venerdì 30 settembre 2011

Esiste una spiritualità filosofica?


“Phronesis”, anno VII, 14 - 15, Ottobre 2010

La spiritualità filosofica come humus nel giardino delle spiritualità contemporanea

La globalizzazione delle spiritualita’
Sappiamo in tanti – ma purtroppo fra questi sono pochi i padroni attuali delle sorti del mondo – che la globalizzazione si ripresenta ciclicamente (dal XV secolo ad oggi) come forma mascherata di occidentalizzazione del mondo. E che solo una differente circolazione non solo delle finanze e delle merci, ma anche degli uomini e delle idee, potrà liberare il pianeta dall’egemonia attuale di una cultura sulle altre senza necessariamente sostituirla con l’imperialismo monopolistico di altre culture, sino ad ora mortificate, come la cinese o l’indiana. Là dove questa globalizzazione pulita e arricchente si va facendo strada, anche le tradizioni sapienziali e spirituali vanno entrando in rapporto reciproco. Sarà un incontro, uno scontro, una gelida compresenza? Si può ipotizzare una qualche funzione di servizio, da parte della filosofia-in-pratica, rispetto all’obiettivo di celebrare – secondo l’espressione cara a don Tonino Bello – “la convivialità delle differenze”? E - prima ancora e più radicalmente – esiste una dimensione spirituale della filosofia? Domande forse premature, o troppo impegnative. Ma qualcuno, da qualche parte, deve pur cominciare a osare delle ipotesi di riflessione.

Uno sguardo alla storia
Per liberare la categoria ‘spiritualità’ da vincoli ideologici e monopoli confessionali, una strada eccellente può essere costituita dalla memoria storica (limitatamente, solo per limiti soggettivi di competenza, alla storia occidentale). Non sarebbe il primo caso in cui la riscoperta di radici legittimi l’apertura di cammini nuovi. Gli studi di Pierre Hadot ci facilitano immensamente il compito: “molto significativa la presenza nel mondo antico di esercizi spirituali, vale a dire di pratiche che potevano essere di ordine fisico, come la dieta alimentare, o discorsivo, come il dialogo e la meditazione, o intuitivo, come la contemplazione, tutte però destinate a operare un cambiamento e una trasformazione nel soggetto che le praticava. Il discorso stesso del maestro di filosofia poteva del resto assumere la forma di un esercizio spirituale, nella misura in cui il discepolo, ascoltandolo o partecipando a un dialogo, poteva progredire spiritualmente e trasformarsi interiormente” .
Quando il cristianesimo esce dalla ristretta area palestinese, e si diffonde nel più vasto mondo ellenistico, avverte l’esigenza di ritagliarsi uno spazio fra le tradizioni filosofiche egemoni (platonica, stoica, epicurea e così via): dunque di accreditarsi come una proposta spiritualmente rilevante in quanto filosofica. Sappiamo bene che di questa identificazione del cristianesimo con una filosofia si è persa la memoria (anche perché, se intendiamo filosofia nel senso moderno e contemporaneo del termine, si tratterebbe di una identificazione mortale sia per il cristianesimo che per la filosofia), ma ciò non toglie che sia un dato storico inoppugnabile: “Dato che esistono esercizi spirituali cristiani, si crede che gli esercizi spirituali siano di ordine religioso. Invece gli esercizi spirituali cristiani sono apparsi nel cristianesimo a partire dal II secolo proprio come conseguenza della volontà del cristianesimo di presentarsi come una filosofia sul modello della filosofia greca, cioè come un modo di vivere, che comportava esercizi spirituali tratti dalla filosofia greca” .
Per alcuni secoli, dunque, chi aveva desiderio di coltivare la dimensione spirituale dell’esistenza poteva optare per due strade principali: la spiritualità filosofica e la spiritualità cristiana. Questo felice pluralismo, però, non è durato abbastanza: l’imperialismo teologico (di cui ha parlato a suo tempo Jacques Maritain) ha finito con l’appropriarsi in maniera esclusiva dell’offerta di spiritualità. Il cristianesimo, grazie alla potenza politica raggiunta nel Medioevo dalla Chiesa cattolica, ha preteso di essere non ‘un’ canale della spiritualità, ma ‘il’ canale, relegando ogni altra modalità spirituale a sottoprodotto, quando non addirittura a contraffazione o veleno da evitare.
Bisogna aggiungere che nella Modernità i filosofi, pur impegnati vittoriosamente a riconquistare spazi culturali e sociali, non sempre hanno mostrato interesse a riappropriarsi anche di un diritto alla spiritualità: protagonisti di primo piano, da Hobbes a Hume, dai materialisti del Settecento ai positivisti dell’Ottocento, dalle varie interpretazioni del marxismo sino ai neopositivisti del XX secolo, sono stati quasi orgogliosi di non occuparsi di tematiche riguardanti lo ‘spirito’ (che, in qualsiasi senso venisse inteso, evocava comunque qualcosa di impalpabile, evanescente, opinabile, se non addirittura illusorio e alienante). Si potrebbe obiettare: ma, dai neoplatonici del Rinascimento sino agli idealisti post-kantiani e, nel XX secolo, a Heidegger e Jaspers, non ci sono sempre stati pensatori per i quali la filosofia ha mantenuto il diritto, e in buona misura il dovere, di occuparsi della vita spirituale ben al di là della sfera puramente intellettuale? Tutto vero. Purtroppo, però, persino i pensatori che hanno evidenziato la dimensione spirituale dell’esistenza e della vita collettiva sono stati letti, recepiti, in contesti tendenti a filtrarli selettivamente, trasformando la globalità della vita in concetti ordinati, ma asettici. Mi riferisco alle strutture accademiche su cui più di uno studioso ha attratto l’attenzione. Per esempio, quanto Hadot fa notare a proposito dell’abbandono dello stile ‘orale’ del filosofare antico calza a pennello anche per capire l’abbandono della dimensione ‘spirituale’: “nella prospettiva ristretta dell’Università, dato che si tratta di preparare gli allievi allo studio di un programma scolastico che consentirà loro di ottenere un diploma di funzionario e l’avvio di una carriera, il rapporto personale e comunitario deve necessariamente scomparire per cedere il posto a un insegnamento che si rivolge a tutti, cioè a nessuno” . E’ lo stesso storico francese a collegare la perdita dell’ “aspetto personale e comunitario della filosofia” con il fatto che essa “si è sempre più inoltrata in questa via puramente formale, ricercando a qualunque costo la novità in quanto tale: si tratta per il filosofo di essere il più originale possibile, se non creando un nuovo sistema, quanto meno producendo un discorso che, per essere originale, tende a essere molto complicato. La costruzione più o meno abile di un edificio concettuale finisce col diventare fine a se stessa. E così la filosofia si è allontanata sempre di più dalla vita concreta degli uomini” . Non dissimili le considerazioni, a più ampio spettro, di Eugen Drewermann sul paradosso per cui “un genio (…) si logora i nervi per la causa in cui crede e che incarna, si rovina la salute, trascorre notti insonni, dal punto di vista esteriore fallisce” e “tre, quattro decenni più tardi ecco storici dell’arte, della letteratura, della chiesa, buttarsi sulla sua vita e sulla sua opera e spiegare con acribia e diligenza perché Baudelaire, Hoelderlin, Goya, Van Gogh, Savonarola, Giordano Bruno, Giovanna D’Arco siano stati grandi personaggi. Neanche un briciolo dei veri conflitti e delle vere lotte di questi ‘grandi’ trova accesso nella vita personale di questi critici. (…) Ed è proprio questo falsificare la vita facendola diventare dottrina della vita, questo ribaltare ogni vitalità spirituale facendola diventare erudizione della vita spirituale, questo pervertire l’autentico sapere religioso in scienza della religione” , che isterilisce il mondo della cultura e lo rende irrilevante agli occhi dei ‘comuni’ mortali.
Non è azzardato ipotizzare che l’arretramento della speculazione filosofica – e più in generale dei ceti intellettuali - dall’ambito ‘spirituale’ abbia favorito il successo della psicoanalisi e, più ampiamente, della psicologia. Quando il pubblico colto occidentale ha avvertito l’esigenza di indicazioni sulla vita interiore, sulle pratiche ascetiche, sulle esperienze meditative, sugli stati di unione mistica con gli strati più profondi della realtà, sulle modalità di relazionarsi agli altri, agli animali, alle bellezze naturali…, deluso dal taglio troppo ‘cerebrale’ dei pensatori ‘ufficiali’, ha potuto optare fondamentalmente fra tre direzioni: la spiritualità cristiana tradizionale, sia cattolica che protestante (specie se rinverdita da tematiche a lungo represse come l’irruzione dello Spirito Santo e della sua azione imprevedibile nei cuori e persino nei corpi dei fedeli); la spiritualità orientale (anche adottata in misura riduttiva, come per esempio in alcune scuole dove è possibile praticare yoga o altre tecniche corporee di danza, di lotta, di concentrazione mentale); la psicologia (sia attraverso il contatto diretto con uno psicoterapeuta sia, più ampiamente, attraverso la letteratura). Con Freud, Adler, Jung, Frankl, Fromm - ma la lista sarebbe interminabile – l’uomo della strada, specie se geloso della sua ‘laicità’, ha ritrovato il sapore di interrogativi ed ipotesi che la filosofia (sulla scia delle scienze) sembrava aver cassato definitivamente: cosa possiamo scoprire nel vasto e enigmatico mondo dei sogni, dei simboli, delle fiabe, dei miti, dei sentimenti viscerali, della follia? Che indicazioni ci possono venire dall’esperienza devastante dei gulag e dei lager? Come possiamo uscire dall’analfabetismo emotivo e imparare ad amare?
Lo voglio asserire con pacatezza ma con fermezza: per chi ha a cuore la dimensione spirituale, l’exploit della psicologia nel XX secolo ha costituito una preziosa chance. Ha offerto, a quanti non volessero o non potessero sperimentare la spiritualità religiosa (sia nell’alveo del cristianesimo, o di altre confessioni monoteistiche come l’ebraismo e l’islamismo, sia secondo le tradizioni induiste e buddhiste), uno spazio inedito .

