lunedì 31 dicembre 2012

Maria, madre di Gesù, e la sapienza dei pastori


Secondo il calendario liturgico della Chiesa cattolica romana, domani 1 gennaio si farà memoria della Madonna. “Adista” mi ha chiesto un commento al brano di vangelo che sarà letto nelle chiese (Luca 2, 16 - 21) per la sua rubrica “Fuoritempio” (”Commenti al Vangelo di chi è ’svestito’: senza paramenti, dotrina e gerarchie, ma non per questo ’senza Dio’ “).
Ve lo riproduco con i miei auguri… urbi et orbi.

“Adista”, 15. 12. 2012
FUORITEMPIO

La sapienza dei pastori

Celebrare Maria in quanto “madre di Dio” non è per nulla agevole. Se il cristiano ha attinto dal messaggio di Gesù stesso la passione per la verità, non può fare finta che le formulazioni dogmatiche tradizionali non sono entrate in crisi e non allontanano, anziché avvicinare, la gente all’esperienza di fede. Che significa, infatti, questo titolo mariano? Che una donna ha ospitato nelle viscere un essere unico e ineffabile. Gesù Cristo, infatti, sarebbe la seconda Persona della Trinità che, “non cessando di essere ciò che era, ha iniziato ad essere ciò che non era”: continuando a sussistere nella originaria natura divina, avrebbe acquisito anche la natura umana. Il suo “io” sarebbe esclusivamente divino: per miracolo, poi, avrebbe acquistato anche un’intelligenza, una volontà e un corpo umani. Una Persona divina, appunto, con due nature: una divina ed una umana.
Approfitto del privilegio di parlare da laico, senza pulpiti e senza cattedre: se le chiese non sono ancora più spopolate è grazie al fatto che ormai i cattolici non sanno che cosa comporterebbe davvero l’adesione a questo genere di definizioni dogmatiche. Se lo sapessero e fossero messi davanti all’aut-aut (o accettare il koan del Dio-uomo o restare esclusi dalla comunione ecclesiale), la maggior parte resterebbe tagliata fuori. Li salva l’ottavo sacramento: l’ignoranza del catechismo ufficiale. Infatti, anche grazie al silenzio strategico della catechesi ordinaria su questi temi, si può essere ariani senza saperlo e senza vederselo rinfacciare come una colpa. Intendo – pensando al prete egiziano Ario del IV secolo - che si può credere in Gesù come Dio in senso figurato, metaforico, ma dal punto di vista ontologico veramente ed esclusivamente una persona umana, sia pur illuminata e animata dal Soffio dell’Eterno. E che dunque Maria sia stata una donna coinvolta, storicamente e faticosamente, nell’avventura di un figlio - tale nel senso ordinario della parola - che ha identificato la sua causa con il Progetto del Dio d’Israele.
Una simile prospettiva – bollata come eretica, ma statisticamente maggioritaria nella consapevolezza media del popolo di Dio – non attenua in nulla la gratitudine e la devozione verso la madre del Liberatore. Se mai, l’accresce. E’ più facile – infatti – seguire passo passo un figlio che, in ipotesi, si sa concepito miracolosamente e dotato di poteri soprannaturali o un figlio di cui si conosce l’intrinseca fragilità umana? Se Maria ci viene proposta come modello di fede, ciò è molto più plausibile se ella stessa ha esercitato la fiducia contro ogni evidenza: se non ha maledetto un figlio testardamente proiettato verso il Regno di Dio ma, meritoriamente, gli è stato accanto in vita e in morte.
Il brano evangelico ci svela uno dei segreti di questa fedeltà di Maria : sin dai primi giorni della sua esperienza materna, ha saputo osservare ciò che accadeva al figliuolo e “conservare tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. Badiamo bene: Luca asserisce questo a proposito di ciò che, “pieni di stupore”, avrebbero detto del bambino in fasce dei “pastori”. Maria è dunque donna di ascolto nel senso più ampio: non si limita ad un ascolto selettivo (ciò che possono dire sapienti stranieri o dottori della Legge locali), ma apre le orecchie della testa, della mente e del cuore anche a categorie sociali considerate marginali (e, sappiamo, anche tendenzialmente peccatrici perché aduse a eccessiva familiarità con animali).
Forse - oggi come ieri - per capire l’identità di Gesù e il suo messaggio salvifico dobbiamo farci attenti alla voce dei “pastori”: di chi sperimenta la durezza del lavoro diurno e notturno, lontano dai propri affetti, gratificato da pochi guadagni e molti pregiudizi sociali. Gli impoveriti del pianeta non sono l’unico “luogo teologico” dove imparare a credere: ma certo costituiscono un luogo imprescindibile. Una relazione con l’Assoluto che voli al di sopra della carne dei fratelli più sfortunati è senza alcun dubbio una relazione illusoria, alienante.

Augusto Cavadi

domenica 30 dicembre 2012

Se la chiesa siciliana rifiutasse i regali di Lombardo...


“Repubblica – Palermo”
27.12.2012

SE LA CHIESA SICILIANA RIFIUTASSE I REGALI DELLA GIUNTA LOMBARDO

Secondo la Gazzetta ufficiale della Regione siciliana, la giunta precedente all’attuale ha stanziato - tra la fine di maggio e la fine di settembre del 2011 - otto milioni di euro da distribuire a parrocchie e oratori per la manutenzione delle chiese, per i seminari, per le attività degli istituti cattolici. Non ho la competenza per valutare caso per caso l’opportunità di questi finanziamenti, ma si sa abbastanza su alcune tendenze generali degli ultimi decenni per nutrire più di un interrogativo. Per esempio il calo di vocazioni religiose e il conseguente svuotamento dei seminari rendono difficilmente intelligibile lo stanziamento di 435 mila euro per il seminario vescovile di Piazza Armerina; così come la frequenza con cui gli istituti religiosi vengono adibiti a usi secolari (alberghi, centri per convegni, scuole private, ricoveri per anziani…) rende perplessi quando si legge che sono stati stanziati 350 mila euro per la “costruzione di un fabbricato a servizio dell’Istituto Servi del Cuore Immacolato di Maria” a Marsala.
E’ nota l’obiezione più immediata: nello stesso periodo, la stessa giunta capitanata da Lombardo, non ha distribuito altrettanto denaro per “indennità di presenza” e “indennità di risultato” a funzionari e impiegati regionali dagli stipendi più che sufficienti, per consulenti esterni e per convenzioni varie? E’ chiaro che gli sprechi sono tutti odiosi, mascherati o meno di legalità formale. Ed è chiaro che su questo sarà giudicata la nuova amministrazione Crocetta. Ma proprio dalle comunità cristiane, che si identificano come discepoli di un Predicatore senza potere e senza ricchezze, ci si aspetta un supplemento di trasparenza e di correttezza sostanziale. L’ex vescovo di Trapani mons. Giuseppe Micciché, qualche anno fa, invitò i suoi preti a rifiutare le sovvenzioni regionali perché, a suo parere, miravano a condizionarne la libertà (e in uno scritto, reso pubblico senza il suo volere, lamentava la scelta di altri suoi colleghi vescovi di opinare diversamente sì da “vendere la primogenitura per un piatto di lenticchie”).
Ammettiamo però che questi finanziamenti siano non solo legali, ma anche equi; e ammettiamo che Lombardo e i suoi assessori, benché dimissionari, abbiano agito non per clientelismo elettorale, ma per puro senso di solidarietà sociale. Ebbene, anche in questa ipotesi, un gesto clamoroso di restituzione dei finanziamenti pubblici - per devolverli a favore degli strati più colpiti dalla crisi attuale – avrebbe un significato immenso. Sarebbe un messaggio molto più eloquente di tante prediche rituali, di tanti appelli cartacei che nessuno legge né tanto meno interiorizza. Forse, paradossalmente, sarebbe offrendo gli appartamenti destinati ai seminaristi e ai novizi (per ora vuoti) a chi non ha casa, che man mano arriverebbero nuove “vocazioni”: magari ragazzi e ragazze un po’ meno affezionati alla recita quotidiana del rosario, ma sicuramente più desiderosi di vivere le beatitudini evangeliche come occasione di promozione umana e cristiana della società. Una idea balzana, irrealistica? Forse non tanto. In questi mesi la Chiesa ortodossa greca ha compiuto un gesto profetico del genere a favore del bilancio statale della nazione a noi geograficamente – e non solo – vicina. E nella storia di Palermo, sia pure dopo decenni, è ancora viva la memoria di preti, come il salesiano don Rocco Rindone, che mise a disposizione dei senza-tetto i locali dell’oratorio Santa Chiara a Ballarò.

