sabato 31 dicembre 2011

Il giudice Livatino: ’santo’ perché?


“Centonove” 16.12.2011

BEATIFICAZIONE ANTIMAFIA
Il 21 settembre del 1990 alcuni mafiosi falcidiarono Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” (secondo la definizione spregiativa di Cossiga, il peggior presidente della Repubblica italiana) i cui genitori avrebbero inspirato qualche anno dopo, del tutto involontariamente, il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi. Giunge adesso notizia che, in questi giorni, è stato avviato ufficialmente, presso il Tribunale diocesano di Agrigento, l’iter che potrebbe portare - eventualmente – alla sua canonizzazione, da parte della Chiesa cattolica: una notizia che suggerisce varie considerazioni, talora di segno opposto, sintetizzabili in due questioni principali.
La prima è di ordine generale: ha ancora senso beatificare un credente? Da una parte, infatti, è un modo di indicare al popolo di Dio -e, più ampiamente, alla società – una testimonianza esemplare di discepolato evangelico; dall’altra, però, si corre il rischio di strappare quella testimonianza all’ambito della quotidianità, di rinchiuderla (persino materialmente) in una nicchia, facendone più un oggetto di venerazione (se non addirittura un feticcio cui richiedere favori) che un modello da seguire creativamente. Ma questa è una problematica troppo ampia e radicale per poterla dirimere in poche righe.
Più pertinente al caso concreto risulta, invece, una seconda questione. Se si accetta la logica cattolica della canonizzazione, non può fare che piacere se un siciliano venga segnalato all’attenzione di una opinione pubblica planetaria per ragioni positive, a (parziale) compenso della nomea regalataci da siciliani meno nobili ma non meno noti. Sempre nella logica cattolica, poi, diventa centrale un interrogativo: per quali ragioni il magistrato siciliano sarà - o sarebbe – dichiarato ‘santo’ ? Detto altrimenti: per quali virtù eroiche, per quali aspetti della sua personalità e delle sue scelte di vita, sarà - o sarebbe – elevato a esempio per la comunità dei credenti?
Sono, infatti, percorribili due strade, solo apparentemente simili se non addirittura interscambiabili. La prima - personalmente ritengo sia la più auspicabile – indicherebbe nella resistenza alle minacce mafiose il cuore della sua santità evangelica: egli verrebbe riconosciuto – per riprendere una felice espressione di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi – “martire della giustizia e, indirettamente, martire della fede”. Si riattualizzerebbe il pensiero di San Tommaso d’Aquino e di tanti teologi della liberazione, a giudizio del quali dare la vita per difendere alcuni principi etici (la libertà, la verità, la fedeltà ai compiti civili) equivale a dare la vita per Dio, che di quei principi è fonte e garante.
Diverso sarebbe il percorso che arrivasse a dichiarare la santità di Livatino non anche, ma solo, per la sua fede teologale, per la sua vita intima di preghiera, per la sua affabilità umana, per la sua devozione ai genitori…lasciando in ombra le circostanze della sua morte. Certo: morire di mafia non può significare, eo ipso, essere considerato un cristiano esemplare (se non altro per rispetto a quelle vittime di mafia che, in vita, hanno consapevolmente scelto di non dirsi cristiani). Ma se, come nel caso di Livatino, la scelta di una certa professione - e soprattutto la scelta di fare in una certa maniera la professione intrapresa – fossero dettate non solo da validi e nobili motivazioni laiche, bensì anche da una coscienza credente, perché non presentarlo come un esempio di martirio cristiano? Perché non cogliere al volo questa occasione per proclamare che, nella Chiesa cattolica, tra i “valori non negoziabili” (anzi, a maggior ragione di altri più frequentemente richiamati) rientra a pieno titolo la lotta contro la corruzione sistemica, la intimidazione violenta, la mentalità del compromesso? Gli antecedenti di don Giuseppe Diana (ucciso dalla Camorra) e di don Pino Puglisi (ucciso da Cosa nostra) non lasciano ben sperare: del primo non si è neppure avviato il processo di canonizzazione (quasi ad avvalorare le interpretazioni denigratorie del suo assassinio diffuse immediatamente dai camorristi e dai loro pennivendoli); del secondo il processo di canonizzazione, benché arrivato a Roma, si è arenato nelle stanze dei Sacri Palazzi. Evidentemente c’è almeno una delle convinzioni ribadite in vita da Rosario Livatino che stenta a far breccia al di là del Tevere: “Alla fine, Dio non ci chiederà se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”.