Uno sguardo al presente
La pluralità attuale delle offerte spirituali (secondo i modelli cristiani, orientali o psicologici) è dunque, a mio avviso, una ricchezza irrinunciabile. Le differenze strutturali fra questi canali, abbastanza nette per giustificare ogni cura nel conservare le rispettive identità, non dovrebbero però costituire una ragione di ignoranza reciproca: tutti possono imparare da tutti, se non altro a valorizzare, nel confronto, la propria originalità. Tale pluralità è anche esauriente, definitiva, non ulteriormente incrementabile? Ritengo che una risposta affermativa sarebbe errata. Come i confini della spiritualità biblica sono apparsi, negli ultimi due secoli (da Schopenhauer in poi, sino a Herman Hesse e oltre), troppo angusti; come i territori della spiritualità orientale (considerata nel complesso delle sue innumerevoli articolazioni interne) non hanno attratto tutti i delusi della spiritualità biblica; così non ritengo che il ricco patrimonio spirituale che passa attraverso il variegato mondo della psicologia sia in grado di esaurire per ampiezza, e soprattutto per radicalità, la domanda complessiva di spiritualità. Senza pretese di sostituire nuovi imperialismi culturali ai precedenti, la filosofia (ma un discorso analogo lo si potrebbe avviare dal punto di vista della musica, della letteratura, delle arti figurative e plastiche, dello sport, della culinaria…e - perché no ? - delle stesse scienze ‘dure’) ha il diritto/dovere di attrezzarsi per rivalorizzare e socializzare le potenzialità spirituali della sua tradizione.
Significa, alla luce del rapido excursus diacronico, che sia necessario ritornare ai modelli delle scuole ellenistiche? Neri Pollastri (sulla scorta di Martha Nussbaum) ha chiarito, già da anni, questo punto molto lucidamente: “il tratto ad esse comune è costituito dalla trasformazione della filosofia in una prassi terapeutica, che presuppone una ben definita e dogmatica concezione dell’uomo (una sua ‘natura’) e del mondo in cui esso vive, nonché un universale ed intrascendibile obiettivo da raggiungere – la sua salute. Queste concezioni abbandonano così il modo di intendere la filosofia proprio di Socrate: le dottrine dei maestri non possono essere sottoposte a critica; le scuole filosofiche sono circoli chiusi, comunità dove non si ricerca, non si esamina, ma si apprende - con la mente e con il corpo – come vivere in base ad un modello autoritativamente dato per buono” . Dunque, nessuna riesumazione pedissequa delle scuole ellenistiche. In contesti nuovi, in cui si evidenzi con nettezza che in filosofia non ci possono essere ruoli fissi e che il maestro è tanto più grande quanto riesce a farsi condiscepolo dei discepoli, vanno piuttosto ripresi e valorizzati alcuni elementi di quell’epoca che sono poi andati sfumando sin quasi a scomparire nell’età contemporanea: la filosofia come ricerca non solo di scienza e sapienza, ma anche di saggezza e prudenza; come esercizio non soltanto della mente, ma della volontà e dell’intera personalità; come attività intima e personalissima, ma cordialmente aperta al confronto, allo scambio fraterno, all’ammissione dei propri errori e alla gratitudine per chi ci consente di liberarcene.
Un filosofo-in-pratica, Ran Lahav, che esplora, non solo teoricamente, alcune modalità inedite di valorizzazione della dimensione spirituale della filosofia (convinto che “un praticante filosofico è più come un ricercatore spirituale che come uno psicologo” ) , ha addirittura proposto una revisione semantica del vocabolo. A suo avviso, infatti, “la filo-sofia” è un “processo” in “due fasi”: la “pratica filosofica (autoriflessione filosofica)” e la “trans-sofia (andare al di là)” . In altri termini, a suo parere, la filosofia integrale comprende “l’auto-indagine della nostra caverna platonica e l’uscita dalla caverna” o, fuor dalla metafora platonica, implica “investigare il nostro modo riduttivo di essere e poi trasformarci per raggiungere un modo di essere più ampio” .
Che cosa può intendersi per spiritualità filosofica?
In queste paginette ho aggettivato più volte il sostantivo ‘spiritualità’: filosofica, religiosa, psicologica, orientale, cristiana, cattolica, protestante…Forse, prima di concludere, sarebbe opportuno provare a tracciare un identikit della spiritualità filosofica. Hadot, citando una descrizione di Plotino ad opera del discepolo Porfirio (Vita di Plotino, 8, 19) - tentava di “essere presente a se stesso e agli altri” – osserva che “costituisce un’eccellente definizione di ciò che dovrebbe essere ogni vita filosofica” . Ma si è presenti agli altri per il solo fatto che si è presenti a sé stessi? O non è necessario vivere la concentrazione su di sé in maniera dialettica rispetto all’attenzione verso l’altro-da-sé? In un certo passaggio delle sue opere, Hadot scrive in proposito: “Distogliti da tutte le cose, diceva Plotino; ma con viva contraddizione non si dovrebbe dire anche: accogli tutte le cose?”. Commentando questa sua stessa espressione, il pensatore francese aggiunge: “In generale, tenderei a rappresentarmi la scelta filosofica fondamentale, dunque lo sforzo verso la saggezza, come un superamento dell’io parziale, particolare, egocentrico, egoista, per raggiungere il livello di un io superiore che vede tutte le cose nella prospettiva dell’universalità e della totalità, che prende coscienza di sé come parte del cosmo, che abbraccia allora la totalità delle cose” . Non dissimile, mi pare, la caratterizzazione proposta da Lahav del “tipo di trasformazione che cerchiamo nella trans-filosofia”: “In breve, pienezza è un’emanazione libera e creativa della vita che fluisce nel mio intero essere e mi ispira a straripare al di fuori di me e dare all’esterno le mie energie, la mia attività o la mia pace interiore, le mie comprensioni, il mio amore, la mia luce” .
Proviamo a esplicitare, con un occhio al concreto, cosa possa implicare questo “superamento dell’io parziale” (Hadot), questa “pienezza” (Lahav) . Innanzitutto, suppongo, la liberazione da un senso troppo vivo della proprietà privata. Un filosofo attaccato ai soldi, che dia importanza al denaro o che addirittura stia attento a fare della filosofia un mezzo di accumulazione del denaro (ben al di là delle necessità elementari della sopravvivenza in una società capitalistica complessa), pregiudica una delle radici del movimento di auto-trascendimento. Spinoza che rinunzia a un’eredità troppo generosa, e si limita ad accettare ciò che può sostenerlo, costituisce un esempio confortante.
Poi immagino che non gli venga spontaneo abbarbicarsi al proprio stato di salute e che preferisca una vita qualitativamente intensa a una vita quantitativamente più estesa, ottenuta a costo di evitare esperienze intense e significative. In questo distacco dal proprio benessere fisiologico (ovviamente non in chiave doloristica o masochistica, ma per desiderio di attingere quante più ricchezze anche emotive possono sperimentarsi nella breve vita terrena) rientra il coraggio davanti ai poteri – ufficiali o criminali, non sempre nettamente separabili – che impongono di optare fra l’autocensura e la sopravvivenza biologica. Socrate o Giordano Bruno sono quasi delle icone di questo aspetto dell’ascesi filosofica.
Sappiamo, però, che la nostra struttura psico-fisica ci rende bisognosi di affetti quanto di cure mediche: il filosofo deve essere disposto, dunque, per amore della ricerca, a restare non solo senza ‘pane’ ma anche senza ‘rose’. Se anche solo una persona al mondo può tenerci sotto ricatto minacciando di privarci della sua amicizia o del suo conforto sentimentale-sessuale o del riconoscimento sociale, ciò è da una parte sintomo d’imperfetta autonomia spirituale e, dall’altra, causa di travisamenti nel giudicare per quanto obiettivamente possibile uomini e cose. In un professore di filosofia che fosse, almeno orientativamente, anche filosofo non dovrebbe esserci traccia né di avidità né di gelosia né di invidia per il successo dei colleghi; o, almeno, dovrebbe riconoscersi solo la traccia della sua lotta contro simili difetti. Kierkegaard racconta del teologo che, rivolgendosi al suo Dio, gli spiega: ho scritto tre volumi per dimostrare che esisti, ma se - ciò nonostante - non mi fai diventare vescovo, sono pronto a scriverne altri tre per dimostrare che non esisti. Nell’immaginario collettivo odierno la spiritualità è stata così scorporata dalla filosofia (e riservata alla religione) che un predicatore borioso e venale fa sorridere di commiserazione, invece un conferenziere altrettanto vanitoso e con elevate pretese di ricompensa monetaria non suscita nessuno stupore.
Poco sarebbe la libertà dal denaro e dalla tendenza all’autoconservazione se non fosse la pre-condizione della libertà dai pregiudizi culturali assimilati con il latte materno e respirati irriflessivamente nel proprio villaggio, nella propria regione, nella propria patria: una libertà che non si acquista da un giorno all’altro e, soprattutto, che non si acquista senza un processo di spogliazione dei propri abiti mentali che è, inseparabilmente, motivo di alleggerimento che dà ebbrezza e d’impoverimento che provoca paura.
Se è difficile deporre le idee altrui passivamente recepite, ancora più difficile è gioire della prospettiva di rinunziare alle proprie - anche le più faticosamente acquisite – ogni qual volta il confronto intellettuale con altri ce lo imponga: eppure, senza questa propensione a lasciarsi spiazzare e mettere in crisi dagli argomenti altrui, il filosofo non sperimenta il proprium della libertà filosofica. “La filosofia non è una costruzione di sistemi, ma la risoluzione presa un volta per tutte di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé”: commentando questa frase di Bergson, Hadot ritiene che “l’espressione ‘guardarsi ingenuamente’ significa affiancarsi dall’artificiale, dall’abitudine, dal convenzionale, dal costruito, e ritornare in fondo a una percezione per così dire elementare, scevra di ogni pregiudizio. Si può dire che questo sforzo, analogo a quello del pittore, è un esercizio spirituale” .
Tale distacco intellettuale, frutto maturo di tutto un più radicale e radicato processo di auto trascendimento, è forse il massimo che la filosofia richiede (e rende possibile)? Direi che l’ultimo passo consista nella rinunzia alle idee: non solo alle altrui, non solo alle proprie, ma alle idee in quanto tali. E’ il punto più affascinante ma anche più controvertibile. Non alludo a nessuna moda irrazionalistica o anche solo anti-intellettualistica: mi riferisco piuttosto al dato, per me attestato da tutti i sommi pensatori dell’umanità, che proprio la ragione, al culmine della sua attività, entra in sfere così reali da non prestarsi più all’analisi razionale. Ran Lahav l’ha saputo esprimere con equilibrio: “Molte tradizioni sapienziali e spirituali hanno sviluppato modi per facilitare le comprensioni profonde, , mediante tutta una serie di tecniche: meditazioni, tecniche di lettura e scrittura contemplativa, addirittura esercizi fisici e danze spirituali. Se ne trovano esempi nelle tradizioni del cristianesimo monastico, dell’induismo, del buddismo, della scuola islamica sufi. Queste considerazioni mi fanno ancora pensare che la filo-sofia, nel suo tentativo di entrare in contatto con i più grandi orizzonti della nostra realtà, non debba limitarsi al ragionamento intellettuale. Non deve limitarsi, insomma, a quella che comunemente si chiama filosofia” .
Da Eraclito a Wittgenstein, è ricorrente la testimonianza che -per parafrasare Saint Exupery – l’essenziale è invisibile alla mente. Una di queste sfere meta-razionali la si sfiora, indubbiamente, in direzione della ulteriorità dell’essere (e vari filosofi vi alludono adoperando il termine ‘mistico’); ma, anche se meno visitata dai filosofi, esiste anche la sfera meta-razionale della dedizione agli altri. Non mancano gli accenni a questa forma di amore - ‘agapico’ – che, a differenza dell’amore ‘erotico’, “non pare umano”. Hadot osserva, a proposito dell’esempio di Socrate (del Socrate ‘mitizzato’ se non proprio dello sfuggente Socrate storico), che “ciò che si cerca di attualizzare e di far diventare un ideale filosofico è piuttosto la sua vita e la sua morte, interamente dedicate agli altri, votate a indurli a prendersi cura di se stessi, a renderli migliori” . E, a proposito dello stoicismo, sostiene: “Non dire: non ci si può occupare degli altri senza occuparsi di se stessi, ma, al contrario, come dice Seneca (Lettera 48, 3): ‘Vivi per gli altri, se vuoi vivere per te’. Infatti, aggiunge Seneca, non si può essere felici, se si pensa solo a se stessi. E’ vero che si potrebbe pensare che, per occuparsi degli altri, sia necessario anzitutto trasformare se stessi; ma questa trasformazione di sé consiste appunto nell’essere attenti agli altri. In conclusione, con una formulazione forse un po’ esagerata, direi che non c’è autentica preoccupazione per gli altri senza oblio di sé. O comunque certamente senza l’oblio del proprio interesse personale” . Bisogna comunque riconoscere francamente che la convinzione di un Marco Aurelio (“la bontà presuppone un disinteresse totale, deve essere in qualche modo spontanea e irriflessa, senza il minimo calcolo, senza il minimo compiacimento verso se stessi” ), non è una posizione comune fra i filosofi estranei alla tradizione biblica e, in particolare, evangelica .
Questi brevi, telegrafici accenni, suggeriscono - sulla domanda intorno alla spiritualità filosofica – almeno due considerazioni conclusive. La prima: nella repubblica filosofica ogni filosofo può essere testimone di una sua spiritualità, in coerenza con ciò che pensa sull’intero. Nella realtà esistono tante spiritualità, quasi quanti sono le donne e gli uomini che affrontano il cammino filosofico. E’ solo a partire, induttivamente, dalla molteplicità delle spiritualità effettivamente incarnate che si può osare costruire, per astrazione (operazione non solo lecita, ma indispensabile a chi voglia filosofare), un identikit della spiritualità filosofica in quanto tale.
Seconda considerazione: il modello astratto di una spiritualità filosofica coincide con la struttura idealtipica della spiritualità umana. Non sto, ovviamente, negando la specificità della spiritualità biblica rispetto alla spiritualità della filosofia greca o delle filosofie religiose orientali o delle psicologie umanistiche del XX secolo: tanto meno sto auspicando, nel tempo, una dissoluzione delle specificità in una grande, indistinto blob dove sia irrilevante ogni questione di principi, di metodi e di fini. La spiritualità del futuro, nella mia prospettiva, avrà al contrario la struttura policroma di un mosaico di spiritualità ‘settoriali’: ogni ‘tessera’ contribuirà all’armonia del sistema quanto più sarà sé stessa, unica, inconfondibile (anche se spogliata da superfetazioni dogmatiche o moralistiche e ri-centrata sulla ‘perla preziosa’ in cui consiste il suo specifico). Sto, insomma, asserendo che il mosaico delle spiritualità ‘regionali’ può costruirsi (sia pure in forma sempre provvisoria e perfezionabile) solo sullo sfondo – o sulla base - di una spiritualità ‘fondamentale’ tanto più filosofica quanto meno si declina, e si lega e si presenta, in specifiche istituzioni, tradizioni, ideologie, simbologie. Una simile spiritualità si dedica a coltivare quel ‘terreno’ essenziale senza di cui ogni sedicente spiritualità rischierebbe di entrare in contraddizione con altre e con sé stessa (per esempio assimilando, esaltando ed esibendo elementi di disprezzo di etnie diverse dalla propria o di determinate specie animali). Può essere immaginata, insomma, come l’humus fertilizzante nel giardino delle spiritualità contemporanee. Nella conversazione, a cui ho già attinto prima, con Davidson, Pierre Hadot a un certo punto sostiene: “Mi è rimasta impressa questa frase di Anne Cheng nel suo libro Storia del pensiero cinese, a proposito del Tao (o Dao): <>. Questa osservazione mi induce a pensare che l’idea di un cambiamento di livello dell’io si ritrovi in filosofie estremamente diverse” . Per parte mia, sommessamente, mi limiterei a modificare il termine ‘filosofie’ in ‘spiritualità’ (femminile plurale). Perché non proprio tutte le filosofie sono anche delle proposte di trasformazione spirituale e, soprattutto, perché ci sono proposte di trasformazione spirituale che non sono anche dottrine filosofiche. E’ là dove si configura una qualche forma di spiritualità che pulsa La Mystique sauvage di cui si è occupato Michel Ulin: un “sentimento oceanico” (Romain Rolland) che mi spinge, ben al di là delle ristrettezze dell’ego, ad avvertire la “coappartenenza essenziale tra me e l’universo circostante”.