Augusto Cavadi

giovedì 27 dicembre 2012

Qualche considerazione sul parroco di Lerici e il femminicidio


Invitato, cortesemente, dalla redazione del quotidiano on line www.mezzocielo.it (la stessa che cura il trimestrale cartaceo “Mezzocielo”) ad esprimere un parere sulla recente polemica, ho inviato l’intervento che riproduco.

“Mezzocielo.it”
Quotidiano di cultura, politica e ambiente pensato e realizzato da donne.
27.12.2012

Il parroco, le donne e il cattolicesimo sessuofobico

Lo dico subito, anche a costo di impopolarità: don Piero Corsi, il parroco di San Terenzo a Lerici (La Spezia) autore del volantino su “Le donne e il femminicidio”, è una vittima e solo conseguentemente un colpevole. Vittima di una cultura maschilista, sessuofobica, castrante che domina in Europa dal XVII secolo ad oggi. A me fa molta più pena che rabbia. Quanto deve essere infelice, represso, un uomo per dire che le donne devono fare “autocritica” davanti al “fenomeno che i soliti tromboni di giornali e tv chiamano appunto femminicidio” ? Chi ha frequentato ambienti clericali avrà sentito, almeno una volta, raccomandarsi di non guardare direttamente una donna negli occhi “per evitare che Satana possa entrare nell’anima”. E infatti un prozio prete di Niscemi non ha mai più fissato nel volto mia madre - sua nipote – una volta compiuti i 14 anni. Ciò premesso, la gravità oggettiva dell’evento non muta di un centigrado. Monsignor Palletti, vescovo della diocesi interessata, ha fatto bene a ordinare con fermezza la rimozione del tatzebao (“In nessun modo può essere messo in diretta correlazione qualunque deprecabile fenomeno di violenza sulle donne con qualsivoglia altra motivazione, né tantomeno tentare di darne una inconsistente giustificazione”), ma sopprimere un sintomo non significa curare una condizione patologica. In quanto credente nel vangelo e teologo laico sarei del parere di fare attenzione a ciò di cui il manifesto è solo una spia: a quell’iceberg di cui certe stronzate sono solo la punta emergente.
Più che una scheggia impazzita, mi preoccupa quel vasto mondo sommerso del cattolicesimo italiano che – esattamente come don Corsi, ma senza la sua sfacciataggine – ritiene che “le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni”. E’ un mondo di pacifici nonni, di giovani che studiano o lavorano. E di donne, di tante donne di ogni età e condizione sociale che sono - nei confronti delle sorelle ferite o uccise - più crudeli degli stessi maschi.
Che fare? La strategia più radicale sarebbe tornare a leggere il Nuovo Testamento con occhi critici, informati. Riscoprire la figura autentica di Gesù di Nazareth, quel profeta ambulante che non solo parlava in pubblico con le donne (come la Samaritana presso il pozzo d’acqua), ma si attorniava di discepole che l’accompagnavano nelle sue peregrinazioni. E non nascondeva il suo lato femminile, la sua “anima” in senso junghiano, senza vergognarsi di piangere constatando il fallimento del suo tentativo di raccogliere i figli perduti di Israele “come una chioccia prova a radunare i pulcini sotto le ali”. La psicanalista Hanna Wolf potè scrivere il suo splendido saggio su “Gesù, la maschilità esemplare” . Ma riscoprire il Gesù delle origini è pericoloso: si rischia di scoprire che cosa pensava davvero dell’accumulazione del denaro, dell’esercizio del potere, della corsa al successo, della corresponsabilità nei confronti dei soggetti deboli e degli strati sociali sfruttati. Per questo temo che, alla fine, si preferirà seppellire nell’oblio l’episodio del parroco di San Terenzo, ridotto a mero incidente di percorso.

Augusto Cavadi

mercoledì 26 dicembre 2012

La festa della “Sacra famiglia” di Nazareth: qualche perplessità


Su “Adista” del 15.12.2012, per la rubrica “Omelie fuori dal tempio”, è stato ospitato un mio commento al brano evangelico della “Sacra famiglia”.

