martedì 23 ottobre 2012

Paolo Calabrò su “Presidi da bocciare?”


Paolo Calabrò (www.paolocalabro.info) mi ha voluto regalare, ancora una volta, la recensione ad un mio volumetto (che, in questo caso, non è solo mio).
L’ha appena pubblicata su «Pagina3»
(http://www.paginatre.it/online/cavadi/)
e sul suo blog
(http://www.inattuale.paolocalabro.info/2012/10/a-cavadi-presidi-da-bocciare-ed-di.html).
Su «Pagina3» la recensione è ascoltabile e scaricabile in formato MP3 grazie alla voce recitante di Luca Grandelis.

domenica 21 ottobre 2012

Timor Domini: inizio della sapienza o dell’ateismo?


Nell’ultimo numero del quadrimestrale “Filosofia e teologia”, dedicato al “Timore di Dio”, è stato ospitato un mio contributo un po’ contro-corrente.Qui riesco a riprodurlo senza le note (per fortuna vostra!).

“Filosofia e teologia”, 2012, 2

TIMOR DOMINI INITIUM STULTITIAE?

Contestare il timor Domini è solo frutto di equivoco?
In più di un’occasione mi è capitato di captare, in ambienti cattolici, la convinzione che la cultura contemporanea abbia emarginato, e poi decisamente contestato, il tema cristiano del timor Domini solo per un colossale fraintendimento. Essa, infatti, avrebbe recepito - anche per responsabilità di teologi e predicatori poco illuminati – la formula in maniera riduttiva, antropomorfica (la paura del servo davanti al Padrone assoluto, al Padrone dei padroni) e, conseguentemente, l’avrebbe rifiutata, senza preoccuparsi di toglierle la polvere dei secoli per riscoprirne il senso e la preziosità originari.
Ma questa lettura è fondata? Davvero chi rigetta come insensata (filosoficamente) e blasfema (teologicamente) la tesi del timor Domini initium sapientiae è solo vittima di equivoci?
Per rispondere dovremmo, preliminarmente, stabilire dove sia custodita l’interpretazione autentica, verace, della formula: senza questo paradigma non avremmo un riferimento rispetto al quale dichiarare inadeguate, devianti, le interpretazioni dei contestatori. Non mi pare che ci siano più di due luoghi in cui cercare l’accezione attendibile: le Scritture e la Tradizione ecclesiale (all’interno della quale, per la Chiesa cattolica, riveste un ruolo primario e decisivo il Magistero). Vediamo, dunque, anche per cenni sommari, cosa ci insegnano queste due fonti della fede ‘confessionale’.

I luoghi biblici
Iniziamo, ovviamente, dalla Bibbia dove (Salmo 111, vv. 9-10) leggiamo: “Santo e terribile è il suo nome! Initium sapientiae timor Domini : hanno il discernimento del bene tutti quelli che lo praticano. La sua lode durerà per sempre”. Uno dei passi paralleli in Proverbi 7 – 10: ”Chi corregge il beffardo ne riceve disprezzo, chi rimprovera l’empio se ne attira l’oltraggio. Non rimproverare il beffardo, altrimenti ti odierà; rimprovera il saggio ed egli ti amerà. Istruisci il saggio ed egli diventerà ancor più saggio, ammaestra il giusto e accrescerà la sua dottrina. L’inizio della sapienza è il timore del Signore, la scienza del Santo è intelligenza”.
Come intendere rettamente questi passaggi? Oserei dire che è quasi impossibile per noi che non siamo orientali e che leggiamo dopo più di due millenni. Assai arduo, infatti, nonostante la finezza degli strumenti filologici odierni, liberarci dai nostri doppi occhiali metafisici (greci) e giuridici (romani). Per decifrare di che genere di timor si tratti bisognerebbe, previamente, intuire cosa intendano gli agiografi - in quella fase del pensiero ebraico – per Dominus. Sappiamo, infatti, che lento e graduale - ma non senza arretramenti e ripartite – è stato il cammino dal politeismo all’enoteismo (esistono molti dei, ma uno solo è il Dio d’Israele) sino al monoteismo ( esiste un unico Dio di tutti i popoli). Nelle distinte fasi storiche, comunque, a parere dei competenti la fede in Jahvè “rappresenta il fondamento costante del popolo di Israele. Egli crede in lui, lo venera, spera in lui. (…) Israele si considera, quindi, il popolo liberato da Dio” . La relazione fra Dio e il suo popolo è insomma costitutiva dell’autocomprensione ebraica: ma che genere di relazione è in gioco? Non ontologica né legale, ma – con una certa approssimazione – potremmo dire storico-etica. Ogni volta che nei secoli successivi si smarrirà questo proprium biblico, si smarrirà l’identità più profonda degli ebrei. I quali, da una parte, ritengono di aver sperimentato Jahvè non “come un despota e un tiranno, bensì come un Dio della liberazione e della salvezza”; dall’altra, ritengono che “all’elezione (unilaterale) da parte di Dio deve corrispondere l’accettazione dell’obbligo da parte di Israele: non dall’orgoglio e dalla presunzione, ma soltanto dall’obbediente adempimento delle condizioni dell’alleanza Israele viene legittimato nella sua elezione a popolo di Dio” . Ecco perché G. Bernini può, opportunamente, chiosare il passo di Proverbi 1, 7 (di cui indica come paralleli Proverbi 9, 10; Deuteronomio 4,6; Giobbe 28,28; Salmo 111, 10; Siracide 1, 14) scrivendo: “Insegnamento basilare dei saggi. Nel linguaggio biblico, temere Dio significa fondamentalmente riconoscere, da parte dell’uomo, la sua condizione di creatura di fronte a Dio, suo creatore e signore. Questa nozione astratta si incarna per l’Ebreo nella conoscenza di Dio che egli aveva dalla sua tradizione religiosa (il Dio delle promesse e dell’alleanza: cf. Genesi 24, 5 – 13; Deuteronomio 26, 5 – 9) e nell’osservanza della Legge, che regolava la sua vita civile e religiosa. Temere Dio significa vivere in conformità con questa fede e questa legge. Ignorare questo rapporto con Dio vuol dire porsi fuori dalla realtà e quindi fuori di ogni sapienza” .
Fermiamoci un po’ su questa categoria biblica del ‘timore’. Per certi versi è la conferma della constatazione fenomenologica di Rudolf Otto, a giudizio del quale il sacro viene percepito, sempre e dovunque, quale “mistero affascinante e tremendo”. Da questa angolazione è una categoria comune a tutte le esperienze religiose (anche fuori dal contesto biblico) ma, per ciò stesso, esposta ai sospetti antropologici di un René Girard che vede nel sacro il prodotto della violenza e il tentativo (destinato all’insuccesso) di eliminarla dalla storia. Per altri versi essa è leggibile quale sentimento di fondo di un popolo che si avverte responsabilizzato da una particolare relazione col Dio vivente: si potrebbe dire che è leggibile dalla prospettiva non più del ‘sacro’ ma del ‘santo’. Questa seconda angolazione evidenzia la categoria del “timore di Dio” in chiave meno problematica e più originale, ma – proprio per questo - non può essere asportata dal contesto biblico e universalizzata senza rimanerne sfigurata. Una cosa è dire “Avevo con mio padre un rapporto speciale di fiducia e di confidenza: temevo con tutta l’anima di arrecargli dispiacere disattendendo un suo desiderio” e tutta un’altra cosa affermare che “Ogni figlio deve, con vivo senso di timore, adempiere ogni desiderio del padre”. Fuor di metafora: initium sapientiae non è “temere” , in senso generico, qualsiasi Dio - neppure il Dio che la ragione può eventualmente ipotizzare a partire dall’osservazione del cosmo e delle sue leggi – bensì ‘temere’, in senso specifico, questo determinato Dio a cui ritengo (realisticamente o illusoriamente) di dovere ogni beneficio sinora sperimentato dal mio popolo, dalla mia famiglia e dalla mia stessa persona. Di più: initium sapientiae può essere imparare a non temere un dio (reale o presunto) che abbia nei confronti degli esseri umani un atteggiamento di distaccata lontananza o di occhiuta sorveglianza (proprio come gli uomini e le donne migliori riescono a fiorire proprio quando tagliano il cordone ombelicale del ‘timore’ reverenziale verso padri e madri troppo autoritari, esigenti o psicologicamente soffocanti).