Augusto Cavadi

domenica 25 settembre 2011

L’enigma Gesù e la svolta teologica post-conciliare


“Repubblica – Palermo”
25.9.2011

Elio Rindone

Chi è Gesù di Nazareth?

ilmiolibro.it
Pagine 238

euro 15

Chi è stato Gesù? Nel 1965 si è chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II e, per la Chiesa cattolica , è stato un terremoto. Solo Ratzinger e quanti, al suo seguito, cercano di neutralizzare la rivoluzione copernicana allora avviatasi nel modo di concepire la fede, l’hanno capito davvero. Gli altri - i non addetti ai lavori teologici – non hanno idea di quanto sia successo realmente. Proprio per i “non teologi” il filosofo e teologo palermitano Elio Rindone, da anni trapiantato a Roma, ha scritto questo volumetto (intenso, ma che si legge d’un fiato) sulla figura di Cristo: Chi è Gesù di Nazareth? Idee nuove dopo il Concilio. Più precisamente, su come è stato inteso nella teologia scolastica (dal Medioevo sino al 1965) e come viene inteso dalla teologia contemporanea: non più un mitico personaggio celeste, bensì un uomo in carne e ossa che ha sconvolto i parametri del suo tempo insegnando - con le parole ma soprattutto con l’esempio – che l’unico Dio di tutte le religioni non vuole liturgie vuote né acrobazie dogmatiche, bensì una società centrata sui bisogni dei poveri, degli ammalati, dei bambini, dei “vinti”. I vangeli – letti con onestà e competenza – parlano chiaro: i “valori non negoziabili” non riguardano la bioetica o le sovvenzioni alle scuole cattoliche, bensì la giustizia sociale e la solidarietà fraterna.

