano dire pane al pane e vino al vino, mentre accusano maggiormente i loro limiti nella misura in cui erano elaborate pensando non alle ‘cose stesse ’, ma al ‘pubblico’ che avrebbe potuto giovarsi dei loro discorsi. Tutto ciò vale sul piano dei discorsi astratti, del ‘si dovrebbe’: di fatto l’esperienza attesta diversamente. Molti, che si autodefiniscono filosofi, sanno, sin dai primi passi, quali partiti politici o quali chiese saranno favoriti - o ostacolati – dalla loro riflessione: in realtà, ciò che essi producono, piuttosto che una ‘filosofia’ è una ‘ideologia’, un complesso di concetti in funzione operativa. Ovviamente il mestiere di ‘ideologo’ non ha nulla da invidiare a quello di ‘filosofo’: l’importante è chiarire subito che non si tratta dello stesso mestiere. Si potrebbe aggiungere che il lavoro dell’ideologo è più richiesto, e più pagato, di quello del filosofo; ma anche, forse, che l’umanità ha più bisogno di intellettuali imprevedibili che di intellettuali programmabili”
Dissipato il possibile equivoco, restano aperte altre questioni. Mi limito alla più impegnativa: la necessità di far intuire che le opzioni politiche presuppongono – e poi, a loro volta, rafforzano o mettono in crisi – delle opzioni esistenziali. Già il semplice fatto di mettersi alla ricerca di un orientamento ‘ideologico’ presuppone la decisione etica di impegnarsi per la polis: o per conservarne gli assetti istituzionali e i valori tradizionali o per modificarli, più o meno radicalmente, sulla base di un modello alternativo. Tale decisione etica, a sua volta, è radicata in una ‘visione del mondo’ complessiva di cui siamo portatori raramente consapevoli. Da qui l’opportunità di agevolare, in appositi seminari, la focalizzazione del nesso fra la propria ‘filosofia’ di vita e il proprio comportamento in ambito socio-politico. A tale scopo ho preparato un altro volumetto, dal titolo Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee (Cittadella, Assisi 2000), in cui esamino cinque prospettive teoretiche con l’intento di evidenziare quali orientamenti politici se ne possono trarre: il ‘pensiero debole’ di Gianni Vattimo, l’individualismo ‘intelligente’ di Fernand Savater, il ‘vangelo della perdizione’ di Edgar Morin, la ‘teologia della liberazione’ di Edward Schillebeeckx, l’ ‘etica della responsabilità’ di Hans Jonas. Per ciascuno di questi maestri del pensiero contemporaneo ho cercato di mettere in evidenza il nesso fra ciò che essi pensano sul senso dell’esistere nel mondo e ciò che propongono per una società meno ingiusta. Non è certo il caso di ripercorrere nei dettagli queste esemplificazioni paradigmatiche (fra l’etica della finitezza e la riduzione della violenza in Vattimo; fra l’egoismo etico e l’individualismo politico in Savater; fra l’etica della perdizione e l’antropopolitica in Morin; fra la fede cristiana e la liberazione etico-politica in Schillebeeckx o fra l’etica della responsabilità e il superamento dell’alternativa capitalismo/comunismo secondo Jonas): ciò che mi preme evidenziare, invece, è che una molteplice esperienza mi attesta che numerose persone trovano filosoficamente intrigante questo tipo di servizio intellettuale. Infatti, chi non è abituato a frequentare i testi filosofici, si rallegra di riconoscere nelle parole di questo o di quell’altro pensatore quanto egli stesso ha ritenuto vero senza saper formularlo né a sé né agli altri. Ed è grato quando incontra un ‘consulente’ che gli espone una gamma articolata di prospettive filosofiche non solo con sostanziale correttezza ‘filologica’ ma, ancor più, con equanimità: senza intenti proselitistici né toni saccenti. Quando insomma ha la fondata ‘sensazione’ che sta parlando con qualcuno che non vuole né polemizzare né convertire, ma ragionare con calma: nella condivisa speranza di raccogliere, in ogni dottrina filosofica e in ogni proposta politica, qualche perla di verità.

