venerdì 27 settembre 2013

I mafiosi (più o meno) matti da legare


“Centonove” 27.9.2013

MAFIOSI  MATTI DA LEGARE?


I mafiosi sono pazzi? Solitamente non si direbbe. Mostrano lucidità progettuale, autocontrollo delle emozioni, determinazione nell’esecuzione degli ordini ricevuti. Tuttavia ci si potrebbe chiedere se questa ‘normalità’ non nasconda una follia radicale, trascendentale: la follia di chi rinunzia a un’esistenza sobria, ma serena, per una vita di lusso e di dominio (talora, in latitanza o in galera, solo di dominio) perennemente esposta alla vendetta di criminali concorrenti.
  La cronaca registra anche casi di follia al quadrato: mafiosi che, in aggravio della loro follia basica, escono davvero fuori di testa, per le ragioni più disparate (non diversamente da ciò che capita a cittadini onesti che non reggono a crisi esistenziali, disgrazie fisiche o  malanni biologici). In queste  evenienze, però, Cosa nostra scarica l’adepto: come spiegano Corrado de Rosa e Laura Galesi nel loro intrigante Mafia da legare (Sperling & Kupfer, pp. 268, euro 18,00), “un uomo d’onore non può permettersi il lusso di sembrare inaffidabile e di incarnare i luoghi comuni della pazzia”. Eppure la storia delle mafie è costellate di cartelle cliniche attestanti disturbi mentali, anoressie, fobie, depressioni gravissime…Sono al 99% casi di criminali che, restando nell’orbita della follia-di-fondo (“un mondo intriso di paranoia”), esibiscono  un altro di genere di meta-follia: la follia simulata. Ma se è vero che “non c’è grande processo di mafia in cui qualcuno, prima o poi, non abbia tirato fuori la pazzia per se stesso o per qualcun altro come attenuante o come strumento per delegittimare dichiarazioni sconvenienti”, si impone un interrogativo: sarebbe possibile questa serie impressionante di imbrogli  - talora vani talora riusciti – senza la complicità della categoria dei medici?
   La domanda è retorica; purtroppo evidente la risposta. Franchetti, Mineo, Santino e – dopo di loro – molti altri hanno focalizzato il proprium della mafia: chi vi entra o fa parte della borghesia o vuole farne parte. Le chiacchiere sulla mafia come anti-Stato, come rifiuto della modernizzazione capitalistica in nome di nostalgiche epoche feudali, restano chiacchiere: i mafiosi vogliono entrare nello Stato, in questo Stato, e ci vogliono entrare da classe dirigente. Chi è già dentro la stanza dei bottoni è costretto a scegliere: o esce (su una bara onorata dalle autorità civili, religiose e militari, nel caso non si sia dimesso  spontaneamente ritornando a vita privata) o accetta di farsi complice (la trattativa tra mafia e Stato è strutturale nella storia italiana dal 1861 a oggi; ogni tanto cogliamo le punte dell’iceberg). Esempi del primo genere: il dottor    Sebastiano Bosio, falsamente “delegittimato post mortem , e il dottor Paolo Giaccone, trucidato sotto l’Istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo, reo di non aver voluto redigere “una falsa perizia dattiloscopica che scagionasse un pericolosissimo killer mafioso”. Esempi del secondo tipo: Michele Navarra (Corleone), Antonino Cinà e Giuseppe Guttadauro (Palermo). Talora sono professionisti  originariamente onesti che vengono corrotti per denaro: optano fra i quattrocento euro  lordi di una perizia giudiziaria e i “dieci volte tanto” offerti, per una contro-perizia, dai clan. I vantaggi degli imputati si frastagliano su tre livelli: “proscioglimento” (se un imputato è riconosciuto incapace di intendere e di volere nel momento del reato); “sospensione dei processi” (se è riconosciuto incapace di seguire ciò che accade durante il dibattimento); “uscita dal carcere” (se è riconosciuto affetto da malattie incompatibili con il regime carcerario).
    Una delle tante lezioni che si ricavano dal libro a quattro mani di De Rosa e Galesi: il vero nodo  della lotta alla mafia non è che i mafiosi facciano i mafiosi (questo è, in un certo senso, il loro ruolo: in ogni contesto sociale i criminali giocano a fare i criminali), bensì che troppi cittadini, pur non essendo organici a Cosa Nostra, trovano mille ragioni (interesse, paura, ignoranza, sete di potere…) per farsene complici. Per alcune di queste ragioni non c’è rimedio (ci sono e ci saranno sempre avvocati, medici, chimici, bancari…che vorranno scalare le gerarchie sociali servendosi di ignobili scorciatoie), ma per altre va approntato: non si può pretendere che un singolo cittadino, senza la solidarietà della propria categoria professionale e delle istituzioni statali, si opponga alle minacce mafiose. Eroi per caso, martiri civili, ne abbiamo avuto abbastanza: è arrivato il tempo in cui non dovrebbe essere eccezionalmente pericoloso rifiutarsi di firmare una diagnosi falsa o una prescrizione infondata.  Non è solo il sistema giudiziario a essere sotto scacco, ma la stessa conivivenza democratica del Paese.

    Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

mercoledì 25 settembre 2013

Intervista di Iria Cogliani a Francesco, Rosaria e me sulla prossima presentazione a Messina

 Iria Cogliani ha pubblicato una triplice intervista sul nostro libro su:
 http://www.lafeltrinellipointmessina.it/?p=249



“Si può testimoniare di un prete che la Chiesa cattolica proclama ‘beato’ senza cedere alla retorica, alla falsificazione storica, al buonismo interpretativo?” è la domanda della quarta di copertina di “Beato tra i mafiosi” che verrà presentato al Feltrinelli Point Messina lunedì 30 settembre alle ore 17,45.
La risposta è che in “Beato fra i mafiosi” (Di Girolamo Editore) i tre autori ci provano (nella foto sopra una degli autori, Rosaria Cascio, insieme con Gregorio Porcaro, vice parroco di Puglisi a Brancaccio sino al giorno della sua morte, nella foto in basso gli altri due autori, da sinistra: Augusto Cavadi e Francesco Palazzo, ndr).

Francesco Palazzo è stato presidente della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo, scrive per Repubblica Palermo, per il settimanale messinese Centonove e per il quotidiano online LiveSicilia. Nel libro ricostruisce i tre anni di Don Puglisi a Brancaccio, con qualche cenno a quanto accaduto dopo e traccia inoltre una storia recente, sino all’arrivo di Don Pino, della parrocchia di S. Gaetano e del quartiere. Augusto Cavadi scrive per Repubblica Palermo, è autore di vari libri sul rapporto fra le chiese cristiane e le mafie, tra i quali “Strappare una generazione alla mafia, Di Girolamo editore, e “Il Dio dei mafiosi”, San Paolo edizioni. Cavadi riflette sul significato teologico e filosofico di questo martirio evidenziando soprattutto come esso costituisca la spia eloquente di una comunità ecclesiale spesso indifferente. Rosaria Cascio, insegnante di lettere in un liceo di Palermo, è cresciuta nei gruppi giovanili di padre Puglisi ed è Presidente dell’Associazione “Padre Giuseppe Puglisi. Sì, ma verso dove?”. Cascio ricostruisce la metodologia pastorale di Don Pino alla luce della sua formazione teologica e psicologica e delle diverse esperienze nel corso della sua generosa esistenza.

