giovedì 30 gennaio 2014

La responasabilità della scuola per la perdita di posti di lavoro


“Palermo – Repubblica”
30.1.204

LE RESPONSABILITA’ DELLA SCUOLA 

NELLA PERDITA DEI POSTI DI LAVORO


    Le cronache di questi giorni ci informano di due dati che, senza eccessivi sforzi di fantasia, si rivelano connessi. Il primo è stato reso noto da Antonio Rallo, presidente regionale di Assovini: molte aziende siciliane, quando attivano relazioni commerciali con Paesi esteri, sono costretti ad assumere personale straniero perché dalle nostre parti i giovani conoscono poche lingue e, per giunta, poco bene. Responsabilità del sistema scolastico italiano? Non esclusivamente (molti giovani, infatti, appena hanno la possibilità di viaggiare si fiondano nei villaggi turistici ed evitano ciò che i loro colleghi stranieri prediligono: andare a lavorare per brevi periodi, facendo full immersion, nei Paesi di cui vogliono imparare davvero la lingua), ma in buona misura sì. Alle scuole elementari tutti gli insegnanti sono obbligati, in questi ultimi anni, a seguire un corso di inglese per insegnarlo (anche se non lo hanno mai studiato in vita loro e non hanno nessuna propensione a farlo); così, mentre migliaia di laureati restano a passeggio, i pargoli ricevono un pessimo imprinting linguistico.
 La situazione non migliora nelle scuole superiori. Si sprecano soldi, privati e degli istituti, per viaggi d’istruzione che, nell’ottanta per cento dei casi, non istruiscono per niente; molto meno si investe in gemellaggi e stage che, invece, supportano davvero l’apprendimento della seconda lingua. Per giunta, gemellaggi e stage prevedono un contributo finanziario più consistente da parte delle famiglie, col risultato sconfortante che chi ha più opportunità di imparare le lingue ne ha altre, chi ne ha di meno resta con le poche che ha.
   La situazione cambierebbe se si abbassasse l’età media degli insegnanti? E siamo alla seconda notizia di cronaca: molti docenti sessantenni chiedono di poter andare in quiescenza per lasciare spazio a colleghi più giovani o precari o addirittura in cerca di prima occupazione, nella convinzione che una minore distanza anagrafica fra professori e alunni andrebbe certamente a vantaggio della preparazione di questi ultimi. Mettendo fra parentesi i singoli casi, e parlando in linea generale, questa tesi è falsa. Non perché sia vera l’antitesi (quasi che i professori, come le galline, invecchiando facciano brodo migliore), ma perché l’età è ininfluente sulle prestazioni di un insegnante. Ci sono insegnanti che peggiorano con l’età, altri che migliorano; altri ancora che bravi sono e bravi restano nel corso del servizio; e altri, infine, che inadatti erano all’inizio e inadatti restano sino alla fine.  E’ vero: abbiamo avuto tutti l’esperienza del professore anziano che entra in aula sbadigliando e chiacchiera del più e del meno per far scorrere l’ora. Ma anche l’esperienza del professore anziano che entra in aula puntuale, rilassato e in grado di rasserenare col suo solo sorriso gli animi degli alunni esacerbati dalla docente giovane e isterica che se ne è appena uscita due minuti prima. Il nodo è stato ed è un altro: il patto perverso per cui lo Stato non seleziona con cura i suoi docenti (appoggiato all’unanimità dai sindacati di categoria preoccupati della disoccupazione giovanile) né li sottopone ad alcuna seria valutazione in itinere,  ma in cambio li paga poco e gli nega una vera carriera (a meno che non abbandonino la funzione docente per abbracciare quella, totalmente diversa e non sempre più nobile, di dirigente scolastico).
     Allora ci si preoccupi, come è giusto, dell’inserimento in ruolo dei docenti precari: ma non a qualsiasi costo. La scuola non può continuare a funzionare da ammortizzatore sociale per lenire la disoccupazione intellettuale. Se vogliono dare una mano, gli insegnanti agli sgoccioli degli anni di servizio possono chiedere una riduzione delle ore di insegnamento (ovviamente rinunziando, se se lo possono pernettere, a una proporzionale percentuale dello stipendio) e cominciare a fare spazio ai più giovani. Purché i viticultori siciliani non debbano continuare a ricorrere a personale straniero per poter vendere i nostri prodotti all’estero.
                                 Augusto Cavadi

giovedì 16 gennaio 2014

Machiavelli va ripensato? Mario Trombino intervista Augusto Cavadi


“Diogene Magazine”
Dicembre 2013

Mario Trombino intervista Augusto Cavadi su:

ETICA E POLITICA. Machiavelli va ripensato?