Augusto Cavadi

mercoledì 28 dicembre 2011

Le festività di fine d’anno come occasione di nuova progettazione


“REPUBBLICA – PALERMO”
28.12.2011

SE LE FESTE CI RIVELASSERO IL SEGRETO DELLA MESCOLANZA

Natale, capodanno, epifania: feste in fila, inanellate, che ciascuno vivrà a modo suo. Secondo la propria visione del mondo che può implicare una delle molte fedi religiose presenti ormai in Sicilia (dall’ebraismo al cattolicesimo, dal protestantesimo all’islamismo, dall’induismo al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo, al baha-i) o nessuna (anche l’ateismo, non necessariamente suggerito da furie consumistiche, ma meditato e degno di rispetto, è ampiamente rappresentato nella nostra regione come nel resto dell’Europa contemporanea). Che nel cuore del Mediterraneo via sia un’isola dove questa convivenza di credi e di filosofie sia quotidiana è già una buona notizia: tanto più apprezzabile se comparata a secoli e secoli - sino all’avvento della Repubblica italiana – di diffidenze e persecuzioni (almeno da quando, nel 1492, la regina Isabella di Castiglia non spezzò la pacifica convivenza fra le tre religioni del Libro intimando la cacciata degli ebrei e dei musulmani). E se comparata alla ventata di razzismo xenofobo che - alimentato da nostalgici del nazifascismo, dalla Lega e da frange ringalluzzite di cattolici reazionari – ancora in questi giorni è esploso in città di gloriose tradizioni civiche come Torino e Firenze.
Se la tolleranza è un passo importante - una conquista da presidiare per renderla irreversibile – non è ancora una meta. Nel futuro dell’Europa mediterranea (in cui il ruolo della Sicilia non è certo storicamente trascurabile) c’è ancora molto cammino da compiere: c’è da passare dalla tolleranza (dalla sopportazione, dal permettere che anche l’intruso mangi le briciole che cadono dalla nostra tavola) alla cooperazione, alla sinergia. La memoria del passato ce lo insegna senza equivoci: i vertici della nostra civiltà sono stati toccati quando le culture più distanti (come ad esempio i Normanni di lingua francese e gli Arabi), invece di tentare di distruggersi sulla base di rapporti di forza militare, hanno imparato a contaminarsi e a impegnarsi nella produzione di opere comuni. Cosa sarebbe Palermo senza la Cattedrale, il Palazzo reale, S. Maria dell’Ammiraglio, S. Giovanni degli eremiti e tanti altri gioielli dell’arte arabo-normanna? Cosa sarebbe la Sicilia privata da gemme uniche al mondo come il Duomo di Monreale e la Cattedrale di Cefalù?
Al di là della facile retorica parolaia, queste feste potrebbero costituire un’occasione di riflessione e soprattutto di progettazione per la società civile, per le organizzazioni politiche, per i candidati a sindaci delle nostre città: come trasformare il disagio dell’immigrazione, più o meno clandestina, in risorsa economica e morale? Quali settori (dall’agricoltura al turismo) potrebbero trovare nelle energie fresche, e spesso assai qualificate, degli immigrati una possibilità di rilancio e di potenziamento? Sarei tentato di rispolverare un mio vecchio pallino, solo apparentemente provocatorio: perché non imitiamo l’elasticità mentale e la duttilità operativa delle cosche mafiose che sanno intrecciare abilmente le proprie strategie con le criminalità internazionali con cui le vicende storiche e i fenomeni sociologici le mettono in contatto?
Certo, per far questo in maniera costruttiva e durevole occorre avere la predisposizione culturale adatta. Gli studiosi di scienze umane, di filosofia e di teologia dovrebbero contribuire - molto più vivacemente di quanto accada per ora – a un mutamento di mentalità: aiutando noi occidentali a liberarci dal pregiudizio eurocentrico, dal complesso di superiorità nei confronti dei popoli che per secoli abbiamo bollato come ‘infedeli’ e ‘primitivi’. Se i Bambin Gesù dei nostri presepi non avessero le fattezze di rubicondi biondini con gli occhi azzurri, ma più realistici tratti di neonati bruni dagli occhi scuri (come tutti i bambini nordafricani che nascono in Palestina), sarebbe una prima, preziosa, inversione di tendenza. E la Sicilia potrebbe ritornare a essere ciò che è stata in altre sue epoche gloriose: un’anticipazione profetica di ciò che dovrà essere l’umanità futura se non sceglie il suicidio collettivo.

Augusto Cavadi

sabato 24 dicembre 2011

Perché non regalarvi l’Agenda dell’antimafia 2011?


24 Dicembre 2010
“Centonove” 23.12.2010

“Ricordati di ricordare/ coloro che caddero/ lottando per costruire/ un’altra storia/ e un’altra terra”: comincia così il bel testo poetico di Umberto Santino che apre, anche per il 2011, l’ “Agenda dell’antimafia”. Più precisamente, “un libro-agenda per legare memoria storica e impegni del fare quotidiano”, edito dalla casa editrice Di Girolamo di Trapani ha pubblicato e curato dal Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” di Palermo (reperibile in tutte le librerie grazie alla distribuzione delle Dehoniane di Bologna). Infatti, come nelle edizioni precedenti, ogni giorno dell’anno viene ricordato un personaggio o un episodio significativo nella storia della mafia e soprattutto della lotta contro la mafia: così viene salvata la memoria non solo di eroi celebri ma anche di tante vittime che, per le ragioni più diverse, rischiano di cadere nell’oblio collettivo. E, come ogni anno, si sceglie un tema che dà il taglio specifico alle pagine di approfondimento che intercalano la sequenza dei giorni: per il 2011 il tema della scuola e dell’educazione. Da qui anche la presenza di disegni di bambini, frequentanti decine di scuole siciliane, che con i loro colori compensano la vena di tristezza che un lungo elenco di caduti inevitabilmente comporta. E’ chiaro, comunque, che - come si evince dalla strofa conclusiva del testo poetico di Santino - l’intento fondamentale non è certo il ripiegamento sconfortato sul passato: ” Ricordati di ricordare/ quanto più difficile/ è il cammino/ e la meta più lontana/ perché / le mani dei vivi/ e le mani dei morti/ aprono la strada”. E non è per caso che, tra le associazioni che sponsorizzano la pubblicazione, ci siano l’Arci- Sicilia, la Fondazione Don Peppe Diana e i giovani di Addiopizzo.

