domenica 24 febbraio 2013

"Se qualcuno fa qualcosa..." (Don Pino Puglisi)


Care e cari,
qualche settimana fa avrete letto, su questo blog, il mio articolo su "Repubblica- Palermo" circa il lavoro di riscatto operato da anni a Palermo a favore delle ragazze nigeriane costrette a prostituirsi.
In seguito all'articolo è arrivata una proposta concreta di cooperazione: la estendo a voi tutte e tutti con le parole di un appello redatto dalla mia cara Adriana.
Non tutte e tutti potrete aiutarci finanziariamente (sono tempi davvero duri), ma tutte e tutti potrete socializzare via internet - e non solo - questa proposta operativa.
Vi voglio bene,
Augusto

***

Questo è un appello per tutte le amiche e gli amici incontrati in questi anni.

L’associazione “Pellegrini della terra” si occupa di salvare dalla tratta quante più possibile ragazze africane rese schiave da scellerati e inqualificabili individui.
Possiamo tutti insieme aiutare una di loro. Come?
Innanzitutto frequenterà una gelateria (selezionata da "Addio pizzo") per un apprendistato che durerà  circa quattro mesi. Alla fine di questo percorso tornerà nella sua terra, la Nigeria. Tutto è finanziato (anche grazie all'8 per mille della Chiesa valdese) e lei, in questo cammino,  sarà seguita in tutto e per tutto.
Durante questi 4 mesi dovrà però pagarsi l’affitto e le spese di prima necessità. Qui entriamo in gioco tutti noi: se ci tassiamo mensilmente per 4 mesi possiamo garantirle la serenità per portare a termine questo progetto che la aiuterà a uscire completamente dalla schiavitù. Sembrano paroloni grossi, ma – ahimè – proprio di questo si parla: donne rese schiave.
Con Augusto ci siamo fatti quattro conti
- ci si può tassare con 30 euro al mese (pari a un euro al giorno). Quattro mesi equivalgono quindi a 120 euro.
- ci si può tassare con 15 euro al mese (pari a 50 centesimi al giorno) e in 4 mesi sono quindi 60 euro.
SE dieci  PERSONE DONANO 30 EURO E altre dieci NE DONANO 15, IN UN MESE POSSIAMO GARANTIRE A QUESTA RAGAZZA 450 EURO.
E’ però necessario mantenere l’impegno dei 4 mesi, per essere certi che lei completi tranquillamente l’apprendistato senza il pensiero dell’affitto da pagare o della spesa per mangiare.
Ho bisogno di sapere, il più presto possibile, in quanti siete disponibili e in che misura in modo da comunicarlo a chi si occupa di questa ragazza.
Chi è disponibile può scrivere a me adriana.saieva@alice.it oppure ad Augusto acavadi@alice.it

Grazie a voi tutte/i
Adriana

sabato 23 febbraio 2013

Dizionario di bioetica


E' in commercio il "Dizionario di bioetica" sfornato dalla coraggiosa, giovane, casa editrice siciliana Villaggio Maori.
Alcuni siti lo inviano gratis a casa e, per giunta, con uno sconto consistente: vedi, ad esempio, 
http://www.ibs.it/code/9788898119011/dizionario-bioetica.html

Sono autore di tre voci: Cultura del divieto, Pietà, Superstizione.

Intanto incollo qui la prima delle tre voci (ma spero che acquistiate e leggiate l'intero dizionario).