A proposito della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo

·      Perché avete scelto per la vostra scuola una impostazione etico-politica?
·      Siamo convinti che, a differenza di ciò che si ripete retoricamente in giro, non si tratta di rifondare eticamente la politica, bensì di ripensare criticamente l’etica che ispira ogni politica.  Come ho cercato di argomentare proprio in un corso della nostra Scuola, poi edito dalla Cittadella Editrice di Assisi col titolo Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee, ogni comportamento politico (astensionismo incluso) è, di fatto, oggettivamente, che lo si voglia o meno, radicato in una concezione etica più ampia. C’è un’etica personalistica, un’etica pacifista, un’etica nonviolenta proprio come c’è un’etica fascista, un’etica militarista o un’etica consumistica. Pensiamo che un’analisi seria e soprattutto una progettazione politica seria debbano assumere il nodo etica/politica in tutta la sua complessità. Mi pare che sia stata questa, tra l’altro, la lezione di Aristotele che non ha certo separato le questioni etiche dalle questioni politiche…Molto più modestamente, mi sono assunto il compito  - solo apparentemente paradossale – di enucleare dai documenti disponibili l’etica mafiosa (ne Il Dio dei mafiosi delle Edizioni San Paolo di Milano) e l’etica leghista (ne Il Dio dei leghisti della medesima casa editrice).
·      Cosa avete da dire a coloro che ritengono che la politica debba avere un fondamento del tutto indipendente dall'etica, e che i valori etici non possano essere chiamati in causa (e non lo sono di fatto dai politici) per l'impostazione e la soluzione del problemi politici?
·       Che non sanno quello che dicono. Ma così risulterei offensivo, contro ogni mia intenzione. Si tratta, se dobbiamo ragionare filosoficamente, di chiarire l’uso delle parole. Quando Machiavelli teorizza, nelle sue diagnosi della politica come come va di fatto  e  - forse -  nelle sue terapie su come dovrebbe andare di diritto, la separazione dell’etica dalla politica, pensa alla messa fra parentesi di una certa etica (la cattolica): ma i princìpi del pragmatismo, del relativismo, dell’opportunismo tattico, del primato della forza sulla libera convinzione…e così via, insomma i princìpi a cui dovrebbe ispirarsi secondo Machiavelli un politico efficace, costituiscono una costellazione etica o no? Oppure dobbiamo restare paradossalmente vittime di un clericocentrismo, perfino quando riteniamo di combatterlo, riservando all’etica cattolica l’esclusivo monopolio dell’etica e negando a Spinoza, Hobbes, Locke, Kant o Marx la proprietà di un’etica?
·      Quali principi etici ritenete siano da richiamare per una Scuola "etico-politica"? su quale fondamento avete scelto questi principi? 
·       Se sono stato chiaro prima, si può facilmente intuire perché – quando ho proposto ad un ristretto numero di amici la fondazione della Scuola – non ho proposto, contestualmente, nessun grappolo di princìpi etici. La nostra finalità non è diffondere princìpi etici ‘sani’ per tutta una serie di ragioni, prima delle quali il fatto che la nostra Scuola è geneticamente pluralistica e non avremmo modo di accordarci su un minimo denominatore unanimamente condiviso. Abbiamo un obiettivo apparentemente più modesto, forse nella sostanza più ambizioso: offrire ai cittadini in genere, e ai cittadini impegnati più direttamente negli organi deliberativi e amministrativi, delle occasioni per sapere che cosa effettivamente stanno operando. Un libro come quello che ho pubblicato in varie edizioni (l’ultima delle quali, coadiuvato da Elisabetta Poma, con l’editore Di Girolamo di Trapani), La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento, in quanto riprende i materiali di un nostro ‘tipico’ corso di formazione, esemplifica la nostra prospettiva ‘pedagogica’: vorremmo un dibattito pubblico, in Italia e in Europa, un po’ meno basso e un po’ meno irriflesso. Un po’ meno basso: più che perdersi nei dettagli tecnici, partiti ed esponenti politici dovrebbero presentare le linee di fondo della loro visione etico-politica. Ma non lo potranno fare sino a quando vivranno nella incoscienza, nella ignoranza dei propri stessi presupposti ideali. Con una formula di cui mi si perdonerà, spero, la brevità, non lavoriamo da più di venti anni per un Paese dove ci siano più liberali o più socialisti o più fascisti, bensì dove ci siano liberali più liberali, socialisti più socialisti e fascisti più fascisti. L’esperienza mi dice, per altro, che quando un giovane o un anziano prende consapevolezza di ciò che veramente propone il fascismo o l’anarchismo, spesso entra in crisi: o perché lo trova inaccettabile o perché lo trova irrealizzabile o perché non lo trova convincente per altre ragioni.
·      Perché avete scelto la modalità del volontariato?
Bella domanda! Sai che mi metti in crisi come filosofo che, di solito, non dà nulla per scontato? Invece la nostra opzione di attivare una Scuola di formazione etico-politica come strumento di volontariato culturale è stata, probabilmente, una opzione per nulla ponderata. Ti risponderei, a posteriori, che abbiamo avuto dalla nostra una attenuante: si pondera una via quando ce ne sono almeno due praticabili, ma nel nostro caso c’erano alternative? Avremmo dovuto proporci di farne un’occasione di guadagno? Sarebbe stato legittimo, ma con difficoltà  - riterrei tuttora – insormontabili. Infatti, se avessimo dovuto chiedere i soldi agli ‘alunni’ che seguono i corsi (intendo delle quote un po’ più consistenti rispetto alle quote pressocché simboliche che abbiamo sempre chiesto per le spese gestionali essenziali), avremmo avuto una diminuzione di partecipanti ancor più clamorosa di quella registrata dopo il primo decennio di attività. Se invece avessimo dovuto chiedere finanziamenti a istituzioni, enti pubblici o privati, banche o imprese, sindacati o chiese  - ammesso e non concesso che ci fosse nel passato e ci sia nel presente, soprattutto nel Meridione italiano, qualcuno disposto a finanziare progetti culturali – avremmo perduto la nostra ricchezza più preziosa: la libertà di opinione. Comunque, se invece tu o altri avete delle idee su come trasformare un servizio formativo di questo genere in attività produttiva, siamo qui tutto-orecchie: purché resti un’iniziativa libera da condizionamenti ideologici o partitici o religiosi.