Auguri per il natale 2011, il capodanno 2012 e l’epifania 2012


Un augurio affettuoso di buon Natale e di sereno Duemiladodici: che la memoria di Gandhi ci ispiri e ci sostenga nel riconoscere e combattere (dentro di noi prima, immediatamente dopo negli altri) i “peccati sociali” che compromettono la dignità umana:

1. politica senza principi;
2. affari senza moralità;
3. scienza senza umanità;
4. conoscenza senza carattere;
5. ricchezza senza lavoro;
6. divertimento senza consapevolezza;
7. religione senza sobrietà;
8. diritti senza responsabilità.

“Il pretesto”: la risposta valdese al Codice da Vinci


“Centonove” 23.12.2011

LA RISPOSTA VALDESE AL “CODICE DA VINCI”

Il nome della rosa e Il codice da Vinci hanno inaugurato un genere letterario che, con qualche approssimazione, potremmo denominare “giallo teologico”. Non è facile inserirsi in questo alveo senza apparire né noiosi né copioni: Sergio Velluto, con Il pretesto (Claudiana, Torino 2011, pp. 307, euro 14,90) c’è riuscito brillantemente. Gli ingredienti tipici ci sono tutti: un codice medievale, un’associazione segreta reazionaria, un’altra associazione altrettanto segreta di stampo evangelico, i Servizi segreti vaticani, una coppia all’alba dell’innamoramento, un ispettore di polizia, qualche cadavere qua e là…Velluto li sa mixare con maestria, intrecciando suspense ad humour, erudizione storica e riferimenti all’attualità, pathos religioso e analisi psicologica. Raccontare la vicenda sarebbe crudele nei confronti del candidato lettore perché uno dei pregi del libro è proprio nel susseguirsi di colpi di scena: il corso degli avvenimenti non si svolge mai secondo modalità prevedibili. A rendere ancora più dinamico il registro narrativo è l’intreccio, capitolo per capitolo, di tre vicende che solo alla fine del libro riveleranno con chiarezza i nessi reciproci: una si svolge nelle valli alpine, a cavallo fra Francia e Italia, dal XVI al XVII secolo; un’altra si svolge a Torino nel XXI secolo; una terza, infine, sempre nel XXI secolo, ma negli Stati Uniti d’America.
Tra le sorprese esplicite che attendono il lettore nelle ultime pagine (sino a quella sorta di “titoli di coda” in cui si viene aggiornati sull’esito esistenziale dei principali protagonisti) ne va segnalata una che può non apparire tale ma che per me lo è stata. Mi riferisco al fatto che l’appartenenza dell’autore e della casa editrice al mondo valdese - e soprattutto le vicende iniziali del romanzo – lascerebbe supporre che il ruolo di ‘cattivi’ venga giocato dalle gerarchie cattoliche o, per lo meno, dai Servizi segreti del Vaticano: invece (ma non aggiungo altro!) alla fine non sarà come appariva all’inizio. Così, oltre che divertire e appassionare letterariamente, l’opera di Sergio Velluto consegna anche un messaggio di tolleranza, anzi di fratellanza. E lo mette proprio sulle labbra del capo dello spionaggio vaticano che si rivolge al capo della plurisecolare confraternita protestante: “Non penso che in questa aurora di millennio si possa continuarla a pensare in questo modo. Voi a pensare che noi siamo Satana, l’anticristo, e noi a ritenervi eretici da eliminare. La storia deve pur servire a qualcosa. E se non la storia almeno la maturità a cui sta arrivando l’umanità intera”. Un lieto fine, dunque? Per certi versi, sì. Ma attenzione alle ultime pagine: ci sono tutti i presupposti perché, chiusa la storia di un enigmatico codice antico, se ne possa riaprire domani un’altra. Con un altro codice, ancor più misterioso, per protagonista.

Augusto Cavadi

lunedì 12 dicembre 2011

Nino Cangemi recensisce “La bellezza della politica”


