mercoledì 5 ottobre 2011

La scuola che ho trovato nel ‘68 e che lascerò nel... 20??



Dopo aver resistito alle richieste di autocensura e alle lungaggini burocratiche, oggi ho potuto avere in mano l’ultimo numero degli “Annali” del liceo in cui insegno:
“Annali” del Liceo classico G. Garibaldi di Palermo
Anni 2002 – 2009 (nn. 38 – 45)
Maggio 2011 , pp. 234 – 239.

LA SCUOLA CHE HO TROVATO,
LA SCUOLA CHE LASCIO

Poiché secondo il movimento filosofico in cui mi riconosco (la Philosophische Praxis di Gerd Achenbach riletta in Italia da Neri Pollastri) ogni filosofo deve ridurre al minimo la distanza fra le parole che parla e la vita che vive, mi piace partire da un dato autobiografico: dopo cinque anni di frequenza come alunno, sono uscito dal Liceo “Garibaldi” alla fine dell’anno scolastico 1968 - 1969 ed oggi, alla fine dell’anno scolastico 2008 - 2009, dopo altri dieci anni di frequenza come insegnante, mi appresto a congedarmi dal medesimo liceo per iniziare la terza (e ultima) fase della mia vicenda mortale. Una parabola di quaranta anni esatti, come si può notare: abbastanza, suppongo, per poter riflettere sulla scuola che ho trovato da giovane alunno e sulla scuola che lascio da anziano docente.

La scuola degli anni Sessanta
Anche se ai vecchi lo si perdona facilmente, trovo disdicevole la tendenza a ricordare il passato soffuso di luci senza ombre e a dipingere a tinte fosche il presente. Perciò voglio esprimermi con la massima chiarezza possibile: la scuola che ho frequentato da alunno nel quinquennio 1964 - 1969 aveva molti pregi, ma sostanzialmente risultava insopportabile. 
Tra i pregi che mi vengono immediatamente alla memoria, un senso complessivo di serietà istituzionale. Le figure dei presidi, dei loro collaboratori più stretti, della stragrande maggioranza dei professori incutevano - o, per lo meno, suggerivano - atteggiamenti di rispetto nei loro confronti. In loro presenza (quindi non solo quando ci si rivolgeva a loro, ma anche quando ci si rivolgeva a coetanei o a bidelli) era semplicemente inimmaginabile fumare, schiamazzare, alzare la voce urlando, darsi al turpiloquio. Ancor meno immaginabile era uscire ed entrare a piacimento dai locali dell’istituto per recarsi al bar o per fare un giro in moto durante qualche ora di lezione particolarmente noiosa.
Questa atmosfera - in sé apprezzabile e che mi è capitato tanto spesso di rimpiangere nella mia carriera di docente - comportava però dei risvolti assai meno gradevoli. Per ricorrere anche qui ad una formula complessiva (dunque inevitabilmente generica) direi che il prezzo più alto era costituito da una ipocrisia sistemica. La facciata di ordine, di buona educazione, di rispetto delle gerarchie e delle competenze nascondeva del marcio insopportabile. Una sorta di sciovinismo provinciale impediva di riconoscere manchevolezze, difetti, oggettive inadeguatezze: dalla debolezza di certi dirigenti che assistevano impotenti alla severità persecutoria di alcuni professori nei confronti degli alunni alla scarsa preparazione di altri docenti che o non conoscevano abbastanza le proprie discipline o non conoscevano il modo di comunicarle in aula. Anche tra quei pochi che erano preparati e che sarebbero stati in grado di esternare didatticamente la propria competenza non mancavano quelli che difettavano di diligenza: arrivavano puntualmente in ritardo, si stravaccavano annoiati sulla cattedra, si lasciavano facilmente indurre a chiacchierare di sport o di gossip televisivo (pur di non spiegare la Divina Commedia o la Prima guerra mondiale). E’ vero: i ragazzi non fumavamo per i corridoi (i professori e il personale amministrativo ed ausiliare, invece, sì), ma ci si chiudeva dentro i cessi per farlo; non si dicevano parolacce a voce alta, ma le si incidevano nei banchi, nelle pareti, nelle mura esterne; non si criticava apertamente la didattica dell’insegnante, ma ogni occasione era buona per farne l’imitazione caricaturale (talvolta volgare, talaltra davvero acuta e divertente).