lunedì 13 gennaio 2014

Possibili criteri per nominare i nuovi vescovi

“Adista Segni nuovi” n. 2 - 18 Gennaio 2014
  Il vescovo della mia diocesi, cardinale Paolo Romeo, non è certo l’unico che per motivi d’età sarà sostituito nel corso del 2014. Come avverrà la designazione del successore? E’ noto che i criteri con cui si scelgono i nuovi vescovi  costituiscono una spia rivelatrice del progetto di chiesa che ogni papa ha in mente. Ciò è stato vero sino a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e non può non esserlo per Francesco I.  Schematizzando brutalmente, l’attuale vescovo di Roma pescato “dalla fine del mondo” ha davanti tre strade.
     La prima, che è la più comoda ma anche la più sterile, è lasciare intatti i meccanismi previsti dall’attuale Codice di diritto canonico e da una prassi consolidata da circa cinque secoli: che i vescovi scelgano per co-optazione i propri successori, limitando all’invio di qualche “lettera riservata” il coinvolgimento del parere di presbiteri e laici impegnati ecclesialmente. Ma questa auto-riproduzione del ceto episcopale non significa perpetuare un modello di pastore al quale Francesco non lesina pesanti e più che fondate critiche?  Non significa privilegiare la fedeltà conformistica dei funzionari del sacro  rispetto alla creatività pastorale di quei preti che hanno anteposto le esigenze del vangelo a ogni calcolo di carriera? Non si rischia di premiare l’abilità diplomatica, l’accortezza di adeguarsi al vento che gira, la compatibilità con le autorità politiche in sella?
     La seconda strada sarebbe la più radicale ma, proprio per questo, la più ardua da attuare dopo pochi mesi di pontificato: restituire al popolo di Dio il diritto di eleggersi i suoi pastori, così come è avvenuto per  il primo millennio dell’era cristiana e oltre. Non per sciommiottare le democrazie moderne, ma per riscoprire il senso teologico del protagonismo popolare ecclesiale che delle democrazie politiche è stato prefigurazione e (sia pur appannato) prototipo. Una delle “cinque piaghe della Chiesa” , secondo Antonio Rosmini, consisteva  proprio nell’aver rinunziato alla prassi tradizionale secondo la quale “erano i desideri dei popoli a designare e vescovi e sacerdoti; ed era troppo ragionevole che quelli che dovevano affidare le proprie anime (e quando dico le anime, dico tutto ciò che posso dire, parlando di popoli, nei quali è viva la fede) alle mani d’un altro uomo, sapessero che uomo egli fosse ed avessero confidenza in lui, nella sua santità e nella sua prudenza”.
      Che questa seconda pista non venga subito intrapresa potrebbe rispondere, oltre che a motivi di opportunità, anche a criteri di saggezza: proprio le esperienze della società civile ci insegnano che i meccanismi democratici sono preferibili ai metodi autoritari e verticistici sono quando la base ha avuto tempo e modo di maturare un minimo di consapevolezza e di responsabilità. Un popolo cattolico, da secoli trattato come “gregge”, sceglierebbe i suoi “pastori” con la stessa superficialità con cui sceglie i suoi rappresentanti politici. Deve dunque essere gradatamente rieducato a pensare con la propria testa e ad agire di conseguenza con effetti che sarebbero benefici tanto per la vita interna della chiesa cattolica quanto per la vita sociale dei Paesi di antica tradizione cattolica.
       Scartati sia il mantenimento dello status quo sia la rivoluzione nel senso letterale di ritorno alle originarie posizioni di partenza, resta a papa Francesco una terza strada: usare il potere assoluto che gli è stato consegnato dalla tradizione (relativamente recente) per nominare come vescovi quei preti che le comunità ecclesiali eleggerebbero se ne avessero la possibilità giuridica e la saggezza esperienziale. Quei preti che non da qualche mese, ma da decenni, sanno che il loro posto non è nei salotti buoni quanto nei quartieri difficili; non nelle curie, ma nelle periferie; non dove si decidono le promozioni gerarchiche, ma dove si incontrano gli emarginati. Quei preti che, a parole e soprattutto coi fatti, hanno detto “Ma chi sono io per giudicare?” a  ex-preti, ex-suore, divorziati,  omosessuali, tossicodipendenti, carcerati, conviventi, intellettuali e artisti in ricerca…quando ciò significava essere guardati con sospetto dal proprio vescovo e dai monsignori rispettabili. Uno di questi preti è stato, a maggio del 2013, proclamato beato e martire di mafia. Non sarebbe il caso che venissero valorizzati adesso, in vita, quei pochi confratelli che gli erano davvero vicini nell’impegno, quando la stragrande maggioranza del clero lo considerava un impiccione? O bisognerà attendere, anche per questi preti di strada ricchi solo di fede e di amore, che siano i mafiosi a notarne le qualità eccezionali (riservandosi di portarne in giro qualche costola per macabra devozione)? 

Augusto Cavadi

martedì 7 gennaio 2014

L'epifania: una festa cristiana che può parlare anche ai 'laici'


“Repubblica – Palermo”

