martedì 26 marzo 2013

Salvate il soldato Crocyan

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“REPUBBLICA – PALERMO” 26.3.2013



LA GUERRA GIUSTA DEL SOLDATO ROSARIO



   Ad evitare fraintendimenti premetto che non sono stato un elettore di Crocetta. Lo conosco, non bene, da anni e ogni volta che l’ho osservato all’opera mi hanno colpito la gentilezza e la delicatezza del tratto, ma altrettanto un’inclinazione all’eccesso, alla tracimazione, tipica di molti intellettuali meridionali di provincia. Le perplessità nei confronti del suo stile tendenzialmente barocco non sono state certo attenuate dalla schiera di sostenitori e di sponsor, tra i quali  - come nella variopinta fauna del PD siciliano – c’era, e c’ è,  di tutto.

    Le notizie di questi giorni mi inducono, per onestà intellettuale, a modificare il giudizio. Il presidente della Regione aveva promesso una rivoluzione (e in questo non era né il primo né il solo): ma adesso pare proprio che la stia iniziando a realizzare. E con queste prime decisioni sta offrendo non solo alla sua lista, ma anche ai grillini la preziosa possibilità di una verifica sul campo. Se per crisi delle ideologie si intende che i governi nazionali e locali fanno bene a navigare a vista, senza un progetto di lungo periodo, non vedrei nulla di cui rallegrarsi: pragmatismo e trasformismo sono malattie antiche destinate a perpetuarsi. C’è però un modo di relativizzare il primato dei proclami ideologici che trovo accettabile, anzi auspicabile, e ‘moderno’  nel senso più positivo dell’aggettivo: imparare a valutare i politici in base alle decisioni effettive che assumono; liberarsi dai pre-giudizi a priori trasformandoli in post-giudizi a posteriori. Una parabola evangelica ci raccomanda già due millenni di preferire, tra due fratelli, non chi si dichiara immediatamente disponibile ad andare a zappare e resta a casa, ma chi fa le bizze a parole e poi, nei fatti, va a lavorare.

      Certo è troppo presto per cantare le lodi del soldato Rosario, ma c’è un motivo che – a mio avviso – dovrebbe convincere trasversalmente molti siciliani a sostenerlo, ovviamente con riserva di mutare opinione e posizione: la formazione di uno schieramento, altrettanto trasversale, di oppositori alle sue proposte legislative e ai suoi atti amministrativi. Intendiamoci: non si può escludere che, in un caso o in un altro, qualche decisione possa risultare oggettivamente sbagliata o, per lo meno, migliorabile. Sarebbe strano il contrario: chi mangia, secondo la saggezza popolare, fa molliche. Ma una cosa è criticare, nel merito, con argomenti precisi, un determinato provvedimento e un’altra cosa è attaccare il metodo nel suo complesso, solo perché non siamo abituati ai colpi di spugna e, tomasidilampedusianamente, siamo convinti di non dover mutare radicalmente nulla perché siamo già, in sostanza, perfetti. Tra quanti alzano la voce con più insistenza contro la rivoluzione crocettiana ci sono veterani dell’immobilismo, lord protettori di atavici privilegi, abilissimi retori in grado di sventolare le bandiere più democratiche per coprire interessi oligarchici. Oserei dire che quanti attaccano la giunta regionale in nome dei diritti dei lavoratori sono due volte più pericolosi di quei pochi che, almeno, hanno la sfacciataggine di non nascondere nomi e cognomi dei mandanti a servizio dei quali si agitano.

   Con tutti i limiti rilevabili adesso, o in futuro, Crocetta è tra i pochi politici di lungo corso (sindaco di Gela, eurodeputato, presidente di giunta regionale) che ha capito la serietà della fase storica: non è in gioco il futuro di partiti più o meno vetusti, ma della stessa democrazia. Se non si azzera l’abisso fra paese legale e paese reale,  la farsa già tanto amara di queste settimane può capovolgersi in tragedia: chi ci garantisce che la paralisi delle istituzioni – che potrebbe presentare persino   aspetti vantaggiosi (pare che in Belgio, da un anno con un governo in prorogatio, le cose vadano meglio di prima) - non sarà  interrotta dalla scossa traumatica di un golpe autoritario? Se l’ipotesi, per quanto remota, non è da escludere, la via d’uscita di Crocetta dall’attuale disaffezione pubblica nei confronti delle istituzioni democratiche potrebbe disturbare le organizzazioni reazionarie diffuse, senza neppure troppi segreti, nel territorio nazionale. E la vicenda del suo predecessore Piersanti Mattarella ci insegna quanto facilmente le cosche mafiose si prestino, soprattutto in Sicilia,  a stringere patti scellerati con le  entità più oscure.