Dunque si viveva all’incrocio di queste due dimensioni contraddittorie: un’impressione di serietà istituzionale e una diffusa ipocrisia sistemica. Il risultato più doloroso - e alla lunga più pernicioso - di questo groviglio lo si registrava, ovviamente, nei percorsi di apprendimento. C’era (e lo si vedeva sempre più chiaramente man mano che crescevamo in istruzione e in maturità) uno iato fra la supponenza dei professori - che nel portamento, nell’abbigliamento, nel modo di relazionarsi anche con i genitori, davano a intendere di essere ‘luminari’, se non altro perché titolari di cattedra in un liceo pubblico di indiscusso prestigio - e il loro effettivo valore professionale. Nella migliore delle ipotesi, trasmettevano nozioni e nozioni si attendevano da noi come verifica dell’apprendimento. La maggior parte di loro sono ormai defunti e, se qualcuno ancora vive, non mi pare elegante aprire polemiche ad personam. Preferisco dunque evocare tre nomi, che certamente rientravano nel novero delle felici eccezioni, di insegnanti che tenevano a stimolare la nostra capacità critica: Giuseppe Bellafiore (accurato studioso di arte e di urbanistica), Andrea Brigaglia (geniale cultore di matematica e di fisica), Vito Muciaccia (fine classicista ed egli stesso autore di liriche). Sarebbe troppo lungo spiegare perché ho avuto contatti sporadici con i primi due e durevoli con il terzo: ciò che qui mi preme sottolineare è la loro consapevole volontà di non dare per scontato che si dovessero studiare le loro discipline, di problematizzarne il senso e lo statuto epistemologico. Potrei dire - e l’affermazione non suonerebbe lusinghiera per i docenti di filosofia di quel periodo, ingabbiati nella routine dei programmi ministeriali - che essi insegnavano le loro ‘materie’ con spirito genuinamente filosofico. Una splendida, davvero indimenticabile, conferma l’avemmo il giorno nel quale un compagno - di animo particolarmente delicato - sottolineò con una pernacchia fragorosa l’enfasi con cui Muciaccia aveva concluso la lettura di una poesia di Catullo. Ci guardammo stupiti: questa volta il professore così tollerante, così comprensivo, per dirla tutta così poco adatto a tenere in pugno una classe di diciottenni abbastanza scalmanati (anche perché si era in pieno Sessantotto!), sarebbe esploso certamente! Ma - con una elasticità mentale e temperamentale davvero sorprendente - ci spiazzò tutti quanti. “La pernacchia” - esordì - “costituisce una presenza discreta, ma ricorrente, nella letteratura greca e latina. In Omero, ad esempio…”: e lì un’ora e mezza di narrazione e citazioni e commenti seguendo il più insolito ‘filo rosso’ delle spiegazioni mai ascoltate al liceo Garibaldi. E forse non solo lì. Non so se L. C. sia stato in grado di apprezzare la raffinatezza della ‘lezione’ con cui il professore di lettere classiche aveva reagito alla sua goliardata un po’ balorda. Certo è che, ai miei occhi, quel colpo d’ala pedagogico e intellettuale bilanciava ore, mesi, anni di lezioni mnemoniche - con tono talora soporifero talora nevrotico - tenute, solitamente, dagli altri suoi colleghi.