Augusto Cavadi

venerdì 23 settembre 2011

Il vescovo e l’onorevole detenuto


“Centonove”
1.7.2011

QUELL’ECCEZIONE DI STAGLIANO’
A giudizio di Antonio Rosmini, uno dei massimi pensatori cattolici del XIX secolo, la Chiesa è afflitta da cinque “piaghe”: una delle quali è il metodo con cui sono scelti i vescovi. Per i primi dieci secoli, infatti, essi venivano eletti dalla base dei fedeli: poi, piano piano, il vescovo di Roma si è riservato il diritto di nominarli dall’alto e di inviarli a suo piacimento nelle diocesi sparse per il mondo. Ma è davvero così disastroso il metodo di nomina dal vertice rispetto all’elezione dal basso? Qualche amico mi ha fatto osservare che, applicato in Sicilia, significherebbe in pochi anni avere vescovi sponsorizzati da grossi imprenditori, banche, categorie professionali influenti, organizzazioni mafiose: un po’ come avviene - spesso, non sempre – con chi riveste cariche politiche pubbliche. Il Vaticano, invece, può agire libero da logiche clientelari localistiche e guadare con più serenità ai meriti dei singoli. In effetti, i risultati del sistema della cooptazione non sono malvagi: se valutate dal punto di vista della preparazione culturale e della correttezza morale, le gerarchie cattoliche siciliane degli ultimi decenni appaiono mediamente più presentabili dei dirigenti politici di pari grado.
Proprio per questo livello accettabile di competenza e di serietà, gli scivoloni di un vescovo creano molto più stupore e disappunto delle sbandate di un amministratore pubblico. Come è avvenuto nelle ultime settimane in una delle più piccole, ma teologicamente e spiritualmente più attive, diocesi siciliane: la diocesi di Noto. Il vescovo attuale, mons. Antonio Staglianò, è stato nominato nel 2009 con una decisione insolita: mentre, infatti, dal Concilio Ecumenico Vaticano II in poi - dunque da una quarantina d’anni – i vescovi vengono scelti preferibilmente fra i preti della medesima regione, Staglianò è invece calabrese. Ma l’età giovane, l’aspetto giovanile e la brillante carriera di studioso hanno compensato, nell’animo dei fedeli siciliani, l’handicap dell’origine geografica del nuovo pastore. Il quale, però, almeno a giudicare da interventi sulla Radio Rtm Modica (e sul relativo sito internet), ha suscitato in poche settimane delle reazioni non proprio entusiastiche. Già la sua partecipazione alla trasmissione-flop di Vittorio Sgarbi alla Rai del 18 maggio aveva stupito negativamente più di uno spettatore: perché prestarsi a essere chiamato da uno dei personaggi più egocentrici del panorama (non proprio roseo) contemporaneo a fare, in un angolo, all’impiedi, il testimone muto (e in qualche misura legittimante) dei patetici sproloqui del suo ospite? Solo per poter avere qualche minuto a disposizione per cantare in playback Il mio canto libero di Battisti e per fare una predichetta sulla paternità di Dio in un contesto assai poco edificante? Sono queste le scelte che avvicinano la Chiesa cattolica alla gente sempre più secolarizzata (qualsiasi giudizio si voglia dare sull’innegabile processo di “disincanto” dell’occidentale contemporaneo)?
Molto più grave, però, è apparso agli occhi - e alle orecchie – di diversi fedeli un passaggio, anzi un duplice passaggio, di una successiva omelia di mons. Staglianò durante una messa nel Santuario della Madonna delle Grazie, a Modica,. Infatti, facendo riferimento agli arresti domiciliari del parlamentare regionale, in quota MPA, Riccardo Minardo e della moglie Giuseppa Zocco (con l’accusa di associazione per delinquere, truffa aggravata, malversazione ai danni dello Stato nell’ambito di un’inchiesta su una presunta truffa legata a finanziamenti statali ed europei), il presule ha detto fra l’altro: «Voi qui avete un onorevole, un certo Minardo, che è sempre stato presente in ogni nostra riunione: tutti sapete cosa gli è successo. Lasciamo stare il giudizio di quello che è accaduto ai competenti; comunque sia, abbiamo un fratello, una famiglia intera che adesso, dalla gloria, è protagonista della morte, e allora, se forse nel momento della gloria potevano manifestare qualunque tipo di disprezzo per tante cose, quando una persona, chiunque sia, cade nella miseria una certa compassione irrompe negli animi e dice: prego per te, sappi che non sei solo nel dramma della tua sofferenza». Non soddisfatto, mons. Staglianò è tornato sull’argomento anche prima del commiato finale, come ha raccontato l’agenzia di stampa romana “Adista”: “Il messaggio l’avete recepito?”, ha detto il vescovo rivolgendosi alla platea visibilmente infastidita: “Mi promettete che pregherete per questa famiglia? Che farete qualcosa?”.
Diverse le reazioni. Da quelle immediate, di alcuni astanti che, sbigottiti, si sono alzati e sono andati via, a quelle successive del consigliere comunale del Pdl di Modica, Nino Gerratana : «Se dicessi che sono basito per il comportamento del vescovo Staglianò, che al posto di prepararsi le omelie si prepara la difesa d’un noto indagato, direi cosa non vera, poiché abbiamo dovuto abituarci da tempo a certi comportamenti che gli uomini della Chiesa tengono nei confronti dei potenti». La reazione del vescovo, sinora, non è stata delle più caute e, in una lettera aperta alla diocesi, ha sostenuto che il problema di oggi è quello di certo “giornalismo amorale” che, pur di farsi leggere, cerca “lo scandalo ad ogni costo”,sottolineando che, sì “restano poveri quelli che non hanno da mangiare, da bere, ma sono poveri tutti gli afflitti, anche quelli che, “potenti e ricchi”, si trovano nella polvere della gogna mediatica”. Ovviamente i laici, specie se frequentano ambienti amorali come il mondo della carta stampata, non hanno titoli per insegnare a un vescovo i doveri di solidarietà cristiana verso chicchessia. Ma certi inviti a visitare i carcerati e a portare loro conforto risulterebbero più convincenti se riguardassero gli immigrati che non posseggono la lingua italiana, i cittadini siciliani senza relazioni importanti, i piccoli delinquenti sbandati e poi - solo alla fine - gli onorevoli dell’Assemblea regionale.