L’autocritica ebraico-cristiana: timor Domini initium peccati?
Ebbene: che cosa ne è stato del timor Domini biblico? All’interno dell’ebraismo è stato custodito (ovviamente non senza eccezioni deplorevoli) come sentimento ‘cordiale’ sino a esplodere - diventando esplicitamente sentimento filiale - nell’autoconsapevolezza di quegli ebrei eretici in seguito denominati cristiani: “Non riceveste infatti uno spirito di schiavitù da essere di nuovo in stato di timore, ma riceveste lo Spirito di adozione a figli, in unione con il quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Romani 8, 15); “Non vi chiamo più servi ma amici, perché il servo non sa ciò che fa il padrone “ (Giovanni 15,15 ).
Occorrerà dunque cancellare la tematica del ‘timore’ in una sorta di marcionismo che veda opposizione e contrasto insanabile fra il Dio severo e malevolo dell’Antico Testamento e il Dio comprensivo e benevolo del Nuovo Testamento? Non è né possibile né necessario.
Non è possibile perché –come ha messo in evidenza ad esempio Giuseppe Barbaglio in diversi studi – il Dio di Gesù, esattamente come il Dio del suo popolo, è un “Giano bifronte”: troviamo durezza e tenerezza materna in Jahvé così come troviamo promessa di perdono e minaccia di castigo nel Padre del Nazareno.
Ma, anche se fosse possibile, non sarebbe necessario ripudiare la tematica del timor Dei: l’essenziale è rispettarla nella sua originalità e lasciarla scorrere nell’alveo biblico in cui si è, originariamente, configurata. Se, per qualche ragione, vogliamo restare fedeli a questa formula biblica, siamo autorizzati: ma a patto di perseverare, sobriamente, in un universo linguistico della espressione affettiva, della allusione simbolica, della fede orante. In un universo linguistico che non è quello della riflessione logica. A patto, insomma, di avere il senso del limite epistemico. A patto di aver chiaro che dislocare il tema del timor Domini fuori dall’angolazione esistenziale - cioè fuori dall’ambito esperienziale di chi parla del proprio Dio, del Dio da cui si ritiene amato e custodito – significa rischiare il non-senso.
Ce lo insegna Kierkegaard, anche nello scritto programmaticamente intitolato Timore e tremore: il timore di Dio che spinge Abramo ad alzare il coltello sino al collo del figlio unico appartiene alla sfera del paradosso . Lungi dal fondare un’etica universale sensata, esso le sottrae ogni legittimazione: “L’ultimo movimento, il movimento paradossale della fede, io non lo posso fare, sia esso ora o non sia un dovere, anche se confesso che lo vorrei fare più che volentieri” . “La storia di Abramo” - del “cavaliere della fede” – contiene “una sospensione teologica dell’etica”: egli “non è perciò in nessun momento un eroe tragico, ma qualcosa di tutt’altro: o un assassino o un credente” . D’altronde - è sempre il teologo luterano Kierkegaard (che non per caso si autodefiniva “scrittore cristiano”, mai filosofo) a suggerirlo – è falso supporre che il timore ispiri automaticamente la buona condotta: se esso non è visitato dalla grazia, ci rende peggiori di chi non prova nessun timore reverenziale. Se siamo in preda al timore e basta, ci comportiamo male. In linguaggio teologico: non ci angosciamo perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo angosciati . C’è un timore del Signore che è l’inizio - la radice e il principio - del peccato !
Per queste ragioni trovo del tutto condivisibile, per chi voglia dimorare all’interno del registro linguistico biblico, bilanciare la nota del timore ‘di’ Dio (la reverenza dell’uomo verso di Lui) con la nota del timore ‘per’ Dio (la cura dell’uomo per la fragilità di Lui). Provo a spiegarmi con le parole di un credente contemporaneo:

Se Dio è onnipotente bisogna temerlo? Se Dio è onnipotente,
forte e grande e noi deboli e piccoli, perfino minuscoli,
come possiamo difenderci? Se ammettiamo che Dio è
soprattutto Amore, sappiamo per esperienza che chi ama
è vulnerabile, che non può imporsi, per potente che
che sia. Di fronte ad un cuore che si chiude, Dio è
impotente, non può che soffrire. Egli rispetta il suo
interlocutore, per piccolo e fragile che sia. Questo
è il motivo per cui l’amore scaccia il timore (I Gv. 4,18).
Ma, ormai, il Dio onnipotente, con la sua pastorale della
paura, non fa più impressione. Zundel ha fatto spesso
notare come il mondo moderno non possa più accettare
un Dio, che si comporta come un monarca assoluto
o un faraone. Giustamente rifiutiamo un Dio che
limiti l’uomo, che non rispetti la sua inviolabilita’
e che vorrebbe disporne come una merce. Il Dio
vulnerabile merita la nostra attenzione e il nostro rispetto.
Molti contemporanei ne danno testimonianza: Michel
Serra , Emmanuel La Taile , Pierre Talec , Etty
Hillesum , Marguerite Yourcenar . […] Se Dio è
AMORE, è vulnerabile e le nostre relazioni con lui
sono fragili; bisogna fare attenzione a non fargli male
e cercare di proteggerlo dai nostri impulsi, dalle
nostre assenze, dai nostri rifiuti: “Dio è fragile e
disarmato, spetta a noi proteggerlo da noi stessi” .
Zundel aggiunge: “Non è Dio che deve proteggere noi, ma
noi che dobbiamo proteggere lui”.