AUGUSTO CAVADI

Bibliografia (a parziale integrazione dei testi citati):

AA.VV., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei, Massimo, Milano 1983
AA.VV., Esistenzialismo, marxismo, personalismo. Un corso di filosofia
contemporanea, Centro Paolino di Animazione Culturale, Foggia 1985
AA.VV., Il potere in discussione. Lineamenti di filosofia della politica, Augustinus,
Palermo 1992
AA.VV., Spiritualità e politica, La Zisa, Palermo 1999
AA.VV., La fede laica e la politica, La Zisa, Palermo 2000
AA. VV., L’utopia della politica, Saletta dell’Uva, Caserta 2002
AA.VV., A scuola di antimafia, Di Girolamo, Trapani 2005
AA.VV., Filosofia e politica: che fare?, Petite Plaisance, Pistoia 2009
CAVADI A., Le nuove frontiere dell’impegno sociale, politico, ecclesiale, postfazione
di G. Moro, Paoline, Milano 1992;
CAVADI A., La scuola di formazione etico – politica “G. Falcone”: origine, storia,
prospettive in “Nuove ipotesi” (Palermo), 1993, 1, pp. 147 – 153
CAVADI A.,CxU, Città per l’uomo, “Linea d’ombra” (Milano), 1994, 91
CAVADI A., Etica e politica nel Novecento. Alcuni modelli, “Nuova Secondaria”
(Brescia), 2000, 5
CAVADI A., Nelle aule entri la politica, “Repubblica” (Palermo), 1.12.2001
CAVADI A.,L’esodo come paradigma della politica: verso quale terra promessa?,
“Itinerarium” (Messina), 2002, 10
CAVADI A., Gente bella. Volti e storie da non dimenticare, Il pozzo di Giacobbe,
Trapani 2004
CAVADI A., Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia
alternativa, Di Girolamo, Trapani 2007
CAVADI A., Giovani: una generazione a perdere?, “Presbyteri” (Trento)
, 2008, 7
CAVADI A., Se la politica entra a scuola, “Centonove” (Messina) , 16.10.2009
CAVADI A., Filosofare in terra di mafia, “Vita pensata” (www.vitapensata.eu),
2010, 1
MARI G., Educare dopo l’ideologia, La Scuola, Brescia 1996
SAVAGNONE G., , Persona e società. Liberalismo, marxismo e personalismo
cristiano a confronto, Centro di Formazione Cristiana, Palermo 1979

lunedì 1 agosto 2011

La mia presentazione dell’ultimo libro di Elio Rindone


Da:
E. Rindone, Chi è Gesù di Nazareth? Idee nuove e dopo il Concilio, www.ilmiolibro.it, Roma 2011, pp. 238, euro 15,00 (si può acquistare via internet direttamente dal sito).