Lunedì 30 al Feltrinelli Point i tre autori incontreranno i loro lettori. Con loro interverranno Nino Mantineo, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Messina e il giornalista di Centonove Michele Schinella.
L’idea del libro, spiega Francesco Palazzo, “è nata dalla considerazione che occorresse raccontare in maniera non agiografica alcuni aspetti di Puglisi e del contesto storico in cui visse i suoi ultimi tre anni a Brancaccio. Anche mettendo in evidenza, oltre le sue giuste intuizioni, la sua coerenza, il suo coraggio, anche qualche aspetto più critico del suo operato su cui discutere serenamente”. Nel libro, ricorda, si ricostruiscono in maniera approfondita i decenni precedenti dell’arrivo di Puglisi a Brancaccio, perché “la sua azione a Brancaccio aveva già avuto delle premesse nello stesso senso, anche se con diversa intensità esistenziale, con altri parroci”. Poi, scandagliando le precedenti esperienze di Puglisi, viene fuori il suo metodo: coerenza, ascolto, coinvolgimento nell’azione, studio dell’ambiente, programmazione. Inoltre, “si avanzano alcune interpretazioni teologiche e pastorali sul suo impegno a Brancaccio, come ad esempio il suo metodo genuinamente nonviolento. Infine, dei suoi tre anni a Brancaccio si mette in evidenza che egli fu ucciso dalla mafia non tanto per la sua azione nei confronti dei bambini ma per il suo coinvolgimento diretto e costante con un gruppo di adulti del quartiere che combatteva per diritti e strutture pubbliche”.

“Nei mesi di stesura del libro – aggiunge Rosaria Cascio – ho capito che in fin dei conti non stavo solo scrivendo un libro ma provavo a mettere pace dentro di me dopo il furto affettivo subìto con l’uccisione di padre Puglisi. Mi sono sentita un fiume in piena. Perchè si uccide un prete? Cosa poteva aver fatto in soli tre anni? Capirlo, approfondirlo e renderlo imitabile e riproducibile, questo ho tentato di fare con il libro, scrivendo quanto avevo appreso in anni e anni di confronto con gli amici e collaboratori più intimi che lui aveva avuto. Questo libro si pone dentro un processo di conoscenza che porta fino al cuore del suo modo di abbattere le pareti del tempio per consentire l’incarnazione del Bene nella storia degli uomini”. Complessa la scrittura a sei mani? “Si, ma coinvolgente e appagante. Ciascuno ha dovuto limare e collocare al meglio il proprio contributo”, dicono gli autori. Ciascuno dei quali ha un aneddoto o un momento topico del periodo della stesura da raccontare. Compresa la “crisi” al momento di scegliere il titolo. “Il momento più critico – racconta Augusto Cavadi – è stato quando si decideva il titolo. C’era il timore che il titolo ‘Beato tra i mafiosi’ potesse essere inteso ‘Beato fra gli abitanti di Brancaccio’ e che la gente del quartiere potesse urtarsi per la generalizzazione. Ma il titolo è paradossale, e certo a Brancaccio la popolazione non è costituita tutta da mafiosi, esattamente come non lo è la popolazione siciliana. Sono felice che il titolo scelto sia stato questo. Attira più lettori di quanti si temesse ne potesse respingere”.

E sull’incontro messinese, una conclusione, soprattutto. Per Palazzo l’auspicio è che “ispiri la voglia di leggere il libro, di fare in modo che si capisca che la vicenda di padre Puglisi non è un fatto lontano, un fatto ‘palermitano’; e soprattutto che aiuti a capire come può essere diversa e più incisiva la chiesa locale, messinese”. “Ho imparato – aggiunge Cavadi – molto dalle parti scritte da Francesco e da Rosaria. Tanti dettagli della vicenda Puglisi ne fanno un anticipatore dello stile dell’attuale papa Francesco”. “Sento forte – conclude Cascio –il bisogno di non fermarmi, vivo questo libro come tappa di un percorso di impegno che mi porterà a costruire, con tantissimi altri amici, il puglisianesimo”.

 



martedì 24 settembre 2013

Ci vedaimo lunedì 30 settembre 2013 a Messina?

Infatti, alla Feltrinelli di Messina (ore 17,45), con Francesco Palazzo e Rosaria Cascio, presenteremo il nostro libro

    BEATO   FRA   I  MAFIOSI. DON PINO PUGLISI: STORIA, METODO, TEOLOGIA

(Edizioni Di Girolamo, Trapani 2013)

Per l'occasione saranno in vendita anche i due volumetti più agili, 
che ho scritto con Lilli Genco, 
per i bambini (5 - 8 anni):  
Don Pino Puglisi (Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013)
e per gli adolescenti (11 - 17 anni):  
Il mio parroco non è come gli altri (Di Girolamo, Trapani 2013).

venerdì 20 settembre 2013

La Biblioteca regionale di Palermo a Leonardo Sciascia o ad Alberto Bombace?

Un amico, Nino Cangemi, ha proposto sul quotidiano on line www.siciliainformazioni.com di intitolare la Biblioteca regionale di Palermo a Leonardo Sciascia (riservando all'attuale intestatazio, Bombace, una delle sale interne).
Richiesto di un commento alla sua proposta
 (www.siciliainformazioni.com/sicilia-informazioni/55946/intitoliamo-la-biblioteca-regionale-di-palermo-a-leonardo-sciascia)
ho espresso la mia opinione:

I dirigenti regionali godono, già in vita, di privilegi innumerevoli. Non è neppure questione di onestà individuale: è proprio un sistema che esalta a livelli inimmaginabili in altri ordinamenti democratici il potere e le remunerazioni degli alti burocrati nell ‘isola ‘autonoma’ da ogni principio etico. Dobbiamo anche in morte perseverare in questa sudditanza, prolungare questa sperequazione? O non possiamo ripagare i nostri intellettuali – se impegnati civilmente, se estranei essi stessi alle logiche clientelari – della testimonianza di dignità schiva e feconda che ci hanno regalato, contribuendo a bilanciare in senso positivo l’immagine della Sicilia nel mondo? Sì, dunque, alla proposta di intitolare la Biblioteca regionale a Leonardo Sciascia, a patto che sia un primo passo verso la liberazione della stessa Biblioteca dal parassitismo e dall’inefficienza che, al di là della buona volontà di singoli operatori, la mortificano.


martedì 17 settembre 2013

L'intervista televisiva di Laura Poma a Francesco Palazzo e me su don Pino Puglisi

Dal sito del giornale Palermomania.it:


Laura Poma intervista Augusto Cavadi e Francesco Palazzo
sulla vicenda don Pino Puglisi

Ci vediamo domenica 22 settembre a Mezzojuso (Palermo)?

Per domenica 22 settembre, alle ore 17.00
presso il Castello di Mezzojuso (Palermo),
la Consulta giovanile del Comune greco-latino 
(presieduta da Valeria Lopes)
ha organizzato un incontro dibattito 
sulla figura e il martirio per mafia di don Pino Puglisi.
Insieme a me parteciperanno
Pino Martinez (uno dei leader del Comitato di via Hazon a Brancaccio) 
e Gregorio Porcaro (nel 1993 vice-parroco di don Pino a San Gaetano).
Per l'occasione sarà allestito un banchetto con i libri che, 
insieme ad alcuni amici, 
ho dedicato a don Puglisi:
* Beato tra i mafiosi (Di Girolamo) per adulti
* Il mio parroco non è come gli altri (Di Girolamo) per adolescenti
* Don Pino Puglisi (Il pozzo di Giacobbe) per bambini.

domenica 15 settembre 2013

L'ultima partita di Pasolini a Trapani


“Repubblica – Palermo” 15.9.2013

PASOLINI A TRAPANI PER “L’ULTIMA PARTITA”


Il 4 maggio del 1975, a Trapani, una partita di foot-ball fra una squadra di calciatori locali e una squadra di uomini dello spettacolo. Tra i più giovani spettatori un ragazzino dodicenne che, quaranta anni dopo, dedica un agile, accattivante, libretto a quell’episodio oggettivamente trascurabile. La ragione?  A capitanare la squadra degli artisti è Pier Paolo Pasolini che, pochi mesi dopo, troverà i suoi assassini all’Idroscalo di Ostia. Insomma, molto probabilmente, come recita il titolo della pubblicazione, edita da Stampa alternativa, quella giocata con impegno sarà  L’ultima partita di Pasolini. Salvatore Mugno rimpolpa i vaghi ricordi con le testimonianze dei protagonisti ancora rintracciabili e con fotografie che suffragano una dichiarazione di Pasolini: “Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Non mancano episodi curiosi come la disavventura di Pasolini e Ninetto Davoli che, dopo cena, si allontanano da soli in un’ auto per gironzolare. Li ferma una pattuglia della polizia, i due non hanno con sé i documenti e dichiarano a voce la propria identità: ma i poliziotti li riaccompagnano in hotel per i riconoscimenti di rito. Mugno conserva nella memoria quest’immagine di Pasolini: “Quell’uomo magro e atletico, con la faccia da vecchio, che si dannava per vincere. Me lo ricordo bello, scattante, serio”.