Ogni teologia del ‘timore’ (quale che sia la valenza semantica del vocabolo) comporta un’antropologia del ‘peccato’. E quanto spiritualmente disastrosa possa risultare una lettura della fede religiosa in generale, e del cristianesimo in particolare, imperniata sulla sottolineatura della peccaminosità dell’uomo e del conseguente bisogno di redenzione, lo ha mostrato – fra gli altri, e in termini particolarmente accessibili anche a un pubblico non introdotto a questo genere di studi – Matthew Fox:

la religione in Occidente deve abbandonare il modello
esclusivistico di caduta e redenzione che ha dominato
la teologia, gli studi biblici,i seminari e i noviziati,
l’agiografia e la psicologia, per centinaia di anni.
E’ un modello dualistico e patriarcale, la cui teologia
inizia con il peccato e con il peccato originale, e finisce
di solito con la redenzione. La spiritualità della caduta
e della redenzione non insegna nulla ai credenti riguardo
alla Nuova Creazione o alla creatività, riguardo alla
costruzione della giustizia e alla trasformazione sociale,
o riguardo all’eros, al gioco, al piacere e al Dio della
gioia. Non riesce a insegnare l’amore per la Terra
o la cura per l’universo, ed è così spaventata dalla passione
che non riesce ad ascoltare il grido addolorato degli anawim,
dei piccoli della storia umana .

Gaudium Dei initium sapientiae, si potrebbe dunque affermare con almeno altrettanta verità: la gioia “di” Dio nel senso del genitivo ‘oggettivo’ (la gioia nei confronti di Dio) come risposta alla gioia “di” Dio nel senso del genitivo ‘soggettivo’ (la gioia da parte di Dio)!
Quanto all’angolazione del “timore di Dio”, personalmente - proprio perché concordo con Kierkegaard nel pensare che “l’etica è come tale il generale e, come tale, è valido per ognuno” ; che essa è il campo della “mediazione” – a differenza di Kierkegaard sto dalla parte dell’etica: se devo scegliere fra una fede-paradosso in cui abbia senso obbedire al Dio sovra-etico e una razionalità-standard che mi filtri le ipotetiche voci sovrannaturali, non ho dubbi. Preferisco correre il rischio di non essere, come il ‘credente’ Abramo, l’eccezione al di sopra dell’etica, pur di evitare il rischio di ingrossare le fila degli ‘assassini’, costituendo una eccezione contro l’etica. La storia attesta sin troppo abbondantemente come 999 volte su 1000 un soggetto, individuale o collettivo, che sospende l’etica in nome di Dio finisce, invece, con lo spalancare le porte alle forze del Male. Senza contare che un’etica davvero razionale è anche ragionevole e, da Aristotele in poi, prevede il ruolo dell’epicheia: dell’elasticità mentale che, “prudentemente”, sa interpretare e applicare le norme senza appiattirsi sul legalismo.