LA SANTA FAMIGLIA E L’EDUCAZIONE ALLA LIBERTA’ 
COMMENTO ALLA LITURGIA DEL 30 DICEMBRE 2012

A prima vista, la festività odierna presenta qualche aspetto paradossale: viene offerto, a modello delle famiglie, una famiglia in cui – secondo la dogmatica cattolica - il padre (Giuseppe) non è vero padre; la moglie (Maria) non è vera moglie e il figlio (Gesù), in quanto persona divina, pre-esiste da sempre ai genitori. Per fortuna - direi meglio: per grazia di Dio – i vangeli non chiedono di accettare queste acrobazie teologiche, o per lo meno non di accettarle letteralmente come informazioni ‘oggettive’. La pericope odierna, poi, scorre su un registro estremamente realistico: vi si respira un’aria molto terrena, non priva di particolari imbarazzanti.
Imbarazzante, infatti, risulta – agli occhi di una certa retorica familistica che vede in Gesù adolescente il prototipo del ragazzino docile come una marionetta al volere dei genitori – la sua decisione di eclissarsi senza permesso dalla comitiva per sedersi nel tempio, “in mezzo ai maestri della Legge”, ad ascoltarli e a interrogarli. Non meno spiazzante la giustificazione, che Luca mette sulle sue labbra, alle rimostranze della madre angosciata: “Non sapevate che io mi devo occupare di ciò che appartiene al Padre mio?”. Catechesi e omelie sono zeppe di esortazioni ad obbedire, a rispettare le regole, ad attenersi ai propri ruoli: ma questa “legalità”, alla luce del messaggio evangelico, è un valore ultimo? O non è piuttosto subordinato alla qualità dei comandi e dei divieti, alla sensatezza delle norme positive? Brani come quello odierno ci delineano una teologia della contestazione non meno che dell’obbedienza; del dissenso critico non meno che del consenso abitudinario. Sono - come dire ? – il fondamento biblico di battaglie, quali l’obiezione di coscienza al servizio militare (ricordiamo don Milani ed il suo L’obbedienza non è più una virtù), che la chiesa istituzionale troppo spesso trascura. Quando addirittura non le contrasta.
Se la “sacra” famiglia non rientra negli stereotipi del “Mulino bianco”, ma vive - come tutte le famiglie vere, effettive – relazioni complicate, tensioni dialettiche, momenti di intesa e di incomprensione, tutto ciò non toglie meriti a nessuno. Anzi, rende ancor più ammirevoli i suoi componenti. Provo a spiegarmi prendendo a prestito le fila argomentative di una maestra, personalmente agnostica, che mi è molto cara. Gesù - sin da ragazzo e ancor più nettamente da adulto – si dimostra un soggetto autonomo, capace di opinioni anticonvenzionali, determinato ad incarnare nella quotidianità i suoi ideali: una simile personalità emerge come un fiore nel deserto? O non è piuttosto il frutto e il sintomo di un’educazione sapiente? Uomini e donne oscillanti fra passività e ribellismo sono il prodotto di quella che Alice Miller denomina “pedagogia nera”: una pedagogia repressiva, autoritaria senza autorevolezza, umiliante. Il Nazareno, né remissivo (segue ciò che gli sembra la volontà divina su di lui) né sterilmente arrogante (a missione compiuta, riprende docilmente il suo posto all’interno della struttura familiare), è la prova più eloquente di essere stato educato con tatto, con intelligenza, con amorevole delicatezza. Il carattere di Gesù è il motivo più serio della nostra ammirazione verso i suoi genitori. Giuseppe e Maria, di cui così poco sappiamo dal punto di vista biografico, meritano apprezzamento non per improbabili astinenze sessuali, bensì perché hanno generato e allevato e educato un figlio la cui intelligenza e la cui costruttiva intraprendenza sono state oggetto di stupore da parte dei dottori del tempo. Imitarli significa interrogarsi ogni giorno se, verso i nostri figli ed alunni, riusciamo a testimoniare lo stesso mix di fermezza e di comprensione, di propositività e di libertà. Solo così le nostre famiglie - biologiche o di elezione – saranno davvero “sacre” (o, più pertinentemente, “sante”): secondo il progetto originario divino e, perciò, imperfette ma in cammino verso la maturità umana realisticamente accessibile su questa terra.

Augusto Cavadi

lunedì 24 dicembre 2012

Attenti non solo ad uccidere, ma anche a rubare...

“Repubblica – Palermo”
23.12.2012

RECENSIONE DEL VOLUME:

Massimo Vinci
IL PIU’ GRANDE DJANGO DELLA STORIA
Villaggio Maori Edizioni
Pagine 29
euro 3

Dell’io narrante di questo racconto (Il più grande Django della storia), a firma del giovane scrittore catanese Massimo Vinci, non conosciamo il nome autentico, ma solo lo psedudonimo - Antonio Luis De Teffé Von Hoonholtz – a cui intesta le automobili prima di portare a termine le sue missioni professionali di killer mercenario. Un killer lucido e freddo (“ Le mie azioni sono sempre state pulite e puntuali. Un berasglio da colpire, un bersaglio colpito. Due bersagli da colpire, due bersagli colpiti. Mai una sbavatura, mai un errore”) che, però, questa volta si trova davanti un’impresa inedita: assassinare, a spese della vittima stessa, un aspirante suicida. Superate (per la verità senza eccessivi travagli) le pur comprensibili remore morali, il professionista della morte porta a termine il compito ma l’incontro casuale con un’inglesina, a cui decide di sottrarre la valigia, gli rovina il seguito. La breve, intrigante, narrazione procede a ritroso, come per flashback : il lettore scopre che l’esito era stato anticipato nel primo capitolo, ma ovviamente può gustarselo solo quando arriva all’ultima riga dell’ultimo capitolo. Morale (morale ?) della favola: se mettete cura nell’assassinare la gente, non siate superficiali nel derubarla. Potreste evitare la galera per omicidio e scivolare su una buccia di banana per furto…avventato.

Augusto Cavadi

domenica 23 dicembre 2012

Basta un “concorsone” per avere bravi insegnanti?


“Repubblica – Palermo” 23.12.2012

NON SOLO CONCORSI PER AVERE BRAVI PROF

Anche in Sicilia è scattato il “concorsone” per offrire a tanti laureati una possibilità di realizzare la propria aspirazione professionale (almeno in quei casi in cui l’insegnamento è scelto per vocazione, non per ripiego). Anche i non-addetti ai lavori hanno appreso che si arriverà in cattedra dopo aver superato tre filtri: un test al computer, uno scritto e un orale. Se tutto funzionerà a meraviglia, arriveranno in cattedra i candidati più preparati dal punto di vista disciplinare. Sarà abbastanza? Se si trattasse di assegnare posti di “ricercatori”, la risposta sarebbe affermativa. Ma gli insegnanti, che certamente devono essere attrezzati culturalmente e svegli intellettualmente, hanno un compito che travalica - e di molto – l’ambito cognitivo. Devono essere anche didatti e persino educatori. Che significa, in concreto?
In quanto didatti, devono non solo conoscere i contenuti disciplinari, ma anche saperli trasmettere (o, più precisamente, comunicare). E le due qualità non sono per nulla identificabili. Abbiamo conosciuto tutti, nelle nostre carriere scolastiche, docenti preparati nelle proprie materie ma del tutto incapaci di esporle in maniera chiara, graduale, accattivante, coinvolgente. E’ come ricorrere ad un cattedratico universitario, celebre per le sue pubblicazioni scientifiche sull’odontoiatria, che non sappia cavare un dente senza fare sconvolgere il paziente.
Ma la scuola non è solo un presidio contro l’ignoranza: è anche un’agenzia educativa. In quanto educatori, sugli insegnanti pesano delle responsabilità enormi. Che lo vogliano o meno, rappresentano - come i genitori – dei modelli di comportamento che incidono sulla formazione del carattere degli alunni a livello conscio e, ancor più, subliminare. Che disastri può provocare un insegnante instabile psicologicamente, umorale, oscillante secondo le giornate fra permissivismo e legalismo, incapace di assicurare alla classe un clima di serietà e di serenità ? Ancora di più: iniquo nei giudizi perché condizionato da antipatie e simpatie, da pressioni esterne al rapporto con l’allievo, da buonismi inopportuni o da ventate di giustizialismo? Che influenza morale e civica può esercitare un docente abitualmente ritardatario, facile all’assenteismo, che svolge con aria annoiata le lezioni , corregge i compiti in maniera approssimativa? Peggio: che non accetta nessuna forma di confronto né di critica, che non favorisce il dialogo degli alunni fra di loro, che si rifiuta di “rubare tempo” alla matematica o al greco per parlare di un avvenimento, vicino o lontano nello spazio, che ha interrogato le coscienze dei suoi giovani interlocutori? Kant si vantava di non insegnare pensieri, ma a pensare; Einstein di non insegnare nulla, ma di mettere gli altri in condizione di imparare da sé.
Se questo schizzo ha un qualche fondamento, i metodi di selezione e di reclutamento del personale docente dovrebbero essere profondamente rivisti. I vincitori di concorso dovrebbero entrare nei ruoli a tempo indeterminato solo dopo tre anni di effettivo tirocinio, assistito da docenti anziani e passibile di un giudizio anche severo. Certo così entrare nella scuola sarebbe impegnativo come oggi lo è entrare in magistratura o in aereonautica civile: salterebbe il patto perverso che, dalla prima Repubblica a oggi, con la imperdonabile complicità dei sindacati, ha legato Stato e professori (l’uno ha aperto le porte senza troppi filtri iniziali e senza nessun controllo in itinere, gli altri si sono accontentati di stipendi ridicoli e di una professionalità senza prospettive di carriera nel proprio ruolo). Avremmo in cattedra professionisti preparati, bravi a insegnare, non manifestamente inadatti a educare: ma forse sarebbe una rivoluzione che nessuna società, e nessun ceto politico, si può permettere senza rischiare degli assetti ormai incancreniti.