La scuola del post-sessantotto
Quando, nell’autunno del ‘68, arrivarono anche a Palermo le onde del maggio francese, il nostro liceo fu tra i primissimi - se non il primo - a recepirle. Già negli anni immediatamente a ridosso, un gruppo di noi alunni avevamo dato vita a un giornalino di istituto costretto al filtro di una censura ridicola (a cui rispondemmo pubblicando i titoli delle poesie e degli articoli censurati con i relativi spazi in bianco). A dicembre iniziò il rito (che sarebbe diventato, nei decenni successivi, irrinunciabile) della ‘occupazione’ della scuola per protesta. Tra i promotori delle prime assemblee di base - del tutto illegali, s’intende - non mancavano le differenze ideologiche e strategiche (che non di rado sfociavano in tensioni e in conflitti), ma ci accomunava una forte insoddisfazione verso il sistema scolastico (e, più ampiamente, sociale) in cui ci trovavamo storicamente inseriti.
La ‘contestazione’, come si chiamò il movimento studentesco dell’epoca con un neologismo che si diffuse rapidamente sino all’inflazione, sembrò spazzare in pochissimi anni un assetto consolidato che sembrava inossidabile: le proteste giovanili si legarono alle rivendicazioni operaie e alle mobilitazioni femministe. Non è questa la sede per tentare il difficile bilancio complessivo del decennio 1968 - 1977: è già abbastanza arduo limitarsi al mondo della scuola. Comunque, se dovessi sintetizzare in una asserzione netta le mie convinzioni, non avrei dubbi: con la tempesta del Sessantotto la scuola ha perduto molto, ma meno di quanto abbia guadagnato. La scuola che lascio quaranta anni dopo è, tutto sommato, meno brutta di quella che ho trovato allora. E’ una scuola meno auto-referenziale (sa che dirigente, insegnanti, personale amministrativo ed ausiliare non sono i ‘padroni’ ma, con le famiglie e con gli alunni, i co-gestori dell’istituzione); meno autoritaria (il potere del dirigente sugli insegnanti e degli insegnanti sugli alunni è limitato da paletti giuridici sempre meglio specificati); meno nozionistica (i docenti cercano di ridurre la quantità degli argomenti da trattare per favorire la qualità dell’apprendimento)…
Tuttavia, dire “meno brutta” non equivale a dire “bella”. La scuola che lascio non è ancora ciò che l’etimo greco (scholé) prometterebbe: un luogo di ‘otium’ , di piacere, di festa della conoscenza e del sapere, nel quale si sperimenta una gioia intensa e duratura di cui nessun ‘neg-otium’ (per quanto necessario alla vita terrena) dovrebbe cancellare completamente le tracce. Non è ancora un laboratorio di democrazia dove si impara il mestiere di cittadini, il gusto della partecipazione, la felicità della pro-attività a favore del bene comune, a cominciare dei diritti degli impoveriti del pianeta.
Se c’è una cosa che non è mutata significativamente da prima a dopo il Sessantotto, è il clima di illegalità sistemica che permea - soprattutto nel Meridione italiano - la vita scolastica. Sin dal primo impatto, i ragazzi constatano che la legge non è uguale per tutti: i figli delle famiglie ‘bene’ hanno molto più probabilità dei figli di ‘nessuno’ di essere assegnati alle sezioni ‘giuste’ (già il solo fatto che ci siano sezione ‘ambite’ e sezioni ‘da evitare’ costituisce una macchia vergognosa). Dopo qualche mese constatano che gli educatori adulti sono i primi a non rispettare le regole (arrivano in ritardo, posteggiano davanti all’entrata della scuola in perfetta zona rimozione, fumano nei locali scolastici, si rifiutano di autorizzare le assemblee di classe nelle ore delle loro lezione, usano espressioni aggressive e offensive nei confronti degli alunni e delle loro famiglie…). A fine d’anno, infine, si accorgono che la valutazione dei docenti non è equanime: il nipote del professore o la figlia della signora che lavora in amministrazione ottengono dei voti migliori, a parità di meriti (o di…demeriti), rispetto ai compagni che non hanno “santi in paradiso”.
Ma, anche a non voler considerare le situazioni moralmente più degradate del Sud, lo sguardo complessivo sulla scuola italiana non riposa certo su un panorama idilliaco. Che cosa manca alla scuola di oggi per diventare ciò che ogni ragazzo si aspetterebbe o, per lo meno, di cui avrebbe oggettivamente bisogno? Si potrebbe stilare una lunga serie di desiderata di carattere finanziario, legislativo, organizzativo…I sindacati hanno, o dovrebbero avere, il compito di tenere vive queste rivendicazioni (mentre sembrano molto più preoccupati di difendere i privilegi acquisiti dai loro dirigenti) . Ma nulla cambierà davvero se non muterà radicalmente il reclutamento degli insegnanti. Dall’inizio della Repubblica ad oggi tutti i governi hanno stipulato un patto tacito con i docenti: vi assumiamo facilmente, senza seri filtri selettivi; una volta assunti, non vi sottoponiamo a nessuna verifica in itinere; in cambio, vi paghiamo poco e vi neghiamo qualsiasi progressione di carriera significativa (a meno che non siate disposti a mutare mestiere, diventando dirigenti o ispettori ministeriali). Questo patto scellerato ha provocato disastri incalcolabili. Ormai posso contare decine di generazioni di alunni: quasi nessuno dei più intelligenti, dei più preparati, dei più motivati ha scelto di insegnare. E con ragioni lucidissime: “Professore, non ce la sentiamo di vivere ‘romanticamente’ con stipendi da fame e senza una prospettiva di riconoscimento dei meriti”. Ma se non si spezza questo patto scellerato, la categoria degli insegnanti degraderà inarrestabilmente: le personalità forti, creative, affascinanti si terranno lontano dalle cattedre, lasciando il posto a persone (nelle migliori delle ipotesi, oneste e discretamente istruite) di scarso carisma, di fioca passione, non innamorate di ciò che insegnano né degli allievi a cui dovrebbero contagiare l’innamoramento. Se continua questo trend negativo, se non si riesce ad invertirlo con provvedimenti legislativi ed amministrativi radicali, la scuola toccherà dei livelli talmente bassi che sarà improbabile risalire la china. So che non è il momento politico-culturale più adatto per permettersi previsioni ottimistiche. Secondo il politico più influente dell’ultimo ventennio in Italia (che, parafrasando una sua auto-definizione, è stato il peggiore degli ultimi 150 anni) la scuola avrebbe dovuto concentrarsi su tre “i”: informatica, inglese, imprenditoria. Sinora, almeno nel Meridione italiano, ho visto poca informatica, poco inglese, ancor meno cultura d’impresa. Il risultato è che la scuola del futuro si profila all’insegna di altre “i”: ignoranza, insensibilità, indifferenza. Tuttavia, se si riflette sulle vicende umane, si impara che la storia sorprende non solo in negativo, ma talora anche in positivo. Perché escludere, dunque, che un sussulto di dignità e di buon senso possa convincere la maggioranza dei cittadini - e, in prospettiva, dei parlamentari - della necessità di modificare la politica scolastica attuale? Perché escludere che cambino radicalmente le regole in modo che intraprendere la professione di insegnante diventi più difficile ma, se si riesce a superare il filtro selettivo, anche più gratificante?

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