Il coraggio della provocazione

www.siciliainformazioni.com
12.12.2012

Il coraggio della provocazione. Pochi ce l’hanno. Sicuramente non manca ad Augusto Cavadi e a Elisabetta Poma, che firmano un saggio, edito da Di Girolamo, dal titolo che, considerati i tempi, più provocatorio non poteva essere: “La bellezza della politica”.
Si può dire oggi che “la politica è bella” quando si sono appena ascoltate le intercettazioni di un colloquio tra parlamentari che si fanno i conti sulla durata della legislatura e si mostrano disponibili a “vendere” il proprio voto?
I cattivi esempi di chi pur rappresentando la collettività si è occupato di tutto tranne che del bene pubblico hanno immiserito il significato stesso della parola “politica”, che si allontana da quello originario, legato alla sua etimologia: “politica” come arte del governo della comunità, la polis. Il libro di Cavadi e Poma, coraggiosamente, vuol fare riscoprire quel significato. E gli autori sono ancora più temerari: oltre alla “politica” vogliono recuperare l’”ideologia” che alla politica è intimamente connessa.
I primi interrogativi che Cavadi e Poma si pongono sono infatti: le ideologie sono tramontate? E se le ideologie sono crollate è un bene? Le risposte che offrono sono articolate e invitano alla riflessione. L’ideologia come “apparato di idee guida (riguardanti l’uomo, la società, lo Stato, l’economia, l’istruzione, la sanità…) che un determinato gruppo sociale elabora e tenta di attuare mediante l’azione politica” non è mai morta. Semmai, nelle azioni delle forze politiche, prevalgono emotività e sentimenti che ridimensionano, nel confronto con i cittadini, il peso delle idee e delle scelte razionali. E si va sempre più affermando in parte della collettività un rifiuto della politica e della ideologia che, in quanto richiama la difesa dei soli interessi economici e tornaconti personali, è esso stesso ideologia, per quanto inconsapevole e frammentaria.
Il saggio, che ha finalità pedagogiche ( non a caso entrambi gli autori operano nelle scuole), passa in rassegna le ideologie a cui fanno appello gli attuali schieramenti politici in Europa: il liberalismo, il comunismo, la socialdemocrazia, il fascismo, la dottrina sociale cattolica, l’ambientalismo, il conservatorismo, l’anarchismo.
Ciascuna ideologia è descritta sinteticamente evidenziandosene “il nucleo generatore”, la “concezione dell’uomo”, la “concezione della società”, la “concezione dello Stato”, la “concezione dell’economia”, la “concezione dell’educazione”, la “concezione della religione”. L’impostazione schematica dello studio agevola nei lettori la comprensione dei tratti distintivi delle varie ideologie e facilita la comparazione tra le differenti visioni della realtà che alle ideologie sono sottese.
Tuttavia, se nel saggio –destinato principalmente agli studenti e a chi vuole approdare al mondo politico con una basilare cognizione di causa - prevale l’intento divulgativo ed esemplificativo, non manca lo stimolo ad approfondire gli argomenti. In tal senso si segnalano le tante “finestre” che si intersecano alla trattazione pedagogica, in cui vengono riportate pagine fondamentali per analizzare più a fondo gli apparati di idee esposti. Non solo, ma nell’ultima parte del testo gli autori propongono riflessioni su alcuni temi che proiettano verso il futuro della politica e il superamento delle ideologie del Novecento. Temi attualissimi che spingono al dibattito: la responsabilità dell’uomo nei confronti delle condizioni presenti e future, i limiti del potere dell’uomo verso la natura, l’ampliamento dell’ambito istituzionale della politica da non circoscrivere più ai soli partiti, il rapporto tra realismo e utopia in una visione non più contrapposta, l’allargamento delle conoscenze non più patrimonio di élites ma di un nucleo più vasto di soggetti, il controllo dell’operato dei rappresentanti.
Tutto ciò fa de “La bellezza della politica” un libro da consigliare non solo a chi, malgrado tutto, conserva la passione del confronto civile e costruttivo nel governo della comunità, ma anche a chi, sopraffatto da pessimismo e scetticismo, tende a rinchiudersi in se stesso e a subire passivamente le scelte dei propri rappresentanti.

Nino Cangemi

martedì 6 dicembre 2011

Luciano Sesta su “In verità ci disse altro”


Ricevo, e pubblico con gratitudine, un saggio molto critico del prof. Luciano Sesta, dell’Università di Palermo, sul mio volume “In verità ci disse altro”.
Il testo è stato pubblicato su www.sentinelledifrontiera.org/riflessioni4.htm

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E il Verbo si fece Idea - Nota Critica di Luciano Sesta.

Superamento del cristianesimo e rifiuto della storia
nella teologia “laica” di Augusto Cavadi