Augusto Cavadi

giovedì 20 dicembre 2012

“Diogene”, trimestrale di “filosofia per tutti”…


…dal numero di Dicembre 2012 è COMPLETAMENTE rinnovato.
Volete sapere di che si tratta? Andate sul sito www.diogenemagazine.eu
Volete riceverne una copia cartacea, gratuita, a casa per visionarlo? Segnalatemi il vostro indirizzo postale.
La direzione è stata assunta da Mario Trombino.
La redazione è stata completamente rinnovata (fra gli altri, ci siamo dentro Serena Passarello, Francesco Dipalo ed io).
L’abbonamento è di soli 25 euro per un anno intero (4 numeri): se poi si acquista un certo numero dei volumi dalla libreria Libreria filosofica on line (www.libreriafilosofica.it) è addirittura gratuito.

martedì 18 dicembre 2012

La violenza dello Stato, la politica e la nonviolenza


“Madrugada”, n. 88, dicembre 2012

La quarta “puntata” della mia rubrica “La politica”

POLITICA E NONVIOLENZA

La gestione dello Stato

Come abbiamo osservato nelle riflessioni precedenti, la politica è nata e vive prima ed oltre lo Stato moderno; ma, di fatto, dal XV secolo ad oggi - almeno in Occidente – essa è anche, e soprattutto, gestione dello Stato. E’ l’arte di manovrare - per il bene comune o per gli interessi privati di individui e/o di ceti sociali – le istituzioni (parlamento, governo e magistratura in primis).

Lo Stato è violento

Gestire, manovrare lo Stato e le sue articolazioni istituzionali: ma se lo Stato è la macchina che possiede in un determinato territorio “il monopolio della violenza” (Max Weber), non è forse la politica l’arte di esercitare “violenza”? La questione si sposta di poco, stemperandosi senza dissolversi, se si traduce la formula tedesca di Weber con “forza legittima”. Lo Stato - anche il più democratico, il più razionale, il meglio governato – funziona solo se è in grado di imporre delle norme, di condizionare i comportamenti dei cittadini, di difendere i confini dai nemici esterni, di imprigionare/processare/condannare/punire i trasgressori delle leggi: e di fare tutto ciò in esclusiva, dunque impedendo che altri soggetti lo facciano in vece sua o in concorrenza con esso (come avviene nel Meridione italiano con le cosche mafiose o in America Latina con gli squadroni della morte). Nel dna della politica, in quanto “affare di Stato”, è inscritta una logica di tensione e di conflitto che solo una soluzione anarchica sembrerebbe in grado di sradicare realmente.
Dico subito che l’utopia anarchica, nella misura in cui è l’altra faccia dell’autogestione sociale, è un’utopia irrinunciabile: sono convinto che qualsiasi statista, se minimamente onesto con sé stesso, sa “di che lacrime grondi e di che sangue” l’esercizio del potere politico statuale e lavori per rendere il Mostro progressivamente più leggero, meno invadente. Meno mostruoso. Tuttavia, nella storia collettiva come nella vita individuale, i tempi sono decisivi. Una condizione ottimale domani potrebbe rivelarsi, nell’oggi, disatsrosa. E viceversa. L’anarchico è un figlio della Rivoluzione francese che non vuole, meritoriamente, spezzare il trinomio libertà-uguaglianza-fraternità (come l’hanno spezzato i regimi liberali senza uguaglianza, i regimi socialisti senza libertà, i regimi cristiani senza né libertà né uguaglianza): ma è un figlio impaziente. Si illude, o vuole illudersi, che siano maturi i tempi in cui la maggioranza - o addirittura la totalità – dei cittadini sappiano autogestirsi senza né violenza né forza legittima.

Per una riduzione della violenza
Che cosa resta da fare, in concreto, al discepolo convinto della nonviolenza (nel senso attivo e combattivo di Gandhi, Capitini, Martin Luther King, Mandela, Tutu)? Innanzitutto impegnarsi, qui ed ora, per la riduzione della violenza. Le cronache registrano ogni giorno esibizioni di violenza da parte delle istituzioni statali (non mi riferisco solo alle forze dell’ordine, ma anche ai mandarini della burocrazia che favoriscono i propri protetti a danno degli ultimi) che sono del tutto superflue. Eccessive. Ingiustificabili.
Ma non basta. Occorre esercitare una critica - teorica e pratica – della violenza che un esame frettoloso giudica irrinunciabile, ineliminabile dalla sfera della politica. La violenza di chi ha i soldi per campagne elettorali spregiudicate, ai danni di candidati limpidi ma sprovvisti di altrettanti mezzi finanziari. La violenza di chi ha i soldi per comprare il voto dei rappresentanti nelle assemblee legislative e deliberative ad ogni livello della piramide statale (nazionale, regionale, provinciale, comunale). La violenza di chi ha in mano tali ricchezze, tali fonti di informazione, tali imprese industriali e commerciali, tali strumenti di corruzione, da potersi permettere il lusso di non ottemperare platealmente a quelle norme che non è riuscito a stravolgere già in sede deliberativa. Senza contare la violenza delle associaioni segrete, delle organizzazioni clandestine, delle cosche criminali che possono condizionare la vita sociale sia “a monte” (quando si tratta di produrre decisioni) che “a valle” (quando si tratta di obbedirvi nella quotidianità). So bene che questi criteri hanno il difetto di essere tanto più validi quanto meno dettagliati esemplificativamente (e libri come Conflittualità nonviolenta del mio amico Andrea Cozzo, edito da Mimesis, aiutano a calarsi dal generico al concreto, raccontandoci episodi storici anche recenti di mediazioni postbelliche, di azioni dirette nonviolente, di esperimenti di difesa popolare nonviolenta). In effetti la nonviolenza in politica - o, in altri termini, la “forza della verità” – entra ed incide solo quando la fantasia dei militanti si scatena e la routine di gesti logori cede il passo a sperimentazioni innovative e coraggiose.