Augusto Cavadi

***
S. Mugno, L'ultima partita di Pasolini, Stampa Alternativa, Roma 2013, pp. 32, euro 1,00.
      

sabato 14 settembre 2013

La "memoria sovversiva" di don Pino Puglisi in due libri recensiti da Maria D'Asaro

Vent’anni fa, il 15 settembre 1993, Cosa Nostra assassinò padre Pino Puglisi. Il 25 maggio scorso la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato per la sua opera di evangelizzazione e promozione umana, riconoscendone il martirio per mano della mafia “in odium fidei”. Di recente due libri hanno riproposto in modo diverso, ma egualmente efficace, la vita e l’opera di 3P. Il primo, Beato tra i mafiosi (Di Girolamo, Trapani, 2013, €15) è un saggio a più voci, in cui i tre autori, Francesco Palazzo, Augusto Cavadi, Rosaria Cascio, ci offrono insieme un’inedita ricostruzione storico-sociale di Brancaccio, il difficile quartiere in cui 3P fu assassinato, alcune riflessioni filosofico/teologiche sulle caratteristiche di “un prete (quasi) normale” e una sintesi del senso e del valore pastorale del metodo “puglisiano”.
Francesco Palazzo ci tiene a sfatare un luogo comune: che a dare fastidio alla mafia sia stata soprattutto l’azione di padre Pino a favore dei bambini. Mentre, secondo le testimonianze raccolte e la convincente analisi dell’autore, padre Puglisi, forse lasciato un po’ troppo solo dalla Chiesa ufficiale, sarebbe stato ucciso perché operava “in maniera sistematica e insistente con gli adulti nel territorio, fuori dalla sagrestia”. Adulti del territorio per i quali venne fondato un centro di accoglienza e di promozione umana, il centro “Padre nostro”, che avvicinava le famiglie dei carcerati e aiutava le persone a essere protagoniste della loro vita e delle loro scelte. Gesto dirompente, in un quartiere in cui la mafia aveva il controllo del territorio.  
Ma che tipo di prete era 3P? Sebbene egli stesso abbia detto chiaramente di non sentirsi un prete antimafia, Augusto Cavadi sottolinea che non per questo padre Pino è stato neutrale o equidistante, perchè “chi si alimenta alla fonte del Vangelo (…) e della costituzione italiana (…) non ha bisogno di etichette estrinseche”. Cavadi accosta poi la sua figura a quella di mons. Oscar Romero, il vescovo assassinato a san Salvador. Entrambi: “quando vedono con i propri occhi il volto demoniaco del dominio violento e prevaricatore, non arretrano. Capiscono che, pur essendo in primis responsabili dell’evangelizzazione, non possono limitarsi ad essa: devono prepararla, accompagnarla e seguirla con un’azione di promozione sociale”. Ecco allora il metodo “puglisiano” delineato da Rosaria Cascio: testimoniare il Vangelo dentro la storia, non considerare la parrocchia solo come dispensatrice di sacramenti, aprire la comunità ecclesiale alle attese e ai bisogni del territorio, con un’attenzione particolare per gli ultimi.
      Ritratto a tutto tondo dell’uomo e del sacerdote, quello di Francesco Deliziosi  in Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso (BUR, Milano, 2013, €11): libro che, sulla base di una documentazione ampia e approfondita, fa emergere la figura di un prete di cui non si può non essere affascinati. Grazie anche al profondo e consolidato legame di amicizia tra l’autore e padre Puglisi, che lo ebbe come allievo al liceo dove insegnava, Deliziosi ci offre una monografia davvero ricca e attraente, che dopo aver esplorato gli anni della sua formazione, ci racconta le sue vicende di parroco a Godrano, piccolo centro della provincia a 750 metri, dove 3P scherzosamente esclamava : “Sono il prete più altolocato della diocesi”. A Godrano padre Pino, chiamato “u parrinu chi cavusi”, riesce a riconciliare famiglie che si odiavano per una faida vecchia e sanguinosa.
    Il libro percorre poi gli anni trascorsi a Palermo dove, prima di accettare per spirito di servizio di fare il parroco a Brancaccio, padre Puglisi sarà direttore del centro diocesano vocazioni e si occuperà di formazione e assistenza spirituale a 360° per giovani e non. Un prete con “un’attitudine straordinaria all’empatia (…) che ti dava la calda certezza di guardare solo te e di parlare solo con te, tu e lui soli nell’universo. Se ci incontreremo col Signore (…) io credo che avremo la stessa sensazione”.
    Un prete che, secondo l’ideale di Karl Rahner, fu capace di sopportare “la pesante oscurità dell’esistenza assieme ai fratelli” e di avere il coraggio “di far sua la non-forza della Chiesa”. Un prete che Cosa nostra decide di uccidere perché, come dirà il mafioso Bagarella “predica tutta ‘arnata (tutto il giorno)”, nella “costruzione di un’alternativa che svuotava dall’interno lo spazio della mafiosità”. Un prete “palermitano di Brancaccio, obbediente, povero, buono, coraggioso, impossibile da infangare, impossibile da zittire”. Un prete esile e minuto che, per non perdere tempo, mangiava … nelle scatolette e che, col suo sorriso e la sua carica umana e spirituale ridava la voglia di vivere anche a persone duramente provate dalla vita. Un prete che rispondeva a chi gli diceva di non sfidare i mafiosi: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?”, mostrando la sintonia con le parole pronunciate nel 2000 da Giovanni Paolo II: “Il credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione cristiana (…) non può escludere la prospettiva del martirio dal proprio orizzonte di vita.” Un prete che, in un colloquio con un amico ferroviere, gli ricordava che i santi non sono figure reali, irraggiungibili, ma persone che hanno vissuto in coerenza con Cristo.
     E allora, da queste due ottime rivisitazioni della sua vita e del suo impegno, un’unica raccomandazione: non trasformare padre Puglisi in un’icona da venerare, ma raccoglierne il testimone. Iniziando  a vivere un cristianesimo incarnato che mostri con i fatti che mafia e Vangelo sono incompatibili. Che in quest’opera, difficile e per nulla scontata, il sorriso di 3P, “che fece tremare la mafia”,  ci accompagni e ci illumini.    

                                                   Maria D’Asaro   (“Centonove” n.34 del 13.9.2013) 

venerdì 13 settembre 2013

Ci vediamo domenica 15 alle 17,30 a Palermo (quartiere Resuttana)?

Domenica 15 settembre 2013 sarà il ventesimo anno del martirio di don Pino Puglisi.
Francesco Palazzo ed io siamo stati invitati nella piazza San Lorenzo, nel quartiere Resuttana,
per inaugurare una festa di quartiere parlando del significato cristiano - ma anche civico - dell'impegno del prete ucciso dalla mafia.
 L'invito ci è stato rivolto a partire dai tre libri che il gruppo editoriale Di Girolamo (Trapani) ha dedicato a don Puglisi:
 il testo per adulti ("Beato tra i mafiosi"),
 il testo per gli adolescenti ("Il mio parroco non è come gli altri")
e il testo molto illustrato per i più piccoli (5 - 8 anni): "Don Pino Puglisi".

mercoledì 11 settembre 2013

150 parole di Maria D'Asaro su "Centonove" (bontà sua...)