Luciano Sesta

È una ben misera vita, si legge nel Fedone, quella di chi non è disposto a riflettere in profondità su ciò che, se fosse vero, sarebbe la cosa più importante, anzi, l’unica cosa che conta realmente. E, in effetti, quando siamo chiamati a compiere scelte esistenziali di grande importanza, in cui è in gioco il significato da dare alla nostra vita, tutti noi sentiamo con particolare urgenza il bisogno di sapere come stanno effettivamente le cose: sentiamo, in breve, il bisogno di conoscere la verità. L’ultima fatica di Augusto Cavadi, In verità ci disse altro. Oltre i fondamentalismi cristiani , ha il pregevole merito di intercettare questo bisogno e di rilanciare la questione della verità del cristianesimo come una salutare provocazione per tutti coloro che, credenti, agnostici o atei, vivono la loro condizione esistenziale più per stanca abitudine che per consapevole convinzione. La verità a cui pensa Cavadi, infatti, non ha nulla a che vedere con un possesso dogmatico, chiamando, piuttosto, a un continuo e incessante impegno di ricerca che non riposa mai su acquisizioni sicure e definitive, al riparo da ulteriori critiche o smentite. In tal senso la suggestiva espressione del titolo, secondo cui Cristo “in verità ci disse altro”, non va certo intesa come l’incipit di una nuova rivelazione, ma come un invito – che a tratti assume toni fortemente provocatori – a confrontarsi con il proprio percorso critico. Un percorso che, nelle quattro sezioni in cui è suddiviso il testo, intitolate rispettivamente Questioni di metodo (pp. 13-32), Dio (pp. 35-57), Cristo (pp. 61-160) e Mondo (pp. 163-202), attraversa quasi tutte le grandi tematiche coinvolte dall’esperienza storica e dottrinale del cristianesimo. Non potendo presentare, nel breve spazio di una nota, la lettura che l’Autore ci offre di ciascuna di esse, ci concentriamo su quello che ci sembra il Leitmotiv dell’intero volume, e cioè la critica e il superamento di quello che Cavadi, sulla scia di Hans Küng, chiama il “paradigma cattolico-romano” (pp. 89-106). Il modello di cristianesimo da cui In verità ci disse altro prende le distanze e che, al tempo stesso, suggerisce le particolari modalità del suo superamento, è infatti quello della Chiesa cattolica. Anche quando discute della religione in generale, le riserve dell’Autore riguardano, quasi sempre, quei modi di vivere la fede che si incarnano, esemplarmente, nel cattolicesimo, e lo stesso Capitolo Primo del testo, intitolato La prospettiva oltre-cristiana, è di fatto una decisa contestazione del cattolicesimo e delle sue pretese (pp. 13-32).
Quali sono queste pretese?
Essenzialmente due: 1) quella che Gesù di Nazaret, il rabbi galileo, sia veramente il Figlio di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti gli uomini; 2) e quella che Egli, come Risorto e mediante lo Spirito del Padre, sia vivo e presente nella Chiesa, e cioè in coloro che nel corso della storia lo seguono dopo aver creduto ai testimoni della sua Parola. Questi due assunti, secondo Cavadi, hanno trasformato il cristianesimo cattolico in un immenso sistema dottrinale e istituzionale che ha finito per soffocare l’essenziale semplicità del messaggio di Cristo, che consisterebbe, al di là di dogmi e precetti morali, nell’«accoglienza-riproposizione dell’amore come senso della vita» (p. 190). Si tratta, com’è noto, di una tesi ricorrente nella storia del cristianesimo, che Cavadi, confortato da copiose citazioni, fra gli altri, di Hans Küng, Eugen Drewermann e Luigi Lombardi Vallauri, cerca di dimostrare adottando uno schema storiografico di tipo romantico, secondo cui la purezza essenziale di un evento coinciderebbe con la sua nascita, che la storia successiva avrebbe progressivamente equivocato. Significativa, al riguardo, è la domanda posta sul risvolto di copertina del volume: «Possiamo riscoprire il messaggio di Gesù di Nazaret dopo venti secoli di incrostazioni che l’hanno appesantito e deformato?».
A proposito di quest’ultimo aspetto, si potrebbe far notare, tuttavia, che se venti secoli di incrostazioni, oltre ad aver appesantito il messaggio di Cristo, non ce lo avessero anche consegnato, probabilmente non ci sarebbe alcun interesse a riscoprirlo. L’errore metodologico, qui, consiste nel voler ricostruire un’ipsissima vox Jesu isolata idealmente da ogni contaminazione storica, e di misurare, in base a essa, quella stessa Chiesa che, prendendo sul serio tale voce, ce l’ha trasmessa rendendola attuale. Non a caso, i vangeli che si tratterebbe di riscoprire, nella prospettiva di Cavadi, sono proprio quelli canonici, e cioè i vangeli frutto di una decisione interpretativa della Chiesa, che ha incluso nel canone dei libri ispirati alcuni testi escludendone altri. Ora, però, se si ritiene che questa decisione interpretativa sia non solo fallibile ma anche ideologica – e Cavadi lo sostiene con forza –, allora per giudicare il cattolicesimo dovrebbero essere utilizzati non soltanto i vangeli canonici, ma anche, e soprattutto, quelli che la Chiesa ha scartato, e cioè i vangeli apocrifi e gnostici. Ma Cavadi si guarda bene dall’attingere a questi testi. Il Cristo etereo, mago bizzoso e arbitrario, maschilista e nemico della sessualità che essi a volte ci presentano, in effetti, stona con il modello di cristianesimo laico che In verità ci disse altro propone al lettore. Sorprende, peraltro, che gli stessi vangeli canonici, benché Cavadi dichiari di giovarsi delle più recenti acquisizioni esegetiche, non siano citati quasi mai.
Quest’ultima circostanza, in cui il “vero” messaggio di Cristo viene riscoperto prescindendo dai documenti che ce ne danno notizia e dalla testimonianza di coloro che lo hanno accolto facendone una ragione di vita, autorizza a sospettare che il cristianesimo a cui pensa Cavadi quando ne propone il superamento non sia quello di Gesù di Nazaret: non sia, cioè, quello che storicamente è nato e si è poi diffuso tramite la predicazione apostolica. Che sia così è dimostrato, fra l’altro, anche dal modo in cui Cavadi legge il rapporto fra i vangeli e la comunità che li ha redatti, custoditi e trasmessi. Gli scritti del Nuovo Testamento che ci narrano di Gesù non sarebbero dei veri e propri documenti storici, secondo Cavadi, perché «non sono registrazioni in diretta di personaggi e avvenimenti, ma sono maturati progressivamente nel corso di decenni» (p. 65). Qui, però, forse si confondono “storia” e “cronaca”: se fossero storici solo i documenti che riportano avvenimenti “in diretta”, allora nessuno dei documenti che noi oggi definiamo “storici” lo sarebbero. Rifiutando l’idea che il messaggio di Cristo si lasci cogliere, nella sua autenticità, proprio a partire dalla risonanza che esso ha trovato nella vita di coloro che lo hanno accolto, Cavadi rifiuta non soltanto la logica dell’Incarnazione propria del cristianesimo, ma anche la dimensione storica di ogni evento del passato, che ci raggiunge sempre attraverso una mediazione linguistica e culturale. È forse per questo rifiuto che In verità ci disse altro legge ogni evoluzione dottrinale all’interno della tradizione cattolica come un incoerente tentativo di «salvare capre e cavoli» (p. 22). A questo proposito, un maggior riguardo per i testi evangelici avrebbe potuto attirare l’attenzione, anche solo per respingerlo, su Gv 16, 12: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo versetto giovanneo lascia intendere che, sin dall’inizio, alla comunità cristiana non fosse estranea l’idea di una progressiva scoperta della verità – e dunque di una sua costante ricerca –, i cui molteplici aspetti sono illuminati a partire dalle sollecitazioni che le varie epoche storiche e i vari contesti culturali impongono alla fede. Trattando invece la dottrina cattolica come un sistema monolitico di verità eterne la cui credibilità sarebbe smentita da ogni forma, anche minima, di variazione o di sviluppo, Cavadi sembra dimenticare che l’identità del cristianesimo è un’identità storica. Non è, dunque, un’identità statica e immutabile, rispetto alla quale ogni cambiamento risulterebbe fatale, ma un’identità dinamica, che si sviluppa e cresce non a prescindere dal cambiamento ma grazie a esso. Allo stesso modo, come hanno sottolineato con insistenza anche i Padri, l’unità e la coerenza della Chiesa sono quelle proprie di un organismo vivente, che si mantiene attraverso la legge dell’assimilazione di elementi inizialmente estranei e che, di conseguenza, non è mai sempre identico a se stesso pur rimanendo lo stesso. Inquadrati all’interno di una tale prospettiva storica, anche i punti dottrinali oggettivamente più controversi, come quelli in cui la Chiesa corre maggiormente il rischio di predicare se stessa piuttosto che il vangelo, possono essere adeguatamente compresi. Ciò vale sia per il principio extra ecclesiam nulla salus, sia per il discusso dogma dell’infallibilità del Pontefice, dei quali Cavadi offre, peraltro, una versione decisamente caricaturale.