Augusto Cavadi

lunedì 17 dicembre 2012

La Villa romana del Casale a Piazza Armerina


“Repubblica – Palermo”
13.12.2012

VILLA ROMANA DEL CASALE: POCHI CUSTODI, MOLTI UCCELLI

Alla prima occasione utile son voluto ritornare alla Villa del Casale a Piazza Armerina. L’emozione non è stata inferiore alla prima volta, se mai più forte. In poche decine di metri è possibile un viaggio nel tempo di più di venti secoli e, per giunta, paracadutandosi in un’oasi di benessere e di eleganza dell’Impero romano. Non ci sono molti turisti, ma parlano diverse lingue del mondo. Potrebbe essere un’esperienza gratificante come poche. Potrebbe. E invece – come l’anno scorso alla Scala dei Turchi, magico angolo sfregiato da locali – ci sono sempre ragioni per guastarti la festa.
Non sono ancora arrivato alla cassa e un signore chiede alla giovane moglie con bambino di ringraziare un addetto perché li ha esonerati dal pagamento del biglietto. “Non c’è di che” risponde il benefattore: “Davvero generoso con i soldi pubblici” non posso fare a meno di osservare rivolgendomi a chi mi accompagna. Anche noi, muniti di biglietto, entriamo e notiamo che non c’è un percorso per carrozzelle: né per bambini né per disabili. Poi, man mano che esploriamo la meraviglia archeologica, andiamo notando sempre più frequenti mozziconi di sigarette, sacchetti di plastica e di carta, angoli di mosaici dove ristagna acqua piovana. E – soprattutto – cacche di uccelli. Quasi dappertutto. Sono più le stanze sfregiate da deiezioni organiche di quelle esenti. Non sono un esperto, ma ho il sospetto che, marcendo sui pavimenti, questi escrementi non contribuiscano a preservare i mosaici dal deterioramento. Comunque, è già tanto che i visitatori si astengano dagli sfregi (anche le comitive di ragazzini non sempre eccessivamente rispettosi dei monumenti): infatti non vedo in giro neppure un custode che vigili né una videocamera che registri .
Come non chiedersi quanti sono i dipendenti regionali che vengono pagati per accudire alla Villa romana? Come non chiedersi – nel caso fossero insufficienti – quanti sono i ragazzi che hanno studiato restauro e che rientrano nel 40% dei disoccupati intellettuali attuali? Come non chiedersi quali plastici, quali filmati, quali ricostruzioni virtuali in tre dimensioni non si sarebbero approntati in Francia o in Gran Bretagna, in Germania o in Austria, se avessero qualcosa di simile a disposizione? Qui invece – in tutto il percorso – c’è solo una ricostruzione in legno dell’intera area, ma semirovinata e senza indicazioni chiare. A proposito di indicazioni: alcuni leggii predisposti per illustrare le tappe sono vuoti e qualche cartellino – regolarmente predisposto in italiano e in inglese – è talmente al buio che non si riesce a leggerlo. Un cartello avverte del divieto di ingresso in certe zone dove ci sono lavori in corso: forse ne manca uno per avvertire gli operai di non lasciare abbandonati in giro strumenti di lavoro, pezzi di scala in metallo, contenitori di plastica. Un altro cartello invita a non gettare rifiuti per terra: forse sarebbe più convincente se, nelle vicinanze, ci fosse qualche cestino per raccoglierli civilmente.
Quando ci si allontana, si avverte una piccola stretta al petto. Si lascia quel posto incantato con la stessa apprensione con cui si lascerebbero dei bambini in mano a una baby-sitter di cui non ci si fida. Verrebbe quasi voglia di tornarci, silenziosamente, la notte e controllare se questo tesoro a cielo aperto è custodito adeguatamente o se è lasciato in balìa di bighelloni e di tombaroli. Per misurare sino in fondo la madre di tutti gli spread: quell’irresponsabilità abituale che, prima di lasciarsi leggere nei tabelloni elettronici delle Borse, è inscritta nella mentalità di troppi fra noi siciliani.

Augusto Cavadi

lunedì 10 dicembre 2012

Ci vediamo a Bergamo da giovedì 13 a domenica 16 dicembre?

Care e cari amici lombardi,

grazie a Mario, Stefano e Vanni sarò di nuovo a Bergamo per alcuni giorni.
L’occasione è nata da un invito a incontrare, nella mattinata di venerdì 14, degli studenti bergamaschi sulla figura di Peppino Impastato e don Giuseppe Diana.
Oltre a questo incontro ‘riservato’, avrò due momenti pubblici:
* la sera di giovedì 13 , alle ore 21, terrò una conversazione sul tema “Dio, politica e mafia” presso la Fondazione Serughetti La Porta (via papa Giovanni XXIII, 30 - Bergamo)
* la sera di sabato 15, alle ore 21, terrò una conversazione sul tema “La bellezza della politica (specie se laica)” presso la Libreria Terzo Mondo (via Italia 73 - Seriate)
Mi farà piacere sia incontrarvi in una di queste due occasioni sia durante le ore libere delle tre giornate.

sabato 8 dicembre 2012

Meditazione sul senso del natale

Nel numero odierno di “Adista - notizie” (Roma) è stata ospitata una traccia di omelia che mi è stata richiesta per il vangelo di natale (25 dicembre).
La pubblico insieme all’augurio, per ciascuno e ciascuna dei miei “venticinque lettori”, di un natale sereno - soprattutto per quanti hanno bisogno di eliminare le ragioni oggettive di non viverlo lietamente.