1. Divieto (cultura del)
Non si conosce nessuna  civiltà priva di tabù. Variano, invece, e di molto, gli oggetti che non si possono toccare, guardare né  - in molti casi – neppure nominare: i cadaveri, certi cibi, il nome dell’Altissimo etc. Nella tradizione occidentale il divieto riguarda spesso la sfera sessuale e riproduttiva. Interessante in proposito l’etimologia di ‘profano’: ciò che non è ‘sacro’ (dunque la quasi totalità dello spazio e del tempo) è definito, più che in positivo, in negativo. Esso è il pro-fanum: ciò che sta davanti, ma per ciò stesso anche fuori, il tempio. Ciò che lega i due ambiti è identicamente ciò che li separa: il gioco del divieto reciproco. Per chi è dentro il recinto è vietato calpestare il suolo profano, proprio come a chi è fuori dal tempio è vietato violarlo (se non a precise condizioni, con precisi limiti, in occasioni determinate).
A cavallo fra il XIX e il XX secolo, Max Weber osservava per il mondo capitalistico ciò che oggi, nel XXI secolo, vale per il mondo tout court (essendo, dopo l’implosione dell’URSS e la strana conversione a metà della Cina popolare, a impronta essenzialmente capitalistica): esso è ormai ‘disincantato’, ‘secolarizzato’. E’ perciò assai logico che un mondo de-sacralizzato sia un mondo in cui si abbassi inesorabilmente il numero e la gravità dei divieti.
La filosofia, incapace di limitarsi a registrare i fatti, non può non interrogarsi sull’eclissi della cultura del divieto. E coglierne aspetti positivi quanto negativi (misurati, gli uni e gli altri, sulla base di ciò che si potrebbe chiamare, con Martha Nussbaum, “il fiorire della soggettività umana”). E’ sin troppo facile segnalare tutti i vantaggi che comporta una società segnata da pochi ‘no’: se non altro perché significa che pochi hanno l’autorità (o il prepotere) per emetterli e dunque è più facile rispettarli (se ragionevoli) o contestarli (se irragionevoli). Dalle ‘grida’ manzoniane in poi, sappiamo bene che il moltiplicarsi delle proibizioni è sintomo della loro arbitrarietà e, soprattutto, della debolezza istituzionale di chi le emana.
Meno evidenti sono, probabilmente, gli svantaggi che accompagnano gli indubbi pregi di una società in cui sia “vietato vietare”. Già a livello psico-pedagogico sappiamo quanto poco maturi un minore a cui nessuno sa, o vuole, imporre dei limiti fra lecito e illecito. Ma anche fra gli adulti il permissivismo ad oltranza può giocare brutti scherzi-boomerang. Non mi riferisco solo alle varianti del contratto sociale in cui ciascuno pone dei limiti alla propria libertà originaria (e potenzialmente illimitata) pur di fruire della autonomia di movimento all’interno della propria sfera d’azione; né soltanto alla saggezza greca, latina e medievale del “non mai troppo”, per evitare che piaceri e godimenti si capovolgano nel proprio contrario, generando nausea e stanchezza. Mi riferisco, anche, alla curiosa dialettica del desiderio per cui tutto diventa meno appetibile se nessuna barriera – nessun costo finanziario o emotivo – lo protegge dall’abuso. Aragoste e piccioni (o, per chi propende al vegetarianesimo, tartufi e fragoline di campo)  risultano così apprezzati anche quando vengano serviti gratuitamente e quotidianamente? Il detto che ascoltavo in Gran Bretagna intorno al ’68 (“Questo è davvero gustoso: sarà certamente qualcosa di proibito!”) può essere letto anche in un’ottica completamente opposta rispetto all’intenzione originaria: se non fosse stato mai proibito da nessuno, e in nessun contesto, sarebbe così gustoso?
Difficile tirare le fila teoretiche (o, più modestamente, prudenziali) da queste considerazioni. A ciascuno il compito – impegnativo - di relativizzare i divieti, come gli imperativi, dominanti nel proprio ambiente sociale. Relativizzarli: non assumerli dogmaticamente come postulati assoluti, senza per questo diffidarne a priori. Ci sono tronchi che vietano ai ruscelli di scorrere vitalmente e di raggiungere fiumi e mari; ma sponde, e persino dighe, evitano ad essi di disperdersi nel terreno circostante, di affievolirsi e di scomparire. Ai ruscelli non è dato scegliere fra tronchi, sponde e dighe: devono accettare supinamente i limiti che altri (dal caso all’artificio umano) stabiliscono. Non così gli esseri umani: almeno in potenza, possono interiorizzare i divieti che irrobustiscono l’energia vitale e, proprio così rinforzati, possono affrontare a viso aperto e mani nude i divieti che reprimono le soffocano. Non esiste alcuna formula magica per distinguere gli uni dagli altri: sinora il regime democratico è il meno peggiore dei metodi sperimentati storicamente per evitare che qualcuno si ritenga detentore monopolista di tale (fantasiosa) formula magica. (A.C.)

mercoledì 20 febbraio 2013

La mia Prefazione al libro di Elio Rindone che presentiamo...


...alle 18,45 di giovedì 20 febbraio presso il Salone della Chiesa valdese di via Spezio a Palermo.

Da: E. Rindone, Da Gesù a Ratzinger. Ideale evangelico e cattolicesimo reale, www.ilmiolibro.it, Roma 2013, pp. 7 - 11.


