domenica 23 ottobre 2011

La globalizzazione delle mafie secondo Giuseppe C. Marino 23 Ottobre 2011 “Cittadella”, ottobre 2011-10-18 GLOBALMAFIE Se qualcuno si scoraggia davanti a libri voluminosi, sappia che Globalmafia (Bompiani, Milano 2011), dello storico Giuseppe Carlo Marino, è un finto-grasso. Infatti le 414 pagine possono essere lette a scaglioni: prima il saggio di Marino; poi il saggio del magistrato Antonio Ingroia; infine le quattro corpose appendici (tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transanazionale e la Convenzione Onu sulla corruzione). La tesi centrale del volume è tanto facilmente intuibile quanto condivisibile: se le mafie non sono un fenomeno solo locale, ma anche planetario, non si può sperare di contrastarle con strategie settoriali e nazionali. E’ necessario un coordinamento altrettanto vasto, internazionale, mondiale. Ciò è però più facile a dirsi che a farsi: infatti, “a fronte dell’intero quadro attualmente in dilatazione dei fenomeni mafiosi”, le “azioni antimafia promosse dai governi” meritano una “ben dubbia e inquinata credibilità”. Infatti troppo spesso i governi nazionali accompagnano la “filistea professione di legalismo” con una sostanziale complicità, per interessi finanziari o anche politici. Il caso della Colombia - in cui grossi mafiosi, con i loro eserciti privati, “sono stati a lungo protetti e ufficialmente utilizzati nella lotta al cosiddetto pericolo comunista” - è eloquente, ma non esclusivo. La stessa situazione italiana - con un governo che, quando decide di non adeguarsi alle leggi, ingiunge alla maggioranza parlamentare di adeguare le leggi agli interessi del governo – è esemplificativa della teoria generale formulata da Marino: l’azione repressiva “appare spesso molto contaminata: allorquando e laddove la democrazia sia carente o inesistente, la contaminazione si manifesta nelle forme di uno spregiudicato potere che, di fatto, istituzionalizza la corruzione, e il dominio dei corrotti, sotto la copertura di azioni ufficialmente messe in opera per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della legalità”. La stessa diagnosi indica la terapia: le mafie si battono con le inchieste, i processi e le condanne, ma non solo. Più radicalmente va ripensato, e rifondato, l’intero sistema economico-politico: “il rapporto organico della mafia con la politica (…) costituisce uno dei fattori dinamici della stessa macchina mondiale del capitalismo globalizzato”. Certo, l’alternativa al capitalismo non è in vetrina, pronta da asportare: ma questo non è un motivo per rinunziare a cercarla, anzi a elaborarla, per prove ed errori. Ma Marino indica, con lucidità, i più “urgenti obiettivi tattici” da perseguire: primo fra tutti, coniugare la legalità formale, giuridica, con politiche sociali che contrastino, nella sostanza, vecchie povertà e nuove schiavitù. Senza un minimo di giustizia sociale, infatti, non c’è possibilità di democrazia: e senza democrazia, senza protagonismo popolare diffuso, non ci si libera da nessuna organizzazione mafiosa. Augusto Cavadi


“Cittadella”, ottobre 2011-10-18

GLOBALMAFIE
Se qualcuno si scoraggia davanti a libri voluminosi, sappia che Globalmafia (Bompiani, Milano 2011), dello storico Giuseppe Carlo Marino, è un finto-grasso. Infatti le 414 pagine possono essere lette a scaglioni: prima il saggio di Marino; poi il saggio del magistrato Antonio Ingroia; infine le quattro corpose appendici (tra cui la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transanazionale e la Convenzione Onu sulla corruzione).
La tesi centrale del volume è tanto facilmente intuibile quanto condivisibile: se le mafie non sono un fenomeno solo locale, ma anche planetario, non si può sperare di contrastarle con strategie settoriali e nazionali. E’ necessario un coordinamento altrettanto vasto, internazionale, mondiale. Ciò è però più facile a dirsi che a farsi: infatti, “a fronte dell’intero quadro attualmente in dilatazione dei fenomeni mafiosi”, le “azioni antimafia promosse dai governi” meritano una “ben dubbia e inquinata credibilità”. Infatti troppo spesso i governi nazionali accompagnano la “filistea professione di legalismo” con una sostanziale complicità, per interessi finanziari o anche politici. Il caso della Colombia - in cui grossi mafiosi, con i loro eserciti privati, “sono stati a lungo protetti e ufficialmente utilizzati nella lotta al cosiddetto pericolo comunista” - è eloquente, ma non esclusivo. La stessa situazione italiana - con un governo che, quando decide di non adeguarsi alle leggi, ingiunge alla maggioranza parlamentare di adeguare le leggi agli interessi del governo – è esemplificativa della teoria generale formulata da Marino: l’azione repressiva “appare spesso molto contaminata: allorquando e laddove la democrazia sia carente o inesistente, la contaminazione si manifesta nelle forme di uno spregiudicato potere che, di fatto, istituzionalizza la corruzione, e il dominio dei corrotti, sotto la copertura di azioni ufficialmente messe in opera per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della legalità”.
La stessa diagnosi indica la terapia: le mafie si battono con le inchieste, i processi e le condanne, ma non solo. Più radicalmente va ripensato, e rifondato, l’intero sistema economico-politico: “il rapporto organico della mafia con la politica (…) costituisce uno dei fattori dinamici della stessa macchina mondiale del capitalismo globalizzato”. Certo, l’alternativa al capitalismo non è in vetrina, pronta da asportare: ma questo non è un motivo per rinunziare a cercarla, anzi a elaborarla, per prove ed errori. Ma Marino indica, con lucidità, i più “urgenti obiettivi tattici” da perseguire: primo fra tutti, coniugare la legalità formale, giuridica, con politiche sociali che contrastino, nella sostanza, vecchie povertà e nuove schiavitù. Senza un minimo di giustizia sociale, infatti, non c’è possibilità di democrazia: e senza democrazia, senza protagonismo popolare diffuso, non ci si libera da nessuna organizzazione mafiosa.

Augusto Cavadi

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