______________________
“Adista” 8.12.2012

MEDITAZIONE SUL VANGELO DEL NATALE

Sin dagli inizi il cristianesimo è segnato da un paradosso. Il seme è la parola di un profeta ambulante nella periferia dell’Impero romano: se fosse rimasto tale, non avrebbe perduto la sua semplicità adamantina originaria; ma non avrebbe portato, neppure, frutti nella storia. Così da venti secoli – e chi sa per quanto tempo ancora – il cristiano è felicemente condannato alla dialettica fra fedeltà e creatività: fedeltà ad una purissima testimonianza sorgiva, creatività che traduca quel vulnerabile germoglio in categorie culturali sempre nuove, senza tradirne la sostanza.
L’autore del vangelo secondo Giovanni è tra i primi credenti ad imbarcarsi nell’impresa pressocché disperata: raccontare la novità messianica a un pubblico molto più ampio, e raffinato, degli abitanti del fazzoletto palestinese. Ed eccolo allora abbandonare l’universo simbolico della tradizione midrashica, popolato di angeli e pecorelle, di sovrani orientali e di asini mediterranei, per provare ad assumere le forme di pensiero e di linguaggio dei Greci ( e dei loro ammiratori): “In principio la Parola era; la Parola era alla presenza di Dio, e la Parola era Dio. Essa era presente con Dio in principio. […] E la Parola si fece carne e abitò fra noi. E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria d’Unigenito che viene dal Padre, pieno di amore fedele” (1, 1-2;14).
E’ forse il prodotto di questa inculturazione meno poetico, meno toccante, dei racconti della nascita secodno altri evangelisti? Non saprei. A me riesce commovente questa mossa d’inserire il fatto cristiano in una storia molto più antica e molto più ampia: la storia della ricerca di un Senso delle cose da parte dell’umanità. Nel lontano oriente il Tao; nel vicino oriente la Torah; presso i Greci il Logos: nomi diversi per indicare quel Principio radicale, e luminoso, che – con un sinonimo ormai logoro – potremmo anche chiamare Verità. Una Verità che - specificherà il medesimo testo evangelico – non è una costellazione di idee più o meno organicamente concatenate, ma Via da percorrere e Vita da sperimentare. Che cosa sarebbe l’esistenza, individuale e collettiva, se questa Parola costitutiva dell’universo e della storia non esistesse (fosse solo la proiezione chimerica di un desiderio) o restasse del tutto e per sempre, irrimediabilmente, inattingibile? Ce lo ha spiegato Nietzsche, un pensatore col quale la Modernità cede il passo alla Contemporaneità: “In principio era l’Assurdo; l’Assurdo era presso Dio, anzi era Dio. Questa la parodia più seria che io abbia mai udito”. Se un Senso originario, prima della fondazione di ogni mondo, non fosse, l’universo sarebbe solo un grande deserto senza luna e senza stelle.
Ma l’angoscia davanti allo scenario nichilistico è un motivo sufficiente per asserire, al contrario, che tutto viene dalla Luce e tutto va verso la Luce? In sede di ricerca razionale non basta. Una tesi non può essere preferita ad altre solo perché più confortante. Ma il vangelo, appunto, non è una filosofia (anche se può ispirarne, e ne ha ispirato, tante): è un’intuizione fiduciosa. Esso attesta che degli uomini e delle donne, in cerca come noi del Senso, hanno intravisto nelle parole e nei gesti - soprattutto nel modo di donare lo spirito vitale – di Gesù di Nazareth uno spiraglio nel grande buio che ci circonda. Non perché questo Maestro avesse segreti metafisici da rivelare, ma perché - attraversando come noi e prima di noi l’angoscia del Nulla – si è intestardito a servire. Senza condizioni e senza riserve. Nella sua vita e nella sua morte una Luce rifulse nelle tenebre (e nessuna pagina del vangelo ci obbliga ad escludere che abbia avuto modo di risplendere anche prima, dopo e in altri luoghi): la luce dell’agape, l’agape che è luce. Natale è tante cose, ma non sarebbe tutte queste cose se non fosse – prima di tutto ed essenzialmente – l’interiorizzazione di un’intuizione (e la decisione conseguente di tradurle operativamente): che l’amore gratuito è il senso dell’esistere. Che il vero amore della sapienza è la sapienza dell’amore.

giovedì 6 dicembre 2012

Ci vediamo giovedì 6 a Palermo?



PER UNA CHIESA ANTIPATICA AI MAFIOSI


“ADISTA”, 23.10.2010

Come è possibile che Chiesa e mafia vadano a braccetto? Come si spiega che i mafiosi si considerino persone religiose e soprattutto che la Chiesa tolleri questo connubio? È a partire da questi interrogativi che il filosofo e teologo Augusto Cavadi, autore, fra l’altro, del Dio dei mafiosi (San Paolo, pp. 240, euro 18), ha affrontato - insieme a don Luigi Ciotti e alla sociologa palermitana Alessandra Dino - il tema delle relazioni fra Chiesa cattolica e mafie, al centro dell’incontro organizzato a Roma lo scorso 17 settembre dalla nostra agenzia insieme ad alcune realtà ecclesiali di base (“Sotto le due Cupole. Chiesa, religione mafia”, v. Adista n. 73/10). Se la Chiesa fosse eco del Vangelo di Gesù, è l’idea del teologo palermitano, l’incompatibilità con la mafia sarebbe così evidente da rendere impossibile il connubio; ma la Chiesa cattolica “che cosa ha veramente a che fare con il Vangelo di Gesù?”: è “ancora la comunita’ che rende presenti, efficaci, operanti la sua parola e i suoi gesti?”. Rivedere la stessa idea dominante di Chiesa, di Dio, di Cristo è, secondo Cavadi, imperativo improrogabile se si vuole spezzare questo legame, affinché la Chiesa sia davvero al servizio del Regno di Dio.

PER UNA CHIESA ANTIPATICA AI MAFIOSI
Augusto Cavadi

C’è sicuramente qualcosa che non va se la Chiesa cattolica sponsorizza certi personaggi. Non parliamo neppure dell’atteggiamento di fronte al colpo di Stato in Argentina o, prima ancora, sotto il nazismo. Ma pensiamo a personaggi come Cuffaro, il quale, da presidente della Regione, una mattina ha detto: “Io consacro la Sicilia alla Madonna delle lacrime di Siracusa”. E nessuno dei vescovi ha reagito. Cuffaro viene condannato in primo grado e il papa lo riceve insieme a Casini, e ai due dice: “Affido a voi la difesa dei valori cattolici”. Ho scritto allora sulla Repubblica di Palermo: “Forse sono io che non ho capito quali sono questi valori cattolici, dal momento che vengono affidati a Casini e a Cuffaro!”. Dopo questo articolo Cuffaro mi ha denunciato, chiedendo 20mila euro di risarcimento per il danno da me inferto alla sua immagine di cattolico. Essendo io un professore di liceo, ciò vuol dire che devo regalare a Cuffaro un anno di stipendi. La causa va avanti e nel frattempo lui è stato condannato anche in appello, a 7 anni, 2 in più del primo grado: se la progressione è questa, speriamo che chieda di andare in Cassazione! Se fosse una patologia, si tratterebbe di un episodio, ma, se gli episodi sono ricorrenti, non si può più parlare di un fatto patologico, bensì fisiologico. Non può essere che la presenza di elementi mafiogeni non si trovi solo nei Ruffini, nei Pappalardo, nei preti di cui ci parlava Alessandra Dino, ma nella stessa struttura culturale, nella stessa teologia cattolica?
In una recensione al mio libro, è stato scritto: Cavadi dice che la teologia cattolica produce mafia. Non ho detto questo. Ma produce una visione del mondo che non è assolutamente incompatibile con la mafia, tant’è vero che la mafia riprende da essa simboli, dogmi, riti, pratiche, li fa propri, riconoscendovi un’inquietante somiglianza.