Augusto Cavadi

  

lunedì 25 marzo 2013

LA DEMOCRAZIA HA I SUOI PROBLEMI


“Madrugada”, marzo 2013, n° 89

 

OPINIONE PUBBLICA E CONSENSO SOCIALE


La democrazia e le sue ambiguità
 Tra i regali che ci ha elargito lIlluminismo va annoverata la nascita di un’opinione pubblica di dimensioni nazionali e anche più ampie.  E, come tutti i regali dell’Illuminismo, anche questo  è risultato ambivalente: grandemente prezioso, ma altrettanto insidioso. Non è facile immaginare la preziosità della nuova categoria sociologica: bisognerebbe immaginare quale fosse la situazione anteriore alle enciclopedie in dispense, alle gazzette settimanali e ai libri  economici. Basti porre mente al fatto che la stragrande maggioranza della popolazione nasceva, cresceva e moriva senza sapere chi fosse l’imperatore regnante sulle proprie terre: altro che condizionare i programmi e i metodi dei governi, confinati nei bunker dorati di Versailles o dello Schönbrunn ! Con la diffusione della stampa si gettano le basi della democrazia politica che farà le sue prime prove nel processo di formazione degli Stati Uniti d’America e nell’abbattimento dell’Ancient Regime grazie alla rivoluzione in Francia.
   La democrazia, debitrice della propria origine verso  un’opinione pubblica sempre più informata e avvertita, ne resta inevitabilmente condizionata. Gli umori della base determinano la scelta dei rappresentanti, ma anche le decisioni politiche fra un’elezione e l’altra. Se ci riflettiamo con serena oggettività, questo metodo non sarebbe il peggiore fra i tanti sperimentati nella storia. Che cosa non convince in questo sistema? Diciamolo in sintesi.
Prima di tutto: il criterio della quantità sostituisce totalmente ogni valutazione qualitativa. Il voto di dieci stupidi ignoranti pesa esattamente quanto il voto di dieci premi Nobel.
Secondariamente: chi arriva al governo, si preoccupa poco di ciò che ritiene buono e giusto e molto del consenso sociale.

Pregi e rischi dei sondaggi d’opinione
    E’ in questo contesto democratico, con i suoi pregi e i suoi rischi, che va considerato il metodo dei sondaggi d’opinione. L’aspetto indubitabilmente positivo è che, in linea di principio,  l’opinione pubblica conta. Che cosa sono le elezioni periodiche o i referendum saltuari se non sondaggi ufficiali con effetti deliberativi e non meramente consultivi?  Gli inconvenienti si registrano, invece, se dal punto di vista concettuale ci spostiamo a ciò che avviene sul piano dei fatti. 
In pratica, infatti, assistiamo a un circolo (vizioso) di condizionamento reciproco: chi ha le redini del potere politico tenta di modificare i gusti della base; nella misura in cui ci riesce persevera nelle sue scelte programmatiche e, nella misura in cui non ci riesce, adatta le proprie scelte programmatiche agli umori della base. In questa dialettica circolare il consenso sociale, da test di verifica della validità di un programma di governo, diventa fine in sé: un Moloch cui sacrificare la verità, le indicazioni scientifiche, il buon senso. Insomma: la differenza fra l’offerta politica e la domanda politica si accorcia a condizione che governanti e governati si accordino al ribasso, si scambino il peggio di sé.
    E’ evidente che l’uso di una terminologia economica (“offerta”, “domanda”…) non sia casuale. Le tre rivoluzioni industriali dall’inizio dell’Ottocento ai nostri giorni, con il supporto della nuova regina delle scienze – la sociologia -, hanno trasformato l’agorà  politica in mercato della politica: è importante proporre al pubblico un pacchetto ideologico-strategico valido, ma ancora di più è mettere in vendita un pacchetto che sappia presentarsi come appetibile. Nessuna meraviglia dunque che le ricerche di mercato, mediante i sondaggi d’opinione, si estendano dalle merci materiali alle merci immateriali e che l’offerta delle prime e delle seconde si adatti ai gusti della maggioranza, almeno nella misura in cui non riesce a pilotarli del tutto. Infatti è sin troppo ovvio che ogni acquiescenza demagogica agli umori delle masse è dettata non da stima ed affetto per il “senso comune”, bensì da volontà di manipolazione: “assecondare gli altri, recitare e governare la loro follia, la loro idolatria specifica è l’unico modo per piegarli al nostro fine” (Franco Cassano).