Rimane, indiscutibilmente, una certa estraneità fra quanto la fede cattolica professa e ciò che è umanamente accettabile. Una tale estraneità è spesso utilizzata da Cavadi – e non soltanto da lui – come una smentita della credibilità della Chiesa, senza mai sospettare che potrebbe anche essere letta come un indizio della trascendenza di cui essa ha fatto esperienza e da cui essa è nata . In tal senso l’incomprensibilità della predicazione – non soltanto su questioni dogmatiche ma anche morali –, lungi dal costituire il segno di un presunto anacronismo, si lascia leggere come il prolungamento storico della provocazione evangelica, e cioè di una sfida che, superato lo scandalo, dona, insieme alla fede, anche una superiore intelligenza delle cose. L’adagio gratia non destruit, sed supponit et perficit naturam troverebbe qui la sua corretta interpretazione, descrivendo un movimento che mentre conserva l’autonomia dell’umano nulla toglie alla dirompente novità del divino che viene a visitarne la storia. Dispiace, in questo senso, che Cavadi non si sia misurato con i grandi teologi cattolici che hanno sviluppato questa prospettiva. In effetti il paradigma cattolico viene presentato attraverso il filtro di una teologia fortemente risentita nei confronti della Chiesa di Roma, quale è soprattutto quella dei già menzionati Hans Küng ed Eugen Drewermann. Se fosse stato concesso anche un breve diritto di replica ad autori come Hans Urs von Balthasar, Yves Congar, Karl Rahner, Henri De Lubac, John-Henry Newman, Romano Guardini o lo stesso Joseph Ratzinger, il paradigma cattolico avrebbe mostrato un aspetto più confacente al suo effettivo spessore teologico. Un confronto critico con il cattolicesimo in cui questi nomi siano del tutto assenti rischia di contravvenire alle più elementari norme di ogni dialogo, prima fra tutte quella del riconoscimento, almeno a livello iniziale, di quanto l’interlocutore dice di se stesso.
Anche quando il nostro Autore riconosce una certa «grandezza» al paradigma cattolico-romano, vede in tale grandezza un aspetto della sua «pericolosità», che consisterebbe, essenzialmente, «nel voler risparmiare al credente i rischi di una vita vissuta al cospetto esclusivo di Dio, senza mediazioni» (p. 92). Dio, però, non è evidente, come lo stesso Cavadi riconosce (p. 41). Prescindere dalla mediazione, pertanto, non lascia l’uomo «al cospetto esclusivo di Dio», ma solo al cospetto di se stessi e delle proprie personali immagini di Dio, immagini che a loro volta, però, sarebbero anch’esse una forma di mediazione, e una pessima forma di mediazione, visto che essa avanzerebbe pretese di autolegittimazione simili a quelle che Cavadi rimprovera al cattolicesimo. Rifiutando la mediazione e l’autorità della Chiesa cattolica, in tal senso, non ci troviamo al cospetto di una maggiore purezza spirituale, ma finiamo per moltiplicare le mediazioni e le loro pretese di autolegittimazione. Andrebbe precisato, al riguardo, che la mediazione, prima ancora che essere una peculiarità del cattolicesimo, è in realtà una peculiarità dello stesso cristianesimo. Gesù Cristo, infatti, si presenta come il mediatore fra Dio e gli uomini, in un’ottica in cui la mediazione, essendo la stessa Incarnazione, lungi dal distogliere da Dio lo rende storicamente presente.
La rivelazione ebraico-cristiana, in effetti, si distingue da molte altre forme di rivelazione e di religione per il fatto di presentarsi come una storia della salvezza, e, dunque, come un processo in cui l’intervento di Dio e la risposta dell’uomo si intrecciano inseparabilmente fino al rischio di confondersi. Che il Verbo si sia davvero fatto carne significa, insomma, che esso si è fatto storia, accettando il rischio della contaminazione e, dunque, del fraintendimento e del rifiuto. Chi vuole comprendere, prima ancora che accogliere, questa rivelazione, è sfidato a riconoscere un Dio diverso dall’idea che ci siamo anticipatamente fatta di Lui. Solo in questo caso, in effetti, si tratterebbe di una vera e propria rivelazione, e cioè di una verità che non può essere in alcun modo anticipata o prevista. E tale sembra essere proprio l’Incarnazione. Diventando uomo, infatti, Dio, che è l’inconoscibile, l’invisibile e il totalmente altro, ha smentito il tipo di diversità da noi previsto e calcolato, secondo cui Egli sarebbe dovuto rimanere trascendente e inaccessibile o, come ama dire Cavadi, “senza nome”. Manifestandosi nella povertà dell’uomo Gesù, Egli ha mandato in aria ogni nostra previsione della sua trascendenza, presentandosi così come Colui che è realmente trascendente .
Combinando variamente elementi tratti dalla teologia liberale, Cavadi ritiene invece che «il nucleo generatore del cristianesimo primitivo» si spieghi «soltanto» in senso etico-mondano. E cioè ipotizzando che Gesù non abbia proclamato «un annunzio proiettato in una vita futura» né la propria divinità, ma un invito a «realizzare il Regno di Dio in questo mondo attraverso le opere dell’amore» (pp. 74-75). Questa diffusa ipotesi, come qualsiasi altra negazione che Gesù sia il Figlio di Dio, pone però un problema notorio, che Cavadi purtroppo non menziona nemmeno: un’attribuzione estrinseca di divinità a un semplice uomo non sembra in grado di spiegare effetti storici così imponenti come quelli che il cristianesimo ha provocato. L’esistenza di questi effetti, certamente, non dimostra la divinità di Gesù. Dimostra, però, che quello della sua pura umanità finisce per essere un articolo di fede uguale e contrario a quello della sua divinità. Accettando l’ipotesi del nostro Autore, inoltre, rimarrebbe inspiegabile come mai, nonostante questo invito all’amore di Dio e del prossimo non fosse né nuovo né un’esclusiva del vangelo (come ricorda lo stesso Cavadi), esso abbia avuto il successo che ha avuto solo all’interno del cristianesimo piuttosto che in altre sette e religioni. A dispetto della complessità delle questioni che suscita, la risposta a questa domanda è semplice: Cristo non ha portato un messaggio filantropico il cui valore l’uomo comprende già da se stesso, ma una novità sconcertante e insieme segretamente attesa. Solo questa novità può spiegare il cambiamento di rotta impresso dal cristianesimo alla storia. Una novità che consiste nell’annuncio che “il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Da quando questo annuncio ha fatto il suo ingresso nella storia, che Gesù di Nazaret sia il Figlio di Dio è rimasta una vecchia diceria che non si è ancora riusciti a mettere a tacere . Una diceria che sembra resistere a tutte le confutazioni, come dimostra anche la recente ondata pubblicistica sulla figura di Gesù, che continua a metterlo sul banco degli imputati, ora per negare, ora per affermare la sua pretesa divinità. Che discutere di questa pretesa rimanga interessante a prescindere dalla possibilità di dimostrarla vera o falsa, dovrebbe far riflettere più di quanto il testo di Cavadi abbia fatto. Negando senza troppi complimenti la divinità di Gesù, invece, In verità ci disse altro non colpisce soltanto gli astratti dogmi di una gerarchia corrotta e prepotente, ma anche quella che è una speranza radicata nel cuore di ogni uomo. Una speranza a cui non è facile rinunciare, e che sembra rimanere indifferente di fronte a ogni vecchio e nuovo smascheramento illuministico del cristianesimo. Un Cristo modello di amore filantropico, in effetti, può soddisfare le esigenze di qualche intellettuale in buona salute. Ma quelle dei poveri e dei colpiti dalle tragedie e dai lutti no: lì c’è bisogno del Risorto.