PRESENTAZIONE


“Se essere credente significa apprezzare il messaggio evangelico e cercare, con tante contraddizioni, provare a viverlo, posso dichiararmi credente; ma se significa anche obbedire all’insegnamento del papa e dei vescovi, e seguirne l’esempio, non posso proprio considerarmi tale”. Quante volte ci capita di ascoltare dichiarazioni del genere fra i nostri familiari, amici e colleghi? “Cristo sì, chiesa no” è diventato quasi uno slogan trito.
Questa la situazione di fatto. Molte – e contrastanti – le interpretazioni. Conosciamo quella clericale: la gente è pigra, assetata di piaceri, orgogliosa e non vuole più stare, con l’umiltà necessaria, sotto la paterna vigilanza dei pastori. Tra le altre possibili letture: la gente non ha perduto la nostalgia dell’appartenenza comunitaria e vivrebbe quasi con un senso di sollievo la docilità a un magistero autorevole in un’epoca planetaria di disorientamento etico ed esistenziale. E, in effetti, uomini e donne che non si pongono troppe domande, restano volentieri al calduccio dell’ovile. Ma altri uomini e altre donne non ce la fanno proprio: glielo impediscono il senso critico e la consapevolezza della propria dignità di persone. Vedono nella struttura organizzata della Chiesa cattolica non una casa familiare, ma un palazzo padronale; non un ponte per risalire al vangelo, ma un muro che lo rende inaccessibile; non una comunità di fratelli e sorelle che incoraggiano chi procede nel cammino della vita, ma un tribunale di dottori e di giudici che distribuiscono sentenze (in senso dottrinale e giudiziario).
Tralasciamo altre possibili interpretazioni dello iato fra fiducia nel Maestro di Narareth e sospetto – se non proprio rigetto – nella Chiesa che si presenta come suo segno visibile ed efficace nella storia: di queste due, appena tratteggiate, quale la più convincente perché più aderente alla realtà?
Per rispondere, con qualche cognizione dei termini oggettivi, la lettura del libro di Elio Rindone che avete in mano è estremamente istruttiva. Se non addirittura indispensabile. I testi da lui scritti in varie occasioni, e qui raccolti organicamente, mostrano  - con limpidezza di linguaggio, acutezza argomentativa e soprattutto abbondanza di documentazione – quali siano, in concreto, i punti principali in cui le gerarchie cattoliche rivelano la tenace tendenza ad attenuare, quando non a stravolgere del tutto, la portata originariamente rivoluzionaria del messaggio di colui che pur professano come Signore e Salvatore: la libertà di coscienza, il ripudio della guerra, la valutazione del pluralismo culturale, la difesa della democrazia, il conformismo intellettuale, la laicità delle istituzioni pubbliche, la dimensione affettiva e sessuale, il ruolo delle donne…
Qualcuno trarrà dall’esame di questi brevi, intensi, saggi  - sconsolato -  la conclusione che la Chiesa cattolica sia ormai irredimibile perché, al di là dei limiti soggettivi, essa regge su un impianto teologico e organizzativo inaccettabile (inaccettabile per la ragione umana, ma anche per la fede cristiana). Qualche altro sarà indotto, invece, a rimboccarsi le maniche della camicia e a dedicarsi, con lena raddoppiata, all’ardua impresa di riformare dall’interno la grande comunità di cui fa parte per destino o per scelta. In ogni ipotesi, comunque, sarà difficile restare indifferenti e inerti. Scopo dell’autore  - se vedo bene– non è comunque né scoraggiare i  riformatori  né chiamare alla crociata i delusi, bensì capire e aiutare a capire. Rindone, pur avendo compeltato la sua formazione giovanile con studi teologici, non ha smesso gli abiti del filosofo. E, come tale, non ha smesso di cercare un po’ di luce dovunque il buio si riveli più oscuro e più pericoloso. Prima di tutto, se ci riusciamo, la verità: il resto ci sarà dato in sovrappiù. Non è scritto anche nel vangelo secondo Giovanni chela verità ci farà liberi?

Augusto Cavadi

domenica 17 febbraio 2013

Ci vediamo giovedì 21 febbraio 2013 a Palermo?


Giovedì 21 febbraio 2013

alle ore 18,45

presso la Sala conferenze della Chiesa Valdese di via Spezio

incontro pubblico su


ARRIVEDERCI JOSEPH


a partire dal libro di Elio Rindone

DA GESU’ A RATZINGER
Ideale evangelico e cattolicesimo reale

www.ilmiolibro.it   pp. 247, euro 14,00


La discussione, a cui parteciperà l’autore del libro,
sarà introdotta da
Augusto Cavadi e Pietro Spalla



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Per informazioni e contatti rivolgersi a
Rosalba Cavadi   347.1863420 – 389.5548292

sabato 16 febbraio 2013

Meritocrazia versus democrazia?


Pubblico, in versione integrale
un pezzo ospitato in versione ridotta su

“Centonove” 8.2.2013

A PROPOSITO DI MERITOCRAZIA E DEMOCRAZIA

E’ possibile conciliare la meritocrazia con la democrazia? Soprattutto in tempi di programmi elettorali ritornano certi interrogativi un po’ più di fondo, di scenario complessivo dell’agire politico. La storia occidentale non è certo unanime in proposito. Si oscilla da fautori della meritocrazia a spese della democrazia (mi parrebbe il caso di Platone) a propugnatori della democrazia a spese della meritocrazia (potrebbe essere il caso di Rousseau).

Nella Repubblica, infatti, Platone disegna una città ideale in cui a governare sono i saggi (per lui, socraticamente, coincidenti con i virtuosi) ai quali spetta il compito di scegliere, per la generazione successiva, i bambini e i ragazzi più adatti a rimpiazzarli. Per assicurare l’obiettività della scelta, senza familismi più o meno amorali, Platone ipotizza che i bambini di ogni fascia d’età vengano allevati insieme dallo Stato senza che sia possibile né ai genitori riconoscere i propri figli né ai figli sapere chi sono i propri genitori. La soluzione “comunista” non è però mai passata alla fase dell’attuazione storica: un po’ perché non è facile rinunziare al “riconoscimento” della paternità e (soprattutto) della maternità, un po’ perché questo modello di aristocrazia gerontocratica rischierebbe di bloccare il progresso sociale inducendo i giovani più ambiziosi a posizioni di tradizionalismo conservatore e di conformismo carrieristico. Senza contare che nessun sistema è infallibile: i governanti selezionano, dall’alto della loro saggezza, i ragazzini allevati in grandi istituti pubblici, individuando chi ha la tempra per sostituirli, chi ha le doti per usare le armi e infine chi dovrà lavorare per assicurare il sostentamento materiale dell’intera società; ma chi giudicherà la validità del giudizio dei governanti? Chi garantirà che, almeno in buona fede, non prendano talora lucciole per lanterne? Potrebbe capitare che un ragazzino sveglio, fantasioso, creativo, comunicativo e capace di adattamento come un camaleonte  - per esempio di nome Silvio – venisse prescelto dall’alto, ma riservasse col tempo amare sorprese. Come potrebbe riservarle qualche ragazzino riflessivo, diligentissimo, concentrato nello studio, incline a imparare le lingue e le tecniche statistiche, per esempio di nome Mario.