7.1.2014


MA LE FESTE DELLA CRISTIANITA’ POSSONO PARLARE ANCHE AI LAICI


    L’epifania tutte le feste porta via. Per fortuna, secondo qualcuno; sfortunatamente, per altri . E’ proprio inevitabile che di questo periodo restino solo ricordi, più o meno gradevoli, di riunioni familiari e di incontri amicali? A prima vista s’imporrebbe la risposta affermativa. I ceti mediamente istruiti sono ormai sintonizzati con il “disincanto del mondo” operato, secondo Max Weber, dalla secolarizzazione delle società avanzate. I simboli religiosi che per generazioni hanno parlato ad adulti e bambini (il bambinello, la Madonna, san Giuseppe, il bue, l’asino, i pastori, gli angeli…) sono ancora eloquenti per settori sempre più ristretti della popolazione italiana. Né, al di là dei luoghi comuni, il Meridione costituisce un’eccezione significativa.
     La tendenza alla riduzione di senso delle festività religiose (che, per altro, non sembrano trovare equivalenti funzionali di carattere civile), e alla conseguente mercantilizzazione delle stesse, non potrà che proseguire sino alla dissoluzione del significato originario  se la teologia  - cattolica e più in generale cristiana – non saprà scoprire e presentare in maniera davvero nuova alcuni contenuti tradizionali. Ancora troppo pochi sono i predicatori capaci di individuare, estrarre ed esporre le dimensioni universali dei racconti evangelici in modo da consentirne una lettura multipla, a più strati, e perciò fruibile anche da uomini e donne che non si riconoscono in una determinata chiesa. Per grazia di Dio (è forse il caso di dirlo !) può capitare che un prete cattolico come don Cosimo Scordato a Palermo o un pastore valdese come Alessandro Esposito a Trapani abbiamo la preparazione intellettuale e il coraggio anticonformista di tentare queste operazioni interpretative: ma non si tratta certo della media  statistica.
      Là dove questi tentativi pionieristici si attuano, le narrazioni bibliche vengono liberate dai soliti sentimentalismi infantili e restituite alle intenzioni originarie degli agiografi: che non volevano né dare resoconti cronachistici né inventare favole, bensì farsi portavoce di una rivoluzione spirituale di portata storica. Gesù di Nazaret, infatti, aveva sconvolto gli schemi usuali annunziando, con le parole e con i gesti, la fine di ogni “religione” (istituzionale, gerarchizzata, organizzata) e l’avvento di una nuova “fede” (quell’apertura interiore al Mistero divino sulla quale  nessun altro essere umano ha diritto di mettere il naso). Gesù non ha fondato una nuova “religione”, tanto meno un autoreferenziale “cristianesimo” (che, sappiamo bene, non sarebbe sorto se, dopo la crocifissione del Maestro, non si fosse dato da fare san Paolo di Tarso).
      Proprio la festa dell’Epifania (letteralmente della “manifestazione pubblica”) sottolinea questa inedita novità del Cristo: la Luce divina vuole illuminare ogni uomo e ogni donna del pianeta. Non è monopolizzabile da un popolo o da uno Stato o da  una chiesa o da un partito, perché è destinata a chiunque si affacci su questa terra. I Magi che provengono dall’Oriente (gente che cerca: un po’ astronomi, , un po’ maghi, un po’ ciarlatani) sono delle figure simboliche che rappresentano i non-ebrei, i non-fedeli, i non-credenti. Rappresentano quella umanità laica e problematica, scettica e dubbiosa, che non chiede né dogmi da accettare supinamente né imperativi morali cui adeguarsi acriticamente. Quella umanità che vuole pochi, semplici, chiari principi di vita per orientare l’esistenza personale e la convivenza civile: il rispetto delle coscienze, la solidarietà con chi soffre, l’equità nei rapporti sociali, l’attenzione alle creature viventi (a cominciare dalle più deboli ed esposte).
    In questo messaggio non ci sono né rompicapi mentali né forche caudine per atleti dell’ascetismo: e chiunque mistifica tale essenzialità originaria si assume una gravissima responsabilità davanti alla storia e (se ci crede davvero) davanti a Dio. Chi utilizza questo Bambino per costruire recinti istituzionali, teologie tribali, liturgie esclusive ed escludenti, è solo un manipolatore dei doni dall’Alto. Nel novantesimo anno dalla nascita di don Ernesto Balducci  - che è anche il ventesimo dalla sua morte – questa epifania ci ricorda la dimensione planetaria di ogni autentica esperienza religiosa. Non la festa dei pagani, ma la festa della caduta di ogni muro fra sedicenti cristiani e cosiddetti pagani.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.eu




sabato 4 gennaio 2014

La filosofia: una disciplina che serve a molto solo se non è serva di nessuno


Danilo Cambiaghi
Report della conversazione di Augusto Cavadi
“La filosofia: una disciplina che serve a molto solo se non è serva di nessuno”
Associazione “Noesis”
Bergamo 17 dicembre 2013