La de-contestualizzazione teoretica: timor Domini initium atheismi?
Se personalmente mi aggrappo all’etica della ragione, provo il massimo rispetto per chi opti per una fede paradossale (vi sono tante altre possibili figure di fede, ma non è questa la sede per meditarvi ). Purché - come ho notato sopra – questo ‘credente’ non abbia l’imprudenza di de-contestualizzare le parole della sua fede sino a farne una dottrina in competizione con altre dottrine di tenore intellettuale, argomentativo. Infatti - per restare esemplificativamente sulla questione che ci interroga qui - fuori dal filone ebraico-cristiano (intendo già a partire dall’ellenizzazione del messaggio biblico in era medievale) il “timore di Dio” perde il significato originario, diventa l’orizzonte e il fondamento di precetti estrinseci da rispettare non più ex abundantia cordis ma per motivazioni di ordine filosofico-ontologico oppure legal-moralistico. Una cosa è parlare di timore sapienziale in un’ottica, come quella profetica, nella quale il mondo è “afferrato e dominato interamente da Dio”, cioè è “un mondo come creazione” , e tutta un’altra cosa è parlarne in un’ottica ‘secolare’ (o ‘secolarizzata’) in cui – a torto o a ragione – l’autonomia del mondo è direttamente proporzionale alla trascendenza del divino.
La Scolastica medievale, la letteratura devozionale ‘moderna’ e il Magistero cattolico, sino ai nostri giorni, hanno tentato l’operazione (a mio avviso destinata al fallimento) di continuare a insegnare il “timore di Dio” – pur identificato come il settimo dono dello Spirito Santo - su un registro razionale, pedagogico, etico.
Il caso più clamoroso è probabilmente costituito da san Tommaso d’Aquino. Il Doctor Angelicus si occupa di elaborare una propria teoria del timor sin da quando, negli anni giovanili, assistente di sant’Alberto Magno a Colonia, legge e chiosa l’Etica nicomachea di Aristotele. Arriva a concettualizzazioni raffinate che hanno una preziosità filosofica ma che , con mossa sorprendentemente ingenua, egli utilizza per decifrare il messaggio biblico del timor Domini. E’ “lo sforzo” – a mio avviso l’errore – “di ogni teologo, particolarmente di coloro che, nel medioevo, applicarono il metodo dell’esegesi dialettica”: “ricondurre l’ondeggiante uso linguistico della Scrittura all’interno di un certo numero di categorie intellettuali, dotate di relativa chiarezza e universalità, anche se della necessaria elasticità”. A nutrire serie perplessità su questa operazione esegetica sono giganti del tomismo come il domenicano p. Chenu: “L’inserzione di una speculazione nel tessuto di un testo: è questo uno dei comportamenti caratteristici del pensiero scolastico. […] (Esso) si presenta come una interpretazione di testi – filosofici, letterari, scritturali, patristici – mediante la riduzione a delle categorie razionali, mutuate, il più delle volte, dall’aristotelismo. Così si passa da un’espressione sperimentale, intuitiva, affettiva, retorica ad una formula intellettualistica, nella quale sono posti in evidenza e organizzati i possibili elementi intellegibili, salvo ad annullare, o quasi, la potenza emotiva o il benefico paradosso del testo primitivo” . Che ne è, per esempio, del timor Dei biblico nella trasposizione eis allon genos tomista? Un ‘prodotto’ quasi irriconoscibile: “Il timore ha di mira il male che intende fuggire e il bene che con la sua forza può infliggere un male. Ed è così che Dio è temuto dagli uomini, perché può infliggere una pena, o spirituale o corporale” . Questa nozione antropomorfica di un Dio giudice sovrano che infligge pene non è la caricatura polemica di qualche ateo moderno: è la formulazione meditata e articolata di un gigante del pensiero che la Chiesa cattolica considera Doctor Communis.
Nulla di sorprendente, perciò, se l’autore anonimo de L’imitazione di Cristo (non un predicatore sprovveduto, ma l’autore di un libro che ha forgiato la spiritualità cattolica molto più profondamente di qualsiasi altro, Bibbia compresa ) scrive ad esempio: “Tutto, dunque, è vanità, fuorché amare Iddio e servire a Lui solo. E perciò, colui che ama Dio con tutto il cuore non ha paura né della morte, né della condanna, né del giudizio, né dell’inferno. Un amore perfetto porta con tutta sicurezza a Dio; chi invece continua ad amare il peccato ha paura – ciò non fa meraviglia – e della morte e del giudizio. Se poi non hai ancora amore bastante per star lontano dal male, è bene che almeno la paura dell’inferno ti trattenga; in effetti, chi non tiene nel giusto conto il timore di Dio non riuscirà a mantenersi a lungo nella via del bene, ma cadrà ben presto nei lacci del diavolo” . (Forse proprio l’avere “timore di Dio” in questo senso moralistico è invece il sintomo più evidente dell’essere già prigioniero dei “lacci del diavolo”!).
Medioevolerie superate? Non mi pare. “Il messaggio del Giudizio finale” – insegna il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 – “ispira il santo timor di Dio”. Tale Giudizio escatologico va atteso con fede e speranza, la quale – virtù teologale – è tanto “l’attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio” quanto “il timore di offendere l’amore di Dio e di provocare il castigo”. Su questo registro concettuale-argomentativo le difficoltà teoretiche si moltiplicano né le pur raffinate distinzioni logiche fra timore ‘servile’, timore ‘filiale’ e timore ‘iniziale’ riescono a sormontarle: quale “castigo” può riservare alla creatura mortale l’Assoluta Bontà? La condanna eterna all’inferno (una condanna così contraria alle norme del diritto naturale e delle convenzioni giuridiche internazionali da essere definita “anticostituzionale” da Luigi Lombardi Vallauri)? La condanna ‘a tempo’, in una dimensione senza tempo, in quel luogo non-luogo che il Medioevo teologico ha faticosamente costruito e denominato Purgatorio? Temo che per questo sentiero si arrivi dritto diritto all’ateismo ‘esigenziale’ di un Jean Paul Sartre quando racconta che a cinque anni, al pensiero che Dio lo vedesse e lo giudicasse per le sue marachelle (fosse, insomma, una di quelle divinità inventate - secondo Crizia - dai ricchi per tenere a bada i ladri notturni, in assenza delle guardie dormienti), abbia detto a se stesso: non voglio che questo Dio esista. Dio non deve esistere.
Se vogliamo - e come potremmo non volerlo ? – percorrere non solo il sentiero della fede biblica ma anche (per molti oggi: soltanto) le vie della riflessione filosofica, trovo di gran lunga preferibile abbandonare la categoria “timore di Dio” anziché prodursi in contorcimenti ermeneutici e/o speculativi per farle dire qualcosa di accettabile anche dall’uomo post-rinascimentale e post-illuminista. Non abbiamo forse a disposizione una serie di vocaboli – quali “riconoscimento”, “devozione”, “reverenza”, “rispetto”, “senso” di Dio - meno equivoci e meno lontani da una fede che interpreti se stessa come atteggiamento esistenziale oltre la mera ragionevolezza del dimostrabile piuttosto che smentita e frantumazione di ogni ragionevolezza? E’ già abbastanza duro (anche se saggio e, alla distanza, proficuo) accettare – teoreticamente e soprattutto praticamente - di non essere Dio: perché renderlo ancora più duro aggiungendo che questa condizione mortale va vissuta con “timore” nei confronti di Colui che è ciò che noi non siamo? Teologi e filosofi hanno - abbiamo – il dovere di non frapporre ostacoli superflui alla già tanto travagliata ricerca del vero (quale che sia il significato della parola per ciascuno di noi). Ostinarsi a usare termini desueti, o da intendere in accezioni semantiche insolite, equivale a un atto di violenza nei confronti degli uomini e delle donne che, pur impegnati in altri mestieri, vogliono capire - prima di morire – qualcosa del mistero di Dio e della nostra avventura terrena.

Augusto Cavadi

venerdì 19 ottobre 2012

Heidegger e la verità


“Vita pensata”, 15, ottobre 2012
(Rivista telematica gratuita)

Roberto Bigini, Martin Heidegger. Una guida al velamento, Aracne, Roma 2011, pp. 184, euro 12,00.