Insomma: si semplifica troppo il quadro nel caso di una meritocrazia senza democrazia. Ma non avviene altrettanto per chi miri a una democrazia senza meritocrazia? In questa ipotesi, il sistema ideale dovrebbe essere la democrazia diretta, assembleare: ogni testa un voto e la maggioranza vince. Ma è proprio il teorico della sovranità popolare, nell’accezione moderna della formula, Jean-Jacques Rousseau, a evidenziare una difficoltà: non sempre la somma aritmetica delle opinioni individuali coincide con l’opinione oggettivamente migliore; può darsi che i mille votanti di un cantone svizzero siano a stragrande maggioranza d’accordo su una deliberazione che non coincide con il vero bene del cantone. Così Rousseau è costretto a introdurre una distinzione un po’ capziosa fra la “volontà di tutti” (maggioranza quantitativa) e la “volontà generale” (maggioranza qualitativa). Neanche questa soluzione, come la platonica, ha avuto attuazioni storiche (almeno di estensione ampia e di durata significativa): da Robespierre in poi, la storia si è incaricata di mostrarci quanto sia facile per qualche dittatore, soprattuto se animato dalla lodevole intenzione di trasformare la terra in paradiso, rinnegare la volontà delle maggioranze aritmetiche in nome della propria volontà arbitrariamente spacciata per “volontà generale”.
Si potrebbe ipotizzare che proprio i difetti della democrazia diretta, assembleare, abbiano indotto molte società (per esempio i padri della Costituzione italiana) a privilegiare - tranne pochi casi affidati ai referendum popolari - la democrazia indiretta, rappresentativa: tutti votiamo, ma non tutti decidiamo. Tutti votiamo per individuare chi avrà avere il compito di decidere: tutti votiamo per individuare chi di noi occuperà, per un certo periodo temporale, quegli organi deliberativi che si chiamano Parlamento a livello nazionale e poi, via via, Consiglio regionale, Consiglio provinciale, Consiglio comunale, Consiglio di circoscrizione.
Se non vado errato, è proprio nel caso in cui si accetti la democrazia per via elettorale che si impone in tutta la sua gravità la questione meritocratica: che qualità devono avere i citttadini che, per quattro o cinque anni, potranno condizionare pesantemente - in positivo e in negativo - la vita quotidiana di tutti noi? Dovranno essere tra i più furbi, tra i più abili nel far soldi, tra i più sognatori ? Si potrebbe rispondere: tra i più competenti e i più onesti. Ma anche questa è una formula tanto più condivisibile quanto meno si prova ad applicarla. Ho ancora vivo il ricordo di una conversazione in treno con Paolo Viola, uno storico prematuramente scomparso alcuni anni fa. Convinto di sfondare le porte aperte, avevo chiesto in forma retorica: “Affideresti la guida della città a un soggetto a cui non affideresti le chiavi di casa?”. La risposta è stata : “Se devo affidare le chiavi di casa preferisco un amico onesto; se devo affidare la guida della mia città, preferisco un politico disonesto ma capace di amministrare”.
Che significa l’aneddoto? Che se avessimo da scegliere persone complete, massimamente competenti e massimamente oneste, tutto andrebbe liscio. In concreto, nessuno di noi è perfetto: ogni elezione mira, realisticamente, al dignitoso compromesso fra liste e candidati che incarnano, in misura variabile, meriti differenti.
La cronaca, anche recente, ci offre esempi di stanchezza dell’opinione pubblica nella individuazione e nella valutazione di questi mix: così c’è chi sceglie l’onesto a discapito della capacità (è avvenuto con molti sindaci, negli anni Novanta, tratti dalla società civile); c’è chi sceglie il capace, o il sedicente tale, a discapito dell’onestà (non dico con chi è avvenuto a livello nazionale per rispettare la par condicio pre-elettorale, tanto chi non se ne è accorto con i suoi occhi sinora non muterà opinione solo perché glielo indico io); c’è chi getta la spugna e, per non accettare compromessi, non vota per nessuno.
Anche a volere accettare, come per la verità ritengo inevitabile, il criterio del compromesso per la scelta del più meritevole - o del meno immeritevole - fra i candidati politici, la questione è complicata da un grappolo di considerazioni. Soprattutto tre.

a) Che significa onestà? Con quale metro giudicarla? Nella famiglia di mia madre avevo un congiunto al quale sono stato affezionatissimo sino alla sua morte. Se onestà significa incapacità di appropriarsi di una lira non propria, è stata una delle persone più oneste he abbia incontrato in vita mia: non solo non si appropriava dei soldi altrui, ma andava distribuendo a destra e a manca  i soldi propri. Per questa sua generosità, ritenuta a torto o a ragione eccessiva, la moglie – di fatto – gli interdisse l’accesso alle finanze familiari. Ebbene, ricordo che questa persona riteneva normale offrire, senza il minimo contraccambio (se non forse una certa gratitudine morale), la sua mediazione per raccomandare chiunque avesse bisogno di vincere un concorso pubblico; di avere una pensione d’invalidità; di ottenere un diploma magistrale…Con il senno di adulto, ritengo che questa logica  - per quanto intenzionalmente altruista – fosse intrinsecamente disonesta. Ma come giudica la media dei cittadini? Quando fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, su due diversi quotidiani lessi due dichiarazioni indipendenti. Una del parroco di Mondello, celebre località balneare  all’interno del Comune di Palermo, don Savarino: “Peccato, che perdita! Ha aiutato decine di ragazzi della mia parrocchia  a trovare lavoro”. L’altra dell’arcivescovo di Monreale, mons. Cassisa: “Peccato, che perdita! Proprio due giorni fa gli avevo chiesto un favore ed era corso qui in arcivescovato per mettersi a disposizione”. Con questa mentalità, si offusca la differenza fra chi è onesto perché rispetta gli altri attraverso il rispetto delle regole e chi ritiene che il rispetto degli altri passi attraverso la violazione delle regole.