Che i mafiosi scomunichino i cristiani
Allora occorre riflettere su come sia possibile questa conciliazione tra Chiesa e Mafia. Se dovessi terminare qui il mio intervento, rispondendo alla domanda di Alessandra Dino su come Chiesa e mafia possano essere compatibili, direi che, nella misura in cui la Chiesa fosse un’eco del Vangelo di Gesù, l’incompatibilità sarebbe evidente. Ma la Chiesa cattolica che cosa ha a che fare con il Vangelo di Gesù? In questi venti secoli, la Chiesa cattolica è ancora la comunita’ che rende presenti, efficaci, operanti la parola e i gesti di Gesù? I miei amici giornalisti mi chiedono sempre: “Ma tu che ne pensi del fatto che i vescovi non scomunicano i mafiosi?”. Vi confesso che questo problema della scomunica ai mafiosi non mi appassiona. Io, piuttosto, mi chiedo: perché i mafiosi vogliono andare in Chiesa? Ad esempio: a me piace mangiare, quindi non mi verrebbe mai in mente di diventare socio dell’associazione dei  digiunatori; e, se andassi da loro a mangiare, mi butterebbero fuori. La Chiesa cattolica dovrebbe convertirsi al Vangelo e diventare una comunita’ così antipatica ai mafiosi, così alternativa, così altra rispetto al denaro e al potere, da indurre i mafiosi a dire: “Con questi non vogliamo avere nulla a che fare”. Devono essere i mafiosi a scomunicare i cristiani, non il contrario. Se la cultura della Chiesa, è individualista, gerarchica, omofoba, se è un capovolgimento della fraternità e della solidarieta’ evangelica, è ovvio che qualunque forma di organizzazione - prima sono stati il fascismo e il nazismo, oggi la mafia, domani potrebbe essere il leghismo - potrebbe mutuare dal cattolicesimo, non dal Vangelo, alcuni valori come la tradizione, il culto della mediazione, il falso rispetto della donna, l’antropocentrismo violento nei confronti degli animali. L’anno scorso un amico ha pubblicato le lettere di Matteo Messina Denaro (Lettere a Svetonio, Stampa Alternativa), e sono stato invitato alla presentazione del libro, nei pressi di Marsala, dove vive il latitante. “Peccato che non ci sia l’autore - ho detto in quell’occasione - perché vorrei ringraziarlo: finalmente in queste lettere c’è un mafioso che dice ‘io sono ateo e non voglio avere nulla a che fare con i preti’. Sono 150 anni che si attende che i cristiani dicano che non vogliono avere nulla a che fare con la mafia! E non lo dicono”. Questo è il futuro che vorrei, quello di una Chiesa che sia oggettivamente antipatica. Per fare questo bisognerebbe ovviamente rileggere tutta la Teologia cattolica.

Una necessaria revisione
Il concetto di Dio che troviamo nella Bibbia è totalmente diverso da quello che hanno i mafiosi? Il Dio della Bibbia è sempre un Dio padre o è a volte un Dio padrino, violento, vendicatore? Spesso si dice che questa è la visione dell’Antico Testamento. Giuseppe Barbaglio ha scritto interi volumi per dire che l’immagine di Dio nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è quella di un Giano bifronte: vi sono elementi del Dio tenero e paterno nell’Antico come nel Nuovo Testamento, ma vi sono pure elementi del Dio crudele, che condanna all’inferno in maniera irreversibile, anche nel Nuovo Testamento. Analogamente, Luigi Lombardi Vallauri ha scritto un libro in cui dice: “Io sono professore di diritto, ho studiato la dottrina dell’inferno e l’ho trovata anticostituzionale”, perché, per quanto il peccato possa essere grande, la pena deve essere rieducativa, e l’inferno non rieduca; deve essere proporzionale al peccato, e che peccato si deve compiere per essere condannati per l’eternità? Nelle intercettazioni di Bagarella si sente dire: “Ma cosa ti ha fatto?”. “Nulla, deve capire che io sono come Dio, che dà e toglie la vita a chi vuole”. Io mi domando: queste parole Bagarella le dice in quanto mafioso o le ha sentite come le sento io quasi ad ogni funerale, “dobbiamo accettare il fatto che Dio dà la vita e la toglie”? Un Dio che toglie la vita? Non un Dio che soffre perché è morto quel bambino o quella madre di famiglia? Ciò accade quando partiamo da una teologia (cioè da un concetto di Dio) ambigua e non facciamo un lavoro di demitizzazione, di ripensamento critico, anche alla luce di tutte le altre sapienze del mondo. Il cristianesimo non deve solo tornare alle sue fonti, ma deve anche avere il coraggio di accettare le sfide culturali di altre filosofie e teologie che su questi punti pongono domande serie. Io non credo personalmente alla metempsicosi, ma neanche alla possibilità che si sia dannati per sempre dopo una vita così breve sulla terra: deve esserci la possibilita’ di un miglioramento, di una crescita. Ciò per quanto riguarda il Dio Padre, che troppo spesso è un Dio Padrino. E, ripeto, si tratta di fisiologia, non di patologia, non di casi isolati di preti stupidi, suore ignoranti o catechisti impreparati, altrimenti non staremmo qui a discuterne.
Quanto a Cristo, qual è l’immagine che di lui diffonde la Chiesa? Quella bellissima del Pantocrator di Monreale, il Cristo signore e padrone di tutto; quello della Cappella Sistina che respinge i dannati? Che rapporto c’è tra questo Cristo onnipotente e il Gesù di Nazareth che annunciava il Regno di Dio? Il Cristo onnipotente, nella migliore delle ipotesi, dobbiamo adorarlo, ma senza il compito di seguirlo, di imitarlo, di viverne nell’oggi il messaggio. Il Gesù di Nazareth, invece, ci annuncia una beatitudine che non è qualcosa che riguarda l’altro mondo, come talvolta ha interpretato la Chiesa cattolica, o un fatto puramente intimistico. Beati i poveri, quelli che piangono… ma “beati” solo nell’altro mondo e solo spiritualmente. I grandi biblisti ce l’hanno detto chiaro e tondo: Gesù annuncia la beatitudine per i poveri di questa terra, perché ritiene di essere il portatore del regno di Dio che qui e ora, in maniera pubblica, sociale e tangibile, sconvolge la gerarchia dei valori, cosicché, dove c’è violenza, lui porta solidarietà, dove c’è indifferenza, la cura per l’altro, dove c’è dominio, la difesa del povero. Un ultimo accenno alla Chiesa e all’ecclesiologia. Cos’è diventata la Chiesa di Gesù? Ammesso che Gesù volesse una Chiesa… La prima generazione di cristiani ha vissuto la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di tipo democratico, in cui veniva esercitato il senso critico, in cui veniva stimolata la partecipazione. Non una Chiesa verticale fotocopia dell’Impero romano. Da questo punto di vista, rivedere l’idea di Dio, di Cristo, di Regno di Dio, di Chiesa è improrogabile e indispensabile. Perché altrimenti il prete ideale, il martire ideale, diventa quello che muore perché non gli hanno fatto celebrare la messa, perché non gli hanno fatto esercitare le sue funzioni prettamente ministeriali. E il cattolico che abbraccia la lotta per la giustizia, per la libertà, per la dignità degli ultimi, non come un optional o come un qualcosa in più rispetto alla sua missione, ma come qualcosa di intrinseco ad essa? È ad esempio il caso di don Puglisi. Questo è il Regno di Dio e, se la Chiesa non è al servizio di questo Regno, non serve a niente, come aveva già affermato San Tommaso nel Medioevo: chi muore per la libertà e per la giustizia muore per Dio, perché il vero Dio o è libertà e giustizia o non è niente.

lunedì 3 dicembre 2012

Bene comune e Mezzogiorno d’Italia


“Repubblica – Palermo”
Domenica 2 dicembre 2012

Sergio Bastianel (ed.)