Augusto Cavadi

Venti anni fa, Libero Grassi


“Centonove”, 2.9.2011

XX anniversario dell’assassinio di Libero Grassi
“La collusione con le imprese mafiose distorce il compito dell’imprenditoria sana, perché non consente di svolgere una parte attiva nella società, di costruzione insieme di sviluppo e di civiltà; piuttosto in tal modo si partecipa attivamente alla distruzione della società”. Autore della dichiarazione: Libero Grassi. Luogo: Aula consiliare di piazza Pretoria. Destinatario diretto: Giovanni Albanese, presidente dei piccoli imprenditori di Palermo (che, a proposito di un attentato a Brancaccio, aveva ipotizzato la mano del “terrorismo internazionale”). Data: 4 maggio 1991. Pochi mesi dopo, il 29 agosto, Libero Grassi avrebbe pagato con la vita la lotta simultanea contro tre fronti: i ricatti delle cosche mafiose, la sordità delle istituzioni politiche, l’apatia succube dei colleghi imprenditori.
Le dichiarazioni di Grassi (insieme agli altri interventi della tavola rotonda in cui furono pronunziate), sono state ripubblicate in questi giorni in un denso pocket dell’editore Di Girolamo e il XX anniversario del vile assassinio rende inevitabile azzardare un bilancio della situazione . Da una parte si ha la mesta sensazione che questi venti anni siano passati invano (o quasi del tutto invano, nonostante i tanti eroi assassinati nel frattempo affinché la Sicilia voltasse davvero pagina): gli imprenditori siciliani o pagano o emigrano, gli imprenditori settentrionali o si ‘ambientano’ seguendo il consiglio del loro conterraneo Lunardi (quello che “con la mafia bisogna convivere”) o ritornano a casa. In ogni ipotesi, è l’incremento produttivo ed economico del Meridione a essere danneggiato. Come segnala Tano Grasso proprio nel contributo a questo volumetto, “ancora oggi l’area dell’opposizione alle mafie è costituita da una minoranza assoluta. Gli imprenditori che denunciano sono un’avanguardia. Se va bene, per uno che denuncia ce ne sono nove che continuano a pagare il pizzo; se va male il rapporto è uno a cento, se non a mille. E poi c’è il Nord dell’Italia con imprenditori che sembrano essere arretrati di venti anni, insensibili alla prospettiva della collaborazione con le istituzioni”. Già, il Settentrione del Paese. Scrivo queste righe ai confini fra Lombardia e Piemonte ed è impressionante, proprio perché inatteso, con quanta frequenza le cronache locali raccontino di arresti di esattori di pizzo, processi ad amministratori legati a clan siciliani e calabresi, persino interi Comuni commissariati per mafia. Alla festa della Lega a due passi da Bergamo (a cui ho avuto il privilegio di partecipare clandestinamente e con il supporto decisivo di un mio collega della zona che faceva da interprete) mi sarei aspettato da Bossi e Calderoli almeno un accenno a questa emergenza sociale e un invito al pubblico - alticcio e distratto – a rivolgersi alle istituzioni per contrastarla: invece nulla. L’allarme sicurezza viene dai disperati dei barconi del Canale di Sicilia, non dai criminali in giacca e cravatta che riversano nelle banche del Nord il denaro rapinato ai piccoli e medi imprenditori del Sud e ora anche del Nord. D’altronde, bisogna pure capire la povera dirigenza del Carroccio: si trova a dover difendere la Padania dalla mafia governando fianco a fianco con quel politico che, per anni, essa stessa ha appellato affettuosamente come “il mafioso di Arcore”. Hanno poco da ripetere, come una cantilena, che “l’Italia sta andando a picco e la Padania si salverà con la secessione”: persino il più ingenuo boscaiolo della Val Brembana si chiede, ormai, chi - e con chi – ha provocato il naufragio.
La situazione complessiva, dunque, se non si misura a morti ammazzati per strada, non è per nulla rosea. Tuttavia – è lo stesso leader dei comitati antiracket ad affermarlo – “se si guarda al tempo trascorso da quella mattina del 29 agosto del 1991 ad oggi; se si pensa al modo in cui si guardava il commerciante che si opponeva al pizzo e a come lo si guarda oggi; bene, con onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che oggi siamo in un altro mondo”. E lo siamo anche grazie a nuove forme di associazionismo “antieroico” sul modello di “Addiopizzo”, “Libero Futuro” e “Professionisti Liberi” . Insomma, la bottiglia è - secondo l’immagine ormai abusata – per metà piena e per metà vuota. Il progetto proclamato a caro prezzo da Libero Grassi è avviato, ma la sua realizzazione resta ancora davanti a noi: “Abbiamo un comune obbiettivo da proporci: che il 99% del nostro territorio che è in mano alla mafia non lo sia più”.

Augusto Cavadi

mercoledì 21 settembre 2011

Il messaggio etico in politica di S.E. Angelino Alfano


“Repubblica – Palermo”
21. 9. 2001

LA CANDIDATURA DI LAGALLA E IL “MESSAGGIO ETICO” DI ALFANO

Il rettore Lagalla candidato del Pdl a sindaco di Palermo? Non sarebbe una cattiva idea. Da governatore dell’università non è stato né inerte né corrotto: si può sperare molto di meglio dalle nostre parti? Le elezioni amministrative si svolgerebbero dunque in una condizione molto vicina alla normalità: se vincessero i candidati alternativi al centrodestra (è sperabile che ce ne siano, ma non una pletora), si volterebbe pagina rispetto al non-governo degli ultimi dieci anni; se perdessero, non sarebbe necessariamente un ripiombare nel nulla.
Ciò chiarito, dispiace sinceramente che la gratitudine abbia giocato al Magnifico un brutto scherzo. In dovere di ringraziare il proprio autorevole sponsor, Angelino Alfano, avrebbe potuto lodarlo (o come si preferisca dire per evitare l’antipatica assonanza con il sostantivo giuridico ‘lodo’) per cento qualità: che è studioso (e, a differenza di un suo omologo tedesco, non ha avuto bisogno di copiare interi capitoli della tesi di laurea); che è sveglio (in pochi anni è riuscito, lui neofita del profondo Sud, a diventare il capo del partito più filo-settentrionale della storia repubblicana); che sa parlare bene in pubblico; che sa coltivare con attenzione le relazioni umane; che è un abile traghettatore (è riuscito a spostare una fetta ipercattolica dell’elettorato democristiano di famiglia a supporto di un leader smaccatamente edonista); che (a giudicare dalla fronte perennemente corrucciata) mostra di affrontare le questioni con piglio, o almeno con cipiglio; che è alto (più alto di Berlusconi e per giunta senza tacchi occulti)…
E, invece, su cosa va ad attrarre l’attenzione del suo mentore politico il professor Lagalla? “Angelino Alfano porta un messaggio etico in politica”. Qui però tocchiamo tasti delicati. Tutti i politici testimoniano, incarnano, diffondono una visione etica: un’idea di bene e di male, di giusto e di ingiusto, di lecito e di illecito. L’hanno testimoniata Churchill, Gandhi, Kennedy, Gorbaciov così come Mussolini, Hitler, Stalin, Reagan. Il problema è dunque: quale etica ogni politico introduce nella sua pratica?
C’è un’etica del bene pubblico e un’etica dell’interesse privato; c’è un’etica del senso critico e un’etica dell’obbedienza cieca a un padrone-benefattore da cui si è stati miracolati; c’è un’etica della libertà di coscienza e un’etica del conformismo agli ordini della ristretta dirigenza di un partito; c’è un’etica del dialogo democratico e un’etica della negoziazione da mercante medio-orientale; c’è un’etica della schiena dritta e un’etica delle spalle incurvate; c’è un’etica del rinnovamento nella continuità con le conquiste migliori del passato e un’etica della conservazione mascherata da modernismi demagogici; c’è un’etica della solidarietà internazionale e un’etica dei rapporti privati con i dittatori del pianeta (che per altro non esclude clamorosi voltafaccia); c’è un’etica delle regole uguali per tutte e un’etica delle regole cucite addosso ai potenti del momento; c’è un’etica delle opportunità di lavoro per i più meritevoli e un’etica del clientelismo metodico a favore di parenti e amici fedelissimi; c’è un’etica che persegue la giustizia a qualsiasi costo e un’etica che la persegue a condizione di non interferire con le trame oscure del malaffare; c’è un’etica che impone ai ricchi di privarsi di un po’ di ricchezza a favore dei ceti deboli e un’etica che impone ai ceti deboli di privarsi ulteriormente del necessario per non urtare la suscettibilità degli straricchi.
Sarebbe interessante che Lagalla spiegasse meglio di quale etica, a suo parere, è paladino il segretario nazionale del partito che lo intende candidare a sindaco di Palermo: così, noi elettori, potremmo iniziare a farci un’idea dell’etica a cui Lagalla stesso intende ispirarsi nell’eventuale governo della città.

Augusto Cavadi

lunedì 19 settembre 2011

Ci vediamo a Palermo giovedì 22 settembre 2011 alle 18?


Giovedì 22 settembre alle ore 18 (esatte)
presso il Salone della Chiesa Valdese di Palermo
(Via Spezio, alle spalle del teatro Politeama)

Augusto Cavadi (filosofo consulente) e Alessandro Esposito (pastore valdese)

presentano il volume di ELIO RINDONE

CHI E’ GESU’ DI NAZARETH ?
IDEE NUOVE DOPO IL CONCILIO
www.ilmiolibro.it, Roma 2011, pp. 238, euro 15,00

Sarà presente l’autore.

Nota sul libro:
Negli ultimi quaranta anni gli studi biblici e teologici hanno rivoluzionato il modo di pensare Gesù Cristo, riscoprendo che cosa veramente insegnava su di lui la Chiesa dei primi tre secoli. Di questa rivoluzione pochi hanno notizia, anche per le censure - più o meno intenzionali - che hanno velato tali rivolgimenti. Elio Rindone (insegnante di filosofia e laureato in teologia, con esperienze di approfondimento specialistico in Olanda) offre in questo denso volumetto le chiavi essenziali per capire in quale direzione è possibile procedere se si vuole ‘credere’ senza rinunziare al ’sapere’.
PS: In questo stesso blog, digitando “Rindone”, è possibile leggere per intero la mia Prefazione al libro.

sabato 17 settembre 2011

Una spremuta di sicilianità


“Centonove”
16.9.2011

UNA SPREMUTA DI SICILIANITA’