Dittatura illuminata o democrazia cognitiva
   Come evitare che governanti e governati, in una sorta di perverso gioco di neuroni-specchio, si adattino alle richieste meno nobili e meno lungimiranti della controparte? Al di là delle sottigliezze analitiche dei politologi, le soluzioni principali sono due. Sostituire la democrazia con una dittatura (più o meno illuminata) oppure curare la democrazia con iniezioni di consapevolezza critica. Azzerare, o per lo meno ridurre, lo spread fra quantità e qualità dei voti “democratizzando la conoscenza” (come ama esprimersi Edgar Morin): che significa, tra l’altro, attivarsi in tutte le modalità affinché ogni elettore abbia la possibilità (e il dovere morale) di ricevere, insieme al diritto di esprimere il proprio parere, il bagaglio culturale minimo per orientarsi fra le diverse proposte ideologiche e programmatiche.  Che senso ha dare a tutti l’arma del voto senza accompagnarla con un libretto d’istruzioni che faccia capire come e soprattutto a che scopo usarla? Senza questa distribuzione dei saperi, la democrazia si riduce a una serie di  parate plebiscitarie manovrate da pochi registi occulti. Diventa una oligarchia mascherata: dunque peggiore di qualsiasi aristocrazia manifesta. Cittadini un po’ meno disinformati sui propri reali interessi (che, in quanto reali, non si identificano tout court con gli immediati interessi economici) potrebbero essere “sondati” (in maniera informale o, come succede in occasione delle elezioni, in maniera formale) con un rischio ridotto di scambiare lucciole per lanterne. Infatti l’elettore consapevole o esprime con convinzione  una propria opinione (se si tratta di una questione in cui sa di aver competenza) o, con altrettanta convinzione, si affida a rappresentanti che egli sceglie perché ritiene più competenti di sé.

                                                      Augusto Cavadi
                                                          www.augustocavadi.com

sabato 23 marzo 2013

Le parole per dire la bioetica


“Centonove”
22.3.2013

       LE PAROLE PER DIRE LA BIOETICA

Sempre più spesso parole come “accanimento terapeutico”, “screening genetico” “ogm”, “Fivet”…circolano nei discorsi pubblici e nelle conversazioni private. A forza di sentirle ripetere ci illudiamo di conoscerne il significato e raramente ci preoccupiamo di verificare la corrispondenza fra ciò che abbiano in mente e ciò che intendono gli altri. Una volta mia madre, più che ottantenne, mi ha fatto ridere di cuore proclamando tutto il suo sconcerto per la moltiplicazione di tanti “uomosessuali” nella società contemporanea; ma, qualche tempo dopo, anche un prete, più colto della media dei suoi colleghi, mi spiegava di sentirsi solidale  verso le persone omosessuali e lesbiche: capii, dal seguito della chiacchierata, che aveva aggiunto “lesbiche” perché anche per lui - molto più istruito di mia madre - “omo” stava per ”uomini” e non per “simile”. Senza  contare fraintendimenti meno divertenti come l’identificazione semantica di “eutanasia” e “sterminio dei malati”. Con questo livello di preparazione, tremo ogni volta che i politici si avventurano in dibattiti bioetica: sia che assumano decisioni accontentandosi della propria incompetenza sia che, populisiticamente, si appellino a metodi referendari per misurare le opinioni dei cittadini. Da oggi, però, nessuna ignoranza è più giustificabile perché con solo 38 euro (e molto meno se, al posto della edizione cartacea, si sceglie la versione in pdf) la pionieristia casa editrice “Villaggio Maori” di Catania ha messo a disposizione di un vasto pubblico il “Dizionario di bioetica” a cura di Gaetano Vittone (coadiuvato, nella stesura di circa trecento voci per un totale di 470 pagine, da trenta studiosi di estrazione disciplinare e di orientamento culturale differenti).
       Da un’opera di questa mole non si può pretendere nessuna omogeneità di stile (e forse non sarebbe neppure auspicabile): così il lettore coglie senza fatica la matrice scientifica di autori responsabili di voci mediche (come anencefalia) e la matrice umanistica di autori che hanno redatto, invece, voci filosofiche (come angoscia o solitudine). Il pluralismo non si limita alla diversità delle prospettive di studio, ma si evince anche dal registro linguistico delle voci: alcune delle quali hanno un carattere più asciutto e asettico  (come ad esempio consenso informato), altre un timbro meno tecnico e più discorsivo (come nel caso di corpo/corporeità).
      Nel complesso si può riconoscere che il prezioso sussidio (più affidabile certamente di motori di ricerca sul web che rintracciano, senza discriminare, testi autorevoli e pagine inaffidabili) abbia raggiunto l’obiettivo ribadito nella Prefazione dal curatore: offrire le strumentazioni di base per chiunque voglia accostarsi, per curiosità o per mestiere, ai temi della bioetica che ormai, ben oltre gli angusti confini di una disciplina fra tante, è diventata la “coscienza critica della civiltà tecnologica”. Come avverte lo stesso Vittone, un dizionario del genere non può che restare aperto, come e più di ogni dizionario, all’aggiornamento e all’integrazione, se vuole essere e mantenersi  “specchio fedele dei mutamenti significativi che avverranno nel corso degli anni”. Personalmente vedrei con particolare urgenza l’aggiunta di voci che ho cercato invano come “adulterio”, “pedofilia”, “poliandria”, “poligamia”, “prostituzione”, se necessario al posto di altre voci, attualmente presenti, come “fuga” o  umiltà”, che riterrei meno necessarie in un’opera dedicata alla bioetica.

 Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 20 marzo 2013

In cosa credono davvero i cattolici italiani?


“Riforma” 23.3.2013

IL VANGELO SECONDO GLI ITALIANI


     Sarebbe bello se, come in certi film, si potessero leggere solo alla fine di un libro i nomi dell’ autore e la casa editrice. Il vangelo secondo gli italiani. Fede, potere, sesso. Quello che diciamo di credere e quello che invece crediamo è uno di questi libri: infatti è un testo da leggere spregiudicatamente, come spregiudicatamente è stato scritto. Un testo da giudicare per i contenuti senza lasciarsi condizionare, favorevolmente o meno, dalla previa conoscenza dell’identità dei due autori. Esso restituisce una fotografia spietatamente realistica della situazione dei cattolici italiani (vescovi, preti, laici impegnati in politica,  fedeli ‘comuni’) in questo primo scorcio del XXI secolo: una foto così completa e così penetrante da riuscire interessante ai non-cattolici almeno quanto ai cattolici convinti e praticanti.
      In questa indagine a tutto campo è difficile che qualcuno trovi delle lacune, degli ambiti in cui non sia arrivata la luce dei riflettori: dai cattolici che votano Lega (“A messa con la camicia verde”) ai cattolici che si riuniscono a Todi per progettare un nuovo modo di essere presenti in politica dopo il fallimento del matrimonio d’interesse con Berlusconi & complici; da Enzo Bianchi e i suoi monaci di Bose (“cattolici, valdesi e battisti” che decidono di vivere insieme per leggere la Bibbia alla luce della contemporaneità e la contemporaneità alla luce della Bibbia) ai monsignori della Curia romana implicati nel  Vatileaks” (di cui G. L. Nuzzi ha fornito in Sua Santità, delle edizioni Chiare Lettere di Milano, la documentazione principale anconché parziale); dal “Meridione d’Italia” (in cui vescovi coraggiosi come Riboldi, Bregantini, Mogavero e preti di frontiera svettano come rari punti di riferimento per una società civile troppo spesso prona alla mafia e ai suoi referenti politici) alla diocesi ambrosiana (dove i cardinali Martini e Tettamanzi svolgono il ministero episcopale in maniera così profetica da indurre il capo mondiale di “Comunione e liberazione”, don Julian Carron, a sostenere la candidatura ad arcivescovo di Milano del suo amico Angelo Scola con una lettera riservata al papa in cui “critica gli episcopati di Martini e di Tettamanzi con un livore e una mancanza di oggettività che lasciano sbigottiti”).
    Il libro è uscito nel gennaio del 2013, dunque prima che Benedetto XVI annunziasse a sorpresa le sue dimissioni: eppure alcuni capitoli, come il XIII (“Le lotte di potere e le lacrime del papa”), ne spiegano molte ragioni assai più lucidamente di quanto non stiano facendo, a posteriori, molti commentatori. Papa Ratzinger, in sei anni di pontificato, non è riuscito a sanare le lotte per bande all’interno delle gerarchie vaticane. E una volta che le carte sono diventate di pubblico dominio, egli e i suoi collaboratori si sono concentrati sulle modalità della fuga di notizie (certamente non belle: nessuno di noi amerebbe spiattellate sui giornali, per tradimento di una segretaria,  le lettere che riceve o che invia) ignorando la questione molto più importante dei contenuti: “Si preferisce compatire il papa piangente. Mai che si entri nel merito delle questioni sollevate. Dove si pensa di arrivare per questa via? Dove si pensa di approdare chiedendo sempre e comunque obbedienza senza mai interrogarsi sui mali di una Chiesa che anche nei suoi vertici mostra corruzione interiore? La magistratura fa le sue indagini e approda alle sue conclusioni, ma a questo punto ciò che conta è ben altro. Che facciamo dei contenuti delle varie Vatileaks? Da troppo tempo i cattolici hanno perso l’abitudine al confronto e all’eleaborazione di un pensiero originale”.
     Ma Benedetto XVI ha fallito in un’impresa ancora più rilevante: ricucire lo “sciasma sommerso” (come lo ha definito il filosofo cattolico Pietro Prini alcuni anni fa) fra la voce del Magistero ecclesiastico e i cattolici sparsi per il mondo. Il libro lo dimostra su tante questioni, a cominciare dall’etica sessuale e dei temi di bioetica ritenuti “valori non negoziabili”: a non accettare l’insegnamento di papi e vescovi in proposito non sono solo i laici non credenti ma, in buona misura (tranne, forse, sull’aborto: non però sulla penalizzazione giudiziaria delle donne che abortiscono) gli stessi cattolici, più o meno praticanti. E’ più facile trovare un “ateo devoto” che difende, per fini elettoralistici,  la dottrina ufficiale cattolica sulla condanna dell’omosessualità, o dell’accompagnamento medico di fine vita, che un cattolico democratico, adulto, convinto: Questi, infatti, è animato dalla “convinzione che dal confronto c’è sempre da imparare e che il cristiano non ha solo da dare ma anche da ricevere”; e che,  “anziché trincerarsi dietro ‘valori non negoziabili’, sia meglio seguire la via evangelica dell’esempio e della proposta quotidiana dell’amore cristiano” .
      Dimenticavo. I due autori del volume non sono dei mangiapreti in preda a chi sa quale risentimento, ma due apprezzati giornalisti cattolici: Francesco Anfossi è una firma di “Famiglia cristiana” e di “Jesus”, Aldo Maria Valli è vaticanista Rai del Tg 1. La casa editrice è la San Paolo di Milano.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