b) Un’altra angolazione dalla quale viene contestata la meritocrazia  è costituita dall’ottica tribale. Le qualità oggettive di un candidato a un impiego pubblico vengono considerate trascurabili rispetto alla sua appartenenza sindacale o partitica o ecclesiastica o a qualsiasi altra organizzazione (legale, illegale o borderline). Tralasciamo i casi clamorosi di cosche mafiose, logge massoniche come la P 2 o sodalizi religiosi come l’Opus Dei. Ho in mente, ad esempio, un ‘onesto’ sindacalista della CGIL che mi riferiva, senza neppure un’ombra di autocritica, di aver fatto parte della commissione esaminatrice di giovani aspiranti a un posto - considerato modesto – di netturbino e di essersi prefisso di dare la precedenza a tutti gli iscritti al suo sindacato: “Dopo anni di subire le discriminazioni dalle forze di destra e di centro, era arrivato il momento di risarcire i nostri militanti!”. Gli obiettai, invano, che la vera rivoluzione si sarebbe  realizzata qualora un commissario di sinistra avesse, finalmente, imposto il rispetto di regole oggettive e promosso l’assunzione dei più meritevoli, indipendentemente dall’appartenenza sindacale.

c) Non vorrei tacere del rifiuto della meritocrazia di matrice ideologica (quindi più raffinato di altri) e che tocca da vicino l’esperienza professionale degli insegnanti. Per chiarezza distinguerei due ambiti: alunni e docenti. Sugli alunni ha pesato come un macigno il fraintendimento della lezione di don Lorenzo Milani che denunziando gli svantaggi dei figli dei poveri non intendeva certo sostenere che li si dovesse promuovere lasciandoli ignoranti, bensì facendoli studiare il doppio rispetto ai figli dei ricchi. Sui docenti, invece, ha pesato un malinteso spirito corporativo: non facciamoci giudicare da nessuno perché così si indebolirebbe il fronte sindacale. Risultato: sono l’unica categoria di professionisti dove non si fa carriera in quarant’anni di servizio, a meno che non decida di…cambiare professione (diventando dirigente scolastico o ispettore ministeriale).

Ma, prima di chiudere, si impone una doppia precisazione. La questione della compatibilità fra democrazia e meritocrazia sarebbe agevolmente solvibile sul piano logico, astratto: non solo sono compatibili, ma addirittura  inseparabili.  Non ci può essere democrazia se non si riescono a individuare i rappresentanti del popolo (demos) - cui attribuire potere (crazia) -  mediante la valutazione dei meriti. Perché allora la parola “meritocrazia” suscita tanto spesso sospetto, se non rigetto?  La situazione psicologica non cambierà certo sino a quando non muterà la prassi consolidata: i poteri, conferiscono prestigio e remunerazione economica, ma non implicano maggiore responsabilità sociale. Sono solo titoli per godere di privilegi e immunità. Penso che dietro il rifiuto  (a  mio parere insensato) della nozione stessa di meritocrazia  ci sia il rifiuto (a mio parere sacrosanto) del potere come occasione di mera ascesa individualistica nella scala sociale. Affinché ciò non avvenga, non c’è altra difesa che un controllo democratico di chi è arrivato ad esercitare potere. Così il cerchio si chiude: non solo la democrazia ha senso solo in un sistema meritocratico, ma a sua volta la meritocrazia ha senso solo in un sistema democratico.

Augusto Cavadi                             


venerdì 15 febbraio 2013

"Il Dio dei mafiosi" e "Il Dio dei leghisti" in e-book


Sono lieto di comunicarvi che le Edizioni San Paolo di Cinisello Balsamo (Milano) hanno inserito nel loro sito Sanpaolo Store, e sulle più note piattaforme di e-commerce, i miei ultimi due volumi pubblicati con esse:

"Il Dio dei mafiosi"
"Il Dio dei leghisti"


Approfitto dell'occasione per segnalarvi un libro coraggioso e accattivante, edito in cartaceo dalla stessa San Paolo, in cui i miei due testi vengono abbondantemente ripresi e citati:

F. Anfossi - A. M. Valli, Il vangelo secondo gli italiani. Fede, potere, sesso. Quello che diciamo di credere e quello che invece crediamo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2013, pp. 238, euro 14,00.