Ci sono libri che s’iniziano per dovere professionale e si portano a termine per il gusto della lettura: Siculospremuta (Flaccovio, Palermo 2011, pp. 191, euro 12,00) di Antonino Cangemi è stato per me uno di questi. Infatti nelle pagine di questo gustosissimo testo si intrecciano, inestricabilmente, perle di saggezza e venature umoristiche, con il risultato - alla fine – di aver capito più di una radice della mentalità siciliana contemporanea.
L’esergo di Ignazio Buttitta (Un populu diventa poviru e servu/ quannu ci arrubbanu/ a lingua addutata di patri:/è persu pi sempre: un popolo diventa povero e servo/quando gli rubano/ la lingua ereditata dai padri:/è perso per sempre”) offre la chiave per entrare nel registro serio dello scritto che esplora vicende, pregiudizi, intuizioni, tradizioni, vizi e pregi delle popolazioni siciliane. Come, ad esempio, nel commento al detto Chista è a zita (“Questa è la fidanzata”): “un’espressione che ha in sé un gusto caustico e derisorio. E, chissà perché, ci pare risuoni in tutta la sua carica irriverente nella vita pubblica dei nostri giorni. Nell’arroganza di chi ci governa, nel calpestare gli elementari principi del diritto, nel modificare a proprio uso e consumo le basilari regole della convivenza civile. Sembra proprio che quella maschera col parrucchino e il viso rifatto alla Diabolik (le orecchie enormi che per Lombroso avrebbero costituito sinistri indizi), mentre sbandiera il varo di una legge ad personam (la sua persona), contro cui, forte di una maggioranza manipolata, non ci si può efficacemente opporsi, dica a noi, gabbati e impotenti: Chista è a zita”.
Ma, come spesso nella cucina isolana, l’aspro dell’aceto è in queste pagine sapientemente commisto al dolce dello zucchero (fuor di metafora: l’amarezza è commista all’ironia). Esemplare, da questa angolazione, l’esilarante esegesi dell’espressione interrogativa, tipicamente palermitana, Chi dici? (“Che dici?): una “domanda spiazzante e retorica”, “una provocazione, una manifestazione di baldanza, di spavalderia ostentata”. Ti raggiunge a conclusione del racconto di qualcosa che - per chi la formula - è motivo di orgoglio o di forte soddisfazione (“si è vinta una considerevole somma al gioco, si è fatto l’amore con una donna bellissima, si è gabbato il proprio capo con uno scherzo improbabile, si è riusciti in un’impresa assai ardua”): ma la domanda, nel “cifrario linguistico del teatro dell’assurdo” che si recita nel capoluogo della regione, “esige il silenzio dell’interlocutore piuttosto che attendersi una risposta”. Insomma: “il chi dici ? palermitano è come il gesto del calciatore che, dopo aver segnato un goal, soprattutto se spettacolare, si dirige verso la curva dei tifosi della squadra avversaria con l’indice sul naso, come a dire: ‘Silenzio ! Vi ho beffati!’. Una sfida, dunque, un invito a tacere, a far sì che gli altri riconoscano la prodezza”.
In questo mix di serietà ironica, o di ironia seriosa, non mancano le informazioni dotte. Per esempio ho appreso aneddoti che non conoscevo (come la risposta dell’ambasciatore agrigentino Gella, nel V secolo a. C., alla domanda sarcastica dei cittadini di Centuripe se gli ambasciatori di Agrigento fossero tutti così bassi: “No, di certo. Quelli alti, però, li mandiamo nelle città importanti”); ho imparato che nel 1945 un certo Sebastiano Aglianò ha pubblicato un’opera (Che cos’è questa Sicilia?) di perdurante attualità; ho persino imparato l’etimologia di espressioni dialettali del tutto enigmatiche (il Chi nicchi nacchi? deriva dal latino Quid in hic et in hac ?: “che cosa c’entra qui e qua ?”).
Insomma, Antonino Cangemi ci ha regalato un libro che ridendo castigat mores e, per giunta, informa e istruisce: chi dici?

Augusto Cavadi

venerdì 16 settembre 2011

Una lettera ad alcuni giovani di Chieti


Su richiesta di un’associazione giovanile antimafia (”Chieti Resiste”) ho spedito per il loro blog (www.chietiresiste.org) una lettera di testimonianza:

Augusto Cavadi: giovani, non scoraggiatevi!
by admin on 15 settembre 2011
Posted In: Focus giovani, Opinioni

Quando ascoltate qualche adulto che brontola noiosamente (“Ai miei tempi non era tutto così degradato…!”), non credetegli. A ogni generazione di anziani capita di falsare i ricordi e di farsi un’immagine edulcorata dei tempi della propria giovinezza. Quando avevo la vostra età, care ragazze e cari ragazzi, era il 1968 e le cose non andavano per nulla meglio di adesso: tanto è vero che quasi tutto il pianeta fu scosso dalla contestazione studentesca ( e da tanti altri sommovimenti dalle conseguenze altrettanto rilevanti: le proteste operaie, il femminismo, la rivoluzione sessuale, la riforma della Chiesa cattolica…).
La situazione era brutta: per certi versi meno brutta di adesso, per altri peggiore, in media – tutto considerato – come questa che stiamo vivendo. Per cambiarla, alcuni di noi ci siamo buttati a capofitto nei campi più disparati, con i metodi più diversi: abbiamo fatto molti errori, sperimentato fallimenti ma anche realizzato belle idee. Noi giovani del Meridione italiano, soprattutto a Palermo e dintorni, abbiamo concentrato gli sforzi per combattere il sistema di dominio mafioso: dopo quarant’anni non possiamo dire di aver vinto, ma neppure di aver perduto. Abbiamo fatto molti passi avanti (soprattutto grazie a quanti di noi sono diventati magistrati, poliziotti, politici, sindacalisti, insegnanti, preti, giornalisti, attori proprio con l’intento di lottare per un’Italia meno ingiusta e più libera); ma molta strada resta ancora da percorrere.
Il nostro tempo di vita, ormai, non è molto lungo: dieci, venti anni al massimo. Perciò tocca a voi raccogliere la fiaccola e farla correre ancora un po’ avanti. In eredità vorremmo regalarvi più possibile, ma sarebbe già tanto se accettaste tre doni:
a) non abbiate paura di sbagliare, evitate piuttosto l’unico errore che non vi perdonerete: il qualunquismo. Chi prova a creare, può sbagliare; chi non prova, per paura di sbagliare, sbaglia già per questo di sicuro;
b) non fatevi scoraggiare dai numeri: pochi siete oggi a voler giocarvi la vita per lasciare il mondo un po’ più vivibile di come l’avete trovato, pochi eravamo noi alla nostra epoca. In ogni generazione, la maggior parte della gente pensa a riempirsi la pancia e – se è anche un po’ sveglia – a tenere i genitali in allenamento: di tutto il resto, che è poi l’essenziale, se ne frega. La grande maggioranza ‘silenziosa’ non vuole far nulla per crescere in intelligenza, per gustare la bellezza, per far felici gli altri (specie i poveri e gli sfruttati): nessuna meraviglia, perciò, che sia tanto annoiata e infelice;
c) se volete combattere le mafie, non sottovalutatele. Sono fenomeni complessi, poliedrici: e vanno affrontate con strategie complesse, poliedriche. Sono organizzazioni forti dal punto di vista militare, economico, politico, culturale e pedagogico: perciò o rinunziate a lottare o preparatevi a farlo, in una logica cooperativa, a vari livelli. Preparatevi a combatterle con le armi della legalità democratica (sostenendo magistratura e forze dell’ordine, possibilmente diventando voi stessi magistrati e poliziotti di un certo tipo); con le armi dell’economia pulita; con le armi della politica (che comincia con la partecipazione alle elezioni ma non può fermarsi a questo soltanto); con le armi dell’istruzione e della formazione e della quanto più corretta e ampia diffusione dell’informazione; con le armi dell’educazione delle nuove generazioni (specie quelle maggiormente condizionate da ambienti corrotti, corruttibili e corruttori).
Vi ho raccontato troppe cose da fare? Non scoraggiatevi: alla sera della vita, ognuno di noi dovrà giudicarsi non sulla quantità dei risultati raggiunti, bensì sulla serietà con cui avrà cercato di perseguirli.
Augusto Cavadi
L’associazione “Chieti Resiste” ringrazia il Prof. Cavadi per questo profondo e sincero contributo; offerto a tutti i giovani nella speranza che possano trarne stimolo a reagire sempre, dinanzi alla quotidiana mortificazione della vita e della sacralità dell’essere umano.