EDUCARE AL BENE COMUNE
Il pozzo di Giacobbe
Pagine 134
euro 18

Educare al bene comune (sottotitolo: Una sfida per il Mezzogiorno) raccoglie, a cura di Sergio Bastianel, uno dei più noti moralisti italiani, gli Atti di un convegno svoltosi presso la Facoltà teologica dell’Italia Meridionale. Convegno a cui hanno partecipato, accanto a teologi come Donatella Abignente, esperti di varie discipline: dal sociologo urbano Fabio Corbiserio al giurista Pierpaolo Forte, dal filosofo Giuseppe Cantillo al sociologo del diritto Lucio D’Alessandro. L’intento comune è riscoprire, nel bel mezzo dell’orgia individualistica e privatistica, la categoria del “bene comune”: una categoria antica che, tematizzata per la prima volta da Aristotele, è passata per l’articolo 3 della Costituzione italiana arrivando anche ai documenti del Concilio ecumenico Vaticano II (dall’apertura del quale ricorre il cinquantesimo anno). Quando intellettuali cattolici e “laici” ricentrano l’attenzione su questo insieme di condizioni sociali che favoriscono la fioritura di ogni singolo soggetto, operano certamente un’azione benemerita: ma – ricordava Blaise Pascal nel XVII secolo – non basta fissare le “buone massime”. Si tratta, poi, di “metterle in pratica”. Forse, in tante riflessioni sul ruolo della Chiesa cattolica e dell’Università nel Mezzogiorno, qualche parola in più di autocritica non sarebbe risultata superflua.

Augusto Cavadi

sabato 1 dicembre 2012

Che succede ai miei colleghi insegnanti in agitazione ?


“Centonove”
30.11.2012

I DILEMMI INFANTILI DEGLI INSEGNANTI (ES) AGITATI

Come prevedibile, la rivolta europea contro i tagli alla scuola pubblica è passata pure per la Sicilia. Via internet e per telefono le notizie corrono da una città all’altra, a Palermo ho potuto assistere a più di un’assemblea sindacale di docenti. La prima sensazione è stata di tenerezza: professori e professoresse di ogni età agitati (dopo anni di sopore) dall’indignazione, dai dubbi, dai propositi bellicosi tipici dei loro alunni. “I governi passano, ma tutti ci trattano con i piedi”; “La responsabilità è soprattutto nostra: siamo una categoria disorganizzata. I nostri sindacati proclamano tre o quattro giornate di sciopero diverse, senza riuscire ad accordarsi per una manifestazione unitaria. Così, ogni volta, ci troviamo in quattro gatti o poco più”; “Se scioperano tassisti o farmacisti, i governi si arrendono: se scioperiamo noi, non succede nulla. Anzi, i diretti destinatari del servizio - gli studenti - esultano”. Un sindacalista, tra i più accalorati, urla: “Le vecchie forme di protesta sono ormai logore. Dobbiamo inventarci qualcosa che dia davvero fastidio agli altri!”. Le proposte fioccano e, con la stessa velocità, si spappolano per aria: “Annulliamo i viaggi d’istruzione, così danneggiamo gli operatori turistici”; “Blocchiamo l’adozione dei libri, così danneggiamo l’editoria”; “Cancelliamo i ricevimenti dei genitori, così danneggiamo le famiglie”. A mezza voce, il vecchio docente alle soglie del pensionamento obietta: “Se vogliamo davvero rompere le scatole a qualcuno, continuiamo a fare lezione come ogni giorno: gli alunni non ce lo perdoneranno facilmente…”. Il più delle volte la tempesta si condensa in un bicchierino da rosolio: tuoni e saette producono un documento di protesta (sulla cui punteggiatura si discute mezz’ora) da inviare al ministero e agli organi di stampa. E che, ovviamente, non sarà letto da nessuno.
Davvero non c’è nulla da fare per incidere sulle scelte politiche di un governo? Due piccole cosette ci sarebbero. La prima: contribuire alla composizione di un parlamento decente per competenza e onestà. Ma già da questo punto di vista, gli insegnanti non si differenziano dalla media dei cittadini italiani: quasi metà non vota, più di un quarto vota per il centro-destra e meno di un quarto per il centro-sinistra e la sinistra. Il risultato è un parlamento incapace di esprimere, dal suo seno, un governo e, al massimo, disposto a sostituire l’allegra brigata Berlusconi con una squadra di tecnici seri. Dunque seriamente impegnati a costruire un Paese dai connotati conservatori, liberisti, filo-atlantici, clericali…Accettare, attivamente o astensionalmente, un progetto globale di società e protestare solo quando vengono toccati i propri interessi individuali e corporativi si chiama qualunquismo. Come avvertiva Paolo Borsellino, le proteste si fanno in piazza, ma le rivoluzioni con la matita e la scheda nel segreto dell’urna.
Come educatori, poi, gli insegnanti potrebbero sbilanciarsi anche su un secondo obiettivo: favorire la formazione di nuove generazioni di cittadini, più attenti ai dibattiti politici e meno disposti a vendere il proprio voto (o a tenerselo in tasca con sterile disprezzo verso chi andrà al potere lo stesso, senza certe fette di consenso e anzi grazie proprio a tale astensione). Facendosi scudo di un principio sacrosanto (“niente propaganda elettorale nelle aule”), la stragrande maggioranza degli insegnanti mette in pratica un principio molto meno sacro e molto meno santo: “niente cultura politica nelle aule”. L’andazzo è vecchio: l’analfabetismo politico si trasmette da una generazione all’altra con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. La Costituzione? Tutti l’esaltano, nessuno la legge. Quotidiani e telegiornali? Una perdita di tempo. Saggistica di qualità sui temi storici e contemporanei? Spreco di denaro…Così non solo i docenti, ma un po’ tutte le categorie professionali (che si formano nell scuole), tacciono quando un governo glissa sulla lotta contro l’evasione fiscale, investe cifre astronomiche in armamenti, dilapida risorse per alimentare il clientelismo e il familismo…per poi strepitare quando il medesimo governo - o la sua bella copia subentratagli – gli mette le mani in tasca.
Occuparsi di politica e suscitare nei giovani l’interesse - se non addirittura la passione – per essa: obiettivi troppo semplici per meritare d’essere perseguiti. Meglio illudersi che basta una settimana l’anno di agitazione collettiva per raddrizzare le gambe ai cani. Meglio ignorare che la dimensione politica non è un optional e che, se i cittadini non se ne occuperanno, sarà la politica ad occupare le loro vite. E talora a rovinarle.

Augusto Cavadi