Se qualcuno è davvero convinto che i filosofi consulenti navigano alla larga dai classici del pensiero - anche per una buona dose di incompetenza - e si imbatte in questo saggio di Roberto Bigini, difficilmente può restare nella sua convinzione. E’ infatti un saggio dotto e raffinato che dialoga con Heidegger niente meno che sulla nozione di verità e, dunque, secondo le indicazioni teoretiche del medesimo pensatore tedesco, sulla “dia-ferenza” fra l’essere e l’ente. L’essere, infatti, è il fondo-sfondo (o l’abisso infondato) da cui proviene ogni ente: è il perennemente “velato” a partire dal quale si “dis-vela” tutto ciò che è. Ma proprio l’aver trascurato il “velamento” (o la “velatezza”), a favore di un’attenzione esclusiva sull’ente, sull’essente, sulla “disvelatezza”, avrebbe finito - secondo Heidegger – per banalizzare la categoria della verità come “non-velamento”. La verità, da epifania dell’essere, si sarebbe ridotta a produzione del soggetto umano (come avviene nell’idealismo tedesco post-kantiano), a prodotto di una cieca volontà di potenza (come avviene in Nietzsche), a efficacia tecnica (come avviene nella mentalità capitalistica attuale).
Bigini segue con attenzione filologica ed esegetica lo sviluppo di queste idee dal giovane Heidegger di Essere e tempo sino agli scritti della piena maturità compresi “quei veri e propri incontri di pratica filosofica con medici e psichiatri comunemente noti come seminari di Zollikon”, (p. 11) , senza trascurare dei passaggi che possono incuriosirci anche in quanto filosofi-in-pratica. Due per tutti (per altro intrecciati).
Il primo è il tema del “colloquio”, come luogo privilegiato della verità, evocato dal celeberrimo verso di Hoelderlin: “Molto ha esperito l’uomo. Molti celesti ha nominato da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro ” (p. 123) . “Il linguaggio si attua, rivela la propria essenza, nel colloquio: ma solo perché esso – prima che quel parlare assieme comunemente e socialmente inteso, e frainteso, nel concetto già logoro di comunicazione - indica l’ascolto di quanto la differenza (il “non”) ha, di suo, già da dirci” (p. 122): insomma, solo in quanto è ascolto della silenziosa e possente voce dell’essere al di qua di ogni dicibile. Bigini non lo esplicita, ma forse il collegamento non è arbitrario: in tanto si può fare consulenza filosofica in quanto si è, nella meditazione perseverante, in ascolto del Logos che parla sempre e dovunque. A riprova della centralità decisiva dell’ascolto come luogo di emergenza della verità, Heidegger mette in guardia dall’opacità e dall’equivocità della scrittura, la quale “non è capace di restare nello scritto stesso un moto del pensiero, un cammino” (p. 149). “Così “il pensiero”, facendo il suo ingresso in “letteratura” (o “nella letterarietà”), iniziò ad allontanarsi dall’esperienza della verità dell’essere, del non velarsi del velamento” (p. 149). Anche a questo proposito riterrei non del tutto arbitrario il collegamento con un’esperienza della filosofia che non si limita alle pratiche accademiche convenzionali (leggere per scrivere qualcosa di proprio - di cui ci si possa proclamare proprietari e titolari – destinato ad essere, a sua volta, letto da altri) ma che valorizza al massimo grado lo scambio verbale, la relazione orale.
Senza nessuna grafoclastia parossistica, il filosofo-in-pratica sa apprezzare il coraggio di chi sottopone alla critica pubblica le proprie idee mediante strumenti tecnici più o meno evoluti (dalla pergamena al web) quanto la sobrietà di chi evita la cristallizzazione nella scrittura della propria ricerca, mostrando una profondità sufficiente per non scrivere quel che sa.
Una nota in margine: se questo saggio fosse una monografia critica su Heidegger, gli si potrebbe rimproverare un’adesione eccessivamente fedele alle idee del pensatore tedesco. Ma non lo è. E’ un testo che vuole rispondere ad una questione teoretica più che storiografica: “dove in filosofia, quanto all’essenziale, eravamo rimasti?” E vuole rispondervi “per l’interposta, ingombrante persona linguistica di Martin Heidegger”(p. 11). Si potrebbe dire che gli scritti heideggeriani sono “utilizzati” solo in quelle parti, e per quegli aspetti, che “servono” a Bigini; per cui il silenzio su altri passaggi, e da altre angolazioni, lascia aperta la possibilità ad eventuali riserve da parte sua. Indubbiamente può risultare un po’ strano che la risposta alla domanda sul senso del filosofare oggi si costruisca con il supporto di un solo pensatore, per quanto rilevante: ma questa concentrazione su una sola miniera va considerata un difetto tipico, o piuttosto una fortuna invidiabile, di chi scrive di filosofia in età giovanile? A sessanta anni e oltre non è altrettanto facile accontentarsi di un unico, autorevole, interlocutore nella propria indagine filosofica; ma si avverte anche qualche nota di nostalgia quando ci si ricorda che, trent’anni prima, si era ancora capaci di entusiasmarsi nella convinzione di aver individuato, in questo o in quell’altro gigante del pensiero, la propria guida fondamentale.

Augusto Cavadi

mercoledì 17 ottobre 2012

L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE


“L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE”
Ottobre 2012-10-16

PRESIDI DA BOCCIARE? di A. Cavadi.
Editore Di Girolamo, Collana ‘di santa ragione’, pp. 134, euro 12,50.