martedì 12 marzo 2013

Interroghiamoci sul Movimento 5 Stelle

Caro Augusto,

 mi farebbe piacere aprire con te  - e con i lettori del tuo blog - una riflessione comune su un tema che mi sta a cuore.

Esterno insieme alle simpatie per il M5S personali perplessità di
fondo. Sarei grato di un contributo nel merito per farmi chiarezza.

Il giorno dopo le elezioni nel blog del M5S avevo letto:

«Cercavamo una porta per uscire. Eravamo prigionieri del buio.
Pensavamo di non farcela. Ci avevano detto che le finestre e le porte
erano murate. Che non esisteva un’uscita. Poi abbiamo sentito un
flusso di parole e di pensieri che veniva da chissà dove […] erano
parole di pace, ma allo stesso tempo parole guerriere. Le abbiamo
usate come torce nel buio e ora siamo fuori, siamo usciti nella luce…»

Con gergo sacrale è evocato un immaginario sociale scisso in due
categorie inconciliabili: da una parte antichi faraoni miscredenti e
crudeli, dall’altra la novella comunità degli eletti immacolati che
sconfigge i tiranni approdando all’agognata terra promessa. Lì la
folla dei prescelti da un Dio ignoto gioisce per l’eroica vittoria e
si commuove per l’avvenuta redenzione. Forse sto esagerando e anche
parodiando eppure mi chiedo e ti chiedo:
vedi rischi di una impostazione gerarchica e di suggestione di gruppo
che potrebbero annichilire il pensiero personale? Il M5S potrebbe
contenere in nuce irrecuperabili derive poco democratiche?
Annoto che più le piazze si riempivano e più la semantica di Grillo
virava in direzione mitica, biblica, quasi apocalittica e i comizi si
trasformavano in prediche.
Subodoro un tralignamento dal civismo al parareligioso - nella
fattispecie di Grillo un mix di Savonarola e dei Blues Brothers che
tirano dritto indifferenti al confronto dialettico col diverso da sé
- che non mi piace. Esagerazione e semplicismo nell’annunciare al
mondo una presupposta verità assoluta, perfetta, messianica,
invincibile, per fortuna più simile a quella di un predicatore
pentecostale americano che a quella di un duce nostrano.
Quando in una comunità il pensiero del singolo tende a diventare
evanescente fagocitato nell’anima di gruppo e mistiche comunitarie
vengono confuse con prassi politiche non ne è mai uscito nulla di
buono. Ritieni il M5S indenne da queste potenziali derive?

Bruno Vergani


* Carissimo Bruno,
     dopo Mussolini e dopo Berlusconi nulla mi appare ormai incredibile per noi arruffoni italiani. Non ho votato 5 Stelle perché preferivo la calda umanità di Nicki Vendola e la lucida determinazione di Antonio Ingroia, pur sapendo che  - ancora una volta - mi sarei trovato fra gli sconfitti della ragioneria contabile.
    Ciò premesso, devo confessarti che sono in attenta osservazione su ciò che accadrà nelle prossime settimane e non mi sento di gridare troppo presto "al lupo", anzi "al grillo". I motivi per cui non escludo nessuna "deriva" fondamentalista-autoritaria, ma neppure la temo come probabile o addirittura certa, sono essenzialmente tre:

a) il primo motivo è il più debole: mi fido del fiuto di gente come Marco Travaglio e di altri amici (essendo lettori di questo blog, potranno se vorranno spiegare meglio di me le loro ragioni) che hanno votato M5S
b) il secondo motivo è più consistente: Grillo ci ha salvati da Berlusconi. Mi pare di capire che ha rubato molti voti al PD ma moltissimi al PDL: se fossimo rimasti con lo schieramento di prima, il diabolico Ciarlatano sarebbe premier
c) il terzo motivo è il più forte (ai miei occhi): Grillo può "costringere" la Sinistra a fare cose di sinistra, per disperazione se non per convinzione. Hobswamm ha scritto che il socialismo sovietico ha fatto molto più bene in Occidente che in Urss perché ha costretto il capitalismo ad attivare il Welfare State e tutta una serie di misure pro-operai per evitare che le masse diventassero comuniste. Prevedo, o molto più limitatamente, spero che qualcosa di simile avvenga in Italia.

Tu giustamente sei preoccupato del registro linguistico profetico-omiletico di Grillo, ma a temperare le tue preoccupazioni potrebbero giocare due considerazioni:
a) la prima è che ognuno è esperto nel proprio linguaggio e Grillo ha sempre comunicato in questa maniera (anche quando si andava ai teatri ad ascoltarlo pagando fior di quattrini): sarebbe stato strano, oltre che poco efficace per lui, mutare stile entrando in politica (almeno quanto sarebbe stato strano vedere un Monti che si agitasse urlando le sue proposte);
b) la seconda è che i predicatori televisivi americani si appellano, esclusivamente o comunque in ultima analisi, alla fede basata sul sentimento, laddove Grillo si appella, esclusivamente o comunque in ulima analisi, alla verifica razionale e tecnica delle sue teorie. Perciò è, a mio avviso, meno pericoloso di quanto appaia: se urla una teoria sul risparmio energetico o sulla democrazia telematica o sulla metamorfosi della mafia che ormai non uccide al contrario di Equitalia...chiunque di noi può verificare, con la sua testa e con l'esperienza, dove ha ragione e dove ha torto. Mentre, se minacciasse la fine del mondo il 12.12.2012 o promettesse il paradiso a chi si lascia morire da kamikaze o proclamasse il divieto dei preservativi in Africa a nome e per conto di Dio...sarebbe micidiale.

Ma mi taccio perché forse altri vorranno dire una parola più meditata della mia.
Ti abbraccio,
Augusto

giovedì 7 marzo 2013

Ci vediamo domenica 10 marzo a Palermo?




Domenica 10 marzo
dalle 17,30 alle 19,00
quarta sessione di filosofia-in-pratica
della "Piccola scuola di filosofia di strada"
condotta da Augusto Cavadi. 


Tema dell'incontro: 
 "L’amore e le sue trappole"

Luogo:
CeSMI di Palermo, via M. Stabile 261.

Accoglienza partecipanti ore 17-17,30.

Per partecipare occorre essere socio del Cesmi
 (quota annuale euro 40 con validità 1 anno dal momento dell' iscrizione).

 Le persone iscritte al Cesmi devono, inoltre, versare per ogni incontro  
 la quota di partecipazione di euro 8,00.

Se si preferisce abbonarsi ai restanti 4 incontri, la quota di 40,00 euro

 dà diritto gratuitamente al volume di Augusto Cavadi
 “E, per passione la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze”, 
Di Girolamo, Trapani 2008, euro16,50. 
(Per chi lo possedesse, un altro simile a scelta). 

Per ulteriori  informazioni  tel 091 9820468 - 3396749999 .

mercoledì 6 marzo 2013

La proposta per la prossima estate intelligente

Care e cari,

  per qualcuno di voi è troppo presto per pensare alle vacanze estive, ma per qualche altro  - che deve mettersi d'accordo per i turni con i colleghi in vari contesti - è già tempo di avere le idee chiare.
  Per questo, rispondendo ad alcune sollecitazioni, anticipo adesso la/le proposte per la prossima estate 'filosofica', riservandomi di pubblicare su questo blog le notizie più dettagliate subito dopo pasqua.

La novità essenziale è questa: con Elio Rindone siamo riusciti ad 'accorpare' (geograficamente e cronologicamente) la tradizione "Vacanza filosofica per non...filosofi" con la Seconda edizione della Filofest ("Festa nazionale della filosofia di strada"). 

Più precisamente:

Dalla cena del 24 agosto al pranzo del 30 agosto, a Leonessa (Rieti), si svolgerà la settimana filosofica coordinata da Elio (con l'aiuto di Mario Trombino e Francesco Dipalo) sul tema "Il divino al vaglio della filosofia".