PRESENTAZIONE

Quando si entra al liceo, l’educazione cattolica ricevuta da bambini viene sottoposta a dura prova. Se non si studiano i libri principalmente per avere attestati cartacei, ma per capire un po’ come va – e come è andato – il mondo, si scopre che la fede cristiana in generale, e la confessione cattolica in particolare, sono da duemila anni oggetto di contestazioni, obiezioni, critiche. Elio Rindone e io, più giovane solo di qualche anno, apparteniamo a una fascia di studenti palermitani che hanno avuto la possibilità, grazie a un prete particolarmente preparato che insegnava ‘religione’, di affrontare questo choc dalla prospettiva migliore: dal punto di vista della consapevolezza. “Informatevi, studiate, meditate; se volete anche, pregate. Poi, con i dati acquisiti, fate la vostra scelta. Di pensiero e di vita”.
La nostra ricerca, a scuola ma anche oltre, è stata sostenuta da una bibliografia teologica che proprio negli anni Sessanta conobbe un fervore che non si era registrato prima e che non si sarebbe registrato dopo: trattati, monografie, articoli che – a ridosso del Concilio ecumenico Vaticano II e negli anni immediatamente successivi – cercavano di uscire dalla “cittadella” delle università pontificie per parlare (a cominciare dall’abbandono del latino) con gli uomini e le donne dell’epoca. Il libro che Elio ci regala racconta la parabola di questa ricerca – intellettuale ed esistenziale insieme – dall’angolazione che, ben al di là di vissuti privati, può interessare il lettore odierno: dal versante delle idee.
È una parabola che non si lascia riassumere senza il rischio di banalizzazioni, ma che – solo a titolo di accenno introduttivo – si può scandire in due tempi principali: l’epoca (pre-conciliare) dell’apologetica e l’epoca (post-conciliare) della teologia ‘fondamentale’. Al di là della terminologia tecnica (che per altro, nelle pagine che seguono, l’autore chiarisce anche ai non addetti ai lavori), di che si è trattato? In una prima fase è sembrata convincente la tesi di quegli studiosi (molti dei quali sono citati proprio in questo volume) che hanno ritenuto razionalmente dimostrabile alcune verità preliminari all’atto di fede: l’esistenza di un Dio creatore, l’eccezionalità del messaggio biblico, l’unicità della figura di Gesù (di cui la storiografia avrebbe potuto attestare sia le parole che i gesti prodigiosi).
Per quanto riguarda in particolare la figura di Gesù, ogni persona, anche oggi – per riprendere un denso passaggio del cardinale Jean Danielou, eco di scritti kierkegaardiani – può sapere con certezza che è esistito e che si è proclamato Dio in terra: dunque o lo rifiuta (in quanto pazzo e/o in quanto imbroglione) o si inginocchia in adorazione. Questa impostazione ci ha convinto al punto da dedicare molti anni della nostra vita ad approfondirla, a chiarirla, a diffonderla. Ma proprio lo studio della teologia ha condotto molti di noi a una seconda fase molto più problematica: quando i vangeli presentano Gesù come il Messia, il Cristo, ci troviamo di fronte a un fatto storico o a una interpretazione di fede? E quando nel Nuovo Testamento troviamo l’espressione ‘figlio di Dio’ come dobbiamo intendere tale figliolanza? Gli esegeti e i teologi più qualificati (anche quelli cattolici, quando per un certo periodo l’autorità ecclesiastica ha lasciato una qualche libertà di parola) hanno dimostrato con argomentazioni piuttosto convincenti, ampiamente riportate nel presente volume, che le tesi della vecchia apologetica erano assolutamente infondate. L’alternativa di un Kierkegaard e di un Danielou poggia dunque su un equivoco colossale. Essere cristiani non significa accettare l’assurdo, l’incredibile, il “paradosso”: ma – più semplicemente e però anche più impegnativamente – accettare che la proposta di vita del Nazareno (abbeverarsi all’amore del Padre per gli uomini e fare della propria carne un segno visibile ed efficace nella storia di tale amore originario) diventi il proprio progetto, sia personale che comunitario.
È perciò facilmente intuibile (ma questo Elio lo può solo accennare nell’ultima parte del suo lavoro per sommi capi) che un rivolgimento così radicale dell’interpretazione di Gesù detto il Cristo non può che comportare una rilettura di tutto il senso dell’essere cristiani. Alle considerazioni dell’autore ne aggiungerei una soltanto. Se Gesù è stato uno dei luoghi della manifestazione della Parola eterna, non il luogo esclusivo e incomparabile, essere suoi discepoli significherà aprirsi a tutte le culture, a tutte le tradizioni sapienziali, a tutte le religioni non con il complesso di superiorità di chi dialoga dall’alto di una verità infallibile e definitiva, bensì con il sincero desiderio di completare il patrimonio evangelico con le ricchezze provenienti da tutti gli altri luoghi in cui il medesimo Logos divino si è, altrettanto parzialmente e imperfettamente, manifestato e donato all’intera umanità.
Con il desiderio, insomma, di liberarsi da qualsiasi “teologia tribale” (per riprendere la felice espressione di Raimundo Panikkar) e di ritrovarsi, fianco a fianco, con le donne e gli uomini di tutta la terra che siano – più o meno consapevolmente – alla ricerca di una vita ‘spirituale’. Nessuna gelosia, dunque, né invidia né condanna, ma solo convivialità e complementarietà fra chi si lascia ispirare dalla saggezza egiziana o dalla filosofia greco-romana, dalla profezia ebraico-cristiana-islamica o dalla meditazione induista e buddhista, sino alle correnti ‘laiche’ più recenti che hanno difeso (fra mille errori) la libertà, l’uguaglianza e la fraternità.
So che queste prospettive possono sembrare ireniche e approssimative: ma non si tratta di lavorare per la distruzione delle specificità originarie e per la costruzione di un blob amorfo, in cui “tutte le vacche sono nere”. Si tratta piuttosto di acquisire la consapevolezza critica che ogni tradizione culturale ha la sua perla preziosa e la sua melma esiziale: il futuro dell’umanità sarà meno atroce se ciascuna tradizione saprà liberarsi dalle proprie scorie e inserire la propria gemma all’interno di un mosaico universale in cui la totalità si va incessantemente modellando solo grazie alla fedeltà di ciascuno al meglio della propria storia.
Il libro che state per leggere avrà in ciascuno di voi una risonanza particolare. Per chi ha una vaga conoscenza di ciò che comunemente passa per ‘cristianesimo’, può essere l’occasione per scoprire prospettive che forse neanche immaginava. A me, in particolare, è sembrato uno strumento irrinunciabile per quei cristiani che vogliano entrare, con consapevolezza, nell’avventura più affascinante che ci possa attendere: apportare, con modestia e anche con fierezza, il proprio contributo per l’edificazione di una ‘globalizzazione’ spirituale, unica garanzia per evitare che la globalizzazione economica sia, di epoca in epoca, la versione ideologica di un’egemonia di parte.

Augusto Cavadi