LA RELAZIONE
    Aristotele fondava l’origine della filosofia sullo stupore. Il relatore esordisce dichiarandosi stupito dalla numerosità e dal calore del pubblico di “Noesis”. La filosofia è amore, è l’unica disciplina che porta un sentimento nel nome (Pino Ferraro). Amore per la saggezza, ma anche amore tra di noi che tale saggezza perseguiamo. Il discorso filosofico tra estranei è difficile, bisogna parlare guardandosi negli occhi. Si dovrebbe passare dalla forma monologica alla forma dialogica, discorrere non sulla filosofia ma con  filosofia. Nessuno è troppo anziano né troppo giovane per accostarsi alla filosofia e per coltivarla, diceva Epicuro. La serata avrebbe un decorso ideale se, dopo una breve introduzione monologica, si instaurasse un dibattito, una interazione tra relatore e pubblico, unica via per sperimentare la filosofia.
     Il sociologo triestino Danilo Dolci criticava la definizione “mezzi di comunicazione di massa”, in quanto la comunicazione si ha solo tra un io ed un tu. Quella demandata a radio, televisioni e giornali non è comunicazione, è “trasmissione” unilaterale.
     Il discorso della serata comincia rifacendosi al mito della Medusa, che non a caso era antagonista di Atena (la saggezza, la filosofia). La Gorgone con lo sguardo pietrificava laddove la filosofia sollecita a risposta. La filosofia non ama la complificazione: chi ha da dire, sa dire con chiarezza e semplicità. La Medusa oggi non pietrifica chi incontra, ma lo trasforma in mezzo, strumento. Questo è l’esatto contrario dello sguardo filosofico che lascia essere l’altro, non pretende       di trasformarlo in oggetto di utilità.
       La “funzionalità a” nasce con Cartesio, diventa tema centrale in Heidegger. Il concetto di res estensa ha ridotto l’universo a massa di materia inerte da plasmare. Thomas Merton lamentava che non siamo più capaci di guardare alle cose disinteressatamente. Quello che non ha utilità non lo vediamo neppure. Vediamo l’albero quando ci serve la legna. Cavadi dichiara di sentirsi condizionato da questa mentalità, dallo sguardo che strumentalizza. Fare filosofia significa mettere in crisi questa visione.
      I giovani che si accostano allo studio della filosofia normalmente chiedono al docente quale ne sia l’utilità. Cavadi, docente di filosofia al liceo, nei suoi primi anni di insegnamento usualmente abboccava alla domanda e cercava di dare agli studenti le solite risposte:  la filosofia vista come mezzo per approfondire le capacità logiche, migliorare le capacità comunicative, dare strumenti per capire meglio la storia ecc. Ma le spiegazioni utilitaristiche tradiscono la filosofia, che non è un “mezzo per …”. Ci sono ovviamente cose per cui lo studio della filosofia è utile, ma non è qui la sua ragione profonda.
      La vera risposta è un’altra che si trova già in Aristotele: la filosofia non ha utilità pratica, tutte le altre scienze sono più utili. Non è una svista dello Stagirita: le cose più belle sono gratuite ed inutili (si pensi ad un bel tramonto). Se vado a vedere un film o una mostra d’arte ci vado per fare un’esperienza estetica, qualsiasi altra motivazione non può che sminuirmene il piacere. A cosa serve scrivere poesie, tenere un diario dei propri sentimenti? A che serve lo studio del Greco e del Latino? Il germe dell’utilità a tutti i costi si è insinuato anche nel mondo della filosofia:  si tende a vederla utile come farmaco contro i mali esistenziali. Così il filosofo, invece di aiutarci ad uscire dal circuito utilitaristico, contribuisce alla resa generale all’utilità.
        La vita contemporanea, secondo l’osservazione acuta di Davide Miccione, ci ha strappato il mondo della quotidianità e ce lo vuole restituire come terapia. Non si va più a ballare, si fa danzaterapia (a pagamento). Sugli scaffali di qualsiasi libreria religiosa si trovano libri di cristoterapia (sottinteso: se il Cristo non è terapeutico a cosa ci serve?).
          Cita da Neri Pollastri: siamo in una società che medicalizza tutto, che propone pillole contro l’irrequietezza a bambini di tre anni. Andiamo dallo psicoterapeuta per evitare l’esperienza del dolore a fronte della morte di nostro padre. Non ha senso medicalizzare i disagi inevitabili della nostra esistenza. La filosofia non deve terapeutizzare, deve aiutarci a capire e ad affrontare con maturità le difficoltà della vita.
         Tra parentesi: sia chiaro che questa critica non si estende al concetto epicureo di tetraterapeuticità della filosofia, che viceversa è discorso filosofico e non medicalizzante. Di fronte al dolore non dobbiamo anestetizzarlo, ma crescere in forza interiore e consapevolezza per fronteggiarlo.
          Aristotele definisce in-utile la filosofia: un inutile necessario. Cavadi stesso si dichiara non idealista, ed ammette di dare importanza al denaro, alla moglie, agli amici ed alla casa. Non disprezza l’utilità. Ma la filosofia, come tutto ciò che è necessario, è in-utile nel senso di non strumentalizzabile a qualcosa d’altro. Aristotele in effetti nel suo lodare l’inutilità era forse un po’ troppo aristocratico, ma è fondamentale che la passeggiata sia fatta per essere goduta in sé stessa, e non per dimagrire, altrimenti il piacere della passeggiata è rovinato. Gli effetti collaterali, anche desiderabili, non devono diventare scopo. La filosofia fa bene se non si propone di far bene.
          Chiedere ad un bambino perché gioca non ha senso, è solo un gioco mentale per pedagogisti. Bisogna cercare di riscoprire e valorizzare l’inutile necessario. Epicuro notava che il superfluo è caro, il necessario economico. Le cose veramente necessarie sono accessibili a chiunque, vi è gratuità nell’essenziale. L’essenziale è spesso invisibile agli uomini, non attingibile dalle categorie economiche. Cavadi cita come geniale la nota pubblicità di Mastercard: “ …. non ha prezzo, per il resto c’è Master Card”, che gioca sulla contrapposizione tra ciò che è veramente importante e ciò che ha un prezzo.
 Ciascuno di noi può dare una propria risposta alla domanda: “cosa mi ha dato la filosofia?”.
Per quanto lo riguarda,  Cavadi cita cinque regali che ritiene la filosofia gli abbia fatto:
*)  Lo stimolo a perseguire il senso del cosmo, la non rinunziare alle domande da dove veniamo?, dove andiamo?, cosa facciamo? – domande non utili, ma tese a ciò a cui la filosofia ci incuriosisce. In un testo Cicerone riporta che Pitagora dicesse che alle Olimpiadi alcuni vanno per competere, altri per guadagnare o per godere lo spettacolo. Altri ancora ci vanno per guardare, vedere, capire: questi sono i filosofi.
*) Il senso dell’esistenza personale: dopo il problema cosmologico ecco il problema antropologico. Durante il nazismo Victor Frankl, uno psicoterapeuta incarcerato, cercava di aiutare gli altri con la psicoanalisi, ma si accorse che nel lager le teorie di Freud non funzionavano, essendo troppo represse e lontane libido e sessualità. Però osservando i suoi compagni di prigionia si accorse che alcuni avevano più risorse per resistere di altri. Coloro che avevano un sogno, per quanto labile (la patria finale, Cristo, Marx…), qualcosa che desse un barlume di senso alla loro esistenza, resisteva di più. Chi non aveva di queste ancore ideali deperiva prima, o si suicidava. Frankl, dopo l’esperienza concentrazionaria, ne ha scritto sostenendo che l’uomo ha sì bisogno di sesso, successo ecc., ma ha soprattutto bisogno di senso. Già medico, ha studiato anche filosofia, ma lo teneva nascosto perché la sua immagine professionale non avesse a soffrirne (cosa serve che un medico si interessi di filosofia? Non ne verrà distratto? Non sarebbe meglio che studiasse più medicina?). La scoperta della fame di logos nell’atroce ambiente del lager è bella. Il filosofo cerca, le risposte che si dà sono dubbie e transeunti, ma un po’ di risposta, seppur non definitiva, c’è.
*) Il senso della propria professione.  Cavadi dichiara di amare la compagnia di professionisti che, a quaranta-cinquant’anni, risolti i principali problemi di affermazione, perduta la tensione per la carriera, cominciano a porsi domande di senso. Socrate fu condannato con accuse pretestuose, la vera ragione è che andava a porre domande di senso a magistrati, artisti e sacerdoti. E’ dubbio che si possa vivere una vita senza cogliere il senso profondo della propria esistenza. Il Cavadi ama fare il Socrate in gruppi di medici, avvocati, …
*) La filosofia ci aiuta a capire il senso della vita spirituale, che non è necessariamente fede confessionale. La fede confessionale presupporrebbe di suo,  necessariamente, una profonda e semplice religiosità. Prima di essere Ebrei o Cristiani dovremmo essere uomini , chiusi al dogmatismo, aperti allo stupore. Se voglio una scorciatoia per il divino prendo in giro me stesso, ne esce il religioso con meno sensibilità etica dell’ateo.
*) Cogliere il senso della politica. Da Socrate in poi molti hanno sacrificato la vita all’interesse per la polis. Cavadi diffida del filosofo topo di biblioteca. Fuori dalla polis, diceva Aristotele, possono vivere soltanto le bestie o gli dei, e noi non siamo dei. Hanna Arendt notava che, per quanto la società esalti il privato, il privato è privazione della dimensione costitutiva dell’agire politico. La sfera del privato può essere vista come sfera di privazione. Don Milani diceva che tutti abbiamo problemi nella vita: tentare di uscirne da soli è egoismo, tentare di uscirne insieme è politica. Oggi l’essenza della politica è capire che dobbiamo uscirne insieme, integrandoci reciprocamente. Cita un libro su La Rosa Bianca, gruppo di reazione ad Hitler i cui membri furono scoperti ed uccisi.
      All’unica ragazza del gruppo sono attribuite queste parole: “Se la politica andasse bene potrei fare a meno di occuparmene, Devo impegnarmici perché è confusa e malvagia.”