Chi vorrà potrà spostarsi di poco più di 100 kilometri (in meno di due ore di auto) dall'altro versante dei Monti Sibillini e raggiungere Amandola dove, dalle 17 dello stesso venerdì 30 agosto sino al pranzo di domenica 1 settembre avrà luogo la Seconda edizione della "Filofest". Sulla falsariga dell'edizione entusiasmante dello scorso anno (con la partecipazione totale di circa trecento persone ai vari eventi), ognuno potrà scegliere a quali "pratiche filosofiche" partecipare da "non filosofo" di mestiere, ma da "filosofo" per passione: colazioni filosofiche, dibattiti, meditazioni laiche, passeggiate nel bosco, concerti...Tra i filosofi che, come l'anno scorso, si metteranno in gioco, sono previsti per quest'anno: Roberto Mancini, Luigi Lombardi Vallauri, Maria Luisa Martini, Luisa Sesino, Neri Pollastri, Pierpaolo Casarin (accompagnato dalla bravissima cantautrice-arpista Roberta Pestalozza, Mario Trombino. 

Insomma: vi abbiamo preparato un 'pacchetto' per 8 notti di seguito, ma è ovvio che ciascuno

- dovrà prenotare alloggio e vitto per conto proprio (dove vorrà o nelle strutture convenzionate che vi suggerirò nel prossimo avviso)

- potrà scegliere, eventualmente, di partecipare soltanto alla settimana filosofica (24/30 agosto) o soltanto alla festa della filosofia di strada (30 agosto/1 settembre).

   Spero di essere stato abbastanza chiaro, ma resto a disposizione per tutte le ulteriori specificazioni.
Augusto

acavadi@alice.it
091.6377018
338.4907853

martedì 5 marzo 2013

Quando PCI e parroci marciarono insieme contro la mafia


“Repubblica- Palermo”
27.2.2013

I RITARDI DELLA POLITICA E DELLA CHIESA NELLA LOTTA ALLA MAFIA

Esattamente trent’anni fa, il 26 febbraio del 1983, un giovane comunista (Vito Lo Monaco, oggi presidente del Centro studi “Pio La Torre”) e un giovane prete (Cosimo Scordato, oggi rettore della Chiesa “S. Francesco Saverio”), stanchi di vedere moltiplicarsi i cadaveri nel “triangolo della morte”, organizzarono una marcia popolare contro la mafia da Bagheria a Casteldaccia. Che non se ne perda memoria è necessario per molte ragioni, convergenti nell’intento di evitare che ogni generazione ricominci ogni volta daccapo, come se non fosse stata preceduta da esperienze, risultati positivi ed errori. Che ci insegna uno sguardo retrospettivo su quell’avvenimento, allora clamoroso?
Prima di tutto che il coinvolgimento popolare in manifestazioni affollate svolgono una funzione importante di denunzia, di risveglio delle coscienze. I cortei non sono delle sceneggiate inutili. Ma – e questo va aggiunto immediatamente – possono diventarlo quando, da momento eccezionale di mobilitazione, diventano riti ciclici che si autointerpretano come sufficienti. Quando non sono l’avvio di una fase nuova d’impegno diuturno, di lungo periodo, le manifestazioni di piazza sono destinate a illudere e a deludere. Non è un caso che i promotori della marcia di allora, in questi tre decenni, hanno lavorato e continuano a lavorare sodo, spesso lontano dai riflettori, sia nel campo culturale dell’informazione e della formazione (Centro studi “Pio La Torre”) sia nel campo dell’evangelizzazione e della promozione sociale (Chiesa e Centro sociale “S. Francesco Saverio”).
Istruttivo, poi, il fatto che i promotori di quella marcia storica appartenessero a organizzazioni diverse come il PCI e la Chiesa cattolica. Significativo perché dimostra che la pregiudiziale antimafiosa, in linea di principio, non dovrebbe conoscere barriere ideologiche e che solo di caso in caso vanno operate le necessarie esclusioni. Significativo, inoltre, che quell’iniziativa suscitò qualche emulazione sia fra i comunisti sia fra i cattolici, ma altrettanto significativo, infine, che da allora ad oggi né il PCI – PDS – DS – PD né la Chiesa cattolica hanno assunto come centrale il contrasto con il sistema di potere mafioso. Non lo ha fatto lo schieramento di centro-sinistra che, per non andare lontano, ha giocherellato con Raffaele Lombardo sul filo di lana della differenza fra responsabilità penale (ancora da dimostrare) e responsabilità politica (di evidenza oggettiva). Non lo ha fatto la Chiesa siciliana che, allora, tirò le orecchie ai presbiteri così pericolosamente vicini a comunisti (tanto che, per protesta, don Francesco Michele Stabile si autosospese per più di un decennio dal ministero ecclesiastico) e che, in tempi più recenti, non si è preoccupata di sconfessare neppure uno dei tanti politici finiti in galera per collusioni mafiose dopo carriere vistosamente costruite sventolando l’appartenenza cattolica.
Fortuite coincidenze temporali (le dimissioni di Benedetto XVI e le elezioni politiche) hanno evidenziato in questi giorni le crisi parallele della Chiesa cattolica e del sistema parlamentare italiano. La rinnovata consapevolezza di dover troncare legami con ambienti corrotti e criminali potrebbe costituire, per entrambe le Istituzioni, un’occasione di recupero di credibilità e di rilancio del loro ruolo.