“Centonove”, n.32/33 del 06.09.2013


Alla ricerca di una sana sessualità perduta 

A fine luglio, a Palermo, un prete cattolico è stato arrestato per sfruttamento della prostituzione minorile maschile. Tra i tanti commenti  sulla vicenda, si è distinto per acutezza di analisi quello di Augusto Cavadi, (“La Repubblica”-Palermo, 25.7.2013): Cavadi scrive che, pur senza una correlazione significativa tra pedofilia e celibato, esiste però una contraddizione tra quanto predicato dalla Chiesa cattolica su sessualità e omosessualità e una certa prassi diffusa da secoli al suo interno. Conclude invitando i cattolici a una corretta rilettura del messaggio sessuale biblico, a una fedeltà più attenta alle parole di Cristo e alla tradizione dei primi secoli di storia cristiana. Affinchè la Chiesa, ma anche “un’umanità meno violenta e più fraterna, riconciliata con gli altri animali e con il cosmo naturale, possa riscoprire la sessualità non come oggetto di compravendita del tutto prosciugato da ogni traccia di amore autentico, ma come linguaggio di comunicazione e di interscambio.”

Maria D’Asaro

martedì 10 settembre 2013

La svolta pratica della filosofia contemporanea secondo Davide Miccione


"Bollettino della Società Filosofica Italiana"

n. 207 settembre-dicembre 2012, pp. 107-109

 