DIBATTITO
Premessa: alla serata era presente un numero insolitamente elevato di studenti liceali.
Intervento 1 – L’intervenuto, augurandosi numerosi interventi da parte dei giovani, ed un po’ per dare loro il tempo di chiarirsi le idee per porre domande, propone un intervento interlocutorio, più testimonianza che domanda. Ricorda che in filosofia c’è una continua rivisitazione dei problemi fondamentali, spesso già inquadrati ai tempi di Platone ed Aristotele, mai risolti né probabilmente risolvibili, ma continuamente riproposti da nuove angolazioni ed alla luce di più approfondite maturazioni, ed ogni volta coinvolgenti cerchie più vaste di cultori e studiosi. Ecco, un dono ricevuto dalla filosofia è la sensazione di non solitudine, di essere in vasta compagnia nel momento in cui ci si pongono le irrisolvibili domande fondamentali, quando si tenta di costruire una maggiore consapevolezza esistenziale.
Intervento 2 – Il relatore ha dichiarato l’inutilità della filosofia. Ma non è utile perseguire il sapere?
Commento di Cavadi – La questione è terminologica, convenzionale. Distinguiamo l’utilità economica immediata da una utilità intesa in senso più vasto. In latino si distingue tra uti (far uso, appropriato per gli utensili) e frui (fruire di, verbo adatto ai rapporti interpersonali). Perdendo le sfumature linguistiche si perde una possibilità di senso. La moglie non mi è utile come può essermi utile un martello, mi è utile nel senso che ne fruisco la compagnia, cioè nella persona non vedo solo un mezzo ma anche un fine. Cavadi ricorda di avere in gioventù rinviato le ipotesi di matrimonio perché disgustato dal fatto che i parenti gliene prospettavano l’opportunità in termini di utilità.
Intervento 3 – L’intervenuto ritiene che vi sia una qualche correlazione tra i mezzi di comunicazione di massa ed il rischio di dittatura. Non perché vi veda necessariamente dei mezzi di propaganda, ma constata che le democrazie crollano anche perché sono ambigue nella definizione dei concetti.
Commento – Cavadi dichiara di non condividere tale critica perché la consuetudine con la filosofia gli consente di chiamare le cose col proprio nome. Certo che se scambio un talk show per comunicazione politica sono fuori strada: non c’è stata comunicazione, ho subito una trasmissione unilaterale a cui non ho partecipato. Non c’è niente di male se, per essere informato, seguo un talk show, a patto che mi sia ben chiaro che tale ascolto non ha nulla a che vedere col fare politica. Cavadi accetta sempre volentieri inviti del tipo di questo di “Noesis” perché in questi incontri c’è comunicazione, c’è scambio di pensiero che è cosa diversa dalla trasmissione di pensiero. Chi confonde “trasmettere” e “comunicare” è predisposto a subire la dittatura, tanto più subdola quanto meno percettibile, e quindi non suscettibile di generare ribellione. Il ragazzo che vuole i jeans già tagliuzzati ed invecchiati dalla casa produttrice non è più libero, ma non se ne rende conto.
Intervento 4 – L’intervenuto (settantaduenne, pensionato senza problemi economici) si dichiara in età di bilanci. Le domande che si pone ora non sono diverse da quelle che si poneva prima, ma ora hanno sapore diverso. Lui è arrivato a dirsi che la vita non deve essere vissuta per qualche particolare scopo, ma deve essere semplicemente vissuta. Si alza al mattino per alzarsi, frequenta “Noesis” o fa volontariato perché è bello farlo, vive perché la vita va vissuta.
Commento – Condivisione di fondo, a patto che le attività prescelte, come appunto “Noesis” o il volontariato, siano di quelle che ci arricchiscono. Dichiara di non capire coloro che consumano le giornate giocando a burraco.
Intervento 5 – L’intervenuto chiede a Cavadi se egli abbia mai trovato un senso profondo, e, se sì, attraverso quali canali lo abbia trovato e per quali tracce lo abbia riconosciuto.
Commento – Il relatore dichiara di avere trovato senso quando ha incontrato valori, specie se incarnati in persone (la sua stessa moglie, Falcone, Borsellino, Don Puglisi…)Ogni volta che tale incontro si è realizzato ne ha ricavato un senso di pienezza che gli avrebbe consentito di morire contento. Qualcosa che vale in sé, che vale indipendentemente dal fatto che possa servire, procura un senso di felicità che è strettamente apparentato alla filosofia. La si prova in determinate esperienze estetiche o  mistiche. In genere, nei momenti in cui si vive l’eros, la filia, l’agapè, si sperimenta che la vita ha un senso.
Intervento 6 – La Gorgone moderna che guarda tutto attraverso il filtro dell’utilità uccide la curiosità, il gusto per la ricerca, che sono essenzialmente gratuiti. La politica attuale è brutta perché è adagiata sul noto.
Intervento 7 – (L’intervenuta è una studentessa). Vero che c’è questa Gorgone che imbruttisce ed una televisione che ci trasmette valori fasulli. Ma dove possiamo rivolgerci? Sono gli adulti che dovrebbero proporci delle alternative.
Commento – Vero, ma prima ci vorrebbe la bacchetta magica per cambiare gli adulti. Cavadi ricorda che neanche gli attuali anziani, da giovani, avevano avuto dei grandi modelli. Il suo stesso padre aveva tentato di dissuaderlo dalla filosofia per indirizzarlo verso lauree più redditizie. Cita da Pascal: “Tutti si sforzano di diventare re o guerrieri, senza prima chiedersi cosa significhi essere uomini”. Non ci sono state generazioni aiutate dagli adulti, le nostre scelte le facciamo in piena e totale responsabilità. Se un giovane percepisce gli adulti come cattivi maestri può scegliere se sfruttare l’alibi implicito o vivere seguendo il criterio di giustizia che c’è in lui. Il bivio tra alibi ed anticonformismo si presenta quotidianamente.
Intervento 8 – Ci è stata proposta una ricerca filosofica orientata al senso/valore. Si può concepire una ricerca che prescinda dal senso/valore?
Commento – Molti filosofi risponderebbero affermativamente. Sartre diceva di aver capito che nulla avesse senso, inclusa la sua propria esistenza. Come studioso di filosofia Cavadi deve ammettere che questa vena nella filosofia c’è. Invece come filosofo la questione lo incuriosisce ed ha l’impressione che ci sia distacco tra i libri di coloro che negano il senso e la loro vita. Ricorda la vicenda di un filosofo sofista, persuasore di morte, che appunto persuadeva i suoi discepoli al suicidio sulla base della pretesa mancanza di senso delle loro vite. Lui stesso però non si suicidò, per non venire meno al compito, che si era imposto, di persuadere gli altri. Quindi nella sua vita un senso, seppur cupo e denegato, lo aveva trovato. Sartre stesso, nell’autobiografia, giustifica la rinuncia al suicidio ipotizzando che valga la pena vivere la vita per capirne l’insensatezza, e per aiutare anche altri a capirla. Trova cioè un estremo residuo di senso nell’assurdo. Se ne deduce che c’è iato tra proclamare l’assenza di senso e viverla. Sartre è riuscito ad attribuire un senso persino alla mancanza di senso. Per fare filosofia dobbiamo partire senza una convinzione aprioristica che un senso ci sia ( chi inizia postulando un senso, per esempio riponendolo in Dio, parte, filosoficamente parlando, col piede sbagliato). Ma se non devo presupporre un senso, non devo neanche essere altrettanto dogmatico nel negare che un senso ci possa essere. E’ altrettanto poco filosofico partire presupponendo che non ci sia neppure un brandello di verità.