«Le delusioni, umane e professionali, sono state ripetute e crescenti. Dopo diversi anni sono stanco. …. Non sono così ingenuo da illudermi di trovare altrove situazioni paradisiache, ma penso di avere diritto di vivere in un ambiente dove la correttezza umana, la sensibilità culturale e le reali competenze professionali vengano - se non apprezzate - almeno non mortificate.». Si coglie, in queste righe, lo spirito di fondo che anima il testo di Augusto Cavadi, Presidi da bocciare?: la necessità di reagire ad una incompatibilità ambientale che la scuola nel suo complesso, però, sembra non condividere del tutto (si veda, in questo stesso numero dell’Indice, la recensione di Giovanni Abbiati). Una scrittura a più mani: oltre all’autore di copertina, intervengono con propri contributi due insegnanti, Alberto Biuso e Dario Generali, e due dirigenti scolastici, Giorgio Cavadi e Domenico di Fatta. Identificata la tipolgia dei ‘Promessi Presidi’ con una scherzosa classificazione, vi ritroviamo i tipi del preside donrodrigo, del preside donchisciotte, della preside velista, e via via altre tipologie, facilmente implementabili. Lo stato dell’arte del guidare una scuola è considerato sia dalla parte degli insegnanti che dalla parte dei presidi. I problemi che devono affrontare questi ultimi sono delicati e complessi, non riducibili a facili definizioni (Manager Toyota o preside allo ZEN? è il titolo di un paragrafo dell’intervento di Giorgio Cavadi, titolo ispirato al contenuto dei quesiti per la selezione degli aspiranti presidi nel recente concorso del 2011-2012). Tre le molte incombenze, ai presidi tocca far fronte al contenzioso che sempre più spesso sollevano le famiglie, « sempre in agguato per rivendicare, protestare, sindacare». «Anello debole di una società a legami deboli, la famiglia è oramai totalmente incapace di educare e per la scuola è quasi impossibile ‘compensare le gravi carenze educative della famiglia’. Il familismo amorale, solo superficialmente attribuibile alle società meridionali, domina la società italiana… La classe dirigente [della società] offre sempre continui esempi della contrapposizione fra familismo amorale vs democrazia, il che rende sempre più difficile convincere un adolescente all’impegno per la costruzione di un “proprio” futuro che lo allontani dall’inseguire le facili scorciatoie a buon mercato dei miti televisivi d’oggi».
Appare di nobile natura la testimonianza di Domenico di Fatta, preside della scuola del quartiere ZEN di Palermo ed eletto “siciliano dell’anno nel 2010” a seguito di un sondaggio del quotidiano ‘Repubblica’.
«In realtà – e ne sono fermamente convinto- il Dirigente, da solo, non può fa nulla, ma è suo compito di promuovere il cambiamento perché è comunque lui il promotore delle iniziative. E’ impossibile star dietro a tutto e occorre fidarsi delle persone che ci stanno più vicine, concedendo loro ampi spazi di manovra ( si dice Leadership condivisa o diffusa o partecipata…).» La figura del preside Di Fatta resta singolare, per lucidità e generosità; di natura del tutto opposta, e forse più comune, è il preside di cui ci racconta Alberto Biuso, all’epoca dei fatti narrati docente di storia e filosofia in un liceo milanese e, grazie all’ottuso comportamento del dirigente, passato senza rimpianti all’insegnamento universitario. Da siciliano che, semmai perdona, ma non dimentica, il Biuso documenta con ricchezza di materiali l’assurda battaglia da cui dovette difendersi. «Lei è un problema per il corso H. Un ragazzo si è ritirato e ha perso la maturità.» Così inizia una sorta di mobbing, che ha una prima smentita a distanza di un anno, quando lo studente in questione scrive al docente: «Mi sono iscritto alla facoltà di filosofia della Cattolica e, ripensandoci attentamente, è stato proprio lei a fare nascere in me questo interesse, un interesse che si sta rivelando sempre più profondo e legato da profonda meraviglia per la più sublime forma di sapere. Ritengo che siano state senza dubbio le sue lezioni, il suo metodo di approccio, di analisi e di spiegazione a far scaturire in me la voglia di approfondire i miei studi nella direzione della filosofia». Segue altra ricchissima documentazione degli attestati di stima e di affetto ricevuti da più studenti; nonché la motivazione con cui il giudice, giungendo il confitto con la dirigenza alle aule giudiziarie, assolve gli imputati – il docente e due genitori- dal reato di presunta offesa della reputazione perché definivano il preside “personaggio professionalmente discutibile e comunque non preparato a servire un servizio pubblico”.
Dalla ricca antologia di testimonianze che offre questo libretto, si coglie, nel ruolo dei presidi, l’ingombrante peso che ha il loro compiacimento per il posto di potere, insieme all’esiguità dello spazio a disposizione - qualora ne abbiano le competenze - per sovrintendere all’attività didattica.

L’interesse del libretto è discontinuo: sollecita ricordi dolorosi o scenari già visti a chi nella scuola ci vive e magari, nonostante tutto, crede ancora che  «la funzione docente dovrebbe essere un’attività nobilissima e di grande soddisfazione, attraverso la quale degli intellettuali possano impegnarsi nella formazione culturale dei giovani, trasmettendo la passione scientifica e i contenuti specifici delle discipline dei quali dovrebbero essere cultori» (secondo la definizione che Dario Generali dà del proprio ruolo di docente).
Gli esempi riportati, con poche varianti tra nord e sud d’Italia, si riferiscono a un notevole numero di situazioni omologhe nel vissuto scolastico di chiunque frequenti la scuola. Prevale la cronistoria, non priva di un tipico lessico un po’ didattichese, di fatti troppo simili a quelli che già si conoscono, cosicché questa lettura ha il tono di un pamphlet di denuncia a cui manca un’ancora di salvezza, una possibile speranza, un lieto fine, il suggerimento di strategie di sopravvivenza praticabili.
Il rischio è che i lettori-docenti rivivano, rattristandosi, il clima di vacuità quotidiana che spesso regola la comunicazione fra dirigenza e insegnanti; e che il lettore-preside non si senta illuminato da nuove o stimolanti prospettive di rilancio del proprio ruolo.
Insomma, riformulerei il titolo in “Presidi da evitare”: curatori soprattutto della propria immagine, del proprio potere, inclini a circondarsi da insegnanti come loro, poveri di spirito e di cultura.
Le ultime pagine sono affidate a un giornalista, Antonio Mazzeo, che così riferisce il profilo professionale della dirigente del liceo Bisazza di Messina, inspiegabilmente condonata da una multa per truffa aggravata ai danni dello Stato: «Relatrice in importanti convegni nazionali della famiglia massonica del Supremo Consiglio d’Italia e San Marino del 33° ed Ultimo Grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, la dirigente... è Commendatore Imperiale Bizantino di San Costantino il Grande.»

Rossella Sannino

martedì 16 ottobre 2012

Ci vediamo, a Palermo, mercoledì 17 ottobre alle 19,00?


Mercoledì 17 ottobre alle ore 19,00 presso il Salone del Centro culturale Valdese (via Spezio 43 dietro Teatro Politeama) Augusto Cavadi e Silvia Sansone presenteranno il libro di Elio Rindone

NATI PER SOFFRIRE?
Il male: una questione sempre attuale

www.ilmiolibro.it , Roma 2012, pp. 168, euro 12,50 .

Sarà presente l’autore.

Il dolore (fisico e psichico) è un dato sempre attuale della condizione umana. La cultura greca (soprattutto con la filosofia) e la cultura ebraica (soprattutto con il Primo e il Secondo Testamento) hanno tentato delle risposte: possono, se riscoperte nella loro autentica originalità, aiutare anche la ricerca dell’uomo contemporaneo?