 LA SVOLTA PRATICA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

          Un libro strano, quest’ultimo di Davide Miccione (Ascetica da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, Ipoc, Milano 2012, pp. 165, euro 18,00). Strano, intrigante, originale. Un po’ come certi cibi siciliani agrodolci: infatti lo si gusta con piacere immediato perché scorre su un registro finemente ironico ma, a fine di ogni capitolo, si intuisce che il nocciolo teoretico più consistente è sfuggito. Era di un sapore tutt’altro. Questa struttura palinsestica è evidente sin dal primo capitoletto in cui si spiega che si tratta di un libro di metafilosofia per negare, simultaneamente, che la metafilosofia esista: mentre, infatti, ha senso distinguere l’epistemologia della fisica dalla fisica o l’epistemologia della sociologia dalla sociologia, un’epistemologia della filosofia è già filosofia. Se si preferisce: è una filosofia della filosofia, dunque in ogni caso di filosofia si tratta.
    Quale che lo si voglia nominare, questo punto di vista “meta” è necessario per riflettere su un mutamento di “paradigma” (p. 21)  che, secondo l’autore, si sta realizzando nel mondo dei filosofi. Mutamento di paradigma, non di metodologie o di contenuti o di interessi: non l’imporsi di un nuovo sistema, di un nuovo maestro, di una nuova corrente, bensì il graduale – ma inesorabile – di un nuovo modo di concepire l’attività filosofica. Ognuno resta a fare ciò che ha sempre fatto (il logico, l’eticista, il metafisico…), ma lo fa con un altro esprit: per usare un vocabolo caro a Miccione, con un altro “stile”. Sulla falsariga di altri passaggi nella storia del pensiero, ma con ben altra radicalità, si può parlare di “svolta pratica”: un fenomeno talmente vasto che sarebbe riduttivo attribuirne la paternità a un determinato gruppo di pensatori (fossero pure i numerosi filosofi che, nel mondo, si riconoscono  - per quanto criticamente – in alcune suggestioni della Philophische Praxis proposta da Gerd Achenbach). Condivido, per esperienza personale, la difficoltà di discutere questa metamorfosi persino con studiosi solitamente acuti nelle analisi storiografiche: ti chiedono con insistenza nomi e cognomi, titoli di opere, tematiche preferenziali a cui far risalire l’origine di questa “svolta”, quasi incapaci di focalizzare qualcosa che accade non “nella comunità  filosofica internazionale”, ma “alla comunità filosofica internazionale” (p. 14). Per tentare di vincere questa resistenza (logica, non psicologica) ho pure scritto una lunga lettera a Mario Trombino ch è diventata un  e-book (La filosofia ci farà liberi? Un’interpretazione delle pratiche filosofiche, Bibienne, Fosdinovo 2011): ma non saprei valutare i risultati finali dell’operazione. Non è facile spiegare che, dopo una leggera scossa di terremoto, la città è  - nel suo insieme – esattamente la stessa di prima e pure totalmente differente.
     Un primo “equivoco” (per cui è così difficile comprendere che la svolta pratica “ha a che fare con l’identità disciplinare della filosofia e non solo con la sua dimensione contenutistico-descrittiva, non è un’estensione rispetto al territorio solito della filosofia tradizionale, ma una conversione”, p. 14)  può essere evitato concentrando l’attenzione sul semantema “pratica” non in quanto aggettivo, bensì in quanto sostantivo: dunque comprendendo che “la filosofia è diventata la sua pratica” (p. 19).  O, meno icasticamente (ma anche meno cripticamente), cogliendo un dato di fatto oggettivo: la scoperta, o la riscoperta, del “carattere primario della dimensione processuale” della filosofia “o, se si vuole, lo sciogliersi della filosofia nel concreto filosofare, nel suo venire esercitata” (ivi). Una svolta, si potrebbe chiosare in margine, che - se duratura - contribuirebbe a prevenire la follia da cui sono affetti, secondo Chesterton, alcuni filosofi: i matti perdono la ragione, questi  perdono tutto il resto  tranne la ragione.
    Nel terzo capitolo   Miccione propone una sorta di dimostrazione e contrario: se non fosse reale la svolta pratica della filosofia, avrebbe ragione Manlio Sgalambro nel diagnosticare illegibile e intollerabile la filosofia contemporanea: essa, infatti, se giudicata con gli antichi parametri della filosofia tradizionale, produttrice di opere monumentali destinate a sfidare i secoli, appare piuttosto condannata a un turn over di mode effimere; a immettere, come nel “mercato informatico” p. 21) , novità filosofiche  che “diventano obsolete ben prima di smettere di funzionare” (p. 22).  Sgalambro constata, con disprezzo, ciò che comunque il filosofo odierno non può far finta di non vedere: che l’epoca delle dottrine durevoli  - nell’intenzione dell’autore, se non nei fatti – ha ceduto il posto al “mito della infinita ricerca” (p. 25).
      Una prospettiva sulla svolta pratica non meno interessante, ma questa volta simpatetica nei confronti della cosa in esame, viene  - secondo Miccione – dal pensiero di Maria Zambrano. La quale resta fedele all’idea che la filosofia sia una costruzione in progress di testi scritti, ma rivendica quella “tradizione apocrifa della filosofia” (la citazione dalla Zamprano è a p. 28) che viene solitamente trascurata dagli storici, unilateralmente concentrati sul genere letterario del “trattato”, costituita da “una serie di generi alternativi, apparentemente laterali e d’occasione: meditazioni, dialoghi, epistole, consolazioni e anche le più ‘zambraniane’ confessioni e guide” (p. 29).  Nonostante la pensatrice spagnola rimanga “all’interno dell’universo di carta” (p. 32), mostra di anticipare la imminente “svolta pratica” intuendone e valorizzandone una caratteristica: “la reattività, valore connesso al vedere come opzioni artificiosamente create le condizioni con cui per secoli si è amministrato il pensiero: la stanza chiusa, la decisione data al filosofo dei tempi e dei modi del pensiero, la scelta degli argomenti, il sottrarsi alla domanda ” (ivi).
          Da questi rapidi accenni si potrebbe evincere che la novità non consiste nel cambio dell’ordine del giorno della discussione, ma in un nuovo modo di discutere (nuovo quanto ai luoghi, alle regole e soprattutto agli scopi): non in una ennesima “filosofia- dell’attività”, ma in una “filosofia-come attività”; non  in “una minuta attenzione della filosofia nei confronti della quotidianità”, quanto nella sperimentazione della “quotidianità come luogo entro cui si svolge la filosofia” (p. 34). E’ una questione di atmosfera, di Geist (che permea anche pensatori distanti dal pragmatismo americano, dalla “wittgensteiniana proposta di vedere la filosofia come attività e non come dottrina” o dalla “idea di porre il processo del pensiero al posto del pensato di cui parla Gentile”, p. 37): si potrebbe dire che “il pensatore viva e pensi ‘esposto’ a una filosofia ormai processualmente disposta indipendentemente dalle sue teorie in merito. Se è onesto [si potrebbe aggiungere: e se non è intontito dalla frequentazione esclusiva di biblioteche e archivi] se ne accorge  e, dopo, può anche permettersi di sputarvi  ‘teoreticamente’  sopra” (ivi).
    Questa svolta porta dritto, e senza scampo, a esiti nichilistico-relativistici? Miccione spiega perché la risposta sia negativa e perché “l’incontro-scontro dialogico (che è magna pars della filosofia dopo la svolta) […]  possa cogliersi come eterno gioco, ironia e conversazione quanto che esso sia dia come feroce, per quanto eterna,lotta per la verità” (p. 38). Ciò a cui invece si arriva necessariamente è  la “apertura alla totalità dei parlanti senza il vincolo della distinzione tra filosofi e non filosofi”: da intendere, però, non come licenza caotica, dal momento che, “se tutti possono, a livelli diversi di complessità […] accedere all’esercizio di una disciplina chiamata filosofia, allora ognuno può parlare per sé”, ma “la legittimità la si conquista sul campo onorando il logos nel discorso, non a priori” (p. 40).
      “Spostato il baricentro dell’interpretazione della filosofia dalla produzione di oggetti filosofici (siano essi i sistemi o i libri) alla mera attività” (p. 42) cadono vecchi – e difficilmente solubili – problemi: come distinguere il “vero” filosofo dal “cultore”, autore o destinatario di “divulgazione”?  Entrambi infatti sono dediti alla medesima attività (filosofare), anche se ovviamente non con la stessa profondità né con il medesimo rigore: la questione diventa analoga all’esercizio di uno sport, nel cui ambito “  alla domanda ‘cosa fai domani?’ rivolta al magazziniere-difensore dell’azienda alla vigilia della semifinale del suo torneo e al centravanti della squadra partecipante a un mondiale alla vigilia dell’inizio, entrambi possono rispondere a pieno titolo: ‘ho la partita, gioco da titolare’. Difficilmente qualcuno potrà seriamente eccepire che essi facciano due cose diverse” (ivi).
         Ma se la svolta pratica della filosofia, prima che oggetto di speranza o di timore, è oggetto di constatazione, va riconosciuto che, “attraverso l’osservazione, senza un criterio che ordini, quel che si coglie della svolta pratica è più che altro una grande confusione” (pp. 47- 48). Come trovare, però, in pratica, questo criterio? La difficoltà di trovare un metro in base al quale separare  nettamente il filosofico dal non-filosofico fa parte del gioco: è un indizio eloquente che abbiamo abbandonato la prospettiva antica, in cui la filosofia veniva  pensata “come dottrina (teoretica) o come strutturata successione di dottrine (storia)”, e siamo entrati nella nuova ottica della filosofia “diventata essenzialmente un’attività” (p. 53).  Proprio se questo “passaggio” è compiuto, bisogna interrogare   - più che la letteratura filosofica (magari alla ricerca, in un profluvio crescente di pubblicazioni cartacee ed elettroniche, del “tomo ponderoso” capace di compendiare e immortalare una lunga carriera docente)  – il vasto mondo delle esperienze e delle sperimentazioni pratiche.
           In questa ricerca un possibile filo conduttore orientativo potrebbe essere: è filosofico ciò che è riconducibile al nucleo generativo della filosofia, all’incontro dia-logico fra due soggetti concreti. Infatti, “se al centro vi è l’attività filosofica, la dimensione intersoggettiva naturale sarà il dialogare, così come, se al centro vi è la filosofia come oggetto o prodotto, sarà insegnare. Se la filosofia è attività, l’incontro tra le persone sarà l’occasione principe di pensiero e anche il luogo principale dove il pensiero accade, se è dottrina esso sarà solo una minaccia al filo dei pensieri” (p. 60).   Corollario, e riprova, di questa fedeltà al gesto originario dello scambio fra umani, indipendentemente da titoli di studio e posizioni sociali, è la cura per la “comprensibilità linguistica”: “mentre in quella cosa che è la filosofia il linguaggio tecnico iventa importante per costruire cose più complesse, in quell’attività che è il filosofare saper essere chiari significa giocare con il più alto numero di persone possibili, cioè esporsi all’occasione di pensiero in modo integrale” (p. 61).
    Importante sottolineatura: l’incontro fra due umani è fondativo del filosofare in quanto (a prescindere dagli aspetti relazionali, amicali, affettivi, psicologici, sociali etc.) entrambi si espongono alla vita “per pensare ciò che essa ci propone/impone” (p. 64). Infatti il “gesto originario” è simboleggiato da “Socrate che esce per via e non sa quali casi gli verranno incontro” (p. 66) lungo il giorno. Un gesto così denso di energia e così poci prevedibile da riuscire preoccupante per chiunque, dopo Socrate, abbia avuto il proposito di fare filosofia; una sorta di esplosione nucleare così espansiva da imporre, nei successori, una qualche forma di recinzione cautelativa: “in realtà” – osserva Mario Perniola citato con approvazione da Miccione – “c’è nella sessualità come nella filosofia un eccesso che è loro essenziale, che le costituisce in quanto tali, che […] li rende simili alla schiavitù e alla dipendenza dlla droga. Proprio a causa del loro eccesso, la sessualità corre verso il matrimonio e la filosofia corre verso l’università” (p. 67). Addirittura, secondo l’autore, si potrebbe provare a riscrivere la storia della filosofia occidentale come una storia di successive perimetrazioni: Platone che costruisce le mura protettive dell’Accademia, Aristotele del Liceo, Epicuro del Giardino…Di questa storia come “storia dell’  enclosure della filosofia come bene comune”, che ha l’università contemporanea come punto di arrivo (ma anche di crisi), una tappa significativa è “la costruzione medievale del filosofo professore” (p. 73).
    L’attuale svolta pratica vuole, dunque, invertire la tendenza e, senza sterili polemiche, problematizzare “la burocratizzazione dell’insegnamento della filosofia” di cui ha parlato Hadot (qui citato a p. 73).  Non è una svolta da osannare acriticamente e neppure da vituperare altrettanto aprioristicamente: fuori dai recinti scolastici, universitari, accademici ci sono vantaggi e svantaggi. Compito che Miccione si attribuisce è di avvertire che “ ci sia ancora un fuori” (p. 90): che, oltre l’aula, c’è la piazza; oltre le comunità esoteriche, c’è la strada; oltre i testi canonici, c’è l’oralità. Dato che  “l’incontro con la filosofia in quanto pratica”  è “il cuore di questo libro” (p. 103), quest’ultimo non poteva che chiudersi con l’invito a mantenere – anche nei confronti della svolta pratica – un atteggiamento filosofico. Cioè una distanza critica. Ricucire il nesso fra la vita e il pensiero  - che in altri termini significa “lasciarsi del tutto andare alla vita senza costruire limiti previi” (p. 119) – il filosofo può farlo solo se riesce, con una vigilanza costante sul suo stesso filosofare, a impedire “la coincidenza assoluta tra vita e pensiero” (ivi). Insomma: “se il filosofo ha da essere asceta, potrà esserlo ma proprio come qualcuno sarà imprenditore o generale o detective in un gioco da tavolo” (p. 120).
    Ma quante sono le probabilità che i filosofi del XXI secolo diventino asceti? Il libro di Miccione, così  arguto e così dotto, poggia su un dato che a me pare molto più opinabile di quanto non ritenga l’autore: che sia in atto una “svolta pratica” dalla filosofia come produzione di opere e di chiose di opere al filosofare come modo di essere e di rapportarsi al mondo.  Ciò che constato è che il povero Hadot, come prima di lui Foucault, è diventato un sottoparagrafo della storia della filosofia occidentale: su entrambi schiere di professorini aspiranti a cattedre più prestigiose si esercitano come medici legali su cadaveri ancora tiepidi.  Sloterdijk , “ormai vera e propria ‘capitale’ moderna dl ripensamento dell’ascetismo contemporaneo così come Hadot lo è per quello antico” (p. 112) , l’ho conosciuto solo grazie alle ammirate citazione di Miccione: avrà più fortuna dei suoi immediati predecessori?  Eugen Drewermann ha scritto una volta: “un genio (…) si logora i nervi per la causa in cui crede e che incarna, si rovina la salute, trascorre notti insonni, dal punto di vista esteriore fallisce”  e  “tre, quattro decenni più tardi ecco storici dell’arte, della  letteratura, della chiesa, buttarsi sulla sua vita e sulla sua opere spiegare con acribia e diligenza perché Baudelaire, Hoelderlin, Goya, Van Gogh, Savonarola, Giordano Bruno, Giovanna D’Arco siano stati grandi personaggi. Neanche un briciolo dei veri conflitti e delle vere lotte di questi ‘grandi’ trova accesso nella vita personale di questi critici. (…) Ed è proprio questo falsificare la vita facendola diventare dottrina della vita, questo ribaltare ogni vitalità spirituale facendola diventare erudizione della vita spirituale, questo pervertire l’autentico sapere religioso in scienza della religione” (Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione, Brescia, Queriniana, 1995, pp. 333 – 334) che si ripete monotonamente nella storia. Temo che altrettanto avverrà delle esistenze di quanti, come Miccione, stanno provando a vivere ciò che pensano e a pensare ciò che vivono. Come meravigliarsene, d’altronde? Non è successo a Socrate e a Bruno, a Feuerbach  e a Nietzsche? Nietzsche ha espresso il timore che, dopo morto, i preti lo avrebbero canonizzato. A giudicare dall’accoglienza grata che ha ricevuto dalla teologia del Novecento, aveva ragione; ma avrebbe potuto estendere i suoi timori ai colleghi  filosofi che, infatti,  ne hanno sterilizzato l’impatto dinamitardo riducendolo a interessante oggetto di analisi filologica.

        Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
     

lunedì 9 settembre 2013

Ci vediamo giovedì 12 a Catania?

Giovedì 12 settembre 2013, alle ore 18.00, sarò alla Feltrinelli di Catania (via Etnea) per presentare tre libri che, con vari amici ho dedicato a don Pino Puglisi.

Con Francesco Palazzo e Rosaria Cascio presenteremo "Beato tra i mafiosi. Don Pino Puglisi: storia, metodo, teologia" (Di Girolamo, Trapani 2013).

Con l'occasione spenderò qualche parola per i due testi scritti con Lilli Genco per gli adolescenti ("Il mio parroco non è come gli altri. Docu-racconto su don Pino Puglisi", Di Girolamo, Trapani 2013) e per i bambini dai 5 agli 8 anni ("Don Pino Puglisi", Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013).

Superfliuo aggiungere che sarà l'ocacsione per una riflessione laica su un martire dell'antimafia.

Grato sin d'ora a chi vorrà partecipare o, se impossibilitato, vorrà procurarsi i testi a seconda dei suoi interessi personali e professionali.

sabato 7 settembre 2013

La bella Eva Riccobono dice falsità? Campanilismi da strapazzo


“Repubblica – Palermo”
6.9.2013

SE LA TOP MODEL SVELA LA VERITA’


Non sapevo che la top model Eva Riccobono – madrina del Festival di Venezia - fosse palermitana. L’ho appreso (rammaricandomi di non averla mai incontrata nei suoi diciannove anni di vita isolana) dai giornali che hanno riportato una sua dichiarazione a “Vanity fair”: “Vado una volta al mese a Palermo per ricaricarmi, ma alcune cose dei palermitani non mi piacciono come la mentalità mafiosa. Detesto quelli che si lamentano sempre e che vogliono la raccomandazione e soprattutto il familismo e i soprusi”.
   Sapevo, invece, che una dichiarazione così sincera e veritiera  - eco della più celebre e autorevole dichiarazione di Paolo Borsellino su Palermo “città bellissima e disgraziata” – avrebbe suscitato immediate reazioni da parte di politici di specchiate virtù civiche, che nella loro carriera non hanno mai né chiesto né fatto raccomandazioni di nessun genere. La strategia comunicativa per avere il nome in cronaca è ormai straconosciuta.
    Primo passo: amplificare l’estensione della dichiarazione e fare dire alla Riccobono che “tutti” i palermitani hanno mentalità mafiosa.  In modo da tentare di portare dalla propria parte oves et boves:  cittadini mafiosi  (per “fatto personale”), cittadini antimafiosi (per “lesa maestà”) e cittadini amafiosi (che non vogliono passare per nessuna delle due categorie, per altro minoritarie, precedenti). Che grazie all’azione dei magistrati (non di rado senza il sostegno dei politici) e dei segmenti migliori della società (come “Addiopizzo” e “Professionistiliberi”) si siano fatti enormi passi in avanti nella lotta al dominio mafioso non significa che questo sia scomparso dalle stanze dell’amministrazione regionale;  dai quartieri ricchi e meno ricchi in cui gli imprenditori continuano a sottostare ai soprusi del racket; dalle strade dove un’accurata regia distribuisce, con ammirevole precisione toponomastica, le zone ai posteggiatori abusivi (che non hanno neppure il lontano sospetto del ridicolo quando organizzano la manifestazione di protesta contro le forze dell’ordine che accennano a liberare gli automobilisti dall’intimidazione incessante e onnipresente)…
    Secondo passo: negare l’evidenza. Per esempio che la stragrande maggioranza dei palermitani sia specializzata nelle “lamentele” (contro il governo, contro il sindaco, contro i vigili urbani, contro gli autisti dell’Amat, contro i posteggiatori abusivi, contro gli altri concittadini che non si lamentano abbastanza…), ma non voglia spendere neppure un’ora la settimana per organizzare la protesta, farla diventare proposta politica, supportarla con adeguate azioni mirate nell’ambito della legalità democratica.
    Terzo passo: inventarsi qualche “rivoluzione in atto” che ridurrebbe a mero “luogo comune”, valido se mai per il passato, la constatazione che nella nostra città si è alla  “costante ricerca della raccomandazione'”. E’ dalla “Primavera di Palermo” di un quarto di secolo fa che i giovani si sarebbero ribellati alla mafia, avrebbero ripudiato il clientelismo, sarebbero strenui difensori della meritocrazia. Ma sfugge un piccolo particolare: i giovani di venticinque anni fa sono gli adulti di oggi e  - fatte le debite eccezioni – continuano a gestire le leve del potere (politico, amministrativo, culturale…) con le stesse insopportabili modalità dei padri e dei nonni. Sostenere, come si è fatto in queste ore da scranni istituzionali di tutto rilievo, che le raccomandazioni sono dappertutto in Italia, significa non voler vedere la differenza fra la patologia, che a Torino o a Perugia viene bollata come tale, e la stessa patologia che a Palermo o a Reggio Calabria viene scambiata per fisiologia. Come ha scritto il sociologo Antonio La Spina qualche anno fa, da Napoli in giù siamo ben al di qua dell’alternativa legalità o illegalità: sguazziamo nell’alegalità. Non prendiamo neppure in considerazione le norme che, disinvoltamente e abitudinariamente, violiamo.
   Comunque è superfluo addizionare argomenti razionali ad argomenti: alla pancia  - e alla demagogia – non si comanda. Ogni volta che esce un film, un libro, un’indagine giornalistica sulla mafia si ripete noiosamente il medesimo copione: la colpa è di chi osa denunziare i mali, non di chi li provoca e più o meno colpevolmente li perpetua.

    Augusto Cavadi


giovedì 5 settembre 2013

In libreria "Filosofie nella consulenza filosofica" (Autori vari, edizioni Liguori, Napoli)

A cura di Maria Luisa Martini è uscito, con la Liguori di Napoli, un libro a più mani dal titolo un po' enigmatico: Filosofie nella consulenza filosofica. I vari saggi intendono rispondere a una domanda che spesso viene rivolta a noi filosofi-in-pratica: ma, insomma, la storia della filosofia (quella che si insegna nelle scuole superiori e nelle università) la conoscete? Ne tenete conto nell'esercizio della vostra professione? Avete dei modelli filosofici (del passato o del presente) a cui fate riferimento?
La questione non è di largo interesse, tuttavia la sento porre spesso anche al di fuori della ristretta cerchia dei filosofi di mestiere. Ecco perché segnalo il libro (acquistabile sul sito della Liguori anche in pdf, in e-book e persino per singoli capitoli) e riporto le parti essenziali del mio contributo...inessenziale (pp. 215 - 222):


      C’E’ MA NON SI VEDE (SPECIE SE E’ DI BUONA QUALITA’).

