martedì 22 maggio 2012

Ci vediamo, a Catania, mercoledì 23 maggio 2012?


Domani è il ventesimo anniversario della strage di Capaci.
Su sollecitazione dell’editore salvatore Coppola, D. Gambino e E. Zanca hanno preparato un volume a più mani in cui alcuni di noi sono stati chiamati a fare il punto dopo due decenni dall’uccisione di Falcone, della Morvillo e degli uomini di scorta: il volume (Vent’anni) è reperibile in molte librerie italiane e, con più immediatezza, direttamente presso l’editore trapanese
(http://www.coppolaeditore.com/products/227-ventanni.aspx).
A chiusura di questo post riporto i brani principali del mio contributo così come sono stati prescleti da “Adista. Segni nuovi” del 19 maggio 2012.
Prima, però, desidero informare i miei amici della costa orientale siciliana che, con l’editore Coppola, sarò domani a Catania per partecipare, dalle ore 17.00 in poi, agli eventi organizzati dall’Associazione nazionale magistrati presso il palazzo di Giustizia del capoluogo etneo. In particolare, alla presentazione dell’installazione di Danilo Fodale “Pioggia dei Pizzini della legalità” (collana di piccoli quaderni di vari autori, due dei quali miei: “Come posso fare di mio figlio un vero uomo d’onore?” e “L’amore è cieco ma la mafia ci vede benissimo”).
Ma torniamo agli estratti dalla mia testimonianza nel volume collettaneo Vent’anni (a cura di D. Gambino ed E. Zanca, Coppola Editore, Trapani 2012, pp. 128, euro 12,00). Nel volume contributi (oltre che dei curatori e dello stesso editore) anche di Ignazio Arcoleo e Roberto Gueli, Rita Borsellino, Letizia Battaglia, Rachid Berradi, Luigi Ciotti e Raffaele Sardo, Amelia Crisantino, Gaetano Curreri, Giuseppe Di Piazza, Maria Falcone, Alfonso Giordano, Maurilio Grasso, Stefano Grasso e Corrado Fortuna, Enzo Guidotto, Sebastiano Gulisano, Ferdinando Imposimato, Pina Maisano Grassi e Chiara Caprì, Antonio Mazzeo, Natya Migliori, Marilena Monti, Carlo Palermo e Denise Fasanelli, Aldo Penna, Pippo Pollina, Enrico Ruggeri, Luca Tescaroli.