Elio Rindone è filosofo e teologo. Tra i suoi scritti più recenti abbiamo presentato a Palermo l’anno scorso Chi è Gesù di Nazareth? (www.ilmiolibro.it, Roma 2011).

lunedì 15 ottobre 2012

I luoghi comuni sulla mafia spaccano Nord e Sud


“Repubblica – Palermo”
14.10.2012

GLI EQUIVOCI SULLA MAFIA
CHE AGGRAVANO LA DISTANZA
FRA NORD E SUD

Avviatosi l’anno scolastico, si programmano già viaggi d’istruzione e gemellaggi. Non è facile distinguere, nella pletora di tante iniziative, le occasioni costruttive dai pretesti dispersivi (a cui, purtroppo, se non altro per evitare conflitti in classe, non pochi docenti si si prestano un po’ ipocritamente, facendo finta di credere che a Firenze si vada per gli Uffizi e non per le discoteche, a Roma per i Musei vaticani e non per fare shopping). In questa fase programmatica si registrano, ogni anno, episodi a dir poco inquietanti che vedono gli studenti siciliani protagonisti ora in una veste lora in un’altra.
I casi meno frequenti sono di razzismo nostrano: se un docente propone un gemellaggio con una scuola albanese o marocchina, viene sommerso da un coro di contestazioni. “I matrimoni” – mi spiegò anni fa un dirigente scolastico progressista – “si propongono alle famiglie di ceto più elevato: servono a salire, non a scendere, la scala sociale. Che penseranno i genitori se accompagniamo i figli fra i semi-selvaggi?”.
Siccome, però, c’è sempre qualcuno meno selvaggio di noi, più frequenti sono i casi in cui sono scuole straniere - o anche dell’Italia settentrionale – ad arricciare il naso se qualche insegnante (in genere, meridionale trasferito al Nord da molti anni) propone il viaggio d’istruzione in Sicilia. “Possiamo accogliere i giovani siciliani nelle nostre case” – ci si è sentito, benevolmente, concedere – “ma non ce la sentiamo di mandare i nostri figli allo sbaraglio per le strade insanguinate di Palermo”.
La questione può sembrare secondaria, una sorta di gossip municipalistico che non supera la cronaca di colore. Invece è la spia di una incomprensione – molto più grave e molto più ampia – del fenomeno mafioso. Che - per fare in breve un discorso impegnativo - dista dal brigantaggio quanto l’occupazione strategica delle istituzioni dista dal ribellismo sterile e improvvisato. Quanti sono i turisti rimasti vittime di mafia? Probabilmente – se si eccettuano i due feriti austriaci nell’attentato di Capaci del 1992 – nemmeno uno. La mafia gestisce molti alberghi, molti ristoranti, molti stabilimenti balneari: i turisti li coccola, non gli spara. A terra, con la testa sull’asfalto, ce li sbatte la piccola delinquenza: quella che la mafia avverte come fastidioso elemento di disturbo al giro dei propri affari. Allora la mafia non uccide più (avendo lasciato, secondo il magistero di Beppe Grillo, la faticosa incombenza al governo Monti)? Purtroppo uccide ancora e - non appena si allenterà la morsa repressiva dei migliori esponenti dello Stato e si ristabiliranno le intese con i peggiori esponenti dello Stato – riprenderà ad uccidere con la stessa lena di pochi anni fa. Ma, sarebbe bene capirlo e farlo capire, la mafia non uccide i viaggiatori di passaggio: uccide i siciliani residenti, e resistenti, che non si piegano ai suoi voleri e ai suoi ricatti.
Quando è scoppiata la bomba davanti la scuola di Brindisi mi trovavo in Abruzzo per un convegno. Interrogato dai colleghi sulla matrice dell’attentato - che, all’unanimità, politici e media attribuivano alla Sacra Corona Unita – dichiarai tutto il mio scetticismo: se davvero si fosse appurato che era stata la mafia a uccidere dei ragazzi inermi, provenienti da piccoli centri della provincia non esenti da presenze criminali, avrebbe significato che in questi decenni di analisi non avevo capito nulla del fenomeno mafioso.
Le vicende successive mi hanno confermato il danno che letture affrettate e superficiali possono comportare sul piano delle scelte quotidiane. Pochi giorni dopo, in occasione del 23 maggio, alcuni rappresentanti degli studenti palermitani sono andati a ricevere al porto di Palermo i compagni e le compagne di Brindisi. Ho saputo, dopo, che altri ragazzi palermitani non hanno avuto l’autorizzazione dei dirigenti scolastici perché contrari al rischio di una carneficina: “Se proprio volete farvi ammazzare dai mafiosi, andate per i fatti vostri alla manifestazione di pomeriggio”. Apprendere di tali affermazioni da parte di educatori siciliani – per altri versi preparati ed efficienti - fa male. Significa che la mafia, prima ancora di spiegarla ai turisti, bisognerebbe studiarla un po’ più fra noi stessi.

Augusto Cavadi

domenica 14 ottobre 2012

La politica eticamente inspirata secondo Mounier


“Repubblica – Palermo”
14.10.2012

Luciano Nicastro

PROFEZIA E POLITICA IN E. MOUNIER
Il pozzo di Giacobbe
Pagine 206
euro 20

“Profezia e politica sono stati sempre ritenuti due poli opposti e inconciliabili. L’una, annunciando un futuro che non c’è, si pone su una dimensione utopistica ed è stata considerata una evasione spiritualistica. La seconda è ritenuta invece la via dura dell’impegno concreto nel presente, un’arte difficile da apprendere ed esercitare per l’efficacia e il successo”: l’esordio del volume Profezia e politica in Emmanuel Mounier, del docente siciliano Luciano Nicastro, rappresenta bene la questione a cui il filosofo francese Mounier (1905 – 1950) ha risposto con gli scritti e con la breve, ma intensa, vita. Egli ha infatti proposto (come alternativa al capitalismo, al comunismo e alla stessa socialdemocrazia) il “personalismo comunitario”, una nuova “antropologia relazionale” quale “fonte e radice di un’etica della corresponsabilità politica” nella quale si intreccino, in una sintesi inedita, essere e avere, singolarità personali e vita comune, sguardo sull’eternità e attenzione alla quotidianità temporale, fede intima e laicità pubblica. L’autore vede acutamente nella “Terza Via” di Mounier (che propone di denominare “socialismo bianco”) il “nucleo strategico del pensiero utopico del Novecento”: un progetto che i politici contemporanei, specie se cattolici, si stanno impegnando a tradurre in pratica. O forse non tanto.