mercoledì 14 settembre 2011

DON PINO PUGLISI: UN ANNIVERSARIO SCOMODO


“Repubblica – Palermo”
14 settembre 2011

DON PUGLISI UN MODELLO DI CRISTIANO CHE DA’ FASTIDIO

Il XVIII anniversario dell’assassinio di don Pino Puglisi sarà celebrato con una serie di manifestazioni religiose, civili e culturali dal 12 al 30 settembre. Buon segno: a differenza di altri casi, a questo testimone di giustizia in terra di mafia è stato risparmiato il seppellimento nell’oblio. Sarebbe però triste se l’anniversario fosse occasione soltanto di encomi più o meno retorici, non anche di approfondimento della vicenda del parroco-professore palermitano.
Il dato oggettivo da cui partire è che la causa di beatificazione del parroco di Brancaccio è bloccata negli uffici romani della Congregazione dei Santi. Per certi versi, nulla di straordinario: i tempi della Chiesa cattolica non sono misurabili con gli orologi della storia profana. Ma, per altri versi, questa lentezza - in epoche di “santi subito” – è preoccupantemente significativa. Secondo indiscrezioni attendibilissime, infatti, i vertici della Santa Sede temono ciò che tanti cattolici di base sperano: che una canonizzazione di don Pino Puglisi trasformi il suo atteggiamento nei riguardi dei mafiosi da opzione individuale e opinabile in modello normativo per tutti i fedeli (presbiteri o laici che siano). Insomma: che il ripudio esplicito, concreto, effettivo, quotidiano del sistema mafioso entri ufficialmente nella lista dei doveri morali del cristiano in quanto tale (e non soltanto in quanto cittadino).
Se riflettiamo sulle ragioni di questa resistenza culturale a proclamare “martire cristiano” una vittima di mafia, dobbiamo riconoscere che non sono ragioni deboli e che solo a una lettura superficiale possono risultare da azzeccagarbugli. Infatti - per dirla telegraficamente – i responsabili della Congregazione vaticana sono troppo acuti per non vedere che l’eventuale inserimento di questo prete di periferia nel calendario dei santi martiri da venerare potrebbe innescare un sommovimento a valanga sia dal punto di vista teologico che dal punto di vista etico.
Dal punto di vista teologico, infatti, si rischierebbe di mettere in crisi la figura del cristiano come passeggero occasionale in questo mondo e di rivalutare la sua responsabilità evangelica nei confronti delle ingiustizie sociali, delle strutture oppressive e di ogni situazione di violenza sistematica. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione culturale: liberare la mentalità cattolica dal platonismo e restituirla alla mondanità, alla storicità, dell’ebraismo (di cui Gesù è stato figlio esemplare). Sarebbe molto più radicale che chiedere ai vari Mastella, Casini, Romano di sostituire la propria concezione di politica - come calcolo degli interessi clientelari e tattica elettorale - con la concezione di cattolici democratici quali Sturzo, La Pira, Dossetti.
Anche dal punto di vista etico - o come si voglia denominare il piano degli atteggiamenti quotidiani, dei comportamenti pratici – un’eventuale canonizzazione di don Pino Puglisi potrebbe scardinare un secolare orientamento della Chiesa cattolica nei confronti di organizzazioni criminali o politiche avverse: l’orientamento, intendo, a condannarne i princìpi e a stigmatizzarne le manifestazioni eclatanti, ma a cercare dei compromessi che rendano possibile la convivenza. E’ avvenuto con il fascismo, con il nazismo, con il franchismo, con tante dittature latino-americane; sta avvenendo con il berlusconismo e con il leghismo. Anche con il sistema di potere mafioso è avvenuto qualcosa di simile: condanne sempre più dure della mafia che spara, che uccide, che sequestra bambini, che fa esplodere le bombe; rapporti sempre meno conflittuali con la mafia che corrompe le coscienze, distribuisce favori, compra le preferenze elettorali, ricicla denaro sporco, si appropria delle risorse finanziarie pubbliche, deturpa le coste, inquina le acque. Don Pino Puglisi non si limitava a partecipare, con i suoi ragazzi, ai cortei di protesta per le stragi di Capaci e di via d’Amelio, ma affrontava a muso duro i politici democristiani che si materializzavano in parrocchia quando c’era da distribuire regalucci ai bambini, soprattutto in periodi di elezioni, chiedendo loro pubblicamente di fare invece il loro mestiere di politici, attivandosi perché Brancaccio avesse una scuola, un centro sportivo, una biblioteca e perché ai fedeli dei Graviano fossero sottratti i magazzini - abusivamente occupati - di via Azon. Che questa antimafia praticata nei giorni feriali, più che proclamata dai pulpiti domenicali, non piaccia alle gerarchie cattoliche, non mi sembra poi così incomprensibile. Don Puglisi sarà mai un santo martire ‘ufficiale’? Non lo sappiamo. Forse, come in altri casi della storia bimillenaria della Chiesa cattolica, le perplessità nei piani alti potranno essere vinte dalla spinta popolare: quando per i cattolici palermitani don Pino diventerà di fatto, senza attendere incoronazioni solenni, un modello di cristiano da venerare. E, soprattutto, da imitare.

Augusto Cavadi

lunedì 12 settembre 2011

Chiesa cattolica, risorgimento italiano e Sud


“Repubblica – Palermo”
3 luglio 2011-08-31

LA CHIESA CATTOLICA E L’UNITA’ D’ITALIA
QUEI PROBLEMI DEL SUD CAPITI CON MOLTO RITARDO

Come si è giunti al superamento di anacronistiche contrapposizioni fino ad affermare – a 150 anni dall’Unità – un rapporto di reciprocità tra l’Italia e la Chiesa? Qual è stato l’atteggiamento della Chiesa cattolica italiana nei confronti della “questione meridionale”? Sono le due domande principali che si pone, “non certo da storico, ma da pastore”, mons. Mariano Crociata (già prete della diocesi di Mazara del Vallo e docente di teologia a Palermo, poi vescovo a Noto e, infine, attuale segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana) nel piccolo ma denso volume I cattolici, l’Unità d’Italia e la questione meridionale (edito da “Il pozzo di Giacobbe”, Trapani 2011, pp. 78, euro 7) che è stato presentato per la prima volta ai visitatori del recente Salone internazionale del libro di Torino.
Ma vediamo un po’ più analiticamente. Nella prima parte del testo il portavoce della Cei (che, ovviamente, qui scrive a titolo strettamente personale) sostiene che “la forma conflittuale”, tra Stato liberale unitario e Chiesa cattolica, che “il processo di unificazione ha indubbiamente preso, non solo non è da addebitare unicamente alla posizione assunta da papa Pio IX, ma richiede una importante integrazione per essere adeguatamente compresa”. Infatti non si dovrebbe dimenticare che fu il medesimo papa, anni prima, a elettrizzare gli animi dei patrioti con la celebre Allocuzione del 10 febbraio 1848: “Benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede!”. Proprio questa formula, però, meriterebbe una riflessione più approfondita: essa rivela, infatti, una ambiguità di fondo che – sino ai nostri giorni – non mi pare sufficientemente dipanata. Da una parte, infatti, è vero – come scrive Crociata – che la preghiera attesta che Pio IX fosse non tanto avversario dell’unità della nazione quanto preoccupato dell’autonomia della Chiesa; ma, dall’altra parte, non è altrettanto vero che, nell’ottica del papa, lo Stato italiano dovrebbe farsi custode e promotore della fede cattolica? In altri termini: la radice della conflittualità in questo secolo e mezzo non sta forse in una idea falsa della ‘laicità’, intesa da alcuni liberali ottocenteschi come anticlericalismo e agnosticismo (ed è un errore) e dalla stragrande maggioranza del clero come intollerabile diritto di libertà di coscienza dei cittadini e come inaccettabile dovere dello Stato di rispettare anche praticamente tale libertà (e questa posizione ecclesiastica è un errore almeno altrettanto grave)?
Nella seconda parte del testo l’autore si mostra meno condizionato da preoccupazioni diplomatiche. Infatti non ha remore nel far proprie alcune analisi critiche di storici contemporanei che, riflettendo sull’atteggiamento del mondo cattolico italiano dal 1861 al 1944, scrivono: “La ‘questione meridionale’ non fu mai oggetto di dibattiti nelle Chiese e, tantomeno, a Roma. I cattolici, infatti, avevano ignorato i dibattiti sui problemi del Sud che pur impegnarono i rappresentanti dell’intellettualità del Paese” (Pietro Borzomati). E anche: “Non che le cento Chiese meridionali non conoscessero le difficoltà quotidiane dei contadini, il loro rapporto secolare con la terra, la conflittualità latente o meno col mondo feudale che stentava a scomparire, la miseria dilagante e la piaga dell’emigrazione e tnti altri problemi; li conoscevano perché gran parte del clero meridionale, per secoli, aveva vissuto in parallelo le stesse situazioni, era stato legato alla terra non meno profondamente del contadino, aveva lottato costantemente contro i soprusi dei signori. Tuttavia non c’erano la coscienza e la mentalità adatte, le condizioni generali e la sensibilità necessaria e, se si interveniva, il tono era sempre paternalistico e consolatorio. E’ vero, ci sono stati i preti sociali, qualche vescovo sociale, che non si sono persi in sterili discussioni ma che hanno agito e offerto a una parte dei ‘vinti’ mezzi di riscatto che si chiamavano cooperative, casse rurali, circoli associativi, leghe ecc., ma mancava la complessiva consapevolezza di trovarsi di fronte a una emergenza nazionale e a un problema più vasto e generale” (Vincenzo De Marco).
Soltanto nel secondo dopoguerra si registrano i primi documenti ‘ufficiali’ sulla questione meridionale: da parte dei vescovi pugliesi (1944) e dei vescovi calabri (1945). Tacciono invece i vescovi siciliani. Anzi, quando tutto l’episcopato dell’Italia meridionale edita il documento I problemi del Mezzogiorno (1848), l’arcivescovo di Palermo, Ruffini, vietò la firma ai pastori isolani.
Considerato nella sua globalità, questo contributo di mons. Crociata costituisce un’istruttiva riflessione nella quale l’analisi di ritardi e omissioni, anche da parte della Chiesa cattolica, più che occasione di recriminazione, diventa stimolo a nuova assunzione di responsabilità da parte delle regioni meridionali e dell’intero Paese nell’orizzonte della sfida che si profila davanti: “riconoscerci tutti italiani e decidere di continuare a volerlo essere sapendo che i problemi del Paese o si affrontano insieme o non si affrontano affatto”.