Un background invisibile
      Che ruolo gioca la conoscenza della letteratura filosofica nell’esercizio professionale del consulente? Nessuno. Anzi, un ruolo immenso. Dipende dai punti di vista. Se si esaminasse la videoregistrazione di molti colloqui, si potrebbe costatare che non viene citato neppure un ‘classico’ della storia della filosofia. I diffidenti che amano ironizzare sulla consulenza filosofica (“Se arriva da voi una coppia in crisi, le leggete la Critica della ragion pratica e risolvete la questione?”) resterebbero delusi, se solo si informassero su ciò di cui blaterano. Tuttavia un orecchio esperto non faticherebbe a riconoscere – fra una frase e l’altra del filosofo in colloquio, anzi come sfondo e humus delle frasi del filosofo – un’antica familiarità con le opere della tradizione filosofica. Perché la saggezza  - anche, e soprattutto, quella saggezza che consiste nella consapevolezza di non averne abbastanza – non si acquisisce con l’assunzione di “pillole” (fossero pure d’Aristotele…) (...): essa matura col tempo e con l’esperienza, con l’osservazione di ciò che accade e con la conoscenza di ciò che è accaduto nella storia, con la riflessione critica e con la meditazione. E con il dialogo con interlocutori saggi. Alcuni dei quali sono a portata di mano, o per lo meno di telefono e di mouse; ma molti dei quali hanno smesso di calcare le nostre strade e ci parlano solo attraverso i loro scritti. Il filosofo consulente, come ogni altro genere di filosofo, avverte dunque l’esigenza interiore  - prima che il dovere professionale – di dare almeno un breve appuntamento quotidiano ad un pensatore del passato (anche recente): proprio come Machiavelli ricorda di dedicare le ore per lui più gratificanti della giornata a colloquiare (dopo essersi persino vestito degli abiti più adatti alla solennità del caso!) con i grandi della storia.

Il necessario canone impossibile
   Esiste un canone, una sorta di ‘bibbia’ filosofica, formata da classici irrinunciabili per un filosofo consulente? La risposta non è ovvia. Per certi versi, infatti, sarebbe facile rispondere che il filosofo consulente deve conoscere almeno la stessa lista di opere che è obbligato a conoscere qualsiasi altro filosofo (insegnante liceale o ricercatore accademico  che sia). Quando, però, si passasse a determinare in concreto l’elenco dei libri indispensabili, ci si troverebbe in serio imbarazzo: davvero, infatti, alla lunghezza dell’ars si coniuga, drammaticamente, la brevità della vita !
    (...)
    Ma ammettiamo pure che si avesse tempo per leggere tutti i libri di tutti i filosofi citati in un buon manuale di storia della filosofia: che ne sarebbe, comunque, di quegli altri pensatori ‘minori’ che ognuno di noi ha incontrato nelle sue scorribande intellettuali e che gli hanno dato qualcosa di speciale  - se non addirittura di unico – rispetto alle letture ‘canoniche’?  A molti miei colleghi Joseph Pieper o Etienne Gilson, Karl Loewith o Agnes Heller possono non evocare nulla (esattamente come tanti altri nomi di indubbio valore sono rimasti del tutto al di fuori dalle mie conoscenze); laddove, per me, rappresentano tappe importanti della mia evoluzione (o involuzione?) filosofica.
    Come se non fosse già abbastanza complicato, il quadro è reso ancor più problematico da un’ulteriore considerazione: se, per assurdo, uno di noi riuscisse a leggere tutte le opere (maggiori e minori) di tutti i filosofi occidentali (maggiori e minori), potrebbe ritenersi abbastanza attrezzato per svolgere con competenza la sua professione di filosofo consulente? La risposta apre orizzonti sconfinati. Qualcuno di noi rinuncerebbe, sia pur a malincuore, a una decina di filosofi pur di avere modo di leggere i padri della psicologia del profondo; altri pur di leggere alcuni romanzieri e poeti; altri ancora alcuni scienziati della natura e della società…Senza contare i casi davvero patologici di quanti, come me, ritengono necessario maneggiare  - addirittura ! – gli elementi basilari della storia delle religioni e della teologia cristiana (cattolica, ortodossa e protestante), a cominciare – evidentemente – dalla Bibbia.
   Chi condivida queste considerazioni potrà facilmente concordare su una conseguenza operativa: la biblioteca essenziale di un filosofo consulente è sempre incompleta e vale non tanto per il numero e la ‘nobiltà’ dei volumi studiati quanto per l’atteggiamento interiore con cui egli si sia accostato ai libri che ha letto. Detto altrimenti: vale in proporzione all’autenticità dell’interesse, intellettuale ed esistenziale, con cui egli ha cercato, trovato, studiato e meditato ciascuno dei suoi libri. 
(...)                                                               
 Una consulenza interpersonale: Martino
Chiarito, dunque, il criterio di fondo (il rapporto fra conoscenza della letteratura, primaria e secondaria, della storia della filosofia con l’attività pratica del filosofo non è immediato, puntuale, individuabile di caso in caso, bensì fondativo in senso remoto, pre-giudiziale) , posso adesso raccontare qualche esperienza professionale nel corso della quale mi è sembrato   - ad una riflessione successiva – che alcune letture mi siano state presenti, quasi irriflessivamente, più di altre.
 Martino è sposato da venti anni con una moglie dolcissima e tre figli esemplari. (...)
Una consulenza di gruppo: i sindacalisti della Filca (Cisl)
   Più d’una volta lo staff nazionale per la formazione della Filca- Cisl (la federazione che raccoglie i lavoratori delle costruzioni, del legno e di aziende affini)  mi ha dato la gioia di incontrare sindacalisti di varie regioni italiane, soprattutto meridionali, per riflettere sul tema della legalità.
(...) 
Un’altra consulenza di gruppo: i medici della Samot
      Devo alla lungimiranza di un primario di medicina, Giorgio Trizzino, l’occasione preziosa di aver incontrato, mensilmente per quasi un intero anno sociale, gli operatori della Samot di Palermo, un’associazione che – in regime di convenzione con il Sistema sanitario nazionale – si occupa di assistenza domiciliare ai malati terminali. 
(...) .