Augusto Cavadi

giovedì 11 ottobre 2012

Una moschea a Palermo anche senza i soldi dello sceicco


“Repubblica- Palermo”
10.10.2012

PALERMO HA BISOGNO DI UNA MOSCHEA
ANCHE SENZA I MILIARDI DELLO SCEICCO

Accettare due miliardi di euro di investimenti da parte di uno sceicco islamico in cambio della costruzione di una moschea a Palermo sarebbe senz’altro un buon affare. Ma che tristezza se si dovesse dare l’impressione all’opinione pubblica che la nostra amministrazione comunale – in ultima analisi la nostra città – concede come merce di scambio un diritto fondamentale! Che amarezza se si dovesse poter ipotizzare, a torto o a ragione, che per avere una sinagoga o un tempio buddhista dobbiamo attendere che qualche miliardario ebreo o cinese atterri sull’isola per proporci l’affare!
So molto bene che convinzioni del genere non sono condivise da tutti. Solo tre giorni fa ho ricevuto la cortese telefonata di un lettore che mi chiedeva per quali ragioni dovremmo relativizzare “i sacri confini della patria” e praticare l’accoglienza, non solo morale ma addirittura materiale, di immigrati provenienti da altre civiltà. Sul momento ho saputo rispondere che non riuscirei ad accontentarmi di una piccola patria come l’Italia o la stessa Unione Europea e che, in quanto cittadino del mondo, sono convinto che i confini della patria coincidano con i confini del pianeta. Ma ci sono ragioni più oggettive e meditate per sostenere che una moschea a Palermo non è un optional.
Una prima ragione, di ordine generale, è che - come ricordava don Ernesto Balducci (di cui quest’anno si è celebrato il ventennio dalla morte) - le sfide del nostro tempo (dall’energia atomica alla manipolazione genetica del DNA, dai dissesti geologici all’inquinamento atmosferico) impongono una logica di solidarietà mondiale, rendono “realistica” l’utopia di una cooperazione internazionale. L’umanità è nella condizione oggettiva di salvarsi o perire complessivamente.
Una seconda ragione, di ordine più specifico, è che - come non si tanca di ribadire Hans Küng – non ci può essere pace nel pianeta se non c’è pace fra le religioni: esse sono delle bombe simboliche, ma non per questo meno pericolose sul piano pratico, che possono coinvolgere in eventuali deflagrazioni intere società. Spade a due tagli, possono fare molto bene o molto male: solo una conoscenza e uno scambio reciproco possono netralizzarne gli effetti negativi e valorizzarne le risorse positive.
Ma, in Sicilia, abbiamo almeno una terza ragione. Passeggiando per il centro storico di molte città - non solo di Palermo – abbiamo le prove evidenti dell’infondatezza della teoria delle radici cristiane dell’Europa. Sì, Roma e il cristianesimo hanno improntato di sé architettura e letteratura, pittura e musica: ma si tratta di una delle tante radici della nostra civiltà. Prima del cristianesimo abbiamo recepito l’influenza di Atene e di Gerusalemme (la filosofia greca e la religione ebraica); dopo il cristianesimo, l’influenza de La Mecca. Cosa sarebbero - senza la presenza araba - le nostre cattedrali, i nostri mercati, i nostri agrumeti, la nostra cucina, il nostro artigianato, la nostra stessa lingua? Fare spazio all’islamismo (che solo una cieca ignoranza fanatica può identificare con il fondamentalismo aggressivo di alcune minoranza armate) non è dunque un gesto di magnanimità, ma di giustizia e di recupero di pezzi essenziali della nostra identità. I sedicenti tradizionalisti che si oppongono al multiculturalismo non sanno di essere poco tradizionali: se lo fossero davvero, andrebbero ancora più indietro nella storia. Sino alle spalle della Controriforma e di quella disastrosa persecuzione ad opera dei sovrani iberici che, nel XV secolo, costrinsero migliaia di onesti artigiani e acuti intellettuali - sia ebrei sia musulmani - a scegliere fra l’esilio e la conversione (forzata, dunque spesso ipocrita) al cattolicesimo.

Ci vediamo sabato 13 ottobre 2012 a Villa D’Almé (Bergamo)?


Sabato 13 Ottobre 2012, ORE 17.00
presso la CASCINA DEL RONCO
Via del Ronco Bassi, 13 - VILLA D’ALME’
(accanto al campo sportivo comunale)
LIBERA, Coordinamento Provinciale di Bergamo
organizza l’incontro

EDUCARE ALLA LEGALITA’

con
AUGUSTO CAVADI
Filosofo, giornalista, teologo, docente di filosofia a Palermo,
presidente della Scuola di Formazione Etico Politica “Giovanni Falcone” di Palermo.

Per informazioni guarda il volantino, visita il sito di Libera Bergamo www.liberabg.it oppure visita la pagina Facebook del Coordinamento di Libera Bergamo
LIBERA - Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie - Coordinamento Provinciale di BERGAMO

mercoledì 10 ottobre 2012

Ci vediamo venerdì 12 ottobre (mattina) ad Abano Terme?

Terrò, dalle 9 alle 11, una conversazione con Mario Ghidoni su alcuni interrogativi imposti dall’attuale crisi economico-sociale nell’ambito di un corso di formazione per sindacalisti della Filca - Cisl presso l’ HOTEL TERME INTERNAZIONALE - VIALE MAZZINI, 5.

Ci vediamo venerdì 12 ottobre (sera) in Val Camonica?


Venerdì 12 Ottobre 2012
alle ore 20,30
presso la Biblioteca Comunale di Pisogne (Brescia)
presenterò - su invito del Coordinamento di “Libera” della Val Camonica -

Il Dio dei mafiosi

(San Paolo, Milano 2009)

domenica 7 ottobre 2012

Due racconti di Salvatore La Porta


“Repubblica – Palermo”
7.10.2012

IL BAR NOIA

Salvatore La Porta

UN POSTO ASCIUTTO
Villaggio Maori Edizioni
Pagine 45
euro 4

Di Salvatore La Porta, giovane scrittore catanese, avevo letto a suo tempo – e mi aveva quasi stregato – il pirandelliano In morte di Turi (rivisitazione letteraria di un episodio di cronaca, uno scambio di cadaveri, effettivamente avvenuto a Mineo). Per i tipi della stessa casa editrice è uscito da poco un altro suo racconto, un po’ più breve ma non meno intenso: Un posto asciutto. Ambientato in un bar di piazza Duomo ad Ortigia, esso fotografa, in maniera realistica e poetica a un tempo, la monotonia delle giornate di lavoro massacrante dei lavoratori siciliani occupati nel turismo (specie quando si dipende da un padroncino infelice che “per due euro in più, se la farebbe mettere nel culo…” e non si sperimenta alcuna solidarietà politica e sindacale ): una monotonia che cancella ogni prospettiva di vita affettiva e sociale ‘normale’, stritola gli animi più delicati, come il protagonista Seby, e - quel che è peggio – li abbrutisce sino a indurli a gesti insensati, infantili, dalle conseguenze tanto tragiche quanto impreviste. Morale della favola (se di morale si può parlare in testi amari come questo): quando la quotidianità è dura ed ingiusta, leggere Dostoevskij o Hemingway può fare molto male. La letteratura, infatti, affina la sensibilità e, perciò, esaspera la nostra capacità di soffrire oltre i limiti dell’umana sopportabilità.

Augusto Cavadi