giovedì 14 febbraio 2013

L'angelo nero che libera le schiave africane


“Repubblica – Palermo”
14.2.2013

L’ANGELO CHE LIBERA LE SCHIAVE

Quando la sera capita di passare dalle zone portuali delle principali città siciliane è difficile non vedere delle ragazze africane in affitto. In quei pochi minuti il pensiero va, molto confusamente, a un mondo intessuto di miseria materiale e morale, ma talmente estraneo da percepirlo parallelo. Arriviamo, forse, a chiederci quanto debba essere dura la vita nei loro paesi d’origine se questa, da noi, la trovano preferibile… Ma intanto la nostra auto è sfrecciata oltre e, con un’alzata di spalle metaforica, ci rassicuriamo psicologicamente: appartengono a un giro tanto complicato che nessuno di noi può farci nulla per intervenire.
Ma è davvero così? Da più di un quindicennio, ormai, la testardaggine di un predicatore metodista nigeriano, Vivian Wiloku, sostenuto da palermitani di varia estrazione sociale e religiosa, porta avanti un’associazione  onlus – “Pellegrino della terra” (www.pellegrinodellaterra.it) - che ha scelto proprio questo spinoso settore come obiettivo specifico della sua mission. Grazie a questa organizzazione, cui è possibile iscriversi con una quota annuale irrisoria, ciò che a ciascuno individualmente è precluso diventa, in una logica di gruppo, praticabile: si può, insomma, dare una mano per recuperare le ragazze che non vogliono restare intrappolate e non di rado stritolate nel meccanismo.
Già, perché il primo passo è conoscere come stanno le cose, al di là dei luoghi comuni maschilisti e delle ipotesi più o meno fantasiose: la stragrande maggioranza di queste donne non ha operato una scelta fra la vita in Africa e questo tipo di vita in Europa. Esse sono invece vittime di un vero e proprio  sistema di sfruttamento: vengono adescate nei loro villaggi con la promessa di un lavoro onesto ma, una volta sbarcate in Italia, le si priva del passaporto. A quel punto resta una sola via: accettare di prostituirsi sino a raccogliere i 50.000 euro necessari al riscatto. Diversamente, non solo non si riottengono i documenti di riconoscimento, ma si espongono le famiglie originarie a minacce sia simboliche (riti wudù) sia materiali. Ecco perché “Il pellegrino della terra” si occupa di prevenire questi processi di schiavizzazione già con campagne informative in Nigeria affinché le giovani, spesso minorenni, non si lascino ingannare da promesse illusorie. Altrettanto importante, sempre sul piano dell’informazione e della mentalità, far capire ai maschi italiani quali piaghe fisiche e psichiche sono state già inferte a quei corpi che essi ricercano con atteggiamento di falsa superiorità (se davvero valessero tanto, non sarebbero costretti a mendicare sesso da sconosciute) e, per giunta, di irresponsabile superficialità (alimentano, senza averne coscienza, una vera e propria industria che arricchisce protettori e maman).
Ma l’associazione guidata da Vivian Wiloku, e ospitata in un locale sequestrato alla mafia, non si limita al pur necessario piano culturale della prevenzione. Essa accompagna le prostitute che ne facciano richiesta sia nella fase di cattività (mi ha commosso apprendere che alcune si raccolgono in preghiera prima di andare sulla strada per chiedere, con le parole del salmista biblico, la protezione divina dagli “spaventi della notte” e dalle “insidie di morte”) sia nella fase di emancipazione: inserendole in istituti riabilitativi appositi (in cui, anche grazie a borse-lavoro, imparano la lingua italiana e un mestiere che le renda autonome), aiutandole a trovare un lavoro o a tornare in patria, in alcuni casi assistendole nelle pratiche matrimoniali con cittadini italiani che se ne sono innamorati. Quanto efficace risulti questo lavoro di consulenza e di accompagnamento lo testimoniano le continue minacce e le brutte intimidazioni che, anche in queste settimane, ha ricevuto il direttore del Centro. Duecentocinquantuno donne restituite alla dignità e alla libertà non sono molte, ma neppure poche: soprattutto perché ciascuna diventa, a sua volta, un segno concreto di speranza per il futuro.

Augusto Cavadi

mercoledì 13 febbraio 2013

Una lettera dal mio amico Gigi

Ho ricevuto questa lettera da un caro amico.
Mi invita a commentare le dimissioni del papa, ma io non amo pronunziare parole che non costituiscano un valore aggiunto rispetto a quanto già circola (di sensato e di meno sensato).
Se qualcuno di voi ha qualcosa da commentare, lo faccia pure.
Da parte mia, sommessamente, osservo solo un dettaglio: teologicamente il papa non è "vicario di Cristo" ma, se mai, "vicario di Pietro". 

***
Caro Augusto, sarei molto contento di leggere , nel blog, il tuo pensiero sulle dimissioni del Papa. Personalmente penso che sia stato un gesto di grande coraggio, libertà  e  ( perché no ?) di umiltà. Il card. Newman ( beatificato da Benedetto XVI, non senza sospetti  di opportunità strategiche) diceva che la coscienza “è  il primo vicario di Cristo”. Ora, il “Vicario di Cristo” fa appello alla sua coscienza per una decisione così importante. Questo è molto significativo perché ci presenta finalmente un Papa che, per così dire scende dal suo  “sacro”piedistallo (esteriore)  e ci parla di  Cristo  come farebbe  un cristiano qualunque  cioè rivelando la propria , personale relazione con Dio attraverso la coscienza. La santità è cosa diversa dall’eroismo e meno che mai dal Papa bisogna pretendere l’eroismo nell’esito finale della vita, ma piuttosto la santità che, certamente, non può prescindere dalla  coscienza, vero  “sacrario dell’uomo”. Ci sarà tempo e modo di analizzare altre questioni connesse,  per es.,il “bene della Chiesa” il “venir meno delle forze fisiche “, lo sconcerto dei porporati di Curia, il gesto “rivoluzionario”  e così via, ma mi sembra che come prima cosa vada apprezzato il gesto di un uomo che, prima di essere  Papa, si riconosce fragile, non più adatto ai compiti del ministero petrino, operaio stanco e, però, desideroso di preghiera (unico vero motore della Chiesa).
Un caro saluto. Gigi

martedì 12 febbraio 2013

Abolire il Mezzogiorno?