martedì 3 settembre 2013

Al ritorno dal segmento filosofico delle mie vacanze estive

Care e cari,
   più d'uno di voi mi ha chiesto notizie sugli ultimi quindici giorni trascorsi fra Lazio e Marche per cose filosofiche di "strada". Nell'impossibilità di rispondere a ciascuno, provo a sintetizzare alcuni elementi di bilancio personale (sintesi che, ovviamente, sarò felice di approfondire ad personam se qualcuno nutrisse ulteriori curiosità).
   Dal 24 al 30 agosto siamo stati a Leonessa per le ormai tradizionali "vacanze filosofiche per non filosofi" sul tema del divino al vaglio del filosofare. Elio Rindone ha seguito la sua traccia preferita di taglio storico-diacronico esponendo alcune concezioni teologico-religiose del Greci (mitologia e filosofia) e dei cristiani (mitologia biblica e speculazione filosofica medievale). A molti di noi è sembrato più disinvolto nell'esposizione: lo ha rilassato un anno di quiescenza dall'insegnamento o (anche) l'atteggiamento aperto e accogliente di TUTTI i partecipanti ai seminari?
   Francesco Di Palo, compiendo un balzo pindarico dal Medioevo ai nostri giorni, ha illustrato - con una tecnica didattica molto diversa da quella di Elio: fotocopie di brani originali di pensatori vari - la situazione ' spirituale' del nostro tempo: tempo di a-teismo (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud...) che forse prelude a una spiritualità post-cristiana di ampio respiro planetario (e dunque impastata anche di componenti provenienti dalla tradizione orientale, buddhista in particolare). Questa tensione verso una spiritualità cosmica, laica, plurale (qualcuno direbbe ana-teistica) non poteva che incontrare il favore di molti di noi che verso tale traguardo guardiamo ormai da anni. E non voglio, in cuor mio, cancellare l'ipotesi che anche la lettura del mio non più recente "In verità ci disse altro" abbia potuto incoraggiare Francesco in tale direzione.
     Tra Medioevo cristiano e Postmodernità a-religiosa andavano esplorati i sei o sette secoli caratterizzati dal pensiero scientifico (da Copernico, Newton  e Galilei sino a Einstein): esplorazione che Mario Trombino ha portato avanti con ampiezza di riferimenti storici arrivando alla conclusione che la Modernità occidentale abbia rifiutato il Dio di Agostino e di Tommaso d'Aquino per difendersi dalle strumentazioni ideologiche della Chiesa cattolica, ma abbia inteso sostituirlo con una Divinità che facesse da Fondamento all'impresa scientifica effettivamente avviatasi nel Seicento. Dal punto di vista metodologico, Mario è stato diverso sia da Elio che da Francesco: nessuna traccia scritta, molto adattamento alle condizioni psicologiche  degli astanti. Poiché Mario è anche editore (della rivista "Diogene Magazine" e di alcune Collane di libri), ha proposto ai due colleghi di pubblicare un volumetto con tutte le 12 relazioni di questa edizione: volumetto che sarà apprezzato particolarmente da quanti mi hanno sinora chiesto i materiali dei seminari di Leonessa.
      Molto bello, poi, il clima amicale di questa settimana: ci siamo ritrovati come vecchi amici che hanno desiderio di capire la vita ma  - altrettanto - di vedersi e convivere almeno una volta l'anno. Come direbbe il mio amico Giuseppe Ferrara, "filo-sofia" è l'unica disciplina che contiene nella propria definizione un sentimento: che è l'affetto per la sapienza ma anche l'affetto verso chi, come noi, cerca la sapienza con la stessa onestà.
       Già giovedì 30 agosto ho lasciato il gruppo di Leonessa per partecipare, alle 21, nell'incantevole  Palazzo dei Priori di Fermo, alla apertura 'ufficiale' del Secondo Festival nazionale della filosofia di strada: il festival da me ideato che ho potuto iniziare a realizzare, nel 2012, solo grazie all'aiuto organizzativo di Domenico Baratto e dei suoi collaboratori dell'associazione Wega (che hanno presentato il mio progetto e vinto un bando di finanziamento della Fondazione della Cassa di risparmio di Ascoli Piceno). L'apertura 'vera', autentica, è stata però la sera successiva con la passeggiata filosofica intorno al Lago di san Rufino: ho invitato le persone presenti (dai venti agli ottanta anni passati: ricordate Marisa e Gigi Campiotti?) di dire quale 'varco' pensavano dovessero attraversare per uscire dalla caverna della banalità, del conformismo. Mi ha colpito in particolare l'intervento di un signore: "Procedevo nel mezzo della processione: una ottantina di persone avanti, un'altra ottantina dietro. Nessun crocifisso di legno, nessuna statua di santi, nessun cenno di simboli: ognuno, in silenzio, portava la sua domanda laica sul senso della vita. E mi son chiesto se non fosse questo il divino". Il giorno successivo si è aperto con ben cinque colazioni filosofiche in cinque strutture diverse: ho partecipato alla colazione guidata molto bene da Vesna Bijelic sui labili confini della sincerità. Alle 11 ci siamo divisi: un gruppo, con una trentina di bambini al seguito, si è recato al lago per fare "philosophy for children" con Pierpaolo Casarin (coadiuvato da arteterapisti e animatori con pony); un altro gruppo ha assistito all'Auditorium "Virgili" a due interviste al prof. Gaspare Mura sull'enigma del male nella storia. Come ha osservato all'uscita una signora della zona, è stato il momento "più lontano dallo spirito della filosofia di strada" di tutto il Filofest: infatti è mancata quasi del tutto quell'interazione col pubblico dei 'non filosofi' che caratterizza il Festival sin nel suo codice genetico. E, quando si è timidamente tentato uno scambio vivo con i presenti, non è apparsa per nulla evidente, nell'illustre docente cattolico, una caratteristica irrinunciabile della filosofia: l'assenza di preuspposti teologici e teologali.
  Il pomeriggio si è svolto interamente a Smerillo. Sulla Rocca, dal panorama indimenticabile, Luigi Lombardi Vallauri ha introdotto al suo genere di meditazione, al "crinale" fra Oriente e Occidente: struttura formale orientale, contenuti delle scienze 'dure' occidentali. Perché, prima che di improbabili "al di là", abbiamo bisogno di "oltre": di contemplazione, di mistica, che non scavalchi ma entri 'dentro' le meraviglie dell'universo così come ci vengono progressivamente svelate dalle diverse scienze empiriche.
  Sempre a Smerillo, dibattitto su ciò che ci attende dopo la morte: dal punto di vista di un filosofo non credente (Duccio Demetrio) e di un filosofo credente (Roberto Mancini). Il primo è apparso stanco, forse triste, certamente poco lucido nell'interpretare il senso delle domande dal pubblico; molto più spigliato, e a mio avviso convincente, il secondo. Mancini, infatti, ha evidenziato senza stupidi tradizionalismi trionfalistici, la problematicità di una fede cristiana che non voglia chiudere gli occhi sulle inesauribili domande dell'esistenza.
    Dopo la ricca cena a base di prodotti locali, è stata la volta di uno dei momenti più emozionanti: il concerto di arpa della compositrice e cantante Roberta Pestalozza. Perché negare che, soprattutto in ascolto di certi brani intensi musicalmente e per i contenuti antropologici, mi è spuntata qualche lacrimuccia?
     La domenica mattina si è aperta con altre cinque colazioni filosofiche ed io stesso ne ho condotta una in uno dei bar della piazza centrale di Amandola: come distinguere, in un comportamento statitsicamente 'anormale', la genialità creatrice del pioniere dalla sofferenza psichica del malato di mente? Ogni genio è folle? Ogni follia è geniale? Una signora del luogo ha proposto una pista convincente: è positiva ogni trasgressione della norma che "rende più liberi se stessi e gli altri".
   Subito dopo sono corso all'Hotel Paradiso (mentre, in contemporanea, Neri Pollastri intratteneva un certo numero di persone sul possibile ruolo della consulenza filosofica all'interno delle aziende) per il seminario su "Filosofia e spiritualità". Vesna mi ha aiutato a introdurre il tema, anche sulla base del recente volume dell'editrice  Liguori di Napoli "Sofia e agape. Consulenza filosofica e pratiche pastorali a confronto", ma non abbiamo faticato ad accendere  - fra la quarantina di presenti - un ampio dibattito su come, nelle biografie individuali, la filosofia abbia operato da terapia contro le spiritualità superstiziose e dogmatiche.
     Dopo il pranzo, due momenti significativi hanno preceduto l'agorà conclusiva (nel breve corso della quale una signora ha chiesto che per gli anni venturi ci siano più giorni a disposizione del Filofest): il dialogo di Luisa Sesino e di Neri Pollastri sul significato della "consulenza filosofica individuale" e la presentazione della rivista "Diogene magazine. Leggere la realtà con gli occhi della filosofia" da parte dell'attuale direttore Mario Trombino.
     Già domenica 1 settembre il TG 3 delle Marche ha mandato in onda un servizio televisivo sul Filofest; altre eco televisive le si attendono su TG 2 - cultura e su vari siti internet. Ma l'essenziale, ovviamente, è che qualche traccia convincente rimanga nel cuore di ognuno dei partecipanti e si trasformi in gesti efficaci.

Augusto Cavadi 
(www.augustocavadi.it)