L’agenda dell’antimafia per tutto il 2012


“Repubblica – Palermo”
4.12.2011

ANTIMAFIA OGNI GIORNO
Centro Impastato

L’AGENDA DELL’ANTIMAFIA 2012
Di Girolamo
Pagine 250
euro 10,00

Con puntualità vede la luce, anche per il 2012, il Libro-agenda dell’antimafia che il Centro siciliano di documentazione “G. Impastato” pubblica per i tipi dell’editore Di Girolamo. La struttura rimane costante: ogni giorno viene evocata una data rilevante nella storia della resistenza al sistema di dominio mafioso (ricordando un eroe, una strage, una festività civile) e, di quando in quando, intere pagine sono dedicate a illustrare importanti pubblicazioni sulla tematica. La struttura costante viene, poi, modulata ogni anno secondo un’angolazione particolare. Come si evince sin dalla vignetta in copertina (con lo scambio di battute fra due omini disegnati da Sergio Staino: “Voscenza è favorevole alle carriere separate?” “Dipende. Tra PM e giudici sì. Tra mafia e politica, no”), il registro di questa edizione è satirico: nella convinzione (espressa da Umberto Santino ) che “la satira ha dato, e può dare, un contributo essenziale per demistificare il mito della mafia, depurandola dai luoghi comuni, ridicolizzandola e mostrandola per quello che è: un’organizzazione criminale, feroce e sanguinaria, e denudando i suoi rapporti con un potere troppo spesso connivente”. Rapporti soggetti a momenti di crisi: come quando la mafia, per salvare il buon nome, avverte l’esigenza di prendere le distanze dalla politica, ritenendola troppo squalificata e inquinante.