“Luoghi di Sicilia”
Sett.- ott. 2012 


ABOLIRE IL MEZZOGIORNO

Il Mezzogiorno è un problema? In tempi diversi – e da prospettive opposte – molti lo affermano. Da certo sicilianismo piagnone e rivendicazionista (che ha ottenuto, ad esempio, uno Statuto regionale speciale persino in anticipo rispetto alla Costituzione) a certo padanismo gretto e smemorato (che, non essendo riuscito a evitare l’Unione europea, si affanna per ottenere almeno la disunione d’Italia). Da qui la tentazione di invertire la risposta negando che ci sia una specificità della questione meridionale. In questo agile, ma compatto e intenso libretto (Abolire il Mezzogiorno, Laterza, pagine 150, euro 10,00), l’economista Gianfranco Viesti non cede alla tentazione: avanza, piuttosto, delle solide ragioni per dimostrare che, se vi è “una cesura netta fra il Mezzogiorno e gli italiani”, il “modo di sanarla non può essere che uno: abolire il Mezzogiorno”. Ma ciò “non significa certo abolire i problemi dell’Italia, dalla povertà alla criminalità, dal cattivo stato delle infrastrutture urbane alla disoccupazione, né evitare di notare che questi sono più intensi al Sud e che ciò dipende anche da aspetti negativi della cultura e della società meridionale. Significa tornare a usare il termine ‘Mezzogiorno’ per designare un territorio, un punto cardinale, una cultura, una parte del paese con non poche diversità dal resto, con i suoi vizi e le sue virtù, non come un problema in sé” (p. X).
Chi volesse sapere cosa può significare, in concreto, mirare a questo obiettivo non può che leggere direttamente, e per intero, le centocinquanta pagine del volume. Qui è possibile solo  qualche rapida evidenziazione, quasi casuale.
La prima riguarda la necessità di analizzare il Mezzogiorno in termini articolati, plurali: vederlo “come un insieme uniforme è l’errore più grave che si possa compiere” (p. 14). Significa non considerare che il “9% della superficie agricola siciliana è coltivata biologicamente (addirittura il 17% in Sardegna), ma solo l’1,6% in Campania”; né, al contrario, che “la dotazione della rete dei trasporti, in generale, e di quella ferroviaria in particolare è discreta in Campania (…), ma in Sicilia e in Sardegna è pessima” (p. 15). Significa, ancora, misconoscere che “la presa della criminalità organizzata sulla società e sull’economia è fortissima nella Sicilia occidentale, nella Calabria meridionale, intorno a Napoli, ma è invece del tutto assente in Abruzzo, in Molise, in Basilicata, e assai più debole in Irpinia o nel Cosentino”; o che – paradossalmente, ma sino a un certo punto – “la presenza dello spaccio di droga è un problema per il 15% dei campani (il doppio della media nazionale), ma solo per il 4% dei siciliani (la metà)” (p. 16).
Una seconda sottolineatura riguarda l’ambito della direzione operativa. Nel Sud abbondano molte “risorse immateriali” (legate “alle relazioni adriatiche della Puglia o alla storia dei rapporti della Sicilia con il mondo arabo; alle tradizioni e alle consuetudini locali”; “ai saperi contadini nel produrre frutta di qualità con pochissimi ausili chimici”; “all’attitudine all’accoglienza e alla tolleranza” come dimostrano i casi di Mazara del Vallo o del centro storico di Palermo). Ebbene si tratta di riconoscerle, di valorizzarle, di utilizzarle: di smettere di inseguire i modelli di sviluppo nordici – ciminiere fumanti e beni di consumo in eccesso – persino nell’epoca in cui hanno intrapreso la via del tramonto.

Augusto Cavadi

domenica 10 febbraio 2013

Ci vediamo lunedì 11 febbraio a Palermo?

Lunedì 11 febbraio alle ore 16, presso l'Istituto tecnico commerciale  "F. Crispi"
di Palermo (Largo Mineo, già via Campolo  4),

sarà presentato il volume di Giuseppe Cipolla

 "Danilo Dolci e l'utopia possibile" 
   (edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta). 

Con l'autore ne discuteranno Vincenzo Galati e Augusto Cavadi.
Il dibattito sarà coordinato da Orazio de Guilmi, collaboratore storico di Danilo Dolci.
La manifestazione prevede un recital di poesie dello stesso Dolci
affidato alla voce narrante di Giorgia Sunseri e alla voce recitante di Nicola Notaro.
Il sottofondo musicale sarà curato dalla chitarra del maestro Raffaele Cipolla. 

sabato 9 febbraio 2013

Ci vediamo a Palermo domenica 10 febbraio?

Dalle  17,15 (alle 19)   coordinerò l'incontro mensile  di Filosofia-in-pratica
presso il Cesmi (Centro studi di medicina integrale)
in  via. M . Stabile 261.