TRAGEDIA STORICA, ANGOSCIA PRIVATA
Raramente capita che le tragedie della storia ci tocchino quasi vicende private. A me è capitato pochissime volte. Due di queste, a meno di due mesi di distanza, fra il 23 maggio e il 19 luglio del maledetto ’92. Ogni tanto ho riflettuto sulle ragioni di questa sensazione insolita, rara: ma non sono riuscito a fare chiarezza. Falcone e Borsellino li avevo conosciuti di persona, ma non ne ero certo amico: probabilmente non mi avrebbero riconosciuto se mi avessero incontrato in un salotto o in bar. Di contro avevo conosciuto molto più da vicino Gaetano Costa, un amico di famiglia da sempre, trasferito da Caltanissetta a Palermo come Procuratore della Repubblica. Integerrimo. Quando cadde trucidato sotto casa il 6 agosto dell’Ottantadue mi dispiacque davvero, ma forse – nonostante i miei trentadue anni - non ero maturo: mi dispiacque come ci si dispiace quando un amico di famiglia muore di cancro o investito da un pirata della strada. Provai dolore e rabbia, dolore e odio verso i vigliacchi anonimi che avevano assassinato un sessantenne inerme che sfogliava libri usati in via Cavour: dolore, rabbia, odio, ma non angoscia.
L’angoscia è tutta un’altra cosa. E’ una stretta alla gola che ti mozza il respiro; è una morsa al petto che mima l’infarto. E’ una sospensione dell’attività mentale perché non soltanto intorno a te si è fatto improvvisamente buio, ma anche dentro il cervello ti si è spento un interruttore. Solo piangere ti conforterebbe, ma l’angoscia t’impedisce pure questo. L’angoscia: ecco quello che ho avvertito quando, sull’autostrada da Messina a Palermo, l’autoradio ha gracchiato le prime notizie confuse su un’esplosione nei pressi di Capaci. Con i primi telegiornali della sera ogni residuo di sia pur folle speranza fu spazzata via. E, con la concatenazione delle sequenze di un film già montato, mi passarono – e mi ripassarono – le immagini e le parole di una preghiera due volte laica. Era infatti la preghiera rivolta non solo, genericamente, a un Dio laico (l’unico che riesco a pregare), ma anche, più direttamente, a un concittadino laico.
Gli ho chiesto – a Giovanni Falcone – perdono. Perdono a nome di quei palermitani che si erano lamentati di essere disturbati dal suono delle sirene quano lo riaccompagnavano a casa dal tribunale. Perdono a nome di quell’avvocato che, in tv, lo aveva accusato di essere cauto nell’incastrare gli amici potenti dei mafiosi. Perdono a nome di quel poliziotto che, in coda con me al panificio, prometteva al collega che l’avrebbe ammazzato lui quel giudice se non l’avesse fatto prima la mafia: troppe lavate di capo per chi veniva sorpreso a leggere La gazzetta dello sport quando avrebbe dovuto controllare ingressi ed uscite dal portone.
Non fu una ferita facile da rimarginare. Tanto più che, cinquanta giorni dopo, le bombe di via D’Amelio l’avrebbero furiosamente risquarciata. Di Caponnetto – quando balbettò alle telecamere “Tutto è finito” - compresi sillaba per sillaba, riconobbi perfino il tono della voce. Capii, arrivai quasi a condividere: decisi di fermarmi solo un attimo prima d’identificarmi totalmente con la disperazione di un vecchio padre ormai derubato dei due figli preferiti. Decisi: fu un atto della volontà perché ormai il resto - previsione razionale, sentimento, emozioni – si era arreso all’evidenza della tragedia senza scampo. Mi ricordai di san Juan de la Cruz: della necessità di attraversare la notte più fonda - la notte in cui non si vede nulla, non si sente nulla, non si crede più a nulla - prima di poter, forse, sperimentare la pace. E in queste notti senza stelle e senza luna puoi resistere, e persistere, solo se lo decidi con quell’energia intima che sai di possedere (o di esserne posseduto) quando ormai assapori lo stremo.
[…] A venti anni da quelle giornate - ma sono davvero trascorsi tanti anni? – la situazione è identica ma anche, per fortuna, incomparabilmente diversa. La mafia come sistema di potere asfissiante continua a riscuotere il pizzo su quasi ogni commessa, su quasi ogni impresa, su quasi ogni negozio; continua a inquinare la dialettica democratica contrattando intollerabili sinergie con politici di ogni livello (sino alla presidenza della regione: certamente la penultima, dubitabilmente l’attuale). Ma il gotha di Cosa nostra di quegli anni micidiali è quasi tutto sotto chiave: non c’è da cantare vittoria, ma sarebbe da stupidi negare che il bicchiere è adesso mezzo pieno. E’ difficilmente apprezzabile un risultato culturale inedito nella storia siciliana: la media statistica attesta che i boss si spengono, soli, in galera, non più, nel proprio letto, circondati dall’affetto delle persone care, dopo anni di quiescenza dorata fra gli agrumi del proprio feudo. Certo, ancora troppi giovani fanno la fila per subentrare nella militanza del disonore, ma almeno sanno che l’impunità – da regola che era – si è fatta eccezione.
[…] Sarebbe da illusi supporre che un giorno, sradicate Cosa nostra e Stidde, altre associazioni criminali (simili se non identiche) non ne prenderanno il posto: malvagità e ingordigia aggrovigliano le viscere dell’uomo da milioni d’anni e continueranno a fermentare sino alla scomparsa del genere umano. Ma, intanto, nel breve - o meno breve – periodo, se le mafie attuali si disgregheranno, sarà stata una vittoria complessiva della parte migliore dei cittadini ‘normali’. […]

Augusto Cavadi

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