Augusto Cavadi

sabato 10 settembre 2011

La mafia spiegata ai turisti in esperanto


“Repubblica - Palermo”
2 giugno 2011

Quali sono le domande più frequenti che un visitatore rivolge ai siciliani sulla mafia? Augusto Cavadi le ha raccolte in un agile volumetto (La mafia spiegata ai turisti, Di Girolamo, Trapani) che, dal 2008 ad oggi, ha avuto – a cura dello stesso editore – varie riedizioni e traduzioni (in spagnolo, francese, inglese, tedesco, russo, giapponese). In vista di un imminente congresso internazionale di esperantisti in Italia, su proposta e a cura degli organizzatori dell’evento, Michela Lipari e Carlo Minnaja hanno pubblicato una versione in esperanto, da pochi giorni nelle librerie di tutta Italia. Mafio klarigata al turistoj (pp. 60, euro 5.90) è arricchita da una prefazione di Giuliano Turone.

mercoledì 7 settembre 2011

Insegnamento della religione e cultura delle regole


“Repubblica – Palermo”
7.9.2011

LA REPUBBLICA INDIPENDENTE DEI DOCENTI DI RELIGIONE
Che gli insegnanti palermitani di religione contestino, in quanto arbitraria, la decisione della Curia di trasferirne un numero notevole da una sede all’altra senza dichiarare le motivazioni, è - per restare in tema – sacrosanto. Da quando il governo li ha stabilizzati equiparandoli ai docenti di ruolo, essi godono degli stessi diritti dei colleghi di tutte le altre discipline: ed è quindi legittimo che a tali diritti si appellino. Però, per completezza di informazione, è opportuno ricordare che l’arbitrarietà della Curia non è un’invenzione recente e che gli stessi insegnanti che oggi (giustamente) la condannano, ieri (senza battere ciglio) ne hanno beneficiato. Esiste, infatti, una graduatoria degli aspiranti all’insegnamento della religione nelle scuole statali? No. Non esiste e non è mai esistita. L’ufficio preposto alla distribuzione degli incarichi ha agito, e agisce, nella totale assenza di regole. Tu puoi avere una laurea in teologia ed essere scavalcato da uno studente di primo anno; puoi avere dieci pubblicazioni e restare senza cattedra, a vantaggio di un collega che non ha mai pubblicato una riga. Come ho notato in altre occasioni, questa anomia ecclesiastica non è - in aree, come la nostra, caratterizzate dalla diffidenza verso la legalità – un modello per la comunità civile. Combattano dunque la buona battaglia i docenti di religione, ma con uno sguardo a trecentosessanta gradi: alle regole non si può ricorrere a intermittenza. E l’opinione pubblica (inclusi i cattolici di animo democratico) non è convinta che alcuni privilegi siano giustificati. Per esempio che se un docente di religione perde l’autorizzazione del vescovo, ma è di ruolo e possiede una seconda laurea, ha diritto di restare nei ruoli dello Stato come insegnante di un’altra disciplina (ovviamente scavalcando i precari ‘laici’ che da anni attendevano quel posto). Per esempio che se un docente di religione si iscrive a un dottorato di ricerca in una università pontificia, lo Stato italiano continuerà a pagargli per tre o quattro anni lo stipendio: che è esattamente quello che avviene per gli insegnanti di tutte le materie, con la differenza – non propriamente trascurabile – che ai dottorati di ricerca in teologia si accede senza limiti di posti e senza concorso previo (quindi, in teoria, tutti gli insegnanti di religione d’Italia potrebbero, da un anno all’altro, lasciare le cattedre e mantenere gli stipendi, limitandosi a versare una modesta tassa di iscrizione annuale all’università di riferimento). Per esempio - e questo è l’aspetto più clamoroso – se in una classe il 90 % degli alunni chiede l’esonero dall’insegnamento della religione, la normativa attuale assicura al docente il mantenimento della cattedra: dieci classi con tre alunni ciascuna restano dieci classi, non possono diventare un’unica classe di trenta alunni.
So che questi privilegi sono mal digeriti persino da alcuni insegnanti che ne beneficiano e che in uno Stato più evoluto tutta la questione andrebbe ripensata (a cominciare dalla trasformazione dell’insegnamento confessionale della religione in insegnamento laico, per concorso pubblico, della storia delle religioni mondiali); ma sino a quando resteranno in vigore sarà più difficile fare chiarezza, e imporre ordine, nella piccola repubblica indipendente dei docenti di religione.
Augusto Cavadi

martedì 6 settembre 2011

Ci vediamo venerdì 9 settembre ad Amandola (Fermo)?


Venerdì 9 settembre
alle ore 17,30
nell’Auditorium “Vigili”
di Amandola (Fermo)
terrò una conversazione pubblica sul tema:
PUO’ LA FILOSOFIA ESSERE UTILE AI NON-FILOSOFI?
La partecipazione all’incontro è libera e gratuita.
Sarà per me un’occasione preziosa per rivedere gli amici della zona.

lunedì 5 settembre 2011

La crisi del matrimonio cattolico


“Repubblica – Palermo”
16 marzo 2011

QUEI MATRIMONI IN CRISI E IL RIGORE DELLA CHIESA
Anche in Sicilia risultano sempre meno numerose le coppie che decidono di sposarsi in una chiesa cattolica (dai 18.669 del 2008 ai 17.496 del 2009), mentre non accenna a diminuire il numero dei coniugati che avanzano, presso il Tribunale ecclesiastico regionale di Palermo, istanza di annullamento del matrimonio (nel 2010 sono state trattate, complessivamente, 1.165 cause). Per la precisione:16 matrimoni religiosi hanno resistito meno di tre mesi, 15 meno di sei mesi e 43 meno di un anno. 9 i matrimoni in cui e’ stato chiesto l’annullamento dopo 20 anni e 4 dopo 25 anni. Questo dato statistico merita, forse, qualche considerazione all’interno e all’esterno del mondo cattolico. La prima, e più fondamentale, è che questi processi costituiscono una fabbrica d’ipocrisia i cui prodotti dilagano nel sentire diffuso e inquinano, ulteriormente, il livello non eccelso del comune senso morale. ‘Annullamento’ è infatti un’espressione divulgativa poco esatta: la teologia cattolica ritiene che nessun matrimonio sacramentale possa essere ‘annullato’ e che la chiesa può solo “dichiarare nullo” un matrimonio che, apparentemente, era “valido”. Ma se è plausibile che, su un migliaio di casi, un centinaio siano stati inficiati da incapacità o dolo (da parte di uno – o di entrambi – i coniugi), come accettare che anche tutti i restanti novecento siano stati matrimoni illusori, infondati, ‘nulli’? La disciplina ecclesiastica, non prevedendo nessuna forma di divorzio, costringe dunque – almeno se gli sposi intendono continuare a praticare la confessione cattolica – a inventarsi delle condizioni pregresse inesistenti. Insomma, a mentire sapendo di mentire. Per la stragrande maggioranza dei cittadini (credenti o meno), questa situazione risulta insuperabile: se Gesù Cristo ha stabilito così, quale papa - per quanto comprensivo – potrebbe stabilire diversamente? L’unica strada, per chi volesse evitare di trovarsi davanti all’impossibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale, sarebbe rinunziare al matrimonio in chiesa (infatti, paradossalmente, chi celebra il matrimonio civile e si vede, poi, costretto a divorziare, per la chiesa cattolica non è mai stato sposato e può quindi…sposarsi per la prima volta religiosamente!). Ma non è così. Un indizio significativo, che potrebbe insinuare un fondato sospetto, è costituito dal fatto che tutte le chiese cristiane - decine e decine di chiese nel mondo: ortodosse, valdesi, anglicane, luterane, battiste, metodiste…- ritengono dissolubile il matrimonio. Tutte, tranne una: la chiesa cattolica. Come mai? Ce lo spiegano i libri di esegesi biblica (anche alcuni fra i più introduttivi, elementari): Gesù non era un legislatore, ma un profeta. Egli proponeva ideali di vita, non regole giuridicamente vincolanti. Ha proposto un’esistenza pacifica, sobria, nonviolenta, solidale: e, in questo contesto, ha segnalato come modello da perseguire un rapporto coniugale stabile perché sereno. La stessa chiesa cattolica ha previsto forse penalità per chi non offra la guancia sinistra a chi gli dà uno schiaffo sulla destra? O per chi non dia anche la tunica a chi chieda il mantello? E’ ovvio che si tratti di consigli, di suggerimenti, di inviti di massima. Per ragioni troppo laboriose da richiamare, invece, solo il progetto ideale di una vita coniugale sino alla morte è stato trasformato in una norma rigida. Da rispettare alla lettera o da disattendere ricorrendo a trucchi indegni dei discepoli di chi ha raccomandato: “Il vostro parlare sia sì, se è sì, o no, se è no: tutto il resto viene dal Maligno”. Se questi rapidi cenni teologici sono validi, non è per nulla da escludere che la chiesa cattolica si possa decidere – in futuro – a rimodellare la propria disciplina coniugale secondo una lettura più fedele alla lettera e allo spirito del Nuovo Testamento. Non è per nulla raro il caso di vescovi che, nei sinodi mondiali, sollevano la questione. Nell’attesa di questa eventualità (allo stato abbastanza remota), i fidanzati che non volessero intraprendere l’assai arduo sentiero di un contratto matrimoniale irreversibile e, tuttavia, desiderassero celebrare il loro amore in un contesto di fede evangelica, potrebbero comunque vagliare l’ipotesi di sposarsi in una delle tante comunità cristiane che vivono e operano anche nella nostra isola. Augusto Cavadi