Il tema previsto è:
La libertà e le sue contraffazioni



Note:
- Ogni incontro prevede la quota di partecipazione di euro 8,00 e la quota associativa al CeSMI euro 40 con validità 1 anno dal momento di iscrizione.
- L’abbonamento ai 6 incontri restanti sino al giugno 2013   (50,00 euro) dà diritto al volume di Augusto Cavadi “E, per passione la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze”, Di Girolamo, Trapani 2008, euro 16,50. (Per chi lo possedesse, un altro simile a scelta).

giovedì 7 febbraio 2013

Lo sbarco della Lega Nord in Sicilia


Pubblico un mio intervento ospitato oggi dall'edizione siciiana di "Repubblica".
In neretto la parte che, suppongo per ragioni di spazio, è stata tagliata dalla redazione.

“Repubblica – Palermo”
7.2.2013

SE IL SECESSIONISMO LEGHISTA TROVA SEGUACI IN SICILIA

Quando conclusi la presentazione di un mio libro sulla mafia a Torre dei Roveri, in quel di Bergamo, un signore intervenne al dibattito con tono di voce sommesso ma deciso: “La differenza tra Lega e Cosa nostra dove starebbe? Entrambe sono organizzazioni gerarchiche che mirano ad accrescere il profitto e il controllo del territorio mediante la propaganda del proprio codice culturale e la minaccia del ricorso alla violenza”. Obiettai che, sino ad oggi, la minaccia del ricorso alla violenza , a differenza dei mafiosi, è rimasta una minaccia. Mi replicò che il confine fra la violenza verbale e la violenza materiale è stato sempre labile. Se all’epoca fossero già emersi i legami fra amministratori della Lega e faccendieri dela ‘ndrangheta sarei stato più propenso a dare ragione all’occasionale interlocutore.
La notizia del sindaco siciliano che si candida, insieme a molti familiari, nelle liste della Lega Nord mi ha richiamato alla memoria quell’episodio. Molto probabilmente è solo una scelta tattica di opportunismo elettorale e vedervi una portata ideologica al punto da dimettersi, come hanno fatto ad Alimena consiglieri e persino assessori comunali, significa conferirgli uno spessore di cui è priva ; ma, se davvero fosse una decisione dettata da affinità culturali fra il profondo Sud e il profondo Nord, ci sarebbe davvero da stupirsene? Direi di no. Con tutte le differenze del caso, Cosa nostra e Lega Nord provengono da un humus storico-sociale non dissimile: rispetto a Roma, allo Stato unitario centrale, hanno vissuto l’ambiguità del rapporto di subordinazione reverenziale e vittimismo invidioso. Non è un caso che le tentazioni separatiste, differite in Settentrione dall’eroica stagione partigiana, si sono configurate in maniera significativamente speculare: il leghismo ha copiato il secessionismo siciliano che, nel tempo di Pino Aprile e di Raffaele Lombardo, ha ricopiato la sua copia. Si può riconoscere qualcosa di più che un’acrobazia politica nel capitombolo che ha condotto il fondatore dell’MPA, dopo anni di strepiti contro il governo nazionale di centro-destra, a riallerasi con Berlusconi e con la Lega di Bossi e di Maroni. Né è un caso - su questo ho insistito nel mio ultimo libro Il Dio dei leghisti - che il leghismo sia nato in ambienti tradizionalmente cattolici, orfani della Democrazia cristiana, e abbia trovato pronta ospitalità in molte parrocchie: come le organizzazioni mafiose, infatti, anch’esso si radica e prospera in contesti sociali in cui dal 1861 si è diffuso il “cattolicesimo municipale” (come lo definisce nei suoi studi don Francesco Michele Stabile) che riduce la religione a fattore di identità locale e guarda allo Stato laico come al nemico dello Stato pontificio e, in generale, come al vettore di pericolose ideologie ‘moderniste’.
Contro queste derive che stravolgono le istanze federaliste (nate nel Risorgimento per unire ciò che era diviso, ripescate dopo un secolo e mezzo per dividere ciò che è unito) non ci sono scorciatoie: i partiti che hanno prospettive e interessi nazionali devono decifrare i sintomi del malessere e dimostrare, con i fatti, che l’Italia conviene. Anzi, che è ancora piccola cosa rispetto all’Europa e rispetto al pianeta. Sino a oggi questi fatti non si sono visti: i partiti non si rassegnano a rinunziare ai vantaggi della partitocrazia (gira e rigira, il Porcellum è sempre in vigore); non si decidono a operare il recupero delle fasce più ferite dalla crisi economica pur di tenersi buone le minoranze facoltose e influenti; non si attivano (è il meno che si possa dire!) per chiarire i patti segreti con la criminalità organizzata che ha sterminato i cittadini migliori; proseguono le politiche bellicistiche che, in barba alla stessa Costituzione italiana, hanno indotto governi di destra, di centro e di sinistra a spese militari ingenti e a operazioni di “polizia internazionale” quantomeno opinabili. Se il Parlamento prossimo venturo non avrà una composizione davvero innovativa e le cose persevereranno con il passo attuale - e nella direzione attuale – ci aspettano ancora molti anni di fatica per distinguere la legittima voglia di un’altra politica dalle ambizioni degli anti-politici di carriera.

Augusto Cavadi