venerdì 3 gennaio 2014

Che cosa sarebbe uno STATO DI DIRITTO ?

Prosegue, con la voce "Stato di diritto", il dizionarietto di politica che la redazione del trimestrale "Madrugada" (dell'associazione di Bassano del Grappa "Macondo") mi ha commissionato da alcuni anni. La rivista è consultabile GRATUITAMENTE on line.


“MADRUGADA”
Dicembre 2013

STATO  DI  DIRITTO

  Molto probabilmente nelle orde primitive le regole venivano stabilite, di volta in volta, dal leader più forte fisicamente e caratterialmente: egli esercitava un potere che Max Weber ha definito carismatico. Altrettanto probabilmente, l’esercizio di questo potere si presentava come eccessivamente instabile: bastava molto poco perchè qualcuno, un po’ più forte o un po’ più determinato psicologicamente, mettesse in crisi l’autorità del capo e costringesse il gruppo a riassestarsi su nuovi equilibri. Da qui l’idea di passare dal potere carismastico di un individuo al potere tradizionale , trasmesso di padre in figlio secondo consuetudini tanto più condivise quanto più durature nel tempo.
  Anche questa modalità di organizzare le relazioni sociali aveva, ed ha dove perdura, i suoi inconvenienti: il figlio di un re valoroso può essere un inetto e il figlio del figlio addirittura un criminale che governa per difendere i propri interessi e per soddisfare i propri capricci. Per questo la Modernità politica inizia quando le società imparano a misconoscere i personalismi come i tradizionalismi e a riconoscere solo poteri legali. Non più rapporti fra sudditi e sovrani, bensì fra cittadini e leggi. Nel lungo Medioevo politico si era fedeli a un soggetto in carne e ossa (tutto il sistema feudale si basava su questa fedeltà gerarchica): se ne è usciti quando si è capito che l’unica fedeltà civica non è ad personam bensì alle regole. Questa è l’essenza dello Stato di diritto: devo obbedienza (critica) non a Napolitano o a Letta, ma alla Presidenza della Repubblica o alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Non governano (alcuni) uomini su (molti) uomini, ma le leggi (uguali per tutti) sugli uomini (tutti).
   Se queste nozioni sono acquisite in punta di dottrina, non altrettanto appaiono nella cronaca effettiva. Se si evitano le idealizzazioni retroattive, si deve ammettere che negli ultimi venti anni non si è inventato lo smantellamento dello Stato di diritto faticosamente architettato con la Costituzione del 1948: lo si è piuttosto accelerato. Per giunta, senza l’ipocrisia democristiana che proclamava ufficialmente fedeltà alle istituzioni: il berlusconismo è la gestione feudale del potere senza il pudore di camuffarla per farla apparire altro.  Anche nella Prima Repubblica era molto difficile – se non del tutto impossibile – candidarsi alla Camera dei deputati o al Senato in qualsiasi lista senza un rapporto di amicizia (più spesso di devozione subordinata) al capo di una  delle correnti di partito; con il sistema elettorale Porcellum  quella situazione di fatto si è istituzionalizzata e si entra in Parlamento (mantenendo qualche possibilità di ritornarci nel corso della legislatura successiva) solo se si è accetta di essere pretoriani di Cesare. La normativa vigente consente ogni arretramento pratico: i posti, ben remunerati, nelle assemblee istituzionali vengono assegnati    - come fossero benefici privati – per ricompensare consulenze giuridiche, tradimenti politici, corruzioni nell’esercizio della propria professione, persino favori sessuali. Nerone ha davvero nominato senatore un suo cavallo? Al paragone con il fiero e innocente animale si potrebbe scoprire che certi candidati – imposti nelle liste da padri padroni di vario colore – non risultano preferibili con evidenza sottratta ad ogni possibile obiezione.
    Disattesa di fatto, alla Costituzione non resta che subire una seconda  - più grave – ferita: essere stravolta persino nella sua formulazione attuale. Una numerosa maggioranza parlamentare, rappresentante di una vistosa minoranza dei cittadini aventi diritto al voto, ci sta provando in queste settimane. Il futuro immediato ci dirà quanta resistenza sapranno opporre gli ultimi difensori dello Stato di diritto.

       Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

giovedì 2 gennaio 2014

Caro papa Francesco: ora cambiamo i criteri per scegliere i nuovi vescovi?


“Repubblica – Palermo”
2.1..2014

MODESTA PROPOSTA AL PAPA.
UN PRETE DI STRADA COME VESCOVO

   Se scrivere a papa Bergoglio non fosse diventato un’hobby di massa, mi sarebbe piaciuto indirizzargli una lettera che, partendo da alcune contingenze siciliane, tocca tematiche planetarie. Il dato di cronaca è che alcuni vescovi della nostra regione lasceranno nei prossimi mesi la cattedra per raggiunti limiti d’età: fra questi lo stesso cardinal Romeo, arcivescovo di Palermo e presidente della conferenza episcopale siciliana.  Come saranno scelti i successori a capo delle varie diocesi?
    Non mi sembra che il papa abbia davanti più di tre piste da percorrere.  
   La prima è anche la più comoda: lasciare in funzione i meccanismi in vigore negli ultimi cinque secoli, dal concilio di Trento circa a oggi. Per chi non ne fosse informato, la procedura prevede che in una “congregazione” vaticana (corrispondente a ciò che nell’ordinamento repubblicano chiamiamo  “ministero”) si esaminino alcuni nominativi suggeriti dai vescovi della regione; si inviino a preti e a cattolici militanti alcune lettere riservate per raccogliere informazioni sull’ortodossia dottrinale e sulla moralità di vita di ciascun candidato; e infine si nomini il nuovo vescovo con decisione inappellabile e senza alcuna pubblica motivazione. Riprodurre questo iter sarebbe comodo, certo, ma deludente. Papa Francesco ha tuonato contro il carrierismo dei preti, ma egli sa benissimo che il primo passo per chi voglia scalare la gerarchia ecclesiastica è farsi notare per ottenere la promozione a vescovo: una figura che concentra in sé, in ambito ecclesiale,  i poteri che in una città sono distribuiti tra prefetto, sindaco, presidente di tribunale e rettore di università.
    Molto meno comodo, ma molto più incoraggiante per chi conta sulla rivoluzione del papa venuto dalla fine del mondo, sarebbe un ritorno alle origini: alla elezione del vescovo in ogni diocesi dal “basso”, da  parte dei preti e dei cattolici più attivamente impegnati nelle attività pastorali. Questo metodo democratico, adottato dai discepoli di Gesù del I secolo sino a tutto il primo millennio almeno, restituirebbe alle comunità credenti un protagonismo che hanno lentamente, ma inesorabilmente, perduto, rassegnandosi al ruolo di “pecore” passivamente obbedienti. Tuttavia non è ipotizzabile che una prassi verticistica ormai plurisecolare venga capovolta nel giro di pochi anni. I tempi della chiesa, come di tutte le istituzioni mastodontiche, sono lenti e forse in questa lentezza c’è persino una saggezza: ce l’immaginiamo lo spettacolo di una chiesa palermitana o catanese in campagna elettorale a favore di questo o quel parroco? E, per analogia con chi vince le elezioni amministrative e politiche, quali figure di preti riuscirebbero  - nell’immediato – a ottenere consensi più ampi?
    Per fortuna, però, esiste una terza via. Ed è sperabile, anche se non probabile, che papa Francesco l’intraprenda. Molto in sintesi: che usi i metodi di nomina dall’alto per scegliere quei preti che meriterebbero davvero di essere eletti dal basso se le comunità credenti ne avessero la possibilità e fossero abbastanza mature per esercitarla criticamente. Non ce ne sono molti, a Palermo e più in generale in Sicilia, ma ce ne sono: di preti, intendo, che incarnano da sempre quegli ideali di apertura mentale, capacità di comprensione e accoglienza, sobrietà di vita, generosità con chiunque soffra in qualsiasi senso…che il papa si augura per tutti i preti. Perché non stupire l’opinione pubblica (a cominciare dagli apparati burocratici ecclesiastici infestati da funzionari del sacro rosi dall’ambizione e disposti a qualsiasi voltafaccia per soddisfarla) e nominare vescovi dei preti semplici, di quartieri difficili o di paesini sperduti, che da decenni testimoniano che la fede e l’amore contano più dei riti e delle amicizie influenti?  A maggio di quest’anno uno di questi preti, impegnati “a servire i poveri anzicché a servirsi dei poveri” (don Lorenzo Milani), è stato proclamato santo per essersi mantenuto fedele al vangelo più che ai potentati affaristici, partitici e mafiosi: non sarebbe bello che qualche altro confratello di don Pino Puglisi venisse ‘valorizzato’ in vita senza dover attendere che qualcuno abbia la felice idea di portarne in giro le ossa in segno di macabra devozione?

Augusto Cavadi