Augusto Cavadi

Prigionieri della burocrazia


“Repubblica – Palermo”
2.12. 2011

PRIGIONIERI DELLA BUROCRAZIA
E’ stato in italiano stentato che la vicina di casa nigeriana mi ha raccontato di essersi recata agli uffici municipali di via Lazio per chiedere di essere registrata come residente e di “non aver capito nulla”. Sommessamente, aggiungeva la richiesta di una mano d’aiuto: “Mio marito ed io lavoriamo tutto il giorno e non ci viene facile trovare il tempo per ritornare una seconda volta”. Il giorno dopo ci siamo recati all’anagrafe e, dopo il debito turno allo sportello, un impiegato gentile ci ha spiegato che, trattandosi di una famiglia immigrata dall’Africa, bisognava ritornare un mercoledì nel pomeriggio. Il mercoledì successivo abbiamo riattraversato la città e siamo stati ricevuti al primo piano da una delle sei impiegate (le altre cinque, ognuna davanti al proprio tavolo di lavoro, forse per mancanza di meglio, seguivano con attenzione il dialogo): “Sì, la documentazione che avete in mano è completa e va consegnata a me, ma non la posso accettare adesso perché siete qui senza appuntamento”. “Mi scusi, signora: ma Lei ha altro da fare in questo momento? Ci sono persone che hanno chiesto appuntamento e che – in un luogo a me invisibile – stanno attendendo il turno? Non è possibile che mi rivolga a qualcuna di queste sue colleghe che stanno seguendo in diretta la nostra conversazione?”. “No, non c’è nessuno. L’iter potrà sembrarle folle, ma non dipende da me. Tutte noi qui presenti abbiamo l’obbligo di accettare l’avvio di una pratica solo su appuntamento”. Giro intorno lo sguardo interrogativo su ognuna delle impiegate circostanti: mi rispondono con un soave sorriso di conferma. Forse a non far nulla si stanno annoiando, ma non hanno scampo. La collega deve essere proprio nel giusto! “Va bene, non capisco ma mi adeguo: ci dia un appuntamento per il prossimo mercoledì”. “Mi dispiace davvero, lo darei volentieri, ma non mi è consentito”. “Non le è consentito perché è obbligatorio chiederlo via internet o via telefono?” “No, lo diamo solo di presenza. Ma solo di mattina. Lei deve tornare un altro giorno, in orario antimeridiano, farsi dare un appuntamento con me e poi ritornare un mercoledì in orario pomeridiano”. La guardo attonito. Chiedo di correggermi se ho capito male: “L’altro ieri sono venuto una prima volta e mi hanno detto di ritornare di mercoledì pomeriggio; oggi è mercoledì pomeriggio e lei mi sta chiedendo di tornare una qualsiasi mattina; in quella qualsiasi mattina mi si darà un appuntamento per il primo mercoledì libero; e solo allora - al termine del quarto viaggio dalla borgata marinara in cui vivo sino all’incrocio con la circonvallazione - potrò avviare la pratica di questa signora africana. In attesa di ritornare, una quinta volta, per ritirare (se non sopravverranno intoppi) il certificato di residenza”. “No, nessun equivoco: ha capito benissimo”. Chiedo allora di parlare con il capo ufficio, ma la risposta è quasi superflua: “Vuole che a quest’ora, di pomeriggio, sia qui?”. Non mi resta che raccogliere le carte e, mogio mogio, riprendere la strada di casa. Mentre lavora in qualche remoto angolo del cervello il tarlo d’una catena di interrogativi (“Ma quanto sadismo è necessario per ideare una simile procedura burocratica? Palermo non è una città europea? Davvero non c’è nessuna autorità civile che possa individuare e punire esemplarmente quei burocrati che si divertono ad umiliare la gente ‘comune’ e che si fanno belli procurando ad amici e clienti i certificati con un cenno al fattorino del proprio ufficio?”), la vicina di casa mi chiede con candore di spiegarle la conclusione della trattativa. “Signora” – è stato tutto ciò che sono riuscito a risponderle – “non è questione di italiano: le confesso che ho capito ancora meno di quanto abbia capito lei la volta scorsa”.

Augusto Cavadi

sabato 3 dicembre 2011

Ci vediamo a Palermo lunedì 5 dicembre...?


“GIARDINO COSTA” EX VERDE TERRASI
(INGRESSI DA VIALE LAZIO E DA VIA BRIGATA VERONA)

LUNEDI 5 DICEMBRE
ORE 18.15

AUGUSTO CAVADI ED ELISA POMA
PRESENTANO IL PROPRIO LIBRO

LA BELLEZZA DELLA POLITICA.
ATTRAVERSO, E OLTRE, LE IDEOLOGIE DEL NOVECENTO
DI GIROLAMO EDITORE.

INTERVIENE GIORGIO CAVADI (Dirigente scolastico)
MODERA IL DIBATTITO ROBERTO PUGLISI (quotidiano online LiveSicilia.it)

giovedì 1 dicembre 2011