Augusto Cavadi

venerdì 1 marzo 2013

Da Gesù a Raztinger secondo Elio Rindone


“Centonove”
1 marzo 2013


DA GESU’ A RATZINGER SECONDO RINDONE


Non è un instant book che, furbescamente, voglia sfruttare la notizia del momento. Da Gesù a Ratzinger. Ideale evangelico e cattolicesimo reale (www.ilmiolibro.it, Roma 2013, pp. 247, euro 14,00), di Elio Rindone, è uscito infatti dieci giorni prima che Benedetto XVI annunziasse le dimissioni. Pur non essendo stato scritto per l’occasione, il libro getta sulla vicenda papale delle luci diverse - e più penetranti - rispetto a molti commenti che sono circolati nel mondo in questi giorni.

    Innanzitutto, infatti, serve a ridimensionare la portata della decisione di Joseph Ratzinger: le sue dimissioni sono così poco sconvolgenti da essere addirittura previste dal diritto canonico come un’eventualità ordinaria. Né potrebbe essere altrimenti se si riflette che lo stesso diritto canonico impone ai vescovi di tutto il mondo di rassegnare le dimissioni al compimento del 75 ° anno di età e vieta ai cardinali che hanno compiuto 80 anni di partecipare al conclave per l’elezione di un nuovo papa. Ma il papa non è forse tale in quanto vescovo di Roma? E’ logico che una legge valga per tutte le diocesi tranne che per la diocesi più impegnativa? E’ logico che la stessa legge escluda che a 80 anni suonati si sia in grado di indicare un nuovo papa ma ammetta che, alla stessa età, si possa invece esercitare il ministero petrino?  Sconvolgente non è che un papa si dimetta a 86 anni, ma che non lo abbia fatto molti anni prima; anzi, che sia stato eletto nonostante avesse già superato quei 75 anni che rappresentano il limite massimo di permanenza in una cattedra episcopale.

    Il libro di Rindone può, ancor più, smontare un’altra opinio communis circolante in questi giorni: che papa Benedetto XVI stia gettando la spugna perché impotente a risolvere una crisi ecclesiale di cui sono responsabili molti altri curiali, dal Segretario di Stato cardinal Bertone (una specie di primo ministro rispetto al monarca assoluto) al cameriere privato Paolo Gabriele. Questa rappresentazione fa di Ratzinger il martire e di chi lo circonda una banda di carnefici. E’ davvero così? Intanto dovrebbe indurre qualche sospetto il fatto che il papa ha scelto personalmente tutti i suoi collaboratori e che ha il potere indiscutibile di licenziare in tronco chi voglia, in qualsiasi momento e senza dare spiegazioni. Ma la considerazione decisiva, su questa prospettiva martire-carnefici, è un’altra: Ratzinger non è vittima di una crisi ecclesiale più di quanto ne sia un responsabile. Egli non è un leader che non ha saputo risolvere i problemi, è parte considerevole dei problemi. Elio Rindone abbonda, nei saggi qui raccolti, di esemplificazioni.

     Allora - e arrivo a un terzo e ultimo ordine di considerazioni - la questione seria non è come avere un papa più giovane o più nero o più mite o più caloroso… E’ chiedersi se la Chiesa cattolica, che ha inventato la figura del pontefice massimo stravolgendo cenni evangelici e sommesse prassi dei primi secoli, possa andare avanti nella storia senza ricredersi su questo punto così caratteristico. Personalmente sono del parere che nessun maquillage può davvero modificare il presente e il futuro della Chiesa se non si ritorna a quel clima di fraternità, di partecipazione democratica, di corresponsabilità, di libertà di parola che, secondo il Nuovo Testamento e secondo la storia della Chiesa del primo millennio, ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo della comunità credente. Solo un Concilio ecumenico Vaticano III che, sciogliendo le ambiguità del Vaticano II di mezzo secolo fa, facesse mea culpa sulla ipertrofizzazione del ministero papale (e dunque chiudesse definitivamente la secolare parentesi dei papi-re, dei papi che dichiarano infallibilmente di essere infallibili quando parlano ex cathedra, a cominciare dalla dichiarazione di… infallibilità) potrebbe davvero salvare la Chiesa cattolica romana dalla lenta estinzione verso cui sembra destinata.

Augusto Cavadi